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"Rettori per sempre. Sulla proroga scoppia la battaglia", di Flavia Amabile

I rettori? La riforma dell’università non doveva segnare la fine dei loro mandati a vita? Sì, certo, ma con calma. Per il momento sono tutti lì ai vertici, alcuni come Gino Ferretti rettore di Parma da dodici anni che arriveranno a tredici con la proroga. Altri come il rettore di Messina Francesco Tomasello che ha tentato di approvare in extremis un’autoproroga per guadagnare altri due anni alla guida dell’università retrodatando l’inizio dell’anno accademico. E’ stato smascherato dai docenti dell’ateneo che hanno denunciato il tentativo in una lettera inviata al ministero dell’Istruzione che con una risposta di sei pagine ha bocciato i sogni del Magnifico Tomasello.

La proroga, quindi. E’ questa la parola magica che tiene in piedi le speranze di chi vorrebbe prolungare ancora un po’ il proprio mandato e sa che nella riforma Gelmini i rettori attuali devono lasciare la guida dei loro atenei l’anno successivo all’adozione dello Statuto. Perché fatta la norma, trovata l’interpretazione. Di quale adozione si parla: della stesura da parte delle università o dell’approvazione del ministero?

Quando a Parma il rettore Ferretti ha annunciato la sua proroga sulla base di uno Statuto pubblicato in Gazzetta Ufficiale a febbraio di quest’anno, si sono levate reazioni da parte di tanti: dai docenti, da chi spera di prendere il suo posto, dagli studenti fino ai sindacati. Anche perché l’università sul sito scrive di averlo «adottato» nell’aprile del 2011 e il mandato di Ferretti scadeva due mesi dopo, a giugno. A quel punto Ferretti ha scritto al ministero per chiedere lumi. Con grande stupore di molti, la risposta del ministero è arrivata poco dopo fornendo chiarimenti che hanno reso ancora più difficile e avvelenata l’atmosfera. La lettera è firmata dal direttore generale del ministero per l’Università, Daniele Livon: spiega che i rettori che si trovano nelle stesse condizioni di Parma possono restare in carica fino a ottobre 2013. Ancora un anno e mezzo, quindi.

Ad essere nelle condizioni di Parma sono molte università: su 80 atenei 66 hanno ottenuto il via libera allo Statuto presentato al Miur ma solo 46 l’hanno pubblicato in Gazzetta Ufficiale completando la procedura. E una decina di rettori, come Ferretti, è riuscita ad incassare la doppia proroga prolungando un mandato scaduto da mesi.

«E’ tutto regolare – conferma il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo – E’ la legge stessa a prevedere la proroga di un anno dal momento in cui lo Statuto è operativo per evitare che si arrivi ad un rinnovo degli organi statutari azzerando tutto contemporaneamente. Le università sono sistemi complessi, c’è bisogno di continuità per garantire che tutto possa continuare a funzionare nel miglior modo possibile. In quell’anno il rettore deve garantire la corretta gestione dell’ateneo mentre si rinnovano le altre cariche».

Il ministro conosce bene il mondo dell’università, è da lì che arriva. «Ci sono alcuni atenei più pronti di altri – riconosce – Alcuni hanno scelto di non usufruire della proroga, ad esempio. E ce ne sono altri che invece sono più lenti».

E’ una procedura complessa che non ha risparmiato nulla e nessuno. Il ministero ha fatto ricorso contro tre università per problemi nei nuovi Statuti: una di questi è proprio il Politecnico di Torino dove il ministro ha lavorato fino allo scorso novembre creando una bizzarra situazione in nome della trasparenza: come ministro ha bocciato il testo che aveva preparato da rettore. Capita anche questo in questo complicato momento di transizione verso la riforma. E il mondo politico non è rimasto a guardare. Sono arrivate diverse interrogazioni parlamentari dall’Udc al Pd. Presto potrebbero aggiungersi anche Pdl e Lega. E la disputa continua.
“I numeri”

“66 atenei hanno il via libera”

“Su 80 atenei 66 hanno avuto l’ok allo Statuto – e al prolungamento del mandato dei rettori – presentato al Miur (46 pubblicati in Gazzetta Ufficiale, completando la procedura), con il via libera del direttore generale del ministero per l’università”

“18 mesi di «rinnovo»”

“Una decina di rettori è riuscita a incassare la doppia proroga prolungando un mandato scaduto ormai da mesi Come Gino Ferretti, a Parma (che ricopre l’incarico da 12 anni), potranno restare in carica fino all’ottobre del 2013: un anno e mezzo”

La Stampa 18.04.12

"La perdita dell'olfatto", di Barbara Spinelli

Quando il fascismo stava per finire, nel novembre 1944, un giornalista americano che conosceva bene l’Italia, Herbert Matthews, scrisse un articolo molto scomodo, sul mensile Mercurio diretto da Alba De Céspedes. S’intitolava “Non lo avete ucciso”, e ci ritraeva, noi italianiei nostri nuovi politici, incapaci di uccidere la bestia da cui in massa eravamo stati sedotti. Una vera epurazione era impossibile, soprattutto delle menti, dei costumi.

TROPPO vasti i consensi dati al tiranno, i trasformismi dell’ultima ora. Matthews racconta un episodio significativo di quegli anni. Quando il governo militare alleato volle epurare l’Università di Roma, una delegazione del Comitato di liberazione nazionale (Cln) chiese che la riorganizzazione fosse compiuta da due membri di ciascun partito: «In altre parole, una politica di partito doveva essere introdotta nel dominio dell’alta cultura: il che, mi sembra, è fascismo bello e buono». Il giornalista conclude che la lotta al fascismo doveva durare tutta la vita: «È un mostro col capo d’idra, dai molti aspetti, ma con un unico corpo. Non crediate di averlo ucciso».

L’idra è tra noi, anche oggi. Nasce allo stesso modo, è il frutto amaro e terribile di mali che tendono a ripetersi eguali a se stessi e non vengono curati: come se non si volesse curarli, come se si preferisse sempre di nuovo nasconderli, lasciarli imputridire, poi dimenticarli. È uno dei lati più scuri dell’Italia, questo barcollare imbambolato lungo un baratro, dentro il quale non si guarda perché guardarlo significa conoscere e capire quel che racchiude: la politica che non vuol rigenerarsi; i partiti che non apprendono dai propri errori e si trasformano in cerchie chiuse, a null’altro interessate se non alla perpetuazione del proprio potere; la carenza spaventosa di una classe dirigente meno irresponsabile, meno immemore di quel cheè accaduto in Italia in più di mezzo secolo.E tuttavia distinguere si può, si deve: altrimenti prepariamoci alle esequie della politica. Ci sono uominie partiti che si sono oppostie s’oppongono alla degenerazione,e ce ne sono che coscientemente hanno scommesso sul degrado. C’è la Costituzione, che protegge la politica e chi ne ha vocazione: compresi i partiti, che al caos oppongono l’organizzazione. Il molle non è equiparabile al colluso con la mafia, il mediocre non è un criminale. La politica è oggi invisa, ma a lei spetta ricominciare la Storia. I movimenti antipolitici denunciano una malattia che senz’altro corrode dal di dentro la democrazia, ma non hanno la forza e neanche il desiderio di governare.

Chi voglia governare non può che rinobilitarla, la politica.

Se questo non avviene, se i partiti si limitano a denunciare l’antipolitica, avranno mancato per indolenza e autoconservazione l’appuntamento con la verità. Non avranno compreso in tempo l’essenziale: sono le loro malattie a suscitare i pifferai-taumaturghi (l’ultimo è stato Berlusconi). Il paese rischia di morire di demagogia, dice Bersani, ma questa morte è un remake: vale la pena rifletterci sopra.

Guardiamola allora, questa politica sempre tentata dai remake. Non è solo questione di corruzione finanziaria, o del denaro pubblico dato perché i partiti non siano prede di lobby e che tuttavia è solo in piccola parte speso per opere indispensabili (il resto andrebbe restituito ai cittadini: questo è depurarsi). La corruzione è più antica, ha radici nelle menti e in memorie striminzite.

Matthews denuncia lottizzazioni partitiche già nel ’44. Un’altra cosa che smaschera è il ruolo della mafia nella Liberazione. Anche quest’idra è tra noi.

È lunga, la lista dei mali via via occultati, e spesso scordati. L’AntiStato che presto cominciò a crearsi accanto a quello ufficiale, e divenne il marchio comunea tante eversioni: mafiose, brigatiste, della politica quando si fa sommersa. Un AntiStato raramente ammesso, combattuto debolmente. E le stragi, a Portella della Ginestra nel ’47 e a partire dal ’69: restate impunite, anonime.

L’ultima infamia risale alla sentenza sull’eccidio di Brescia del ’74, sabato scorso: tutti assolti. È un conforto che Monti abbia deciso che spetta allo Statoe non alle vittime pagare 38 anni di inchieste e processi: l’ammissione di responsabilità gli fa onore. Poi la P2: una «trasversale sacca di resistenza alla democrazia», secondo Tina Anselmi. Berlusconi, tessera 1816 della Loggia, entrò in politica per attuare il controllo dell’informazione e della magistratura previsto nel Piano di Rinascita democratica di Gelli. Le mazzette a politici e giornalisti si chiamano, nel Piano, «sollecitazioni».

È corruzione anche la sordità a quel che i cittadini invocano da decenni, nei referendum. Nel ’91 votarono contro una legge elettorale che consentiva ai partiti di piazzare nelle liste i propri preferiti. Nel ’93 chiesero l’abbandono del sistema proporzionale, che in Italia aveva dilatato la partitocrazia. Il 90.3 per cento votò nel ’93 contro il finanziamento pubblico dei partiti. I referendum sono stati sprezzati, con sfacciataggine. Il finanziamento è ripreso sostituendo il vocabolo: ora si dice rimborso. Da noi si cambia così: migliorando i sinonimi, non le leggi e i costumi.

Ma soprattutto, sono spesso svilite le battaglie dell’Italia migliore (antimafia, anticorruzione). Bisogna cadere ammazzati come Ambrosoli, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, per non finire nel niente. Le commemorazioni stesse sono subdole forme di oblio. Si celebra Ambrosoli, non la sua lotta contro Sindona, mafia, P2. Disse di lui Andreotti, legatoa Sindona: «È una persona che se l’andava cercando ». Fu ascoltato in silenzio, e non possiamo stupirci se l’ex democristiano Scajola, nel 2002, dirà parole quasi identiche su Marco Biagi, reo d’aver chiesto la scorta prima d’essere ucciso: «Era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza». Ci sono cose che, una volta dette, ti tolgono il diritto di rappresentare l’Italia.

Viene infine la dimenticanza pura, che dissolve come in un acido persone italiane eccelse. Tina Anselmi è un esempio. Gli italiani sanno qualcosa della straordinaria donna che guidò la commissione parlamentare sulla P2? È come fosse già morta, ed è commovente che alcuni amici la ricordino. Tra essi Anna Vinci, autrice di un libro di Chiarelettere sulla P2. Con Giuseppe Amari, la scrittrice ha appena pubblicato Le notti della democrazia, in cui la tenacia di Tinaè paragonataa quella di Aung San Suu Kyi. Altro esempio: Federico Caffè, fautore solitario di un’ economia alternativa ai trionfi liberisti, di rado nominato. Un mattino, il 15-4-87, si tolse di mezzo, scomparve come il fisico Majorana nel ’38. Anosognosia è la condizione di chi soffre un male ma ne nega l’esistenza: è la patologia delle nostre teste senza memoria.

La letteratura è spesso più precisa dei cronisti. Nel numero citato di Mercurio è evocato il racconto che Moravia scrisse nel ’44: L’Epidemia.

Una malattia strana affligge il villaggio: gli abitanti comincianoa puzzare orribilmente, ma in assenza di cura l’odorato si corrompe e il puzzo vien presentato come profumo.

Quindici anni dopo, Ionesco proporrà lo stesso apologo nei Rinoceronti. La malattia svanisce non perché sanata, ma perché negata: «Possiamo additare una particolarità di quella nazione come un effetto indubbio della pandemia: gli individui di quella nazione, tutti senza distinzione, mancano di olfatto ». Non fanno più «differenza tra le immondizie e il resto».

Ecco cosa urge: ritrovare l’olfatto, anche se «è davvero un vantaggio» vivere senza. Altrimenti dovremo ammettere che preferiamo la melma e i pifferai che secerne, alla «bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità». Il profumo che Borsellino si augurò e ci augurò il 23 giugno ’92, a Palermo, pochi giorni prima d’essere assassinato.

La Repubblica 18.04.12

"Bocciare costa. Eliminiamo l’esame di terza media?", di Pasquale Almirante

Sul sito del Pd un articolo pone il problema: se si applica il curricolo di istruzione obbligatorio verticale, continuo e progressivo di dieci anni, con l’esame di terza media non si concludono gli studi perché i nostri alunni devono ancora assolvere l’obbligo per altri due anni. E allora l’esame può essere eliminato. Una riforma che si può fare subito. “A che serve una licenza media oggi, quando il minimo che si richiede a un cittadino è la certificazione di un obbligo decennale? Gli insegnanti della scuola primaria e media potrebbero più semplicemente adoperarsi perchè i traguardi per lo sviluppo delle competenze – quelli di cui alla Indicazioni di Fioroni – venissero raggiunti o avvicinati, in funzione di quelle competenze che i loro colleghi del successivo biennio avranno cura di far acquisire e di certificare. Questa riforma semplice, si può fare subito.”
A queste conclusioni l’articolo sul sito del Pd arriva dopo avere esaminato sia il ruolo del docente, che non può essere considerato una sorta di sergente che elargisce pene e premi, e sia quello più in generale della scuola che non tiene conto della condizioni sociali in cui essa stessa opera.
La scuola deve essere il mezzo per la crescita individuale e collettiva della nazione, per cui, come suggerisce l’Ocse, bisogna investire in istruzione di qualità aumentando il tempo scuola ed evitando i danni della bocciatura, inutile e dannosa (ricordiamo un seminario promosso dall’And dal titolo:Perché mi bocci?), e che fa aumentare gli abbandoni.
Il successo scolastico dipende in larga misura dalle condizioni economiche e sociali, per cui la scuola cosiddetta “selettiva”, perpetua all’infinito l’immobilità sociale di cui è affetto il nostro Paese.
Anche la Fondazione Agnelli ha certificato che “il retroterra socio-economico e culturale è ancora una discriminante, sia in termini di accesso che di successo formativo”.
E aggiunge pure che se l’intera popolazione italiana conseguisse un diploma di scuola superiore, eliminando il fenomeno degli abbandoni scolastici, e se il paese riuscisse a fare buon uso di questa ulteriore dotazione di capitale umano, si produrrebbe un incremento del tasso di occupazione pari al 6,3% (circa 1.300.000 occupati in più) e un reddito aggiuntivo di 70,7 miliardi di euro per anno, pari a circa il 4% del PIL.
Se bocciare dunque, viola in qualche modo il compito che la Costituzione assegna alla scuola: il diritto di tutti al “pieno sviluppo della persona umana”, rimuovendo gli “ostacoli di ordine economico e sociale”, che limitano “la libertà e l’uguaglianza dei cittadini”, non bocciare deve essere sostituito con la valutazione delle competenze e, soprattutto, nel senso di prevenire i disagi; non bocciare “significa seguire il cammino di ogni studente attraverso sistemi relazionali adeguati, supportare le difficoltà, creare percorsi di valorizzazione e incentivo; tutto questo suppone una scuola migliore, con un organico funzionale, con risorse sufficienti, con un sistema complesso che metta insieme diverse necessità: un maggiore raccordo curricolare tra i due segmenti scolastici la formazione dei docenti, l’uso delle nuove tecnologie (quanti disagi nascondono semplicemente la richiesta di un rinnovamento della didattica?), un’architettura e un’urbanistica scolastica tutta da rifare e anche un nuovo patto famiglie-scuola.
Sono anni che parliamo di un curricolo di istruzione obbligatorio verticale, continuo e progressivo della durata di dieci anni e quindi con l’esame di terza media non si concludono gli studi perché i nostri alunni sono tenuti a proseguirli per l’assolvimento dell’obbligo per altri due anni. Quell’esame di terza media, che non conclude nulla da quando abbiamo innalzato a 16 anni l’obbligo scolastico, può essere eliminato.
A che serve una licenza media oggi, quando il minimo che si richiede a un cittadino è la certificazione di un obbligo decennale? Gli insegnanti della scuola primaria e media potrebbero più semplicemente adoperarsi perchè i traguardi per lo sviluppo delle competenze – quelli di cui alla Indicazioni di Fioroni – venissero raggiunti o avvicinati, in funzione di quelle competenze che i loro colleghi del successivo biennio avranno cura di far acquisire e di certificare. Questa riforma semplice, si può fare subito.”

La Tecnica della Scuola 18.04.12

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Bocciare costa

Il ruolo dell’insegnante non è quello del sergente di caserma che premia o punisce. L’Ocse invita l’Italia a investire in educazione di qualità per fermare la dispersione scolastica. Chi vede nel docente una sorta di sergente di brigata che boccia e premia, ha una visione della scuola forse poco adeguata alla società del terzo millennio.
Se si guarda alla scuola come leva per la crescita
individuale e del Paese, e non con gli occhiali deformati dell’ideologia, non si possono che condividere le indicazioni date dall’ Ocse al nostro Paese per dimezzare il tasso drammatico di dispersione scolastica entro il 2020: non è utile, ma forse
dannoso, bocciare gli studenti, occorre piuttosto investire in educazione di qualità sin dalla prima infanzia, aumentare il tempo scuola (sig!).
Bocciare non serve a migliorare: sappiamo che solo il 2 o 3% degli studenti avrà un beneficio reale dalla ripetizione di un anno scolastico, ma la maggior parte di essi finirà in quel 21% di drop-out che penalizza l’Italia, una vera zavorra che peserà sulle spalle di tutti noi, quando dovremo tentare di includere coloro che avremo perso per la strada, in modo senz’altro meno efficace e senz’altro più costoso dell’Istruzione.
Se la bocciatura non migliora i ragazzi, tanto meno finisce col premiare il merito. Chi sostiene che bocciare è un modo di selezionare, è convinto che “la scuola non è per tutti”.
Non si tiene conto, però, che questa supposta selezione è pesantemente falsata da una serie interminabile di fattori, a cominciare dalle origini economico sociali della famiglia di origine e dal contesto territoriale in cui si è nati che in Italia ancora oggi incide sia sul rendimento e sul successo formativo e scolastico, sia sulle scelte dopo la scuola secondaria di primo grado.
Difficile, insomma, pensare che si tratti davvero di una selezione per ‘merito’. La scuola “selettiva” non fa altro che perpetuare all’infinito l’immobilità sociale di cui è affetto il nostro Paese. Per riattivare l’ascensore sociale di cui abbiamo bisogno, chiediamo agli insegnanti di combattere per la scuola del “non uno di meno”.
La Fondazione Giovanni Agnelli ci dà indirettamente una risposta, quando nel suo Rapporto sulla Scuola in Italia 2010 premette che le pari opportunità di accesso all’istruzione secondaria e terziaria sono ancora ben lungi dall’essere garantite, e osserva che “il retroterra socio-economico e culturale è ancora una discriminante, sia in termini di accesso che di successo formativo”.

E prosegue: “I figli dei genitori laureati e provenienti da gruppi sociali più elevati, non solo sono meno affetti dal fenomeno degli abbandoni scolastici, ma si concentrano in precise filiere educative (i licei) (…) Chi ha un retroterra svantaggiato, invece, si orienta o viene indirizzato, con una forma di selezione negativa, verso percorsi formativi ad alto tasso di dispersione (…) I destini occupazionali dei ragazzi si divaricano e la mobilità sociale diventa un miraggio”.

Dovremmo chiederci infatti, senza alibi e coperture ideologiche, se bocciare non contribuisca a vanificare il compito che la Costituzione assegna alla scuola: quello di rendere concreta la democrazia, offrendo a tutti il diritto al “pieno sviluppo della persona umana”, rimuovendo gli “ostacoli di ordine economico e sociale”, che limitano “la libertà e l’uguaglianza dei cittadini”.

L’immobilità sociale ha un costo, e non solo in termini di ‘giustizia sociale’. Secondo gli stessi dati della Fondazione Giovanni Agnelli, se l’intera popolazione italiana conseguisse un diploma di scuola superiore, eliminando il fenomeno degli abbandoni scolastici, e se il paese riuscisse a fare buon uso di questa ulteriore dotazione di capitale umano, si produrrebbe un incremento del tasso di occupazione pari al 6,3% (circa 1.300.000 occupati in più) e un reddito aggiuntivo di 70,7 miliardi di euro per anno, pari a circa il 4% del PIL.
Ripetizione degli anni e dispersione sono strettamente connessi e rappresentano uno spreco di capitale umano rilevante, dunque.

Non bocciare non vuol dire, però, permissivismo e lassismo, né significa abbassare la qualità, anzi è esattamente il contrario.
Non bocciare significa valutare le competenze e, soprattutto, prevenire i disagi, significa seguire il cammino di ogni studente attraverso sistemi relazionali adeguati, supportare le difficoltà, creare percorsi di valorizzazione e incentivo; tutto questo suppone una scuola migliore, con un organico funzionale, con risorse sufficienti, con un sistema complesso che metta insieme diverse necessità: un maggiore raccordo curricolare tra i due segmenti scolastici la formazione dei docenti, l’uso delle nuove tecnologie (quanti disagi nascondono semplicemente la richiesta di un rinnovamento della didattica?), un’architettura e un’urbanistica scolastica tutta da rifare e anche un nuovo patto famiglie-scuola.
Sono anni che parliamo di un curricolo di istruzione obbligatorio verticale, continuo e progressivo della durata di dieci anni, condivido dunque quanto suggerito di recente da Maurizio Tirittico ad uno dei nostri Forum dedicato alla scuola media: con l’esame di terza media non si concludono gli studi perché i nostri alunni sono tenuti a proseguirli per l’assolvimento dell’obbligo per altri due anni. Quell’esame di terza media, che non conclude
nulla da quando abbiamo innalzato a 16 anni l’obbligo scolastico, puo’ essere eliminato.
A che serve una licenza media oggi, quando il minimo che si richiede a un cittadino è la certificazione di un obbligo decennale? Gli insegnanti della scuola primaria e media potrebbero più semplicemente adoperarsi perchè i traguardi per lo sviluppo delle competenze – quelli di cui alla Indicazioni di Fioroni – venissero raggiunti o avvicinati, in funzione di quelle competenze che i loro colleghi del successivo biennio avranno cura di far acquisire e di certificare. Questa riforma semplice, si può fare subito.

www.partitodemocratico.it

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“Via l’esame di terza media e poi?”, di Reginaldo Palermo

La proposta di Francesca Puglisi (PD) appare (in teoria) interessante, ma è davvero praticabile? E, soprattutto, è una cosa semplice semplice come lei sostiene? I nodi da sciogliere sono davvero molti, forse troppi.
Come spesso accade, la politica tende a semplificare un po’ troppo il dibattito sui problemi della scuola. E quando il dibattito è semplificato anche le soluzione che vengono proposte tendono ad essere un po’ approssimative.
E’ il caso dell’ultima sortita della responsabile scuola del PD Francesca Puglisi che sostiene che una riforma semplice semplice ma particolarmente efficace potrebbe essere quella di eliminare l’esame di stato di terza media spostandolo al compimento del 16° anno di età degli studenti e cioè – afferma Puglisi – a conclusione dell’obbligo scolastico.
Purtroppo la faccenda non è così semplice.
Intanto la collocazione dell’esame di stato è prevista da una norma costituzionale e cioè precisamente dal 3° comma dell’articolo 33 (“E’ prescritto un esame di Stato per la ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale”).
La strada da percorrere è dunque quella della revisione di una norma costituzionale che non sembra proprio una cosa semplice semplice.
Si dirà: l’abolizione dell’esame di quinta elementare non ha richiesto nessuna revisione della Costituzione. Certo, ma all’epoca della Moratti venne approvata una riforma che istituiva il I ciclo di istruzione comprendente scuola primaria e secondaria di primo grado, con un Pecup unico e così via.
Di conseguenza la scuola primaria cessò di essere ciclo scolastico autonomo con relativo esame di stato finale.
Spostare l’esame di terza media al termine dell’obbligo scolastico è ipotesi certamente suggestiva che in molti, anche all’interno del PD, condividerebbero.
Ma c’è un piccolo particolare: per fare questo senza cambiare la Costituzione bisognerebbe istituire un unico ciclo di “scuola dell’obbligo” che parte dal primo anno della primaria e si conclude nel momento in cui cessa l’obbligo.
E qui nasce il problema: nel concreto, al termine di quale classe si dovrebbe fare l’esame di Stato?
Non dimentichiamo, infatti, che la legge attuale prevede che l’obbligo di istruzione si possa assolvere anche nei percorsi di istruzione e formazione professionale e senza contare che il comma 8 dell’articolo 48 del decreto n. 183/2010 estende questa possibilità ai percorsi di apprendistato.
Insomma una bella complicazione, altro che “riforma semplice semplice”.
A meno che Puglisi non voglia proporre una soluzione ancora diversa: biennio unico per tutti (obbligatorio) dopo la terza media con esame di stato finale.
Questa sarebbe certamente una soluzione lineare, ma abbiamo qualche dubbio che sul piano politico la questione sia davvero semplice. Sull’ipotesi del biennio unico, che trova ampi consensi nel mondo sindacale e in settori significativi del centro-sinistra, si discute da almeno 15 anni, ma l’accordo ci sembra ancora molto lontano.

La Tecnica della Scuola 18.04.12

PD: Subito immediata e rigorosa riforma del finanziamento ai partiti

La Segreteria nazionale del PD ha stabilito tre criteri fondamentali per la Riforma: contenimento dei costi di tutte le campagne elettorali; ridurre, da subito, la quota di contributo pubblico per le elezioni nazionali, europee e regionali; la possibilità di un autofinaziamento diffuso con un tetto non valicabile, secondo modelli europei, in particolare quello tedesco. La Segreteria nazionale del Partito democratico, riunitasi questa mattina, ha affrontato il tema della indispensabile e indifferibile riforma del finanziamento pubblico dei partiti.

La giusta difesa del finanziamento della politica proprio di ogni sistema democratico non può reggersi sul mantenimento della legge in vigore, che non prevede controlli stringenti, sanzioni vere e che presenta punti oggettivi di discutibilità sul piano delle quantità e dei riscontri. In questo contesto la Segreteria nazionale del PD ha delineato un percorso per giungere in tempi brevissimi a dare risposte concrete e aprire una nuova fase.

In particolare, il PD, che dal suo atto di nascita ha fatto certificare il bilancio da una società di revisione esterna, si sta attivando in queste ore per approvare subito in Parlamento una legge sulla trasparenza e su rigorosi controlli dei bilanci dei partiti, con particolare attenzione a sanzioni certe e pesanti. Quelle forze politiche, a partire dalla Lega Nord, che si opponessero a tale riforma basilare, si assumerebbero la grave responsabilità di impedire che venga posto una prima forte correzione all’opacità dei bilanci e alla possibilità di comportamenti deviati che purtroppo caratterizzano la vita interna di troppi partiti.

Fino a quando non saranno stati approvati definitivamente norme rigorose e stringenti su trasparenza, controlli e sanzioni, il PD ritiene che debba essere sospesa la rata di finanziamento pubblico prevista per il prossimo luglio.

In parallelo, la Segreteria del Pd ritiene indispensabile e urgente che sia avviata la riforma del finanziamento pubblico alla politica, secondo modelli europei ( riparametrati alle condizioni economiche e della finanza pubblica in Italia), e che questa riforma sia inserita nella legge di applicazione dell’art. 49 della Costituzione sui partiti, in calendario alla fine di maggio.

Questa è la sede per rimettere a fuoco la funzione cruciale delle organizzazioni politiche, per regolamentare la loro vita democratica interna e per ridefinire quantità e modalità di sostegno finanziario pubblico alla loro attività.

Per il PD i criteri fondamentali della riforma sono:

1) per una ancora più efficace moralizzazione della vita pubblica, devono essere approvate norme specifiche per il contenimento dei costi di tutte le campagne elettorali; a questo riguardo, devono essere stabiliti tetti massimi alle spese sia per le campagne elettorali nazionali che locali; devono essere preventivamente depositate presso la magistratura, nonché pubblicate sui siti web, le dichiarazioni riguardanti i fondi raccolti, la loro provenienza e le spese sostenute; deve essere approvata una rigida regolamentazione di tutte le forme di propaganda elettorale le quali, nel rispetto della parità di condizioni tra le forze politiche, siano contenute nei limiti di una normale ed esaustiva informazione elettorale.

2) Deve essere ulteriormente e significativamente ridotta, da subito, la quota di contributo pubblico per le elezioni nazionali, europee e regionali, la quale deve essere restituita alla funzione originaria: un contributo cioè alle spese in occasione di ciascuna elezione.

3) Alla base del finanziamento deve esserci la libera contribuzione da parte di singoli cittadini o associati, la possibilità cioè di un autofinaziamento diffuso con un tetto non valicabile, secondo modelli europei, in particolare quello tedesco.
Il PD si impegna, nel Parlamento e nel Paese, a promuovere e sostenere in tempi strettissimi una riforma seria, incisiva e responsabile dell’organizzazione della politica e del finanziamento pubblico e a questo fine decide di promuovere nelle prossime settimane anche una diffusa e ampia campagna di ascolto, informazione e mobilitazione politica.

Nell’immediato, il PD ha deciso nella riunione della segreteria di oggi, su proposta del Tesoriere Antonio Misiani e del responsabile comunicazione Stefano Di Traglia, di tagliare il 30 per cento delle spese previste in occasione della campagna elettorale per le amministrative del 6/7 maggio e poi del ballottaggio.

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Stragi naziste, Dassù “Niente illusioni, ma si apra la trattativa”

Il sottosegretario agli esteri ha risposto all’interrogazione dei parlamentari modenesi Pd. Il ministro Terzi ha già scritto al collega tedesco per avviare la trattativa sul risarcimento ai famigliari delle vittime delle stragi naziste. Lo ha annunciato il sottosegretario agli esteri Dassù rispondendo a una interrogazione presentata, contemporaneamente alla Camera e al Senato, dai parlamentari modenesi, primo firmatario l’onorevole Ivano Miglioli. Ma niente illusioni, avverte la Dassù, la Germania non sembra intenzionata ad accettare formule di indennizzo ad personam, più probabili forme di riparazione rivolte verso le comunità.

Già all’indomani della sentenza della Corte internazionale di giustizia dell’Aja, il ministro degli Affari esteri Giulio Terzi aveva scritto al collega tedesco Westerwelle per confermare l’interesse del Governo italiano ad aprire un negoziato bilaterale per risolvere le questioni rimaste ancora pendenti. L’Italia, insomma, ha già fatto i passi necessari affinché si possa discutere dei risarcimenti ai famigliari delle vittime dei crimini nazisti nonostante la Corte dell’Aja abbia accolto il ricorso della Germania contro il nostro paese per violazione del diritto all’immunità stabilita dalla normativa internazionale. La notizia è contenuta nella risposta che il sottosegretario agli Affari esteri Marta Dassù ha dato alla interrogazione presentata in proposito, in contemporanea alla Camera e al Senato, dai parlamentari modenesi del Pd (i senatori Barbolini e Bastico, i deputati Miglioli, Ghizzoni, Santagata e Garavini), primo firmatario il deputato Ivano Miglioli. L’interrogazione prendeva le mosse dalle attese dei famigliari delle vittime della strage di Monchio, Susano, Costrignano e Savoniero. Il ministro Terzi ha già avviato il processo di consultazione delle organizzazioni rappresentative delle vittime e pure la diplomazia parlamentare si è messa al lavoro, tanto che si è già tenuto un incontro dell’Unione interparlamentare tra Germania e Italia e altri incontri sono programmati per i prossimi mesi. Non si devono coltivare, però, troppe illusioni, è lo stesso sottosegretario a ribadirlo: “Il rispetto che dobbiamo alle vittime e a quanti sono sopravvissuti all’internamento e alle stragi impone onestà e chiarezza. – ha detto la Dassù – Le indicazioni che sono emerse dai negoziati condotti con la Germania negli anni precedenti il contenzioso davanti alla Corte internazionale di giustizia inducono a non coltivare illusioni circa l’accettazione da parte tedesca di formule di indennizzo ad personam, mentre potrebbe risultare più praticabile la strada di formule diverse di riparazione rivolte alle comunità (si pensi all’impegno della Germania nella ricostruzione di Onna, frazione de L’Aquila distrutta dal terremoto, teatro nel 1944 di una strage nazista) e/o a coltivare la memoria di quel tragico passato tra le generazioni più giovani”. Ma questo non fermerà l’Italia, ha assicurato il sottosegretario, perché “il ministero degli Esteri intende comunque portare avanti con determinazione la trattativa con la Germania”. “Siamo soddisfatti della sollecitudine con cui il sottosegretario ha risposto alla nostra interrogazione. – commenta l’on. Miglioli – Ci rendiamo conto della complessità dell’intervento e delle scarse possibilità che si possa arrivare a dei risarcimenti ad personam. Siamo, comunque, convinti che pure riconoscimenti morali e alla comunità possono rappresentare un valore sia per chi quegli anni li ha vissuti e ne porta ancora i segni sia per i giovani che, invece, devono portare avanti un impegno a non dimenticare”.

"Niente "tassa sul merito". Dopo la rivolta dei borsisti salvi gli assegni di ricerca", di Flavia Amabile

Dottorandi, specializzandi e altri titolari di borse di studio hanno tirato un respiro di sollievo ieri quando dopo giorni di comunicati e dichiarazioni allarmistiche, iniziato l’esame del decreto fiscale alla Camera il governo ha approvato un emendamento cancellando le tasse sulle borse di studio di qualsiasi entità. Tutto come prima, facciamo come se nulla fosse, insomma. Ma non è così, e nella confusione di una settimana di allarmi via Web sempre più concitati a rimetterci in immagine è stato innanzitutto il governo. In molti infatti sono rimasti perplessi: è possibile che proprio il governo dei tecnici abbia messo la firma su quella che è stata definita la «tassa sul merito»? Le cose sono andate diversamente, spiega il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo. «Fin dall’inizio come ministero abbiamo lavorato per far cadere questa misura che andava a colpire la ricerca e la qualità di chi se ne occupa. II governo non è mai stato coinvolto. Si è trattato di un emendamento di cui non sapevamo nulla e, quando abbiamo saputo, c’è stata immediatamente una presa di posizione negativa con un parere scritto».

La misura, infatti, è il frutto di un emendamento, il 3143, scritto da due senatori dell’Svp, Helga Thaler Ausserhofer e Manfred Pinger. E’ stata parzialmente corretta da Mario Baldassarri, presidente della commissione Finanze del Senato, che ha introdotto un limite di 11.500 euro al di sotto del quale l’esenzione era ancora valida. I redditi al di sopra di questa cifra però dovevano essere tassati hanno deciso i senatori, e così il testo del ddl è arrivato alla Camera. Il tentativo dei senatori della Svp era di eliminare differenze tra le borse di studio di dottorandi e specializzandi, dei medici in formazione specialistica e dei corsisti in medicina generale fmo ad allora non tassate, e altre del mondo sanitario che ammontano a 7-800 euro, su cui il Fisco preleva la sua aliquota. Al grido di «basta ai privilegi!» è stata, quindi, unificata l’intera materia. E invece era solo un gran pasticcio, come hanno confermato le proteste delle associazioni di categoria e la pioggia di emendamenti presentati da tutte le forze parlamentari quando hanno capito che cos’era stato approvato. Ieri, quindi, in commissione Finanze della Camera si è cercato di correre ai ripari. Il Pdl ha presentato un emendamento che ha cancellato totalmente la tassazione. «Si trattava di un ingiusto e inaccettabile prelievo fiscale aggiuntivo a carico di alcune categorie di giovani medici – spiega Domenico Di Virgilio, vicepresidente del gruppo parlamentare Pdl alla Camera – che avrebbe pesato su borse di studio di per sé già molto esigue». Anche l’ex ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini ha parlato di una «vittoria del buon senso». Manuela Ghizzoni, capogruppo Pd in commissione Cultura e Istruzione alla Camera oltre alla soddisfazione ricorda che un problema però esiste e va affrontato: «Rimane aperto il tema della distinzione tra attività di studio e rapporti di lavoro nel campo della ricerca: per le prime è necessario chiarire che le borse di studio, in tutti i settori, non devono essere sottoposte a tassazione. Per chi invece svolge un’attività di lavoro si deve giungere a una figura unitaria di contratto di ricerca». Nei prossimi giorni il Pd vuole presentare una sua proposta. Andrea Sarubbi del Pd è stato il primo politico a lanciare l’allarme sui social network e a firmare un emendamento alla Camera per chiedere la cancellazione della tassa. «Per fortuna i giovani e i diretti interessati sono intervenuti e hanno permesso di cancellare una misura che avrebbe penalizzato il loro valore e le loro ricerche».

"Lavoro, donne più a rischio", di Manola Di Renzo

L’Italia ha la percentuale più bassa, rispetto agli altri paesi europei, di partecipazione delle donne al mercato del lavoro. La crisi economica che il nostro paese sta attraversando influisce pesantemente sull’occupazione femminile. Anche i dati presentati dalla Banca d’Italia mostrano un crollo dei redditi familiari, in particolare nei nuclei più poveri, e con a capo un componente femminile; si aggiungono a questi i numeri resi noti con il bollettino mensile della Banca centrale europea. Secondo la Bce: «le condizioni nei mercati del lavoro dell’area dell’euro continuano a deteriorarsi e le indagini congiunturali anticipano un ulteriore peggioramento nel breve termine», di conseguenza un ulteriore aumento del tasso di disoccupazione, che in Italia rischia di tradursi anche in una diminuzione dell’occupazione femminile.

La riforma del lavoro proposta dal governo sembra presentare scarsi benefici alle aziende, piuttosto potrebbe portare a un aumento del costo del lavoro, ma non solo. Quando si parla di integrazione della donna nell’impresa, si dovrebbe tenere conto dei molteplici ruoli che ricopre nei diversi ambiti di vita. La donna impegnata in duplici ruoli, lavoratrice, mamma, moglie ecc., pur di proteggere il posto di lavoro è costretta a crearsi una rete privata di supporti e di aiuti, cercando di coinvolgere le persone più vicine: familiari, parenti, amici. I dati diffusi recentemente dall’Istat presentano una diminuzione della propensione al risparmio, dovuta a una riduzione del potere di acquisto delle famiglie, facendo notare come è sempre più difficile attivare ruoli all’interno della famiglia di ammortizzatore sociale; dunque non è certo questo il sistema per andare avanti, servono modelli di supporto organizzati soprattutto a livello sociale. La situazione facilmente peggiorerà, le nuove riforme fiscali ed economiche, porteranno gli enti pubblici a rivedere i fondi da destinare a sussidio della collettività, come ad esempio, servizio bus per gli scolari, asili nidi, scuole a tempo pieno, attività per gli anziani e i disabili ecc.. in queste condizioni sicuramente molte donne avranno difficoltà a rimanere attive nel mercato del lavoro, molte saranno costrette a rinunciare ad un impiego. Il Cnai ripete che sistemi a tutela dell’occupazione femminile non possono essere attivati solo dalla stessa lavoratrice o dall’impresa, ma è necessaria una coordinata politica di welfare. Serve innovazione e un’attiva, sempre maggiore partecipazione delle istituzioni pubbliche. Occorre un sistema politico che si prenda la responsabilità di effettuare un cambiamento radicale, strutturale. Nella condizione attuale sembra veramente arduo poter rispettare il programma «Italia 2020» sull’inclusione della donna nel mercato del lavoro, presentato lo scorso anno dal ministero del lavoro e quello delle pari opportunità. Ricordo che si tratta di un piano strategico di azione per la conciliazione dei tempi di lavoro con i tempi dedicati alla cura della famiglia e per la promozione delle pari opportunità nell’accesso al lavoro. Il presidente del Cnai Orazio Di Renzo ha commentato con una battuta, «se le riforme continuano a far pressione sulle imprese e a tagliare i contributi alle famiglie e la crisi economica peggiora, forse per quella data non ci sarà più un programma, saranno solo state belle parole e tanta illusione per chi continua a credere nell’uguaglianza della donna nel mondo del lavoro».

da ItaliaOggi 17.04.12