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"Verità e rispetto il dovere degli stati verso le vittime" Vladimiro Zagrebelsky

Ha suscitato emozione e persino indignazione la sentenza della Corte di Assise d’appello di Brescia nella parte in cui, assolvendo gli imputati della strage di Piazza della Loggia, condanna i familiari delle vittime, costituiti parte civile, a pagare le spese processuali. La gravità del fatto oggetto del processo – ed anche il suo inserimento in una serie di vicende analoghe per natura e per esito processuale – spiega la reazione ed anche l’iniziativa del governo per porre rimedio a quello che è sentito come un aspetto particolarmente ingiusto della sentenza. Una prima impressione potrebbe collocare questa reazione esclusivamente sul piano delle sensibilità morali. Già, se così fosse, si tratterebbe di questione grave. Ma v’è di più. Il rispetto per le vittime (qui sono vittime i familiari di coloro che vennero uccisi) è un dovere giuridico dello Stato, che assume molte forme. Qui non si tratta di un fatto riducibile alla sua dimensione patrimoniale, ma del possibile conflitto con obblighi che lo Stato ha assunto ratificando trattati internazionali in materia di diritti umani fondamentali. Mi riferisco al Patto dei diritti civili delle Nazioni Unite e soprattutto alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Entrambi i trattati impongono agli Stati di proteggere la vita delle persone e di impedire che esse siano vittime di torture o di trattamenti inumani. E l’obbligo dello Stato si estende, dopo che fatti di quel genere si siano verificati, al dovere di svolgere indagini efficaci per identificare e punire i responsabili assicurando alle vittime la possibilità di partecipare alle indagini, esserne informate e ricevere, se possibile, adeguata soddisfazione.

Un tal obbligo, che si dice «procedurale» non per sminuirne l’importanza, ma solo per distinguerlo da quello «sostanziale» di non uccidere e non torturare, è particolarmente grave quando sia messa in discussione la responsabilità di organi dello Stato nella commissione dei fatti o nella copertura dei responsabili. Ed è questo il caso nelle vicende legate alle stragi commesse in quella che è stata chiamata la «strategia della tensione». Lo stesso discorso, riferito all’obbligo dello Stato italiano di indagare e punire, va fatto anche per quel che riguarda il comportamento di forze di polizia nella scuola Diaz a Genova. Ma di ciò occorrerà discutere quando le sentenze saranno definitive. Per ora va solo detto che contro l’Italia pende già un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. E proprio la Corte europea ha ieri pubblicato una sentenza che riguarda i diritti delle vittime. Si trattava di uno degli episodi più bui della guerra in Europa: l’uccisione di oltre 20.000 prigionieri di guerra polacchi nelle foreste di Katyn. Il 1˚ settembre del 1938 le truppe naziste invasero la Polonia. Qualche settimana prima l’accordo Molotov-Ribbentrop aveva previsto la spartizione della Polonia tra la Germania nazista e la Russia sovietica. E il 17 dello stesso mese le truppe sovietiche entrarono nel territorio polacco. Ne seguì l’annessione di parte della Polonia all’Urss e 13 milioni di polacchi divennero cittadini sovietici. 250.000 polacchi vennero presi prigionieri. Nel 1940, 21.857 di essi, in gran parte ufficiali dell’esercito, vennero uccisi per esplicito ordine di Stalin e del Politburo sovietico. La conferma di quella responsabilità è venuta dai documenti pubblicati dal governo russo dal 1990, da ammissioni dei nuovi dirigenti russi ed anche da una dichiarazione ufficiale della Duma russa nel 2010. Ma per lungo tempo le autorità sovietiche (e, al seguito, quelle comuniste polacche) attribuirono la responsabilità del massacro ai nazisti. Le indagini sulle responsabilità vennero svolte dalle autorità russe solo dopo la caduta del sistema sovietico, ma si conclusero nel nulla, con una decisione di archiviazione del 2004, di cui i familiari delle vittime ancora non hanno potuto avere conoscenza. L’indagine della Procura Militare è stata segretata e vi sono affermazioni di giudici russi che lasciano addirittura aperta l’ipotesi che questa o quella vittima sia in realtà «scomparsa».

Ad una presa di posizione di accettazione della responsabilità politica di Stalin e del partito comunista, non ha fatto seguito, rispetto alle singole vittime, un’attività concreta ed efficace di chiarimento dei fatti, offerta di tutte la informazioni possibili, ricerca dei corpi, riparazione.

L’interesse della sentenza della Corte europea (non definitiva, poiché certo sarà appellata dal governo russo) risiede nel fatto che la Corte ha ritenuto che il comportamento delle autorità russe nei confronti delle vittime (i familiari degli uccisi), ha costituito un trattamento inumano, vietato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte non ha potuto esaminare il fatto in sé della strage, né la mancanza di indagini efficaci sulle responsabilità di singole persone, poiché tutto si è svolto prima che la Russia, nel 1998, ratificasse la Convenzione. Ma in questo come in altri precedenti casi, ha affermato che l’inerzia, il distacco burocratico, la reticenza, il rifiuto di considerare le legittime richieste delle vittime costituiscono una violazione grave, «inumana» dei diritti delle vittime.

Tutte le vicende sono diverse l’una dall’altra e questa storica della strage di Katyn è difficilmente comparabile ad altre, ma le vittime e i familiari delle vittime hanno tutti, allo stesso modo, diritto ad un rispetto effettivo da parte dello Stato. Anche quelle delle stragi che hanno insanguinato per anni la politica e le vite degli italiani.

La Stampa 17.04.12

"Dire stop ai tagli non basta!", di Pippo Frisone

Prima la buona notizia, contenuta nel decreto semplificazioni: stop ai tagli degli organici docenti e conferma delle 600.000 cattedre del 2011/12. Nessun posto in più ma neanche in meno, dopo gli 87mila posti sottratti alla scuola dal duo Tremonti-Gelmini, con l’art.64 della L.133/08 . Altri 2.200 erano i nuovi tagli previsti per il 2012/13 nella primaria e nella secondaria superiore per trascinamento dei nuovi ordinamenti, voluti dalla Gelmini.

Poi, le prime sorprese contenute nelle tabelle allegate allo schema di D.I. sugli organici 2012/13.

Si, perché un conto sono i dati sugli organici a livello nazionale , un altro è l’andamento degli organici a livello regionale o provinciale.

Il primo dato da cui partire è lo sviluppo della popolazione scolastica che ha un dato nazionale in forte crescita con oltre 9.000 alunni in più. Mentre nel Mezzogiorno continua il trend negativo degli ultimi anni, nelle regioni del centro Nord (Piemonte,Lombardia,Veneto ma anche Toscana e Emilia Romagna) si registra anche per il 2012/13 una costante crescita.

Mantenere gli organici dell’anno precedente come fa il Governo, in presenza di 9000 alunni in più, determina di fatto un oggettivo impedimento all’attivazione di tutte le classi necessarie.

Mantenere gli organici dell’anno precedente, spostando posti dalle regioni meridionali, dove la popolazione scolastica decresce alle regioni settentrionali, non basta e tuttavia non risolve il problema, in quanto l’aumento complessivo di 9000 alunni rimane senza copertura di nuovi posti aggiuntivi.

Non incrementare gli organici significherebbe non garantire per il prossimo anno il tempo pieno e l’offerta formativa esistente, formare classi pollaio a rischio sicurezza, inserimento di più alunni disabili in classi fino a 25 e via peggiorando.

Di ciò se n’è accorto anche il Direttore Generale della Lombardia che in data 11.4.12 ha preso carta e penna ed ha chiesto al Ministero un incremento di almeno 400 posti a copertura dell’incremento di 5.700 alunni nella primaria!

L’organico della primaria assegnato dal Miur è invece di 33.821 nel 2012/13 con appena 10 posti in più sul 2011/12 !!

Il giorno dopo , quasi a voler rimarcare l’emergenza organici in Lombardia, viene avanzata un’ulteriore richiesta , questa volta complessiva per tutti gli ordini di scuola di 600 posti, per gli oltre 11mila studenti in più sul 2011/12.

Un atto dovuto, necessario quello del Direttore Regionale “ al fine di garantire il mantenimento dell’offerta formativa esistente e di consentire l’attivazione di nuove classi per riassorbire l’incremento di alunni”.

Prendiamo atto e apprezziamo le due significative richieste del Direttore.

A dire il vero, analoga tempestività e determinazione ce le saremmo aspettate anche nei confronti dell’ex Min.Gelmini quando in Lombardia, nonostante l’aumento degli alunni, venivano tagliati oltre 9mila posti nel triennio 2009/12 !!!

Poi è arrivato il governo dei tecnici ma questa è un’altra storia.

Ma tant’è, l’importante è che in difesa della scuola pubblica si sia cominciato a voltare pagina a Roma ma anche in Lombardia.

da ScuolaOggi 16.04.12

"L'unica risposta all'antipolitica", di Carlo Galli

La democrazia in Italia è già sotto stress: non corre il rischio di esserlo. Questa è la notizia. Non buona. Oltre che da una crisi economica finora indomabile, la democrazia è messa a dura prova da una delegittimazione dei partiti e dell´intera sfera politica. Se il detonatore è stata la vergognosa caduta della Lega nel familismo amorale in salsa padana, ciò che è esploso era già di per sé una polveriera: ovvero, la controversa materia del finanziamento pubblico dei partiti. Di questo in verità si tratta, sotto le mentite spoglie del rimborso delle spese elettorali – un travestimento reso necessario dall´esigenza di bypassare la volontà espressa dal popolo sovrano in un referendum – , che ha portato nelle casse dei partiti, in diciotto anni, 2,3 miliardi di euro. Una somma molto superiore alle effettive spese elettorali, grazie alla quale si sono mantenuti apparati, giornali, raggruppamenti politici fittizi o estinti, oltre che famiglie eccellenti e tesorieri creativi.
Dunque i punti sono due: da un lato, la quantità eccessiva di rimborsi; dall´altro, l´opacità dell´erogazione e della gestione di ingentissime somme di denaro pubblico, affidate – in pratica discrezionalmente – a soggetti (i partiti) dall´incerto status giuridico (entità private non regolate da una legge che ne disciplini la democrazia e la trasparenza della vita interna). Il potenziale inquinante di questa massa di denaro incontrollata è altissimo; Margherita e Lega lo dimostrano.
E l´effetto delegittimante di queste prassi dovrebbe essere percepito da tutti, soprattutto dai politici.
Nessuno escluso. Perché se è vero che non tutti i partiti hanno distratto il pubblico denaro per le private finalità di qualche dirigente; se è vero che la trasparenza dei bilanci è diversa (su base volontaria) da partito a partito; se è vero che alcuni partiti cercano fonti di finanziamento anche e soprattutto nelle contribuzioni volontarie di militanti e di simpatizzanti; è anche vero che tutti i partiti hanno percepito quel pubblico denaro in quantità smodata, e che tutti i partiti definiscono “antipolitica” quello che, originariamente, è invece legittimo sdegno dei cittadini davanti all´evidenza che i sacrifici, in questo Paese, si fanno a senso unico. Il sistema politico largheggia verso se stesso, o almeno è più leggero nei tagli, mentre è severo (in certi casi fino alla spietatezza) con i cittadini.
A ciò si aggiunga che piove sul bagnato, che il discredito si aggiunge al discredito. Questo sistema politico, infatti, è non solo costoso e inquinato ma anche inefficiente: ha dato tanto buona prova di sé da dover affidare l´Italia a un gruppo di tecnici perché tentino (con tutti i limiti della loro azione) di non farla precipitare nel burrone sul cui orlo l´ha condotta la cattiva politica dei partiti. Il sistema politico non è un innocente capro espiatorio del malumore e della rabbia dei cittadini. Ha responsabilità gigantesche: se non giudiziarie, politiche.
L´antipolitica, quindi, nasce – ed è pericolosissima – come reazione alla mancata risposta politica (e non ragionieristica, venata di sufficienza, o di spirito didascalico e paternalistico) dei partiti alle domande, tutte politiche e tutte legittime, degli italiani: “Perché vi attribuite tanto denaro?”, “perché non vi sottoponete a controlli seri e severi?”, “come giustificate la spesa che la collettività sostiene per voi?”. La risposta a queste domande non può essere solo che i partiti sono indispensabili alla democrazia e che quindi vanno in qualche modo finanziati per evitare che la politica cada nelle mani dei ricchi (il che, oltre tutto, è avvenuto, nonostante gli abbondanti trasferimenti di pubblico denaro alle forze politiche). Perché certamente è giusto che la democrazia sia un costo; ma deve essere anche un buon investimento – oculato, controllato, ed equilibrato per quanto riguarda il rapporto costi/benefici -. La democrazia deve “rendere”, in termini di qualità della vita associata, di efficienza e di trasparenza decisionale, e al tempo stesso di apertura della politica sulla vita reale dei cittadini.
Non le prediche ma la politica è la vera risposta all´antipolitica. Il primo passo è il riconoscimento che l´antipolitica dei cittadini nasce dalla pessima politica dei partiti. E il secondo è un operoso ravvedimento: una riforma rapida, severa e inequivocabile dei rimborsi, che ne limiti molto l´entità e li sottoponga a controlli inesorabili. Il terzo, sarebbe ricominciare a pensare in grande; a conoscere e progettare la società italiana. Non è chiedere troppo. È esigere il giusto.

La Repubblica 17.04.12

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“ABC in trincea sui finanziamenti”, di Fabrizia Bagozzi

«No alla politica delle lobby». Oggi l’aula decide se accelerare. Alla fine sarà l’aula di Montecitorio, questo pomeriggio, a decidere se la proposta di legge ABC sul controllo e la trasparenza dei bilanci dei partiti sarà discussa dalla commissione affari costituzionali in sede legislativa, inforcando così il binario più veloce, visto che se ci fosse il via libera, la partita si potrebbe addirittura chiudere alla camera entro la settimana.
Come da regolamento, la proposta è arrivata dal presidente della camera Gianfranco Fini, su richiesta della maggioranza che ha elaborato il testo e che spinge per approvarlo al più presto. Nell’alternativa fra un processo che si sarebbe giocato tutto all’interno della commissione e una valutazione per così dire apertis verbis, pubblica e solenne, attorno all’accelerazione nell’approvazione di un provvedimento così delicato per la politica in questa fase, si è deciso dunque per la seconda. Un modo – anche – per rendere esplicite le diverse posizioni politiche su un tema a cui l’opinione pubblica è oggi molto sensibile.
Lo dice chiaramente il presidente dei deputati di Fli, l’ex radicale e finiano di ferro Benedetto della Vedova: «È chiaro che, se diranno di no, le forze politiche dovranno assumersi la responsabilità e spiegare ai loro elettori che vogliono ritardare l’applicazione della normativa». In aula si vota per alzata di mano. Per bloccare la procedura di assegnazione alla commissione in sede legislativa è sufficiente che il governo o un decimo dei componenti dicano di no.
I numeri sono presto fatti: basta il voto contrario di 63 deputati. Solo con i leghisti (59) e i Radicali (6) si arriva già a 65. Ma i Radicali, storicamente titolari della battaglia per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti (in autunno faranno partire la raccolta firme per il referendum) lasciano aperto uno spiraglio.
Spiega infatti Maurizio Turco che, al di là del merito che sarà ampiamente discusso, per loro si può fare ma a condizione che «siano garantiti tempi congrui al dibattito e, soprattutto la diretta televisiva delle dichiarazioni di voto finale, sulla stessa rete e con gli stessi tempi delle “grandi” questioni».
Di Pietro ha già fatto sapere che il punto non è il metodo, anzi, ma il merito. Dunque non dovrebbe mettersi di traverso, pur senza smettere di suonare la grancassa della restituzione della tranche di luglio (l’Idv ha già detto che girerà a Fornero 4 milioni degli 11 che gli spettano), del dimezzamento dei rimborsi e della conseguente campagna referendaria.
Il punto è la Lega, che ha rinunciato ai rimborsi di luglio e che pur travolta da inchieste giudiziarie che aprono ogni giorno scenari nuovi (ieri erano gli acquisti di diamanti per 400mila euro), ha ribadito il suo no, intimando ai suoi di essere tutti presenti in aula. Intanto, nella relazione che accompagna la loro proposta di legge Bersani, Alfano e Casini chiariscono una volta per tutte che cosa pensano a proposito di finanziamenti pubblici: cancellarli del tutto «sarebbe un errore drammatico, che punirebbe tutti allo stesso modo, compresi coloro che in questi anni hanno rispettato scrupolosamente le regole. E che metterebbe la politica completamente nelle mani delle lobbies, centri di potere e di interessi particolari». Il tema, allora, non è cancellare, ma ridefinire. Cosa che avverrà nell’ambito dell’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, già all’esame della commissione affari costituzionali, in aula a fine maggio.
Nel frattempo, la legge ABC con verifiche stringenti e massima trasparenza sulla gestione dei rimborsi. Un anticipo per cominciare ad arginare quell’ondata di antipolitica che, spiegava il segretario dem domenica, va contrastata con la buona politica.

da Europa Quotidiano 17.04.12

"Perchè l'Ungheria spaventa l'Europa", di Adriano Sofri

Se l’Italia delle lauree non ride, l’Ungheria piange a dirotto. La sua nuova Costituzione, il principale colpo di mano della “maggioranza introvabile” di Viktor Orbán, porta in calce la firma del presidente Pál Schmitt, dimesso dopo che gli è stato revocato il dottorato dalla facoltà di educazione fisica: aveva copiato 197 pagine su 215 della sua tesi. Ora è una gara a frugare negli archivi per scovare reciproche false lauree. Oggi Orbán proporrà il suo candidato alla successione, i nomi che corrono sono quelli di János Ader, già presidente del Parlamento, o di József Szájer, ligi parlamentari europei. Gáspár Miklos Tamás, autorevole professore di filosofia spedito anzitempo in pensione – a 62 anni, con altre migliaia, compresi 200 giudici, da una specie di epurazione governativa – si è augurato una Presidente donna, e tanto meglio se zingara e lesbica: e non scherzava.

Ci sono paesi segnati da un vittimismo nazionale: la Serbia, per esempio. Ce ne sono altri attraversati da una quantità di vittimismi, ciascuno dei quali ha qualche buona ragione. È il caso della Polonia, e del paese a lei più affine, mi pare, nonostante la lingua, l’Ungheria. Vi si sono accumulate le sopraffazioni come in certe ripide stratificazioni geologiche.

Strade e piazze cambiano nome tante volte, statue vengono abbattute e rimesse in auge.

La destra ungherese di oggi avverte, come già la Polonia di trent’anni fa, che l’Europa occidentale «non può capire». Si dichiara figlia della rivoluzione del 1956 contro la sinistra, compresa quella sinistra libertaria che alla rivoluzione del 1956 si ispirò. Apre la sua nuova Costituzione con parole di orgoglio nazionale: «Noi siamo fieri che il nostro re Santo Stefano abbia edificato lo Stato ungherese su solide fondamenta e abbia reso il nostro paese parte dell’Europa Cristiana mille anni fa. Siamo fieri dei nostri avi che si batterono per la vita, la libertà e l’indipendenza del nostro paese. Siamo fieri…». Si può andar fieri, naturalmente. Il confronto consola affabilmente: «L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro». Non c’era molto di cui andar fieri, nell’Italia del 1945. L’Ungheria, che ha pagine nazionali così belle, perse nel giro di mesi del 1944 seicentomila suoi concittadini, ungheresi di origine ebraica: tanti quanti i morti italiani nella Prima Guerra, e la popolazione italiana del ’15 era più che doppia.

Oggi i cittadini ungheresi di origine ebraica sono centomila, e a Budapest vive la terza comunità europea per numero, tra i 70 e gli 80 mila. L’Ungheria del 1944 era occupata dai nazisti tedeschi, ma l’impegno delle Croci frecciate e della burocrazia ungherese nel piano di sterminio di Eichmann fu fanaticamente devoto. Ricevendo il premio Nobel, nella Svezia di Raoul Wallenberg, lo scrittore Imre Kértesz ricordò questa Ungheria feroce e servile.

Kertész vive a Berlino, ed è la bestia nera della destra ungherese. Un altro importante scrittore, l’ottantenne Akos Kértesz, premio Kossuth, dopo aver pronunciato giudizi durissimi sull’indisponibilità del paese a misurarsi col proprio passato ed essersi visto revocare la cittadinanza onoraria di Budapest, ha “scelto” un mese fa di andare a chiedere asilo a Montreal. È delicato proclamarsi orgogliosi di qualcosa senza ricordarsi di vergognarsi di qualcos’altro. Il4 aprile un deputato del partito fascista Jobbik, Zsolt Barath, ha risuscitato in Parlamento la famigerata accusa di omicidio rituale di una quattordicenne cristiana, mossa nel 1882a 15 ebrei del villaggio di Tiszaeszler. Era troppo, anche per il partito di governo. Lo scorso febbraio Orbán era andato al parlamento europeo a rispondere alle critiche. Aveva negato che gli intellettuali ebrei in Ungheria fossero preoccupati.

Pochi giorni fa c’è stata al castello di Buda una gran celebrazione del centenario della nascita di István Örkény (19121979), l’autore delle Novelle da un minuto. In una un giovane angosciato dice al rabbino: «Ho due grossi problemi». Ma che problemi vuoi avere, nel fiore degli anni, e così bello e forte, si meraviglia il rabbino. «La donna che amo è ebrea». «E allora? Anche tu sei ebreo, no?» «Questo è il secondo grosso problema».

A proposito dell’amara autoironia di Örkény, Péter Esterházy ne sottolinea la distanza dall’inclinazione ungherese all’aneddoto in cui ci si immagina sempre vincitori. Avevo appena sentito l’aneddoto, in realtà una normale notizia, sul primo ministro Orbán, che si chiama Viktor, e ha un fratello che si chiama Gyösö, che a sua volta in ungherese vuol dire Vittorio. Il padre che aveva caricato sulle spalle dei figli nomi così gravosamente anti-olimpici, e che, dice un simpatizzante biografo, Péter Kende, lisciava loro la schiena in modo più materiale, era un tecnico in una cava di pietre, e ora ne possiede un certo numero.

Orbán, avvocato, come pressoché tutti i fondatori del partito Fidesz – tranne un paio di economisti – ha una propensione per la forza, putiniana, per così dire, e un fastidio per la debolezza. Nell’accezione benevola lo si chiamerà decisionismo; la meno benevola teme lo slittamento dall’astratto al concreto, dalla debolezza ai deboli. Martedì 10 aprile, rispondendo alla richiesta di una commissione etica permanente sul razzismo, dopo il brutale discorso antisemita, Orbán ha ribadito il suo rispetto per tutte le minoranze. È un fatto che un giornalista a lui ostentatamente legato, già cofondatore di Fidesz, Zsolt Bayer, impiega regolarmente ripugnanti toni antisemiti. Del resto è convinzione diffusa che la madre di Orbán sia di origine rom, che sarebbe una buona notizia. Quanto alla documentata spregiudicatezza di Orbáne dei suoi negli affari, è un capitolo su cui il visitatore italiano tossicchierà imbarazzato.

Ogni volta che il visitatore sta per scandalizzarsi di fronte a qualche enormità della politica ungherese, deve ricordarsi dell’Italia e mordersi la lingua: che si tratti del debito pubblico o della stagnazione produttiva o delle bravate dei parlamentari da trivio. C’è quel solo momento a nostro favore, al palazzo presidenziale in cima al Castello. Il picchetto marziale esegue con tutte le regole il cambio della guardia, ma il palazzo è spigionato. Almeno al Quirinale, per ora, i titoli di studio sono regolari. In memoria dei ragazzi della via Pal, provo a interpellare i membri di un popoloso circolo dello skateboard. Rispondono all’unisono: «La politica? Shit!» Li esorto ad articolare di più, ma niente: «Shit!», e basta. Dev’essere un nuovo esperanto giovanile – l’esperanto ebbe una gran storia in Ungheria. Immagino che un visitatore ungherese interessato alla politica si sentirebbe rispondere così, in una scolaresca italiana: «Shit!» Anche le persone dell’opposizione rifiutano di chiamare «fascista» la politica di Orbán. «Nazionalpopulista», più appropriato, ma vago. Nel motivato allarme in Europa occidentale, ma anche nella sua sbrigativa semplificazione, ha giocato una confusione fra l’estrema destra del partito Jobbik, questa sì razzista, e la destra autoritaria di Fidesz. La confusione non è casuale, perché fra maggioranza e Jobbik c’è anche un gioco delle parti. Però il gioco delle parti è almeno bilanciato dalla rivalità, e il partito di Orbán, abituato a strumentalizzare – in patria e ancora di più all’estero – lo spauracchio di Jobbik, rischia di finire da apprendista stregone.

Nei sondaggi Fidesz è in caduta mentre i consensi a Jobbik crescono ripidamente. Il dato più allarmante è il suo successo crescente fra i giovani, e soprattutto fra i più istruiti. Qualcosa del genere, direte, succede anche in Francia, dove però l’adesione giovanile a Marine Le Pen è minore fra gli universitari. Soprattutto, in Francia – o in Germania, e nella stessa Italia – formazioni di sinistra più radicale o ecologiste hanno presa, mentre in Ungheria l’opposizione di sinistra è desolata. Non è un caso – anche questo noi italiani lo capiamo bene, era il nostro pane duro di ieri – che l’opposizione ungherese, capace tuttavia di buone mobilitazioni civili, faccia tanto affidamento sulle censure europee e le critiche dei media internazionali al regime di Orbán. I più avvertiti apprezzano i moniti europei, ma si tengono alla larga dai risvolti “greci”.

Per ora comunque al centro della “questione ungherese” sta il doppio tema della Costituzione e della democrazia. Esattamente: che cosa succede quando una limitazione all’arbitrio della maggioranza in democrazia, per esempio la necessità di una maggioranza dei due terzi per decisioni di rilievo maggiore, diventa essa stessa l’arbitrio.

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“Ungheria, democrazia in stile Orbán riforme a raffica senza l´opposizione”

Nei primi 18 mesi di governo 25 nuovi provvedimenti nella Carta costituzionale. La destra sfrutta il momento propizio e colpisce le minoranze come i gay e i rom. Nel 2010 Viktor Orbán e il partito Fidesz, e i suoi alleati, hanno ottenuto il 52,5% dei suffragi e oltre i due terzi dei seggi, e questa “maggioranza introvabile” li ha autorizzati a deliberare in piena autosufficienza una nuova Costituzione, una serie di leggi definite “cardinali”, e una sequenza vertiginosa di leggi parlamentari: totale, 365 leggi in un anno e mezzo! Qualcosa di affine e al tempo stesso di opposto a quello che è successo alla maggioranza di Berlusconi nell´ultima legislatura, affine per l´ampiezza – comunque minore – della maggioranza, opposta per numero e portata di leggi varate. Quelle misure hanno al centro questioni da noi trattate: regolamentazione della libertà di stampa, sottomissione delle autorità indipendenti all´esecutivo, l´avvenuta rimozione in tronco del presidente della Corte Costituzionale, la riduzione alla ragione di partito di magistratura e Banca Centrale.
Orbán proclama che «il Parlamento (in Ungheria è monocamerale) funziona anche senza opposizione». All´inizio, sembrerebbe difficile spiegare la metamorfosi di questo primo ministro che, come dice, ha trascorso all´opposizione «quindici degli ultimi vent´anni»: e quell´opposizione si voleva libertaria contro l´autoritarismo e il burocratismo degli epigoni del “socialismo”. Naturalmente, il passaggio dalla dissidenza al potere ispessisce le arterie. Ma forse oggi si può almeno affiancare a questa ovvietà il problema universale dei poteri politici nella tardodemocrazia: come assicurarsi una durata – qualcosa come una dinastia – paragonabile a quella dei poteri economico-finanziari e multinazionali. Senza ridurre di un millimetro le differenze, è a questo problema comune che rispondono i giri di walzer Putin-Medvedev, (e i governi “tecnici”, se non forse per la durata, per le mani libere), o certe prosecuzioni famigliari negli Stati Uniti, o i colpi di Stato africani o latinoamericani per un “terzo mandato”, fino al modello ungherese di Orbán: che chiameremo dunque dei “Due terzi”.
Nel 2010, il partito Fidesz, dopo esser restato fermo un giro, torna al potere, grazie al discredito che il governo “socialista” è riuscito a procurarsi: il suo capo si fa registrare mentre si vanta di aver imbrogliato il popolo sull´inesistenza della crisi. Conosciamo questa dinamica, no? Peraltro Orbán non è un magnate dei media, ed è giovane (è nato nel 1963). Dispone della maggioranza prevista per varare una nuova Costituzione. Anche di questo noi italiani abbiamo fatto esperienza: che, a parte gli Stati Uniti e i film sul quinto emendamento, le buone Costituzioni sono quelle di cui ci si dimentica quasi che esistano, e quando diventano di nuovo così importanti è perché qualcuno sta cercando di farle fuori. La storia destina l´Ungheria a uno straordinario attaccamento costituzionale. Quando il regime sovietico va in pezzi (l´Ungheria che ha aperto le porte ai tedeschi ha dato un colpo decisivo alla caduta del Muro) la Costituzione “socialista” viene via via corretta fino a non somigliare più a quella originaria. Orbán, il cui decisionismo è comunque fatto all´80 per cento di immagine, vuole l´atto fondante di una nuova Costituzione: intenzione comprensibile. L´attuazione ha sollevato proteste accanite. Ma è ancora più discutibile la premessa: cioè l´uso di una maggioranza schiacciante per decisioni destinate a coinvolgere tutti e presumibilmente per molto tempo, comprese le generazioni a venire. La democrazia si presume (presuntuosamente) fatta di bilanciamenti e compensazioni. Dunque quando fissa a due terzi la maggioranza necessaria alle decisioni più importanti, lo fa per coinvolgere in esse forze diverse e altrimenti opposte. Un´elezione libera che dia a un partito quella maggioranza dei due terzi è di per sé il sintomo di una deficienza democratica? Risponderei di sì, di fatto. Non di diritto. Il partito che dispone dei due terzi e li usa – ne abusa – sa però che quell´evenienza sarà difficilmente ripetibile, che lui stesso non riotterrà una tale maggioranza, e che i suoi rivali a loro volta non la otterranno. Così in una specie di parentesi d´eccezione si fissano leggi e regole che probabilmente non si potranno più cambiare. Il gioco democratico diventa qui un vero rompicapo: per cambiare le nuove leggi occorrerà abolire l´obbligo dei due terzi, ma per abolirlo occorrerà disporre dei due terzi. (Ed è solo una corsa al rincaro la richiesta dell´opposizione ungherese di portare la maggioranza necessaria alle modifiche costituzionali ai quattro quinti: di questo passo si arriva alla clausola dell´unanimità che zavorra l´Unione Europea).
C´è un´altra singolarità: dopo aver enunciato i singoli principii, la nuova Carta rinvia, quanto alla attuazione, ad altrettante “leggi cardinali” che la disciplineranno. Ciò che, si capisce, fa del principio enunciato un guscio vuoto e disponibile. Anche le leggi “cardinali” richiedono i due terzi. Nei primi 18 mesi di governo ne sono state varate ben 25.
Questo è quello che ha fatto Orbán. Mettere in Costituzione in queste circostanze argomenti almeno controversi vale a bruciare i vascelli alle spalle altrui. «La vita dell´embrione e del feto sarà posta sotto la protezione dal momento del concepimento». «L´Ungheria proteggerà l´istituto del matrimonio come unione di un uomo e di una donna stabilita per decisione volontaria, e la famiglia come base per la sopravvivenza della nazione». «L´Ungheria /assicurerà/ che la sua agricoltura resti immune da ogni organismo geneticamente modificato…».
L´anziano e prestigioso Dr. László Sólyom, già presidente della Corte Costituzionale e professore all´università di gran parte dei governanti ed estemporanei estensori della nuova Costituzione, non si perdona di non averli bocciati finché era in tempo. Anche in economia. Orbán, che non si nega gli attacchi ad alzo zero contro Wall Street e la finanza internazionale, fu e resta il promotore di una flat tax al 16 per cento, dalla quale prometteva di ricavare la ripresa produttiva. Che non c´è stata: è rimasta solo quella tassazione anti-progressiva, anzi, è stata messa in Costituzione.
E ancora le minoranze. La Costituzione le tutela, poi c´è la vita. Nella quale si odiano i gay perché sono gay. Si odiano i rom perché sono diversi, si odiano gli ebrei perché sono simili, ma “più” – più ricchi, nel luogo comune, più colti. Si odiano gli ebrei perché si pensa di non poter diventare come loro, si odiano gli zingari perché si ha paura di diventare poveri e reietti come loro – per qualche ragione affine si disprezzano i gay. I rom sono circa 700 mila, una minoranza ingente, in un paese di 10 milioni, e al loro interno corrono differenze sociali rilevanti e per lo più ignorate. L´estrema destra vorrebbe cacciarli coi gendarmi, come ai bei tempi, o farsi i propri gendarmi – la nota canzone delle ronde. Il governo ha messo fuori legge una banda paramilitare anti-zingari, e ha costituito un ministero “per l´inclusione sociale”, che ha a capo un pastore riformato, teologo di formazione, Zoltán Balog. Il proposito è di “offrire possibilità di lavoro a persone cui il normale mercato del lavoro è precluso”. Il problema è qui: se si offra un lavoro, o si costringa a un lavoro – per esempio condizionandogli sussidi, assistenza ecc. Si è messo anche questo in Costituzione, oltre al diritto al lavoro: il dovere di “contribuire col lavoro alla crescita della comunità secondo le proprie capacità e possibilità”… E´ una differenza impercettibile a prima vista, salvo mutare il lavoro volontario in lavoro forzato: il risultato più probabile è l´esaltazione del divario fra i rom “integrati” e quelli proscritti. Lo scrittore rom Sándor Romano Rácz vi segnala la fonte di “una forma di ribellione contro l´assimilazione”. Il governo ungherese ha caldeggiato la formazione di una commissione europea per l´integrazione dei rom. Nei paesi e nei villaggi, dove il confronto è fisicamente prossimo, i fascisti dello Jobbik fanno leva sull´odio per i rom, i quali hanno perduto più di tutti dalla fine del “socialismo”, e sono tornati a occupare l´ultimo gradino in cui i penultimi colpiti dalla crisi temono di precipitare. Due ungheresi su cinque sono poveri, dicono le statistiche. Quindici su cento poverissimi.

La Repubblica 16 e 17.04.12

Governo: stop a "beauty contest". Frequenze tv andranno all'asta

Il governo sta per presentare un emendamento al dl fiscale in commissione Finanze della Camera, per annullare il cosiddetto beauty contest sulle frequenze tv che, così com’è, favorirebbe Rai e Mediaset. Lo ha annunciato il presidente della commissione e relatore al provvedimento Gianfranco Conte. Il quale ha aggiunto che verrà fissato un termine per presentare i subemendamenti, che saranno votati domattina, come il testo del governo. Resta da verificare se l’emendamento è ammissibile.

Stando all’emendamento approvato dal consiglio dei ministri, le frequenze tv saranno assegnate tramite un’asta pubblica – entro 120 giorni – ma non a prezzi stracciati. Il 20 aprile scadono i 90 giorni di sospensione della procedura di beauty contest fissati dal ministero dello Sviluppo Economico. Entro questa data il governo deve stabilire una soluzione alternativa.

Per Vincenzo Vita, componente Pd in Commissione Vigilanza Rai, «la scelta del governo di presentare un emendamento al dl fiscale per annullare il beauty contest è un segnale positivo. E’ il risultato di una lunga discussione. Sarà da verificare ovviamente il testo, ma certamente siamo a una possibile svolta nella vicenda delle frequenze per il digitale».

da www.unita.it

Università. Pd, bene passo indietro su tassazione borse di studio

“Durante la discussione del decreto fiscale oggi in commissione, siamo riusciti a ottenere un passo indietro sulla irragionevole tassazione delle borse di studio inserita al Senato. È molto positivo l’impegno del relatore ad accogliere il nostro emendamento abrogativo di una norma del tutto irragionevole e che rappresentava un duro colpo alla ricerca e ai talenti dei giovani”.

Lo dicono Manuela Ghizzoni, capogruppo Pd in commissione Cultura, e Alberto Fluvi, capogruppo Pd in commissione Finanze.

«Da Monasterace passa il riscatto del Meridione…», di Antonio Ingroia

Il 2012 è un anno simbolico e carico di aspettative. Simbolico perché denso di anniversari fatidici per la nostra storia. Perché si ricorda la morte, trent’anni fa, di un uomo politico come Pio La Torre che, fra i primi, aveva ben chiaro che la politica dovesse fare della lotta alla mafia la sua priorità.
E dovesse farlo non delegando alla magistratura impropri compiti di supplenza, ma nel contempo fornendole strumenti idonei per colpire della mafia la struttura militare e le risorse economiche. E si ricorda, dello stesso 1982, la lezione istituzionale e culturale di un uomo dello Stato rimasto troppo solo come il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ed è anno cruciale perché si deve ricordare il ventennale dello stragismo corleonese esploso a Palermo, momento tragico della nostra storia che diede luogo tuttavia a una stagione di impegno e di riscatto.
Da allora non c’è dubbio che la lotta alla mafia ha fatto molti passi avanti, sia sul piano dei risultati repressivi che su quello della sensibilizzazione di settori sempre più ampi dell’opinione pubblica. Ma perché, oggi, sebbene sia fortemente calato il tasso di impunità dei boss mafiosi, tanto che i latitanti più pericolosi si contano sulle punte delle dita di una sola mano, e nonostante l’imponenza dei patrimoni illeciti confiscati dallo Stato, le mafie non sono affatto sul viale del tramonto? Per una ragione molto semplice. Per aver dimostrato, ancora una volta, una straordinaria capacità di adattamento. L’esperienza della reazione repressiva post-stragista ha indotto il sistema criminale mafioso a mutare strategia, ed ecco come si spiega l’inabissamento che ha comportato la tregua armata, e nel contempo l’investimento di tutte le energie criminali nella finanziarizzazione del fenomeno e nell’espansione dell’economia mafiosa che ha avviato un processo di colonizzazione del Nord e di penetrazione e integrazione nell’economia delle regioni più ricche, che può definirsi come forma di mafiosizzazione del Paese. Mafiosizzazione, che ha trovato terreno fertile nella scarsa diffusione della cultura della legalità nei piani alti della società italiana, che si rivela nella capillarità di un sistema corruttivo, pubblico e privato, senza precedenti nella nostra storia.
E l’antimafia? L’antimafia non ha fatto tesoro di una delle lezioni fondamentali lasciata dai maestri il cui anniversario della morte si ricorda proprio in questi mesi: saper analizzare le evoluzioni del fenomeno ed elaborare nuove strategie. Contro una mafia che militarmente è in tregua non può più bastare l’antimafia della repressione. Contro una mafia che cerca convivenza occorre opporre una strategia della convenienza dell’antimafia. Che significa antimafia della convenienza? Significa voltare pagina. Significa stimolare gli operatori economici a prendere le distanze dalla tentazione di integrarsi con i processi illegali della mafia e della corruzione. Significa premiarli con meccanismi come il rating antimafia proposto da Antonello Montante. Significa essere consapevoli che il più importante fattore di crescita, di cui ha bisogno l’economia nazionale in questo grave momento di crisi, è la crescita del tasso di legalità del Paese.
Elevare il tasso di legalità nel mondo dell’economia premiando le imprese che agiscono dentro le regole significa, infatti, metterle nelle condizioni di non essere svantaggiate rispetto a quelle che dalle relazioni privilegiate col sistema criminale della mafia e della corruzione traggono benefici. Significa ristabilire sani principi di competitività e di correttezza, ripristinare le regole del libero mercato e consentire alle aziende davvero valide e sane ad affermarsi ed emarginare le imprese che finora occultano la loro debolezza aziendale sopravvivendo ed ingrassando solo per la carica di illegalità di cui si avvalgono, che costituisce la zavorra del nostro sistema economico e quindi ne impedisce la crescita. Crescita, peraltro, che è ostacolata anche dall’immagine negativa che l’Italia si è conquistata nel mondo. Certo è che un Paese con un tasso di illegalità così alto, con una presenza così diffusa sull’intero territorio nazionale di un’economia mafiosa e di un sistema di corruzione privata e pubblica così capillarmente diffuso, e con una giustizia così lenta e poco efficiente, non può che scoraggiare qualsiasi operatore economico straniero ad investire.
Se vogliamo riscattare la nostra immagine internazionale, che negli ultimi anni si è offuscata, non abbiamo altra strada che quella di dimostrare una seria volontà, con risultati effettivi, di liberarci del peso delle mafie e della corruzione. E per fare questo occorre una vera ed efficace riforma della giustizia, e della legislazione antimafia e anticorruzione, per rendere davvero conveniente la legalità. Proporsi nel mondo come modello di legalità. Nella storia più nobile del nostro Paese abbiamo uomini riconosciuti nel mondo proprio come modelli di riferimento. Un patrimonio ideale ed etico al quale abbiamo il dovere di attingere per progettare e costruire un Italia migliore, nel segno della convenienza della legalità.

L’Unità 16.04.12