Latest Posts

Scuole per tutti i bambini del mondo "Saranno la forza che aiuta la natura", di Marc Augè

Non si può garantire il futuro dell´uomo dimenticando una parte di individui. L´istruzione è un´arma efficace per padroneggiare i molti aspetti della crescita.Le contraddizioni fra i paesi sviluppati e gli altri, poveri o emergenti, sono una realtà da cui non si può prescindere Bisogna smettere di pensare allo sviluppo solo come produzione di ricchezza senza guardare ai divari sociali. Non sono un esperto di scienze naturali e non posso fare altro che preoccuparmi, come tutte le persone di buon senso, per il modo in cui stiamo maltrattando il nostro ambiente: sia il nostro ambiente immediato e quotidiano che il pianeta in generale, l´atmosfera, l´aria e le acque. Non ho nessuna competenza specifica per dire che cosa si debba fare dal punto di vista tecnico, ma posso cercare di individuare i punti di contatto fra problemi ecologici e problemi sociali.
Cominciamo a preoccuparci per il futuro del pianeta. È un sentimento nobile perché riguarda l´avvenire dell´umanità in generale e di quella parte di essere umano in senso lato che è presente in ciascuno di noi. Un futuro che non è il nostro in quanto individui, e nemmeno quello dei nostri figli, ma quello di tutti gli esseri umani a venire, a cui ci unisce una sorta di fraternità essenziale. L´inquietudine per il futuro del pianeta come corpo fisico maltrattato ci fa percepire la nostra condizione di esseri umani.
Le contraddizioni fra i Paesi cosiddetti sviluppati e i Paesi emergenti o sottosviluppati sono reali e lo scrupolo di proteggere il pianeta a volte appare come un lusso da ricchi. Come sfuggire al sospetto di voler garantire il futuro dell´uomo in generale dimenticando una parte dell´umanità, di voler garantire il futuro della società a venire trascurando gli individui che la compongono?
Questa contraddizione è una sfida e vedo due modi per raccoglierla.
La finalità di quello che chiamiamo sviluppo, il cui prezzo ecologico è talvolta pesante, dev´essere sociale prima che economica. La lotta contro la povertà è una premessa e una condizione per qualsiasi sviluppo autentico. Bisogna riuscire a mettere fine allo sviluppo concepito come produzione di ricchezza senza attenzione alla ripartizione della stessa. Il divario fra gli individui più ricchi e gli strati sociali più poveri oggi continua ad allargarsi. È il motore del sistema ed è questo sistema che inquina la natura, perché non la rispetta allo stesso modo in cui non rispetta gli individui. È il motore che va cambiato.
Per cambiare motore, salvare il pianeta e la società, c´è bisogno di una volontà e di una lucidità che può essere sviluppata – appunto – attraverso l´istruzione. Lo sviluppo dell´istruzione fa ricorso a energie non inquinanti, quelle dello spirito e della conoscenza. L´istruzione, lo sviluppo della conoscenza, possono essere un´arma efficace per padroneggiare tutti gli aspetti della crescita e ripensare il nostro rapporto con la natura.
Queste dichiarazioni di principio possono sembrare lontane dalle preoccupazioni immediate, ma io credo sinceramente che è lottando per la presenza effettiva di tutti i bambini del mondo in scuole degne di questo nome che riusciremo a cambiare la società e a ritrovare la natura, senza per questo rinunciare a esplorarla.
(traduzione di Fabio Galimberti)

La Repubblica 20.04.12

"Cinque milioni di italiani sono senza lavoro", di T.M.

Cinque milioni di persone in Italia non hanno un lavoro. E il problema è che oltre la metà ha rinunciato anche a cercarlo. Attraverso i dati che fotografano il mercato del lavoro nel 2011, l’Istat ha reso noto ieri che il nostro Paese è afflitto da un numero abnorme di cosiddetti inattivi. Quasi tre milioni di persone che, contrariamente ai disoccupati, non cercano lavoro ma sarebbero disponibili ad accettarne uno. In questo siamo anche, tristemente, campioni europei: un terzo degli inattivi della Ue a 27 vive in Italia.

Rapportati alle forze di lavoro, gli inattivi sono l’11,6 per cento, un dato più che triplo rispetto alla media europea di 3,6 per cento. E in crescita rispetto al 2010, quando erano l’11,1 per cento del totale. In tutto, sono 2,897 milioni, in crescita del 4,8 per cento (di 133 mila persone) rispetto al 2010. Si tratta anche del dato più alto dal 2004. E complessivamente abbiamo l’agghiacciante primato di ospitare circa un terzo di tutti gli inattivi d’Europa a 27: 2,897 milioni contro gli 8,566 milioni complessivi del Vecchio continente.

Oltretutto, è un fenomeno che colpisce più le donne degli uomini: 1,732 milioni di donne sono disponibili a lavorare ma non cercano attivamente, contro 1,165 milioni di uomini: rispettivamente il 16,8 per cento delle forze lavoro contro il 7,9 per cento. Alta anche la percentuale di giovani inattivi: è il 33,9 per cento degli under 24 e il 12,9 per cento di chi ha meno di 35 anni. A livello disaggregato, è nel Mezzogiorno che la quota di chi lavorerebbe ma non cerca più è due volte e mezzo quella nazionale: il 27,2 per cento.

Gli inattivi contengono una «sottocategoria» ancora più drammatica, quella degli scoraggiati, persone cioè che non cercano un lavoro perché sono convinte che non riusciranno a trovarlo. Nel nostro Paese sono ormai 1,2 milioni di persone, il 43 per cento degli inattivi. Una parte irrisoria di chi non ha un impiego, infine, è quella «non disponibile a lavorare» (che al momento delle indagini Istat non accetterebbe un lavoro perché impegnati per l’università o per altre incombenze contingenti). Nel 2011 erano 121 mila.

L’Istat fa sapere poi che nel 2011 la quota di disoccupati «classici» ha raggiunto quota 2,108 milioni di persone, l’8,4 per cento del totale.

Ma un altro dato che deve far riflettere è quello che denuncia la presenza in Italia di 452 sottoccupati part tnndcnime (+3,9 per cento ossia 17 mila persone in più rispetto all’anno precedente). Certo, nella Ue l’incidenza è molto più alta, il 3,6 per cento. Ma da noi colpisce che le donne siano quasi al doppio rispetto agli uomini (292 mila contro 160 mila). E si tratta, osserva l’istituto di via Balbo, «non di mancanza di lavoro ma di una situazione lavorativa subottimale o indesiderata». Tipicamente di chi ha ad esempio un lavoro part time indesiderato: cioè che vorrebbe lavorare a tempo pieno ma non ne ha l’opportunità.

Allarmati i sindacati che hanno reagito compatti chiedendo risposte immediate al Governo. La Cgil parla attraverso il segretario confederale, Fulvio Fammoni, di «un esercito di occupati che continua a crescere» e che ci rammenta che quella dei giovani è «un’emergenza nazionale». La numero uno del sindacato di Corso d’Italia, Susanna Camusso, ha indetto per il 10 maggio una mobilitazione nazionale sulla precarietà.

Giorgio Santini della Cisl è convinto che «è quanto mai necessario da una parte approvare rapidamente la riforma del lavoro» che «può contribuire a ridurre l’inattività oltre che la disoccupazione». L’Ugl commenta che «l’aumento sproporzionato degli scoraggiati è lo specchio di un Paese che sta rischiando seriamente di non avere più la forza, e la volontà, di superare la crisi».
“Aumentano quelli «senza speranza» Si tratta di circa 1,2 milioni di persone”

La Stampa 20.04.12

"Lavoro, in tre milioni non ci credono più. Donne le più rassegnate", di Giuseppe Vespo

Christine Lagarde parla di «generazione perduta», mentre l’Istat conta in Italia tre milioni di «inattivi», quelli che vorrebbero un lavoro ma non hanno più voglia o possibilità di cercarlo. «È una mia grande preoccupazione», dice la presidente del Fondo monetario internazionale a proposito del rischio che una bella fetta di europei manchi l’appuntamento con l’occupazione, almeno così come l’abbiamo conosciuta finora. L’ex ministro francese parla della Spagnama pensa all’Italia, e non solo. A chi le domanda
come mai il Fmi sia così «severo» con il nostro Paese – ha visto le stime di crescita al ribasso – Lagarde ha risposto che non si tratta di severità,«vogliamo solo che torni l’equilibrio e che il Paese cammini con le proprie gambe».
La ricetta si conosce, è sempre la stessa: conti e crescita. Ma tenere a bada i primi e spingere la seconda non è facile, anzi. La realtà, almeno quella di casa nostra, conta tre milioni di persone che vorrebbero lavorare, ma hanno smesso di cercare un’occupazione.
Pesano sul totale della forza lavoro per l’11,6 per cento, tre volte in più del resto d’Europa. È la mancanza di fiducia a pesare sulla nullafacenza di almeno unmilione di persone (43%). Gli scoraggiati crescono a ritmi veloci, quasi il cinque per cento sul 2010, mai così male dal 2004. In Italia abita un terzo degli 8,6 milioni di europei disposti a lavorare ma non più a cercare un posto. «Inattivi» e disoccupati, oltre due milioni di persone pari all’8,4 per cento sulla forza lavoro, messi insieme fanno cinque milioni di italiani a braccia incrociate nel 2011. A farla da padrone, dal punto di vista anagrafico, sono i 15-24enni, la «generazione perduta» alla quale faceva riferimento la
Lagarde. La troviamo in (buona) par-di donne. In alcuni casi, poi, sembra di assistere ad una sorta di ritorno al passato, con una donna su cinque che non cerca lavoro per dedicarsi alla cura dei figli e della famiglia. Anche questa è la crisi.
IMPRESE IN AFFANNO
C’è da dire del resto che, al di là della voglia, trovare lavoro è complicato. A febbraio gli ordinativi delle imprese sono calati del 13 per cento sull’anno scorso. Si tratta del dato peggiore dal 2009. Mentre il fatturato industriale diminuisce dell’1,5 per cento sul 2011. Sindacati e politica rinnovano l’allarme: Fulvio Fammoni, segretario confederale dell aCgil, parla di «un esercito di disoccupati che continua a crescere». E aggiunge: «Eravamo accusati di disfattismo ai tempi del centrodestra, quando sostenevamo ciò che oggi evidenzia l’Istat, ma questa è invece, e purtroppo, la realtà dell’Italia, che va cambiata urgentemente». Il segretario generale aggiunto della Cisl, Giorgio Santini, punta
sulla necessità di riformare «il lavoro, valorizzando la buona occupazione e penalizzando le flessibilità malate». Mentre l’Ugl sottolinea che «l’aumento sproporzionato degli scoraggiati è lo specchio di un Paese che sta rischiando seriamente di non avere più
la forza, e la volontà, di superare la crisi». Per i Democratici interviene direttamente il segretario Bersani, nel corso del meeting dei leader progressisti europei, che punta il dito contro
la finanza. «Il costo della crisi non può pagarlo tutto il lavoro e il welfare – dice il numero uno del Pd – Un po’ deve pagarlo la finanza». Con i colleghi europei Bersani discute di «Riscrivere il mondo» e attacca le risposte della destra europea alle difficoltà economiche. Reazioni inadeguate anche «ideologicamente» perché puntano sul ripiegamento quando invece ci vorrebbe solidarietà. Così non si risolvono i problemi e si suscitano risposte populiste. Per superare veramente la crisi, ha detto il segretario, serviranno scelte precise, e ciò chiama in causa il ruolo dei riformisti, che devono ritrovarsi e indicare le «grandi discriminanti» dell’equilibrio e della reciprocità. Dura anche l’Idv, che ricorre alla metafora: «L’Italia sta ballando sul Titanic -dice Maurizio Zipponi, responsabile Lavoro e Welfare- E Monti continuaa dirigere l’orchestra dei banchieri come se nulla fosse».

L’Unità 20.04.12

"I veri nemici della politica", di Bruno Gravagnuolo

E dopo la notte di Valpurga con le scope, la saga nibelungica leghista si arricchisce di un altro scandalo, destinato a intossicare la base «padana». Dalle carte giudiziarie filtra un appartamento al Gianicolo a Roma,con affitto pagato dalla Lega a Calderoli. Che da «triumviro» si difende contro «il fango gettato sul suo lavoro». Mentre Pini accusa Reguzzoni di aver ricevuto soldi. E ancora non si è spenta l’eco dell’autodafé, con il capo in
lacrime tra gli incensi, né quella dell’affaire Belsito condito di
diamanti, né quella dei dossieraggi a carico di Maroni. Sconosciuti o «tollerati» da Bossi. Bisogna pur dirlo: è l’acme di
una tragicommedia, dove la vita imita l’arte comica. Qualcosa che neanche Orwell, nella sua Fattoria degli animali, si sarebbe
mai sognato: il partito personale e carismatico degli epuratori –
figlio dei «ceti virtuosi del nord» – si sta autoepurando. In una
furia del dileguare dove l’antipolitica forcaiola dei cappi si ritorce contro se stessa. E mostra il suo destino. Quello di generare arbitrio, prepotenza e familismo. Guarnito di mogli, badanti, figli e benefits. In un corto circuito che salda capi e
popolo. Gabbando il secondo e lasciando mani libere ai primi.
Non è «scherzi a parte», è un pezzo dell’Italia di questi ultimi
venti anni berlusconiani: la distruzione della politica e dei
partiti. In nome della vitalità barbarica e rigeneratrice della «società civile» e «dei ceti produttivi». Avvenuta tra il tripudio e il voto benevolo di opinionisti e giuristi. E che ha prodotto alla fine molti più guasti della politica di una volta, e partiti ben più «partitocratici» di prima. Con corteo di notabili locali, sottocapi, triumviri, lobbies e brasseur. E filiere economiche privilegiate, in capo a piccoli e grandi uomini della provvidenza.
Insomma, per certi aspetti siamo all’anno zero. Perché davvero stavolta, e in condizioni di drammatica emergenza, il discredito di questa politica, dominata a lungo dall’asse Berlusconi-Bossi, rischia di travolgere tutto. In un vortice emotivo senza fine, sospinto dal risentimento di massa e dall’insicurezza. Che, come già accaduto nella storia, può rifluire in anarchia populistica e
regressiva. O in forme nuove di sovversivismo dall’alto, sull’onda dell’astensionismo e della protesta. Magari nel segno del «tecno-populismo», che è poi nient’altro che un regime commissario sui ceti subalterni e sulla politica, nel quadro di compatibilità finanziarie dettate dall’esterno e incontrollabili. Per questo, e anche la vicenda della Lega ce lo dice, è necessario sbrigarsi a ricostruire un tessuto sano della politica di massa. Che in ogni democrazia è sempre e comunque fondato su partiti. Un tessuto civile, identitario, di appartenenza. Tra società e Stato. E tra politica e movimenti. Quel tessuto – che deve esprimere governi programmatici e di partito – è l’unico in grado di risospingere in avanti l’economia.
E può essere un buon contrappeso etico di responsabilità e di trasparenza. Ma a certe condizioni ben precise.
La prima sta nel comprendere come si è giunti alle derive di oggi. E la risposta è: ci si è giunti con questo bipolarismo malato e
maggioritarista. Fondato su partiti «coalizionali» e «acchiappatutti». Populistici e proprietari a destra. Di opinione «liberal» a sinistra. In ogni caso su partiti «personalitari». Perciò non è più tempo di indugi: occorre una riforma elettorale che favorisca aggregazioni imperniate su partiti egemoni.
Radicati nelle culture politiche e negli interessi di fondo del
Paese. E poi: porre mano, entro la fine della legislatura, alla
riforma del bicameralismo, e alla riduzione dei parlamentari.
E infine: ridurre i costi della politica, con controlli di spesa
rigorosi ed esterni, fino a sanzioni esemplari per chi tesaurizza in modo improprio gli avanzi di bilancio. Ma c’è un’altra cosa da chiarire: «governo di partito» non vuol dire «Stato-partito». E men che mai «partito-Stato» piglia-posti. Vuol dire cittadinanza e partiti forti. Con distinzione di ambiti e ripudio di sprechi e corruttela. Eccolo il «che fare». Prima che la «gente» faccia di ogni erba un «fascio». O una Lega…

L’Unità 20.04.12

"L´utilizzatore finale del Pirellone", di Gad Lerner

Formigoni non vuole togliersi di mezzo e così trascina l´intera destra del Nord in un´avventura temeraria che, intrecciandosi alla faida padana della Lega, ne sta provocando il disfacimento.Le parole con cui la moglie di Antonio Simone lo addita come “utilizzatore finale” dello strapotere e degli agi cumulati da faccendieri divenuti milionari all´ombra della sua carriera politica, conferma che Formigoni ha mentito ripetutamente e non può più illudersi di scaricare sui “Giuda”, che poi sarebbero i suoi migliori amici, la responsabilità di aver creato un sistema di potere protervo, giunto al capolinea.
L´insofferenza per la vanagloria del Celeste non provoca più solo l´allarme degli altri clan in cui è frazionato l´ex regno berlusconiano. Più nel profondo, è la galassia di Comunione e Liberazione a non riconoscersi più nella degenerazione affaristica di un movimento ecclesiale ben altrimenti radicato nella società lombarda. Umiliato dall´indifferenza ai suoi valori fondativi, assoggettati da troppo tempo all´ossessione personale di leadership di Formigoni.
Il governatore non ha fornito la benché minima versione credibile sui lussuosi omaggi ricevuti dagli inquisiti. Se avesse potuto, lo avrebbe già fatto: si trattava solo di mostrare degli estratti conto. Ma è di ben altro che deve rispondere: da Giuseppe Grossi a Pierangelo Daccò a Antonio Simone, e chissà che non ne spuntino altri, la Regione Lombardia da lui amministrata per diciassette anni ha generato vicende d´imprenditorialità opaca, contraddistinte dal favoritismo e dall´appropriazione indebita di risorse pubbliche. Altro che sussidiarietà: una nuova razza predona ha inquinato l´associazionismo della Compagnia delle Opere che pure non è certo riducibile a questo malaffare.
Infrante le sue ambizioni politiche nazionali, non gli resta altra strada che le dimissioni. Ma qui subentra il calcolo temerario per cui Formigoni resta aggrappato al bordo della voragine in cui rischia di trascinare anche gli altri potentati della destra del Nord. Egli confida difatti che almeno fino all´anno prossimo Roberto Maroni non abbia interesse a consentire lo scioglimento dell´Assemblea regionale lombarda (undici inquisiti su ottanta membri), in cui la Lega conta ben venti consiglieri, cioè una rappresentanza che difficilmente conseguirà in futuro. Fra i due Roberto che aspirano a raccogliere l´eredità di Berlusconi e Bossi si era instaurato un patto per la sopravvivenza che le inchieste della magistratura rischiano di mandare in frantumi. Il primo, Formigoni, sperava di approdare in Parlamento l´anno prossimo (con relativa immunità). Il secondo, Maroni, intravedeva nella successione alla presidenza della Regione Lombardia un solido avamposto per la ricostruzione del movimento leghista.
Calcoli mal riposti, non solo per il drammatico accelerarsi della crisi che potrebbe dar luogo a nuove devastanti scoperte giudiziarie, ma perché è la stessa rappresentanza politica del dopo Berlusconi & Bossi a subire contraccolpi imprevedibili. Se è vero infatti che su scala regionale pare difficilmente replicabile il sommovimento popolare con cui Giuliano Pisapia ha rovesciato l´egemonia della destra nella città di Milano; e se anche il commissariamento del Pirellone non può dar luogo che provvisoriamente a un governo tecnico su scala regionale; è un inquietante vuoto democratico quello che si prospetta in seguito alla bancarotta di una classe dirigente.
Così la Lombardia sospesa nel vuoto diviene nel bene e nel male un laboratorio politico nazionale. Qui la notte dei lunghi coltelli in corso nella Lega apre il varco a nuovi movimenti reazionari e localisti, con pericolo di degenerazioni estremistiche. La parola d´ordine dell´uscita dall´euro, lanciata da Beppe Grillo, nella sofferenza sociale provocata dalla recessione potrebbe trovare sponsor ben più potenti. E lo stesso Pdl sta vivendo scissioni centrifughe di marca municipalistica. La destra del Nord va in frantumi ma resta un´energia dalle potenzialità dirompenti in cerca di nuovi leader populisti. C´è da sperare che la Chiesa ambrosiana e il cattolicesimo lombardo esercitino la funzione moderatrice che gli è propria, in seguito alla débacle di Formigoni. E che la sinistra sappia ripercorrere la strada della partecipazione democratica di base in cui ha saputo credere a Milano.
Ma se Formigoni non verrà sollecitato anche dalla sua parte politica a farsi da parte al più presto, restituendo la parola ai cittadini, il pericolo è il caos.

La Repubblica 20.04.12

"Belsito-Maroni, scontro d’intelligence", di Francesco Lo Sardo

La pochade Lega continua a sorprendere coi suoi clamorosi colpi di scena. L’ultimo: il malvagio ex tesoriere leghista Francesco Belsito aveva assoldato un detective privato genovese per spiare le mosse dell’ex ministro dell’interno Roberto Maroni. Lo Sherlock Holmes dei carruggi, coadiuvato da altri investigatori, si sarebbe occupato di un’indagine sulla vita privata e sui presunti affari di Bobo raccogliendo velenosi materiali per un dossier. Un incarico ottenuto dopo aver brillantemente risolto per il suo cliente e concittadino leghista, si dice, il misterioso caso di una biografia denigratoria di Belsito apparsa su Internet, individuandone gli autori: indagine pagata coi quattrini della cassa della Lega.
Lo scoop è del settimanale berlusconiano Panorama, lo stesso che mesi fa “infilzò” la moglie di Bossi, Manuela Marrone, descrivendone il ruolo di potente zarina del Carroccio. «Non appena ho capito chi fossero i miei nemici in Lega, ho deciso di fare un po’ di ricerche su quelli che sostengono di essere “trasparenti”, “puliti” e “corretti”. Presto ognuno dovrà assumersi le proprie responsabilità», conferma minaccioso Belsito.
Maroni, fuori di sé, sospetta coperture e complicità nel Carroccio: «È gravissimo. Ora pretendo di sapere se qualcuno all’interno della Lega mi ha spiato». La lingua di Maroni batte dove il dente duole. Perché lì rispunta il problema politico dello scontro fratricida in atto da anni nel Carroccio, dietro il grottesco affaire dello spionaggio interno padano: parodia del dossieraggio stalinista messa in scena sul palco di un partito anch’esso caricaturalmente stalinista. Aver addossato tutte le colpe dei mali della Lega al duo Rosi Mauro-Francesco Belsito è un’operazione mediatica che non regge. Maroni è il primo a non crederci e non riuscire a dissimulare la convinzione che la vicepresidente del senato e l’ex tesoriere avessero le spalle ben coperte dentro Lega, non solo grazie alla protezione della moglie di Umberto Bossi.
Così, ieri, un nervosissimo Roberto Maroni, il triumviro aspirante successore di Bossi che appare sempre più in difficoltà nella sua marcia verso la poltronissima di leader, è sbottato: «Grave, gravissimo e ancora più grave sarebbe se qualcun altro della Lega sapeva o abbia autorizzato o fosse stato consenziente, perché i rapporti sono basati sulla fiducia personale». Infine l’indignata minaccia: «Si accerteranno i fatti e colpevoli dovranno essere cacciati, a tutti i livelli, altrimenti me ne vado».
Si vedrà. Da quest’altro squarcio di vita interna, questo pianeta Lega popolato di una galleria di personaggi improbabili, si conferma un mondo ai confini della realtà. E la vicenda del dossier, in sé, ha del formidabile. Non foss’altro perché lo spiato (a sua insaputa, chissà se a insaputa del Viminale e dei servizi segreti) è stato il ministro dell’interno. Ma il “dossier Bobo”, adesso, dov’è? Sequestrato dagli inquirenti, s’è detto. La procura nega: agli atti non ci sono riferimenti al dossier, confezionato pare anche grazie alla collaborazione di ex componenti dei servizi di sicurezza.
Bobo Maroni, però, afferma di averlo visto. «È ridicolo basato su cose inventate e inverosimili». Può darsi. Ma che cosa ha visto esattamente Maroni, onorevole membro della camera dei deputati? Forse urge un’indagine dell’occhiuto Copasir, il dinamico comitato di controllo parlamentare sugli 007 che tutto vede e tutto sa. O che tutto dovrebbe vedere e tutto dovrebbe sapere.

da Europa Quotidiano 19.04.12

"Contro politica. La sfiducia nei partiti e i rischi del qualunquismo" di Guido Crainz

Alla fine dell’Ottocento lo scrittore Vamba, futuro inventore di Giamburrasca, creava l’onorevole Qualunquo Qualunqui del partito dei Purchessisti, propugnatore del programma Qualsivoglia e sostenitore del gabinetto Qualsiasi: sembrerebbe anticipare Guglielmo Gianninie Cetto Laqualunque ma sono radicali le differenze fra i diversi momenti, e ancor più con i dilaganti fermenti attuali contro i partiti. Alla fine dell’Ottocento, ad esempio, vi era sullo sfondo una retorica antiparlamentare conservatrice e una critica al sistema rappresentativo in sé fortemente presenti nel dibattito colto. E nel successo dell'”Uomo Qualunque” alla caduta del fascismo vi erano umori e veleni di lungo periodo assieme a paure e diffidenze per una democrazia ancora sconosciuta, dopo il lungo ventennio. Il movimento di Giannini scomparve rapidamente e l’Italia repubblicana è stata caratterizzataa lungo, invece, da una altissima e viva partecipazione alla politica: le denunce della “partitocrazia” che iniziarono a serpeggiare negli anni Settanta coglievano precocemente la fine di una stagione.
Una fine avvertita anche “dall’interno”: nel 1981 la critica di Enrico Berlinguer alla degenerazione dei partiti di governo («federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sottoboss”») fu il tentativo più alto di riportare la politica alla sua dignità ma forse anche il presagio di una sconfitta. E nello stesso anno un racconto di fantapolitica di Giuseppe Tamburano prevedeva e paventava per il 1984 quel che sarebbe avvenuto dieci anni dopo: il crollo per discredito dello “Stato dei partiti” e l’avvento di una Seconda Repubblica con «la sostituzione dei partiti e la restaurazione dei valori e degli interessi di una borghesia imprenditoriale senza più lacci e lacciuoli». E con un programma simile a quello di Licio Gelli. Il crollo del 1992-94 era dunque ben prevedibile, preceduto da un intreccio sempre più melmoso di occupazione partitica dello stato e di corruzione. E aprì la via all’esplodere dell’antipolitica, nelle forme del leghismo bossiano e dell’estraneità berlusconiana alla democrazia. E a nuovi, profondissimi guasti. Ma perché non se ne è usciti? Perché oggi il panorama appare più devastato e devastante di allora? Perché una “partitocrazia senza partiti” ha lasciato segni così negativi sulla seconda repubblica e si sono al tempo stesso sviluppate forme inedite di “banalità della corruzione”, strapotere delle cricche, familismi immorali? Perché, soprattutto, siamo accerchiati più drammaticamente di allora da pulsioni rozze contro la politica e al tempo stesso da un’incapacità dei partiti di rinnovarsi che non lascia moltissimi spiragli alla speranza? Forse su un nodo occorrerebbe riflettere meglio: nel crollo della “prima Repubblica” rappresentanze consistenti di una parte della “società civile”, per dir così, entrarono impetuosamente nelle istituzioni e nella politica sotto le insegne della Lega Nord e di Forza Italia. Vi portarono umori che si erano consolidati negli anni Ottanta: dalla diffidenza, se non ostilità, nei confronti dello Stato sino alle più differenti pulsioni ad una ascesa individuale sprezzante di ogni vincolo, incurante del bene comune. E fecero ampiamente e amaramente rimpiangere il personale politico precedente. Poco spazio trovarono invece altre parti della società, a partire da quelle che avevano il loro riferimento nelle culture riformatrici, nel rispetto delle regole e dei valori collettivi: e così, mentre le file del centrodestra si gonfiavano di animal spirits limacciosi e di rappresentanze talora impresentabili, il centrosinistra vedeva progressivamente isterilirsi il proprio ceto politico e le proprie dinamiche interne. Vedeva progressivamente indebolirsi – o meglio, contribuiva colpevolmente a dissipare – quelle forme più ampie di partecipazione che la costruzione stessa dell’Ulivo avrebbe potuto e voluto alimentare. Sin dal suo inizio in realtà, in un seminario convocato a Gargonza per rilanciare quella ispirazione e quelle aperture, l’allora segretario del Pds Massimo D’Alema vi contrapponeva una superiorità dei partiti che largamente prescindeva dalla loro profonda crisi (Umberto Eco lo ha ricordato di recente in modo graffiante). Alla caduta del primo governo Prodi la chiusura in sé di partiti rissosi e divisi diventò dominante e portò al tracollo. Portò poi a guardare con perenne fastidio la ripresa di iniziativa della società civile: dal movimento dei girotondi sino alla “lezione non raccolta” del pronunciamento referendario e delle elezioni amministrative della primavera scorsa.
Ha origine anche qui l’incapacità di contrastare adeguatamente il degrado complessivoe al tempo stesso di combattere i crescenti e multiformi sussulti distruttivi di oggi, privi sia dei miti identitari leghisti sia dell’illusionismo miracolistico del Cavaliere delle origini. Alimentati più trasversalmente che in passato da una politica che non ha saputo evitare al Paese il disastro attualee non ha molti titoli per giustificare gli enormi flussi di denaro pubblico percepiti contro la volontà referendaria.
Una politica, soprattutto, che appare drammaticamente incapace di trovare in sé le forze per invertire la tendenza, unica via possibile per evitare il baratro. La speranza è l’ultima a morire ma il baratro sembra spaventosamente vicino.

Repubblica 19.4.12

******

L’ideologia “oracolare” e fondativa del comico. Il grillismo figlio del “Non”, di Michele Smargiassi

È un avverbio palindromo il grimaldello che può scardinare il quadro politico italiano. Una parolina di tre lettere che non ha significato, ma li nega tutti: non. Il MoVimento 5 Stelle, si legge nel suo “non statuto”, è una “non associazione”, “non è un partito” e “non lo diventerà in futuro”, non ha “organismi direttivi o rappresentativi”, non è di destra e non è di sinistra, non ha tessere, non ha una sede fisica e neppure un leader, anche se ce l’ha, lo sanno tutti. Il lessico comune, che non rispetta i non-statuti, li definisce “i grillini”: un capitale di sdegno, impegno e sincera voglia di cambiamento che ogni partito serio vorrebbe avere alle spalle, ma che un attore comico di successo, con intuitoe doti mediatiche, ha saputo catalizzare attornoa sé nell’Italia provvisoria dalle rivoluzioni continuamente tradite.
Quale sia il ruolo di Beppe Grillo nel MoVimento da lui battezzato (quella V maiuscola in mezzo al nome è la reliquia venerata dell’evento fondatore, il V-day, giorno del gran Vaffa, 8 settembre del 2007, Bologna, decine di migliaia di fan), sta all’articolo 3 del non-statuto che cita Grillo come “unico titolare dei diritti d’uso” di nome e simbolo del MoVimento 5 Stelle, in sostanza il proprietario del marchio senza il quale non si può agire a nome del movimento. Imprimatur amministrato con decisione, come sanno liste e gruppi e singoli a cui è stato negato con diffida scritta degli avvocati del nonleader. Movimento “dal basso” gestito dall’alto, movimento in cui «uno vale uno» ma dove Uno possiede personalmente la legittimazione di tutti. Eppure, come avverte Federico Fornero in un’analisi sul prossimo numero de Il Mulino, alla bomba grillina innescata nelle urne con percentuali da terzo partito, «l’etichetta di “partito personale” sta stretta».
Allora la definizione più calzante per questo singolare cocktail di spontaneismo e personalismo, di orizzontale e verticale, che condivide molte radici ma poche omologie con i movimenti antipolitici emergenti in Europa, dagli Indignados spagnoli ai “Pirati” nordici, forse è quella di “movimento oracolare”. La Verità del movimento sta solo in parte nel suo programma, che potrebbe essere quello di un partito ecologista se in Italia un dissennato ceto politico non avesse dilapidato la chance dei Verdi. Sta nel ricorso, costitutivo dell’identità stessa del MoVimento (la sede è un indirizzo Web, la tessera è un login ), alla Rete come entità in sé, più che come canale di comunicazione. «La Rete ha reagito male», «la Rete ha deciso». Come tutte le personalizzazioni mitiche di un’entità superiore, anche la Rete per i grillini esige un decifratore, un aruspice. Gli articoli dell’eponimo sul blog beppegrillo.it sonoi vaticini che dettano la linea su questioni non previste dal programma, e sfiduciano per eteronomia questo portavoce o quell’eletto, con scomuniche tanto perentorie quanto non emanate da un potere ufficialmente legittimato a farlo. «Beppe ha scritto che», è sufficiente: seguono proteste e tempeste nei meetup locali, raramente scissioni, più spesso accettazioni del responso.
Ma non è banale leaderismo mascherato. Il controllo oracolare garantisce la sopravvivenza dell’esperimento. Il non è un requisito vitale per un movimento che nega alla radice la politica esistente e verrebbe disinnescato dalla più piccola contaminazione: la non-politica può vivere solo se sfugge ad ogni definizione, anche passiva, se “vola” ( fuori, oltre, sopra, parole correnti nel vocabolario grillino) lontano dall’agorà civica dove incrociano i partiti che l’hanno ridotta in condizioni pietose. Questa è forse la vera missione in capo all’oracolo genovese: custodire la purezza del non, sacro Graal della contropolitica.

La Repubblica 19.04.12