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"Scuola, niente più tagli di organici. Ma gli iscritti continuano ad aumentare", di Augusto Pozzoli

Finita l’epoca dei tagli alla scuola italiana voluti dal tandem Gelmini Tremonti ? Il ministro all’istruzione Francesco Profumo ha detto di sì, emanando una disposizione che praticamente conferma i posti in organico attualmente disponibili. Una conferma che tuttavia non tiene conto di un dato di realtà sopravvenuto: ci sono regioni (al nord, in particolare) dove c’è un notevole incremento di iscritti, mentre in altre (al sud) la popolazione studentesca è in calo.

Pippo Frisone , esperto sindacalista della Flc Cgil, sulla base dei dati ministeriali ha già fatto questi rilievi: “Un conto sono i dati sugli organici a livello nazionale – dice – un altro è l’andamento degli organici a livello regionale o provinciale. Il primo dato da cui partire è lo sviluppo della popolazione scolastica che ha un dato nazionale in forte crescita con oltre 9.000 alunni in più. Ma, mentre nel Mezzogiorno continua il trend negativo degli ultimi anni, nelle regioni del centro Nord (Piemonte,Lombardia,Veneto, ma anche Toscana e Emilia Romagna) si registra anche per il prossimo anno scolastico una costante crescita”.

Quali sono le conseguenze di questa contrastate linea di tendenza? “Mantenere gli organici dell’anno precedente come fa il Governo, in presenza di 9000 alunni in più – continua Frisone – determina di fatto un oggettivo impedimento all’attivazione di tutte le classi necessarie. Mantenere gli organici dell’anno precedente, spostando posti dalle regioni meridionali, dove la popolazione scolastica decresce alle regioni settentrionali, non basta e tuttavia non risolve il problema, in quanto l’aumento complessivo di 9000 alunni rimane senza copertura di nuovi posti aggiuntivi. Non incrementare gli organici significherebbe non garantire per il prossimo anno il tempo pieno e l’offerta formativa esistente, formare classi pollaio a rischio sicurezza, inserimento di più alunni disabili in classi fino a 25 e via peggiorando”.

Una prospettiva, insomma, almeno per migliaia di scuole soprattutto al nord, che non promette nulla di buono. In Lombardia, ad esempio, dove il numero degli studenti in più raggiunge quota 11 mila, forse la regione più sacrificata da questa logica nazionale, lo stesso direttore scolastico regionale Giuseppe Colosio ha già avvertito i rischi a cui la sua scuola sta andando incontro e subito si è rivolto al ministero chiedendo per il prossimo anno scolastico 600 posti in più rispetto a quelli annunciati. Un gesto di coraggio finora sconosciuto da parte di Colosio. Lo dice apertamente Frisone: “A dire il vero, analoga tempestività e determinazione ce le saremmo aspettate anche nei confronti dell’ex Min.Gelmini quando in Lombardia, nonostante l’aumento degli alunni, venivano tagliati oltre 9mila posti nel triennio 2009-12”.

Il Fatto Quotidiano 19.04.12

Tullio De Mauro "Da Monti serve un cambio di passo", intervista di Giuseppe Grasso

Tullio De Mauro, 80 anni compiuti il 31 marzo scorso, non ha bisogno di presentazione. Linguista di fama internazionale e già ministro dell’Istruzione del Governo Amato II per tredici mesi, è da sempre sensibile ai temi che riguardano la Scuola e l’Università. Con lui parliamo di alcuni di questi argomenti cercando delle indicazioni che siano da orientamento nella generale confusione mediatica che parifica “Grande Fratello” e “Report”, televisione commerciale e televisione d’inchiesta. Come sempre le sue considerazioni, di una lucida nitidezza, sono molto sottili e penetranti, sostenute da quello “spirito critico” e da quell’acume tipici dei Grandi Maestri.

Professore, recentemente lei ha rimarcato che, mentre in Francia Hollande e Sarkozy fanno a gara per investire sull’istruzione, da noi il governo Monti non capitalizza affatto sulla scuola. Quali, secondo lei, le ragioni? E qual è il suo giudizio sull’attuale governo di tecnici?

Il governo Monti non viene da Marte o da terre aliene. È composto da persone, spesso professionalmente esimie, espresse da un ceto dirigente come l’italiano che, salvo rare eccezioni enumerabili quasi per nome, non ha avuto e non ha una positiva attenzione per lo sviluppo della cultura della nostra società e per le istituzioni (scuole, università, enti di ricerca, biblioteche, teatri, televisione pubblica) che dovrebbero e potrebbero promuovere quello sviluppo. Come tanti altri del ceto dirigente che (attenzione) noi tutti in qualche misura concorriamo a esprimere e, se non altro, sopportiamo, è assai lontano dall’avvertire la centralità sociale e anche economica e produttiva dello sviluppo culturale diffuso. Una volta ho sentito da Monti un cenno, corretto ma vago, della rilevanza negativa che hanno i nostri deficit di cultura nello sviluppo anche economico e produttivo. Un accenno è meglio che niente, ma è assai poco rispetto al cambio di passo e di organizzazione del bilancio dello stato che sarebbe necessario e che, se passo si volesse cambiare, coinvolgerebbe in Italia come in altri paesi del mondo la diretta responsabilità politica del capo del governo: come accade con Merkel e Obama, Sarkozy e Cameron e Chavez ecc.

Che opinione si è fatta dell’operato del ministro Profumo? Nel messaggio pasquale questi ha affermato che è “ineludibile rimettere l’istruzione e la formazione al centro dell’agenda politica del Paese”. Non saranno i soliti proclami?

Credo di avere già risposto, sì, è un proclama.

Cosa pensa della riforma Gelmini? E dei nuovi indirizzi liceali del Linguistico e delle Scienze umane?

Molti provvedimenti della ministra Gelmini hanno inciso malamente sulle condizioni di vita delle scuole e delle università, anche il benvenuto prosciugamento e riordino delle decine e decine di disparati canali della secondaria di secondo grado (cominciammo a chiederlo almeno dal 1969) non è stato accompagnato da un ripensamento effettivo e dalla riorganizzazione (anche edilizia) degli istituti scolastici.

Lei ha spesso sottolineato che in Italia si legge poco. Quali i motivi di tale disaffezione alla lettura? Ci sono, secondo lei, libri particolari che potrebbero invertire la tendenza?

I motivi sono antichi e nascono dal secolare sospetto verso la crescita culturale. La tendenza può invertirsi se si diffonde nella popolazione l’abitudine di leggere. Questa si diffonde se si percepisce quanta ricchezza di esperienza si cela in ogni buon libro. La scuola fa quello che può. Ma la società circostante e gli stili di vita dominanti non aiutano.

Una volta si leggevano Croce, Gramsci e altri numi tutelari. Oggi, che maestri ci sono, se ci sono?

Dagli anni sessanta del Novecento le persone di buona cultura intellettuale dispongono di riferimenti assai più vari che nel passato, in Italia come in parecchi paesi. Come ieri, il maestro migliore è lo spirito critico che non si chiude al nuovo e non si scorda dell’antico.

Da ministro lei si espresse a proposito delle retribuzioni dei docenti dicendo che erano “stipendi da fame”. Oggi, con le ulteriori aggravanti del blocco degli scatti di anzianità e dei contratti, aggiungerebbe qualcosa? C’è forse dietro una filosofia dell’educazione?

No, non aggiungerei altro, purtroppo. Una persona altamente degna, come Ermanno Gorrieri, purtroppo scomparsa qualche anno fa, all’epoca mi rimproverò di tacere che c’erano in Italia retribuzioni anche più inique. Ne ero e sono convinto. Resta il problema: se vogliamo che la scuola si sviluppi, occorre attrarre ad essa il meglio delle energie intellettuali e morali e, in una società a forti disparità retributive, quelle energie in gran parte rischiano di prendere strade diverse da quelle dell’insegnamento.

Avrà sentito parlare della giornata dedicata all’”Urlo della Scuola”. Tantissime voci si sono levate a reclamarne la rinascita quale Bene Comune. La ragione della maggiore tenuta della Scuola rispetto all’Università si deve anche a iniziative del genere?

Sì, certamente. La reattività dell’università è stata e resta assai minore. E i rettori, salvo un paio, si sono fatti tappetino delle malversazioni ministeriali.

Come giudica l’idea del ministro Profumo, sull’esempio francese, di limitare i compiti a casa anche per gli studenti italiani?

Non è solo il professor Profumo a non applicare alla scuola la teoria dei sistemi, che egli ben conosce. Datemi il resto della scuola francese, anzi datemi la Francia, la sua cura straordinaria per l’istruzione sentita e onorata nei fatti come impegno della nazione, da cui discendono le forti strutture e gli abiti e tradizioni di apprendimento (e le biblioteche e gli alti indici di lettura), datemi questo e poi sarà sensato discutere se adottare o no un pezzetto del funzionamento complessivo.

Come escono la lingua italiana e i suoi parlanti dall’attuale marasma mediatico?

La lingua se la cava. I parlanti, senza un retroterra di istruzione e lettura, assai meno.

Un’ultima domanda sui pensionandi della scuola classe ’52. La riforma Fornero ha ignorato la particolarità del comparto scuola – la cui unica finestra di uscita dal lavoro è il primo settembre – e ha omologato il calendario del personale scolastico a quello di tutti gli altri lavoratori. Si tratta di mera ignoranza o è lecito scorgervi un lapsus che conferma la disattenzione del governo Monti verso l’istruzione?

Purtroppo non conosco abbastanza la ministra Fornero per risolvere il dilemma cornuto. Tuttavia mi pare che il secondo corno includa, se così può dirsi di corni, il primo.

da Affari Italiani

"Perchè lo Stato deve finanziare i partiti", di Nadia Urbinati

La corruzione dei partiti, soprattutto quando sembra un fiume in piena che si ingrossa giorno dopo giorno, ha effetti devastanti. Non soltanto, come è ovvio, sulla stabilità dell´ordine democratico e la credibilità delle sue istituzioni. Ma anche sulla mentalità politica generale. Poiché induce i cittadini a pensare che se lo Stato mettesse i partiti a pane e acqua questi non avrebbero più i mezzi sufficienti per essere disonesti. Togliere il finanziamento pubblico ai partiti può apparire come la ricetta vincente per costringere all´onestà secondo il detto popolare che l´occasione fa l´uomo ladro. Sull´onda degli scandali giudiziari e in un tempo come questo in cui il governo e il Parlamento impongono ai cittadini enormi sacrifici, questa tesi si fa via via più convincente.
Ma c´è da dubitare che sia la via migliore per impedire la corruzione. Basta ripercorrere brevemente la storia del finanziamento pubblico ai partiti per rendersene conto. La legge sul finanziamento pubblico dei partiti, introdotta nel 1974 per sostenere le strutture dei partiti presenti in Parlamento, fu voluta e approvata sull´onda di scandali. Attraverso il sostentamento diretto dello Stato, si disse, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusione con i grandi interessi economici. Ma si trattò di una pia illusione perché gli scandali non si fermarono come mostrano le vicende Lockheed e Sindona. Evidentemente, la ragione della corruzione non sta nella sorgente del finanziamento. Che sia pubblico o privato, la corruzione resta. Quindi, pensare di rendere virtuosi i politici facendoli questuanti di soldi privati è illusorio. Non solo non vale a togliere la piaga della corruzione, ma ne produrrebbe una peggiore. Aggiungerebbe alla corruzione classica, quella cioè dello scambio – favori politici in cambio di denaro – un´altra che è ancora più devastante per la democrazia: la diseguaglianza politica. Infatti, lasciando che siano i privati a finanziare i partiti si darebbe alle differenze economiche la diretta possibilità di tradursi in differenze di potere di influenza politica. Quindi alla corruzione della legalità si aggiungerebbe la corruzione della legittimità democratica. È questa la ragione per la quale il modello statunitense è pessimo.
In questi giorni di malaffare dilagante, che tocca addirittura il partito che si è consolidato gridando agli scandali altrui, si sente proporre il modello americano, magari corretto. Contro quel modello da anni si battono giuristi, opinionisti e teorici politici americani (da John Rawls a Ronald Dworkin tanto per menzionare i nomi più prestigiosi). Gli Stati Uniti sono la prova evidente di quanto sbagliato sia per la democrazia avere partiti privatizzati.
Per un democratico, proteggere le istituzioni politiche dalla corruzione significa proteggere l´eguaglianza politica dall´infiltrazione della diseguaglianza economica. La democrazia accetta le differenze economiche e crede che sia possibile impedire che trasmigrino nella sfera politica. Essa quindi si avvale di istituzioni, procedure e norme che bloccano il travaso di influenza economica in influenza politica. Per i critici di destra e di sinistra questa è una illusione. Perché non sia un´illusione occorrono buone leggi. Ora, le controversie americane sulla questione dei finanziamenti delle campagne elettorali vertono tutte su questo tema. La lotta tra il potere legislativo (il Congresso americano ha proposto e passato leggi che regolano e limitano il finanziamento privato) e il potere giudiziario (la Corte Suprema ha in casi importanti bloccato l´azione del legislatore) verte proprio sull´interpretazione della libertà, se solo un diritto dell´individuo (indifferente all´eguaglianza di condizione) o invece un diritto del cittadino (attento all´eguaglianza di opportunità politica). Il giudici sono schierati con la seconda interpretazione. Il loro punto di riferimento è il Primo emendamento alla costituzione, il quale tutela la libertà di espressione dall´interferenza dello Stato. Come bruciare la bandiera è stato definito, in una sentenza memorabile, un segno di libertà di opinione quindi un diritto intoccabile, così è per le donazioni private ai partiti o ai candidati. Bloccarle significa, dicono i giudici, bloccare la libertà di espressione. Nella sentenza del 2010 (che riprendeva sentenze precedenti molto importanti) conosciuta come Citizens United versus Federal Election Commision, la Corte Suprema a maggioranza liberista-conservatrice ha sì riconosciuto che “l´influenza del denaro delle corporazioni” esiste ed è “corrosiva” perché causa di corruzione in quanto facilita una “influenza impropria” ovvero una ineguale “presenza politica” nel foro politico. Nonostante ciò, la Corte ha concluso che non è comunque provabile che le compagnie private perseguano piani espliciti quando finanziano le campagne elettorali. Non si può provare che il loro denaro si traduce in decisione politica. Quindi non si può impedire la libertà di donazione.
Tuttavia l´uso dell´espressione “influenza impropria” è significativo perché suggerisce che la base della democrazia è l´eguaglianza politica dei cittadini, ovvero la loro eguale opportunità di influire sull´agenda politica dei partiti, non solo attraverso il voto. Allora, quando c´è corruzione? C´è corruzione solo quando un politico è colluso? Non c´è corruzione anche quando si dà ad alcuni cittadini più opportunità di voce che ad altri? Se per la virtù repubblicana la prima solo è corruzione, per i democratici la seconda è anche e forse più grande corruzione. Perché lede il fondamento della libertà politica eguale. Ecco dunque che la questione di come finanziare i partiti rinvia a una concezione della libertà: se solo del privato individuo che vuole dare i soldi a chi desidera, o invece del cittadino che deve godere di una eguale libertà rispetto agli altri cittadini e non avere meno opportunità di altri di far sentire la propria voce. Nella democrazia rappresentantiva ancor più che in quella diretta, l´esclusione politica può facilmente prendere la forma del non essere ascoltati perché la propria voce è debole, non ha mezzi per giungere alle istituzioni. E il denaro è un mezzo potentissimo.
È questa la ragione per la quale è importante avere il finanziamento pubblico dei partiti. Certo, si può intervenire sulla quantità, le forme, le condizioni; si possono inasprire le pene per chi viola la legge. Ma è sbagliato pensare di combattere la corruzione e il malaffare di cui i politici e i partiti si macchiano eliminando il finanziamento pubblico. Privatizzare i partiti (già ora troppo aziendali e familistici) significherebbe indebolire ancora più gravemente l´eguaglianza politica.

La Repubblica 19.04.12

"Se al summit di Palazzo Chigi si sovrappone l'incontro Monti-Berlusconi", di Stefano Folli

Davvero singolare la sovrapposizione che si è creata a Palazzo Chigi. Due passaggi: ieri sera il vertice del tripartito Alfano-Bersani-Casini con il presidente del Consiglio, un lungo colloquio non privo di tensione e di passaggi concitati. E l’incontro a due fra Mario Monti e Silvio Berlusconi: un’occasione piuttosto rara d’incontro fra il premier in carica e il suo predecessore, ed è difficile credere che si tratti solo di una visita di cortesia. La coincidenza, sotto il profilo temporale e anche politico, è abbastanza sorprendente. Si pone una domanda: chi decide la linea politico-parlamentare del Pdl? Alfano nel summit dei tre partiti con il capo dell’esecutivo o Berlusconi nell’incontro di domani?
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Il quesito non è irrilevante perché i risultati del vertice coinvolgono anche Bersani e Casini e quindi definiscono l’equilibrio complessivo su cui si regge il governo in Parlamento. Tuttavia Berlusconi, per la sua personalità e la sua storia politica, difficilmente si accontenterà di una «photo opportunity» con il suo successore. Vorrà avere voce in capitolo sui punti controversi. Ad esempio sulle famose misure per la crescita, sulle tasse e magari su temi che stanno molto a cuore all’ex premier: dalla gara per le frequenze televisive al disegno di legge anti-corruzione appena messo a punto dal ministro Severino.

È probabile che questa «ingerenza», se così si può dire, non sia plateale, forse nemmeno mediatica. Berlusconi ha una strategia e non sembra che intenda modificarla: sostenere Monti fino al termine della legislatura e usare lo schermo del governo tecnico per evitare la «diaspora» del centrodestra e anzi per cercare di puntellare l’area moderata. Ma la questione delle tv è dolorosa, anche perché inaspettata. Nella logica berlusconiana non può restare senza risposta: magari su un altro tavolo dell’agenda di governo.

Sia come sia, non c’è dubbio che il peso di Berlusconi nella società politica è ancora abbastanza rilevante da oscurare, almeno in parte, il vertice di ieri notte. Questo pone un problema ai tre protagonisti del summit. Tutti ieri sera avevano bisogno di qualche risultato tangibile da spendere con il loro elettorato (in fondo le elezioni amministrative sono alle porte).
In particolare Bersani sa di dover farsi carico delle inquietudini dei Comuni e delle angosce di quei ceti che soffrono l’asprezza della crisi. Alfano, a sua volta, tiene a che sia riconosciuto il ruolo del Pdl nel rimodellare – in qualche misura – la riforma del mercato del lavoro e nell’avviare un minimo alleggerimento del carico fiscale (ad esempio l’Iva). E Casini non vuol perdere la sua funzione di baricentro della maggioranza.

Tutti e tre sono stati spiazzati dall’irrompere sulla scena della questione delle frequenze tv. Bersani di sicuro non aveva interesse a parlarne, a Palazzo Chigi, e viceversa il segretario del Pdl non poteva non dar voce alla frustrazione di Berlusconi e di quanti nel centrodestra ritengono che il ministro Passera non abbia rispettato gli accordi.
Come si vede, la serata non è stata delle più serene. Ma il punto è che domani Berlusconi vedrà Monti. E si tratterà di capire come il premier gestirà questo incontro a poche ore dal vertice triangolare.

Il Sole 24 Ore 18.04.12

La sfida di Monasterace comincia dalla scuola», intervista a Marco Rossi Doria

Il sottosegretario all’Istruzione: «Contro le mafie e a sostegno del sindaco Lanzetta. Siamo pronti a partire con attività concrete e costanti sul territorio». Andremo a Monasterace senza fanfare ma con progetti concreti. Che hanno la caratteristica e l’ambizione di continuare nel tempo. E di provare a cambiare le cose». È stato e resterà sempre un maestro di strada, nonostante l’incarico ministeriale, nonostante la prospettiva adesso profondamente diversa. Conosce l’importanza insostituibile di quella che è la «politica del mestiere» -una citazione del padre Manlio, celebre meridionalista e membro del partito d’azione alla Costituente – che significa specializzarsi in un campo indicando soluzioni. Marco Rossi Doria, sottosegretario alla Pubblica Istruzione, è uno che sa, perché lo ha praticato, che la politica deve restare nelle strade e non nei palazzi. Sottosegretario,il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri chiama a Raccolta il governo per dare al sindaco di Monasterace Carmela Lanzetta le risposte che pretende per continuare a fare il sindaco sotto scorta e sotto minaccia. I primi interpellati siete voi, la Pubblica Istruzione. Siete pronti? «Siamo contenti di questo richiamo del ministro. Andremo a Monasterace e ci resteremo. Per sostenere dal basso l’opera del sindaco. E con costanza. Sono dell’opinione che le istituzioni devono assicurare il loro sostegno oltre che con progetti soprattutto con continuità e con una regia costante. Proprio per evitare l’effetto spot di certe manifestazioni che poi dietro e dopo di sé lasciano solo oblio». Le persone che vivono o sono in contatto con la realtà di Monasterace denunciano proprio il sistema delle cosiddette “comparsate” a uso e consumo di tv e giornali. Chiedono allo Stato di essere in quelle terre e alla politica di stare in mezzo alle persone. «Capisco. Sono d’accordo. E le parole del sindaco Lanzetta, quando dice “resto ma fra tre mesi verifichiamo quanto è stato detto con quanto è stato fatto” chiedono esattamente questo impegno». Pochi soldi,molte idee. Da dove pensa di cominciare? «Dal “piano di azione coesione” del ministro Barca e del ministro Profumo. È un fondo europeo di un miliardo di euro fino al 2014, che pensiamo di rinnovare fino al 2020, da destinare alle quattro regioni a massima concentrazione mafiosa, Sicilia, Calabria, Campania, Puglia. Si tratta di soldi finalizzati a progetti che si occupano di combattere la dispersione scolastica, di innalzare i livelli dell’apprendimento, di curare la fase del passaggio tra scuola e lavoro. Il concetto base, e chiave, è quello della rete, mettere le persone, le cose e le istituzioni in collegamento tra di loro per farli comunicare e interagire sulla base di piani comuni e condivisi. È già in parte attiva la rete dei docenti all’interno delle scuole, tra le stesse scuole e tra le scuole e le istituzioni, prima con i Comuni e poi con le Regioni». Progetti che camminano e danno risultati? In grado di far sentire un sindaco meno solo e più forte anche se gli sparano contro la macchina, come è successo a Lanzetta? «È chiaro che poi ognuno deve fare la sua parte, la magistratura, le forze dell’ordine, gli amministratori locali e le forze imprenditoriali. Io parlo di scuola, dei giovani e di un progetto legalità tra studenti e insegnanti che anche il ministro Cancellieri, titolare dell’Interno, mette tra le priorità. Detto questo, la scorsa settimana le scuole calabresi si sono riunite a Reggio Calabria per condividere programmi e competenze sula base di linee guida approntate dal Ministero. Poco tempo fa il ministro Profumo è andato a Latina, basso Lazio, dove c’è un’alta concentrazione mafiosa, e ha letto ai giovani i nomi delle 900 vittime della mafia. A Caserta è nato l’Osservatorio per le vittime delle mafie in un bene confiscato. Sono 900, non un numero ma storie e vite. Perché i ragazzi conoscono i nomi dei boss ma non quelli delle vittime. Io credo che veramente questa sia la volta diun movimento antimafia che riesce a emergere da sott’acqua. Lo dico con il rispetto di quello, moltissimo, che è stato fatto negli anni». Perché questa volta dovrebbe funzionare? «Perché c’è una mobilitazione vera, dal basso, tante scuole si stanno muovendo, anche da sole, nel quotidiano. A questo sforzo eroico dal basso, va unito quello che stiamo facendo noi. Mi riferisco al Piano operativo nazionale per la sicurezza e alle tante azioni per la legalità che il Ministero dell’Istruzione conduce in relazione stretta con tantissime scuole. Un progetto si chiama “Le(g) ali al Sud” e si concentra sull’apprendimento in situazione e anche sul recupero di spazi abbandonati, un cortile, un edificio, un luogo da recuperare grazie al lavoro di giovani e genitori e poi dedicare a spazi interculturali. C’è il grande contenitore “ Progetto legalità” che ne contiene altri, come “più scuola e meno mafia” che destina ai ragazzi, alle scuole i beni confiscati alle mafie per realizzare spazi socialmente utili per lo sport, la formazione. O il “musicarte” che invece dedica spazi conquistati alle cosche al cinema, alla musica e al teatro per i giovani. Ma anche per gli adulti. E il 23 maggio il ministro Profumo sarà a Palermo per il ventennale delle stragi con i ragazzi delle scuole da tutta Italia». Quando andrete a Monasterace? «Siamo andati in Calabria a coordinare le scuole senza fare clamore. Faremo altrettanto con Monasterace. Andremo. Soprattutto ci resteremo, con costanza e nella quotidianità ».

L’Unità 18.04.12

"Tita, Angelina e le altre. Condannate a morte per un amore sbagliato", Francesca Barra

La ‘ndrangheta non perdona chi tradisce la «famiglia». Dal caso Costantino a quello Pesce, trent’anni di omicidi e spesso la verità viene a galla solo dopo molti anni. Donne giovani, madri, calabresi e con la voglia di collaborare, di liberare se stesse e la vita dei figli dalla morsa della ‘ndrangheta. Donne che si innamorano dell’uomo sbagliato e che per questo firmano la loro condanna a morte. Uccise dall’acido o vittime di lupara bianca. Alcune sono sparite nel nulla e la cronaca le ha dimenticate, forse rendendo un favore a chi le ha messe a tacere per sempre. Ma poi le bocche si aprono e la verità, pian piano, aiuta a ricostruire casi irrisolti.
Sono passati diciotto anni, da quando una donna di 25 anni, madre di quattro figli, Angela Costantino, sparì nel nulla. Le indagini della squadra mobile di Reggio Calabria hanno accertato che si trattò di omicidio e non di un suicidio, come molti indizi sparsi avevano voluto lasciar intendere. L’ordine di farla sparire sarebbe partito dalla stessa famiglia del marito per vendicarlo. Era sposata con Pietro Lo Giudice pregiudicato e figlio del boss dell’omonima cosca, Giuseppe. Era scomparsa il 16 marzo del 1994. Aveva intrapreso una relazione extraconiugale con un uomo conosciuto in parrocchia. E la ‘ndrangheta si sa, non è indulgente con chi tradisce la famiglia. L’ultima informazione su di lei era che stava raggiungendo suo marito detenuto in carcere a Palmi per fargli visita. Ma di lei non fu trovato nulla, se non l’auto, una Fiat Panda. La ricostruzione è avvenuta grazie a tre pentiti, fra cui Maurizio Lo Giudice.
La donna fu strangolata e Il suo cadavere fu poi occultato. Sono ritenuti responsabili in concorso fra loro, dell’omicidio della donna, Vincenzo Lo Giudice, il cognato Bruno Stilo e il nipote Fortunato Pennestrì. Il caso riporta alla mente una vicenda omologa. Annunziata Pesce sparì nel 1981. Era sposata con Antonio Zangari e figlia di Salvatore Pesce, fratello del boss Peppe. Dopo trentanni parla di lei, la pentita Giuseppina Pesce, sua parente. Annunziata non meritava indulgenze perché aveva minato l’onore della famiglia due volte: aveva tradito suo marito e si era innamorata di un giovane carabiniere, in servizio alla stazione di Rosarno con il quale era scappata. I due vennero ritrovati sul lungomare di Scilla e mentre il carabiniere verrà trasferito in un’altra città, della donna non si saprà più nulla. Con sentenza del Tribunale di Palmi del 16 novembre del 1999 venne dichiarata la morte presunta. A decidere di ucciderla nell’aprile del 1981, secondo la testimonianza di Giuseppina, sarebbe stato il boss Giuseppe Pesce e l’esecuzione sarebbe avvenuta sotto gli occhi di suo fratello: Antonio Pesce. Si poteva evitare che passassero trentanni senza sapere la verità? A nessuno importava davvero di Annunziata? Una donna dimenticata.
Errori che non devono ripetersi. Ed ecco perché si deve parlare di un altro caso. Santa Buccafusca, detta Tita, è morta ingerendo acido muriatico. Moglie di Pantaleone Mancuso, più grande di tredici anni, boss di Nicotera, detto Luni Scarpuni. Si sarebbe tolta la vita ingerendo acido muriatico il 16 aprile del 2011, in casa, in via Murat 1. Aveva deciso di collaborare e il 14 marzo 2011 si era presentata con suo figlio di pochi mesi, nella caserma dei carabinieri di Nicotera. L’avevano spostata negli uffici della Dda di Catanzaro. Alcuni dei suoi familiari, nel frattempo, si erano rivolti alla caserma del loro paese con una documentazione medica per dimostrare l’instabilità psichica di Tita e dunque la sua inattendibilità nel caso avesse deciso di «raccontare». Qualcosa o qualcuno è riuscito a indurla a tornare sui suoi passi, dopo pochi giorni. Perché decise di interrompere la sua collaborazione. Non solo. Per qualche strana ragione, ancora ignota agli inquirenti, si è suicidata ed è morta all’ospedale di Reggio Calabria dopo due giorni, il 18 aprile del 2011.
Le indagini per scongiurare che qualcuno possa averla indotta al suicidio, come nel caso di Maria Concetta Cacciola avvenuto qualche mese dopo, sono ancora aperte. Per evitare che parlasse ancora. Ciò che è urgente che si stabilisca, oltre ad accertare eventuali responsabilità, è che non restino storie isolate. Che si costruisca una rete di informazione, di sostegno, di assistenza psicologica anche, e non solo legale. Affinché nessuna donna pensi di non avere altra via di uscita dalle mafie, dal dolore, se non la morte.
E affinché si faccia luce su Barbara Corvi, cognata di Angela Costantino. Aveva 35 anni quando si persero le sue tracce. Era sposata con Roberto Lo Giudice, altro fratello di Pietro. La sparizione della donna è avvenuta il 27 ottobre 2009 ad Amelia in provincia di Terni. Anche se non c’è alcuna prova che sia stata uccisa e magari è scappata, impaurita da qualcosa. Magari avrebbe bisogno di sapere che se tornasse sarebbe al sicuro. O magari avrebbe bisogno che qualche altra bocca si aprisse e che mettesse fine a questa mattanza di donne.

L’Unità 18.04.12

"Il rigore nei conti non guarisce ogni male", di Stefano Lepri

La dose di austerità è sufficiente; la ricetta per tornare alla crescita va cercata con pazienza e fantasia, ma nessuno l’ha in tasca già pronta. Arrivano al momento giusto, le parole del Fondo monetario, per sprovincializzare il dibattito italiano in vista del Consiglio dei ministri di oggi. Se c’è un allarme, riguarda il rischio di una nuova crisi dell’euro: dovrebbero ascoltarlo soprattutto in Germania.

Non solo in Italia, ma in tutti i Paesi avanzati del mondo, si prospetta una lunga fase di crescita economica lenta, frenata dal fardello dei troppi debiti. Qualche Paese quei debiti li ha contratti nell’euforia finanziaria di prima del 2007, qualcuno durante la crisi per lenirne le conseguenze, qualcuno, come noi, se li trascinava dietro da ancora prima.

Non è facile per nessuno ripagare il debito e nello stesso tempo trovare i soldi per investire sul futuro. In più, l’area dell’euro mostrandosi fragile ora danneggia i Paesi deboli al suo interno, dopo averli aiutati fin troppo negli anni buoni. Sotto la pressione dei mercati, anche l’Italia e la Spagna, accortesi in ritardo dell’urgenza di ridurre il debito, hanno preso misure di austerità tali da riprecipitarle nella recessione.

Di fronte a mercati finanziari pronti ad agitarsi un giorno perché il deficit pubblico è un po’ più alto del previsto, il giorno dopo all’opposto perché il calo del deficit aggrava la recessione, il Fondo monetario dà un messaggio di equilibrio. Ovvero, l’importante non è stringere ancor più la cinghia adesso, è avere progetti seri per ridurre il debito negli anni; e qui l’area dell’euro sta assai meno peggio di Stati Uniti e Giappone.

In questo quadro non implicano un biasimo le previsioni secondo cui l’Italia non raggiungerà il pareggio di bilancio nel 2013; dato che i programmi pluriennali vengono ritenuti credibili. Altro che «pensiero unico»! Qui il Fmi, guardiano della stabilità finanziaria mondiale, dimostra di pensarla in modo assai diverso da chi, alla maniera della Bundesbank e di altri in Germania, vede il rigore di bilancio come la cura di ogni male.

Oltretutto, l’Italia nel 2013 l’attivo di bilancio lo raggiungerebbe «al netto del ciclo» ossia scontando gli effetti della recessione. Sarebbe già raggiunto l’anno prossimo ciò che la modifica alla Costituzione approvata definitivamente dal Senato proprio ieri impone a partire dall’anno successivo, il 2014.

Purtroppo è altrettanto chiaro che nei prossimi mesi continueranno a scomparire posti di lavoro. Il capo economista del Fmi ha avuto ieri il merito di dichiarare con franchezza che il «Santo Graal» delle ricette miracolose per la crescita economica probabilmente non esiste. Dovrebbero prenderne nota tutti coloro, partiti o forze sociali, che si affollano a protestare che «il governo Monti non pensa alla crescita». Occorre sforzarsi senza sosta nella ricerca dei provvedimenti più utili, provando e riprovando, nella coscienza che da Washington a Tokyo a Bruxelles tutti vi sono impegnati.

Prima di tutto occorre evitare una nuova crisi dell’euro. Qui, in compenso, i consigli del Fondo sono chiari e precisi. La Bce deve riprendere i suoi interventi di sostegno, verso i quali si ritengono infondati i timori dei tedeschi. Poi, invece di escogitare rappezzi occorre capire che cosa rende funzionale una unione monetaria tra Paesi. L’obiettivo meno arduo da raggiungere è un sistema bancario più solido e transnazionale. Il Fmi propone di ricapitalizzare le banche con fondi anche europei, di eliminare quelle non salvabili e garantire i depositi con regole uniche in tutta l’area. Da un diverso punto di vista si può aggiungere – servirebbe anche a eliminare le complicità tra politici nazionali e banchieri nazionali.

La Stampa 18.04.12