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""Strategia della tensione" le parole di Moro sulla strage di Brescia", di Miguel Gotor

Nella primavera 1978 le Brigate rosse sottoposero Aldo Moro a un interrogatorio che riguardò anche la strage di piazza Fontana del 1969 e quella di piazza della Loggia del maggio 1974. Come è noto, il memoriale del prigioniero è giunto a noi incompleto, ma su quegli anni egli formulò un giudizio chiaro utilizzando la categoria di “strategia della tensione”. Quel tempo fu «un periodo di autentica ed alta pericolosità con il rischio di una deviazione costituzionale che la vigilanza delle masse popolari fortunatamente non permise». Moro espose i meccanismi e le finalità della strategia della tensione, impostata da servizi stranieri occidentali con propaggini operative in due paesi allora fascisti come la Grecia e la Spagna. Essa aveva potuto godere del contributo dei servizi italiani militari con «il ruolo (preminente) del Sid e quello (pure esistente) delle forze di Polizia», ossia dell’Ufficio Affari riservati diretto da Federico Umberto D’Amato.

Secondo il prigioniero lo scopo era stato quello di realizzare una serie di attentati attribuendoli alla sinistra per destabilizzare l’Italia e poi coprire i veri responsabili con appositi depistaggi: «La c. d. strategia della tensione ebbe la finalità, anche se fortunatamente non conseguì il suo obiettivo, di rimettere l’Italia nei binari della “normalità” dopo le vicende del ’68 ed il cosiddetto autunno caldo», anche se Moro trascurava il varo nel giugno 1972 del governo centrista Andreotti-Malagodi, dopo l’attentato di Peteano per cui è reo confesso il neofascista Vincenzo Vinciguerra. Secondo l’ostaggio i servizi segreti italiani non diedero vita a deviazioni occasionali, ma a un’opera sistematica di inquinamento per «bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, ad una gestione moderata del potere». Egli fece riferimento all’azione di “strateghi della tensione”, senza però offrirne un ritratto esplicito, e si espresse duramente nei riguardi della Democrazia cristiana: «Bisogna dire che, anche se con chiaroscuri non ben definiti, mancò alla D. C. di allora ed ai suoi uomini più responsabili sia sul piano politico sia sul piano amministrativo un atteggiamento talmente lontano da connivenze e tolleranze da mettere il Partito al di sopra di ogni sospetto». E ancora: «se vi furono settori del Partito immuni da ogni accusa (es. On. Salvi) vi furono però settori, ambienti, organi che non si collocarono di fronte a questo fenomeno con la necessaria limpidezza e fermezza».

L’attenzione di Moro si focalizzava su Giulio Andreotti, il quale aveva «mantenuto non pochi legami, militari e diplomatici, con gli Americani dal tempo in cui aveva lungamente gestito il Ministero della Difesa entro il 68». In particolare con la Cia, «tanto che poté essere informato di rapporti confidenziali fatti dagli organi italiani a quelli americani». Moro ripeteva, per ben undici volte, il nome del giornalista neofascista Guido Giannettini, incriminato nel 1973 per la strage di piazza Fontana da cui sarà assolto, sottolineando l’importanza di un’intervista che Andreotti aveva concesso a Il Mondo nel giugno 1974, all’indomani della strage di Brescia, in cui aveva rivelato che Giannettini era in realtà un agente del Sid infiltrato in Ordine nuovo. È come se Moro avesse voluto alludere a una pregressa consapevolezza di Andreotti (“uomo abile e spregiudicato”) riguardo alle azioni messe in campo da quegli ambienti, da cui aveva deciso improvvisamente di prendere le distanze («un primo atto liberatorio fatto dall’On. Andreotti di ogni inquinamento del Sid, di una probabile risposta a qualche cosa di precedente, di un elemento di un intreccio certo più complicato»).

Tale ricostruzione sarà confermata nell’agosto 2000 da Gianadelio Maletti, il responsabile dell’ufficio D del Sid dal 1971 al 1975, condannato per avere agevolato la fuga di Giannettini all’estero, il quale, in un’intervista a Daniele Mastrogiacomo per questo giornale, dichiarò «La Cia voleva creare attraverso la rinascita di un nazionalismo esasperato e con il contributo dell’estrema destra, Ordine nuovo in particolare, l’arresto del generale scivolamento verso sinistra. Questo è il presupposto di base della strategia della tensione».

In che modo? «Lasciando fare», e Andreotti «era molto interessato. Soprattutto del terrorismo di destra e dei tentativi di golpe in Italia».

È significativo notare che Pier Paolo Pasolini nel novembre 1974, ossia pochi mesi dopo la strage di Brescia e l’intervista dell’allora ministro della Difesa Andreotti che scaricava l’agente dei servizi militari Giannettini, scrisse sul Corriere della Sera l’articolo Cos’è questo golpe? Io so, in cui individuava l’esistenza di due diverse fasi della strategia della tensione: la prima, con la strage di piazza Fontana, anticomunista, funzionale a chiudere con l’esperienza dei governi di centro-sinistra e ad arginare l’ascesa del Pci; la seconda, con le bombe di Brescia, antifascista, ossia utilizzata per bruciare quanti ancora erano impegnati a creare le condizioni di un golpe nero e di una soluzione militare in Italia, esattamente come fatto da Andreotti con Giannettini: «Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neonazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista)». Forse per sempre senza nome. Così scriveva un anno prima di essere ucciso il poeta che ebbe l’ardire di farsi storico del suo presente: l’ultima profezia, come ribadisce la sentenza dell’altro ieri sulla strage di Brescia.

La Repubblica 16.04.12

"Esodati, sono 331mila. Ben 100mila nel 2013 a fine governo tecnico", di Massimo Franchi

Gli esodati sono 331mila. I 65mila conteggiati da Fornero sono solo quelli del 2012. Al oro vanno aggiunti i 100mila del 2013, i 90mila del 2014 e i 70mila del 2015. Per contare gli esodati e capire la differenza fra loro e quelli che Elsa Fornero chiama «salvaguardati» basta usare i dati che l’Inps ha fornito in maniera, però, non ufficiale. Come ha fatto Il Sole24Ore per smentire i dati forniti giovedì dal ministero del Welfare. In realtà le persone che dal 2012 al 2015 si troveranno senza lavoro, senza pensione e senza copertura degli ammortizzatori a causa della riforma delle pensioni firmata Fornero sono 331mila. E sono così suddivise. La categoria più rappresentata è quella della prosecuzione volontaria, persone che hanno lasciato il lavoro e che continuano a versare i contributi interamente a proprio carico: si tratta, sempre secondo l’Inps, di 200mila persone, pari al 60 per cento del totale. Per loro lo spostamento in avanti dell’età pensionabile comporta il fatto di dover pagare i contributi per molti più anni. In una situazione molto simile si trovano poi i lavoratori usciti per accordo collettivo o individuale che l’Inps calcola in 70mila (21% del totale). Si tratta quasi sempre di lavoratori costretti ad accettare i diktat dell’azienda, persone che subiscono l’uscita dal lavoro. Nel primo caso si parla di accordi sindacalicome quelli appena sottoscritti per gli operai, ad esempio, di Termini Imerese lasciati a casa dalla Fiat. Nel secondo di aziende più piccole che concordano con il lavoratore vicino alla pensione un incentivo per lasciare il lavoro. L’allungamento in questo caso fa diventare le cifre da pagare per i contributi molto più alte rispetto agli incentivi ricevuti. Si passa poi ai lavoratori in mobilità (lunga al Sud, breve nel resto del Paese) che sono stimati in 45mila (13% del totale). Per loro ci sarà un combinato disposto micidiale: la riforma delle pensioni li lascerà senza copertura,ma quella del lavoro rischia di aumentare questa durata perché prevede una progressiva riduzione dal 2013 al 2017 quando la mobilità sarà sostituita dall’Aspi, che al massimo durerà solo 18 mesi per gli over 55enni contro i 48 mesi previsti oggi al Sud. A chiudere questo elenco di pensionati a rischio ci sono i lavoratori coperti da fondi in solidarietà che sono 15mila (4,6%) e lavoratori che sono in congedo per assistere figli con disabilità grave che dopo 24 mesi potevano accedere al prepensionamento e che vengono calcolati in meno di mille. Ancora. Si possono suddividere i “dannati” delle pensioni post-Fornero sui prossimi anni, quando Elsa Fornero potrebbe non essere più alla guida del Welfare. Dato per assodato che nel 2012 gli esodati sono 65mila (gli stessi già previsti dal governo Berlusconi), l’anno peggiore sarà il2013con circa 100mila persone che saranno senza lavoro, senza pensione e senza ammortizzatori. Sul dato incidono il grosso degli accordi di esodi collettivi e buona parte dei lavoratori in mobilità che rimarranno senza copertura. Poco meglio andrà nel 2014 quando il numero degli esodati scenderà a quota 90mila. Su questa stima incidono il calo (relativo) del peso delle prosecuzioni volontarie e quello dei lavoratori in mobilità. L’anno conclusivo delle stime Insp, il 2015, sarà anche quello menopesante dal punto di vista delle coperture: gli esodati saranno 70mila, ben 30mila in meno rispetto al 2013. Guardinga su ogni numero è Vera Lamonica, segretaria confederale della Cgil, in prima fila nella battaglia degli esodati. «Noi numeri non è abbiamo mai dati e non ne daremo. È l’Inps l’ente che conosce tutti i dati ma che, ormai è evidente, non vuole renderli pubblici. Le stime sono attendibili fino a un certo punto continua perché bisogna ricordare che la riforma prevede un innalzamento di 3 mesi per l’aumento dell’aspettativa di vita per ogni anno solare. E valutarne l’incidenza in un tutta questa intricata matassa non è facile. Per noi conclude la cosa importante è evitare di fare una lotteria fra gli esodati e di coprire tutti coloro che lo sono realmente. Chiediamo al governo di definirne il numero complessivo e poi di discutere con noi come trovare la copertura per evitare di lasciarli per strada».

L’Unità 16.04.12

"La Lega non è una storia finita", di Ilvo Diamanti

C’è troppa fretta di liquidare la Lega. Come si trattasse di una storia finita. Non tanto a causa delle promesse deluse dalla Lega stessa. Di certo non per merito degli avversari politici. Tanto meno per l’intolleranza sociale verso i messaggi intolleranti espressi dai suoi leader e dai suoi uomini. Ma per effetto delle inchieste giudiziarie. Una nemesi, visto che vent’anni prima proprio la Lega – insieme a Berlusconi – aveva beneficiato del vuoto politico prodotto da Tangentopoli.

Ma bisogna fare molta attenzione prima di dare la Lega per finita. I sondaggi, per primi, non accreditano questa idea.

L’Ispo di Renato Mannheimer, proprio ieri, sul Corriere della Sera, stimava i consensi leghisti poco sotto il 7%. Rispetto a una settimana prima: un punto percentuale in meno. Abbastanza, ma non tanto da profetizzare un declino – rapido e irreversibile. Meglio, dunque, attendere altre occasioni per verificare la tenuta della Lega, dopo questi scandali. Senza, però, affidarsi troppo alle prossime amministrative. Certamente significative. Ma condizionate dalla specificità delle consultazioni. Una sorta di presidenziali “locali”, dove contano soprattutto i temi territoriali e, anzitutto, la personalità dei sindaci. Si pensi alla città, forse, più importante, fra quelle al voto: Verona. Dove Flavio Tosi si ripresenta, alla testa di una lista civica “personale”. Contro la volontà di Bossi e dei “bossiani”. Se Tosi ri-vincesse in modo largo, ipotesi non improbabile, si tratterebbe di una vittoria di Tosi (e del suo amico Maroni) contro Bossi oppure di un successo della Lega contro tutti gli altri partiti? Il risultato delle prossime amministrative assumerà, dunque, grande importanza. Ma non fornirà un verdetto definitivo e, soprattutto, chiaro sul futuro. Occorrerà attendere le elezioni politiche del 2013 per capire quanto contino davvero la Lega – e gli altri partiti.

Tornando ai sondaggi, anche l’Ipsos di Pagnoncelli, martedì scorso, a Ballarò, aveva mostrato una flessione della Lega: dal 9,5% al 6,5%. Ma nei giorni seguenti ha rilevato una ripresa sensibile.

Che ha riportato la Lega su livelli vicini al risultato delle politiche del 2008.

Questo rimbalzo può avere spiegazioni diverse e non alternative. In primo luogo, il “rituale di espiazione” celebrato a Bergamo martedì scorso. La messa in scena della “confessione” e della “penitenza”. L’espulsione e le dimissioni dei colpevoli. (Solo alcuni, certo). L’ammissione di colpa del gruppo dirigente.

Bossi per primo. (Che pure ha rilanciato la famigerata “teoria del complotto”).

Di fronte al “popolo padano”. E, soprattutto, alle telecamere. Uno spettacolo di successo, che è servito ai leader della Lega per marcare la propria “diversità” – anche in mezzo alla crisi – rispetto agli altri partiti maggiori. Tutti coinvolti da scandali e inchieste: non hanno preso provvedimenti altrettanto eclatanti e visibili. Lo stesso discorso vale per i rimborsi elettorali. La Lega ha annunciato la volontà di rinunciare all’ultima tranche.

Mentre gli altri partiti discutono “se” congelarla. E su come regolamentare i finanziamenti pubblici (bocciati dai cittadini in un referendum di quasi vent’anni fa).

La Lega ha, dunque, reagito all’ondata di discredito provocata dalle inchieste giudiziarie con iniziative auto-assolutorie e promozionali, che potrebbero avere effetto. Anche perché può contare su alcune “buone ragioni” per resistere sulla scena politica ed elettorale ancora a lungo. Ne cito solamente alcune.

a) È radicata sul territorio, dove dispone di una base di militanti attivi molto ampia. Riprendo i dati offerti da un’accurata ricerca di Gianluca Passarelli e Dario Tuorto ( Lega e Padania, in uscita per “il Mulino”): 1.441 sezioni (995 tra Lombardia e Veneto) e 182mila iscritti. Oltre la metà di essi frequenta esponenti del partito con assiduità, almeno una volta a settimana. Il 40% partecipa regolarmente alle manifestazioni elettorali e alle feste di partito. Sono politicamente informati e coinvolti. La Lega, inoltre, è al governo in centinaia di comuni, 16 province e due regioni. Difficile “scomparire” quando si è così immersi nella società e nel territorio.

b) Dispone di una base elettorale fedele di notevole entità. Il 4-5% degli elettori, infatti, l’hanno sempre votata. Anche nei momenti più difficili. Disposti a negare la realtà pur di non contraddire la propria “fede”. Proprio come in questa fase.

c) La Lega, oggi, costituisce il principale antagonista del governo Monti, in Parlamento. Inevitabile che sfrutti la propria rendita di (op)posizione. Tanto più se – come sta avvenendo in questo periodo – la fiducia nel governo, fra i cittadini, tende a calare.

d) Il clima d’opinione generale è intriso di sfiducia verso i partiti. Pervaso da un diffuso sentimento antipolitico. E la Lega ne è, paradossalmente, artefice e beneficiaria. Alimenta la sfiducia politica attraverso i suoi comportamenti e, al tempo stesso, rischia di avvantaggiarsene. e) D’altronde, nessuno tra i partiti maggiori ha beneficiato del calo della Lega. Gli elettori leghisti in “uscita” si sono parcheggiati nell’area grigia del “non voto” e dell’indecisione. L’unico vero attore politico che sta traendo profitto dall’onda antipolitica, in questo momento, pare il movimento 5 Stelle di Grillo, stimato ormai oltre il 6%.

Naturalmente, la Lega non sta bene. È scossa da molti problemi. Profondi.

Che, tuttavia, pre-esistono agli scandali delle ultime settimane.

In particolare e soprattutto: non ha mantenuto la promessa di “rappresentare il Nord”. Di realizzare il federalismo, modernizzare le istituzioni, ridurre la burocrazia centrale e locale, ridimensionare la pressione fiscale, abbassare i costi della politica. In parte, è stata coinvolta in queste stesse logiche.

Inoltre, è, da tempo, teatro di una sanguinosa “guerra di successione”. In vista di una leadership che le permetta di sopravvivere “dopo” e “oltre” Bossi.

Una questione momentaneamente congelata. Ma destinata a riaprirsi in fretta, con esiti incerti. Anche perché il “centralismo carismatico” è parte dell’identità e dell’organizzazione leghista (come chiarisce bene il saggio dell’antropologo Marco Aime, Verdi tribù del Nord, pubblicato da poco da Laterza).

In generale, il problema della Lega è che si è “normalizzata”. Mentre i suoi successi scandiscono le crisi e le fratture della nostra storia recente. La Lega.

Ha contribuito a far crollare la Prima Repubblica e ha lanciato la sfida secessionista del 1996. Ha sfruttato le paure della crisi globale dopo il 2008 e l’onda antipolitica degli ultimi anni. La Lega. È cresciuta e si è consolidata nella stagione del berlusconismo. Ma oggi la Prima Repubblica è lontana, il berlusconismo si è chiuso. E la Lega appare un partito (fin troppo) “normale”. Costretta, a simulare e a esibire la propria diversità per resistere, in questa Repubblica provvisoria. È in difficoltà. Ma chi pensa di affidare ai Magistrati il compito di “sconfiggerla” politicamente si illude.

La Repubblica 16.04.12

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“Giovane, di destra, odia banche e gay ecco l’identikit della camicia verde”, di Vladimiro Polchi

E dopo l’addio di Bossi il rischio di una scissione. Il suo cuore batte a destra. A volte si scopre estremista. Diffida delle coppie gay ed è contrario a concedere pari diritti agli immigrati. Odia banche, giudici e sindacati, ma si fida dei partiti. È un vero militante: almeno una volta negli ultimi cinque anni è stato a Pontida. È l’identikit della camicia verde: un popolo di 182mila iscritti e 1.441 sezioni (995 tra Lombardiae Veneto) che, pur squassato dai recenti scandali, conferma il suo attivismo nel partito. A fotografare i militanti della Lega è un’inchiesta di due giovani ricercatori dell’istituto Cattaneo di Bologna, Gianluca Passarelli e Dario Tuorto, che nel 2011 hanno intervistato circa 350 iscritti al Carroccio (“Legae Padania. Storie e luoghi delle camicie verdi”, in libreria oggi per il Mulino). Il risultato? Per la prima volta la Lega viene raccontata dai leghisti.

TANTI EX MISSINI Le camicie verdi sono per lo più (75%) uomini, giovani (il 39% ha meno di 40 anni), diplomati (60%), ma anche laureati (20%), lavoratori autonomi (37%). Quasi la metà ha ricoperto incarichi da consigliere comunale o provinciale, assessoreo sindaco. Che orientamento avevano prima di aderire al Carroccio? Il loro voto si divide in modo equilibrato tra Dc, Psi, partiti “laici” (Pli, Psdi e Pri).

Ma quello che più balza agli occhi è l’alto numero di ex missini (9%) e il basso di ex elettori del Pci (3%).

Non per niente, tutti i dati della ricerca sono concordi: eletti, iscritti ed elettori della Lega posizionano se stessi e il partito all’estrema destra dell’arco politico.

MILITANTI ATTIVI La loro è una militanza attiva: oltre la metà incontra esponenti del partito almeno una voltaa settimanae un quinto più voltea settimana. Il 40% partecipa regolarmente alle manifestazioni elettorali e alle feste di partito. Non solo. Le camicie verdi sono attente alle evoluzioni della politica e il 77% legge un quotidiano tutti i giorni: «Non trova quindi riscontro – scrivono i due ricercatori – l’immagine di un partito strutturato solo attorno a una base grezza, priva di strumenti cognitivi adeguati». E ancora: si fidano dei partiti (gli sfiduciati sono il 55%, ben al di sotto della media nazionale), del parlamento e del presidente della Repubblica. Mostrano ostilità verso banche, magistrati e sindacati. Solo una minoranza (il 40%) è disponibile a concedere pieni diritti agli immigrati, una quota più ridotta (il 22%) è favorevole a estendere alle coppie gay i diritti degli eterosessuali. Gli iscritti dichiarano un’appartenenza locale, al comune (44%), alla regione (34%), alla provincia (10%) in cui vivono. Solo una minoranza segnala l’Italia come contesto principale di riferimento (3,5%) DAI “QUALUNQUISTI” AGLI “ESTREMISTI” La ricerca individua quattro tipologie di militanti. I “qualunquisti” (sono il 19%) partecipano poco alla vita del partito, sono interessati al federalismo e a pagare meno tasse. I “conformisti” (26%), caratterizzati da un’alta consapevolezza politica, si collocano a destra, temono l’immigrazione, ma sono radicali più per conformismo che per convinzione. I “conservatori” (26%), per lo più operai, hanno una collocazione politica meno a destra e meno estremista, attenti ai temi sociali e del lavoro. Infine gli “estremisti” (29%), politicamente consapevoli, con un forte tratto autoritario, si collocano sul versante della destra più estrema.

IL FUTURO SENZA BOSSI Con il leader i militanti hanno una relazione simbiotica: «Solo il carisma di Bossi ha indotto la base ad accettare alcuni riposizionamenti contraddittori della Lega» e solo la «sua leadership ha tenuto a bada le due anime, la fazione movimentista e quella riformista, che non si sono mai del tutto integrate nel partito».

Che ne sarebbe allora di una Lega senza Bossi? Per i due ricercatori «è plausibile ipotizzare una grave emorragia di consensi, ma è anche ragionevole ritenere che, visto l’insediamento diffuso capillarmente in tutto il Centro-Nord, la Lega potrebbe sopravvivere al suo capo istituzionalizzandosi».

In questo frangente non è però da escludere una scissione, con «l’uscita di una cospicua componente decisa a costruire il partito ortodosso e antagonista, richiamandosi esplicitamente alle origini del movimento».

La Repubblica 16.04.12

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“Il Senatur in campo per salvare Monica Rizzi”, di RODOLFO SALA

Il clan di Gemonio tenta di salvare Monica Rizzi, assessore leghista nella giunta regionale lombarda a cui la nuova dirigenza del Carroccio ha chiesto di dimettersi. Com’è già successo a Rosy Mauro, inutilmente invitata a lasciare la vicepresidenza del Senato. Nella sua veste di triumviro, era stato Bobo Maroni, tre giorni fa, a varcare il portone di Palazzo Lombardia per comunicare al governatore Roberto Formigoni che “Monica della Valcamonica” non aveva più la fiducia del movimento.

Motivo: i suoi strettissimi rapporti con Renzo Bossi, che la signora – secondo un’inchiesta della magistratura – avrebbe aiutato nella campagna elettorale del 2010 costruendo falsi dossier contro i potenziali avversari del Trota. Ma seguendo l’esempio di Rosy Mauro, la Rizzi non vuole saperne di abbandonare la poltrona di assessore allo Sport.

Per questo l’assessora ieri si è messa in contatto con casa Bossi a Gemonio, dove per giunta c’era pure la Mauro. E ha tentato di convincere l’Umberto che la richiesta di Maroni non starebbe in piedi. Perché la vicenda giudiziaria «sta finendo in niente», e comunque, non si capisce perché il passo indietro lo dovrebbe fare solo lei. E non, per esempio, anche Davide Boni, il presidente leghista del consiglio regionale raggiunto da un avviso di garanzia per corruzione. Il pressing su Bossi è fortissimo, e condiviso ovviamente dai famigli e dalla Mauro (che nonostante l’espulsione continua a frequentare casa Bossi). Sempre ieri, tra i leghisti anti-maroniani, girava un curioso sms: «Bossi ha teso la mano a Maroni per sostenerlo nella leadership, il triumviro si mostrerà altrettanto generoso salvando la Rizzi?». Girava anche, insistente, una voce: nel pomeriggio Bossi avrebbe chiamato Formigoni per perorare la causa dell’assessora che non vuole lasciare la cadrèga. «Non possiamo né confermare né smentire», hanno fatto sapere da Palazzo Lombardia. Ma tanto è bastato a mettere in allarme il fronte dei rinnovatori. Perché, se fosse vero, il ruolo dei triumviri, e soprattutto di Maroni, verrebbe pesantemente delegittimato.

Dunque la partita forse non è così chiusa. Insomma, nonè detto che la sorte dell’assessora-badante (del Trota) sia già decisa.

La speranza dei rinnovatoriè che si dimetta oggi, quando Maronie Calderoli incontreranno a mezzogiorno il gruppo consiliare della Lega in Regione. Se non lo facesse, secondo il loro piano, ci penserebbero i triumviri a sostituirla (c’è già il nome di chi dovrebbe prenderne il posto).E forse, ma questo adesso è meno probabile, a espellerla. A Maroni non sarebbe arrivata alcuna richiesta da Gemonio: «Bobo – riferisce un fedelissimo – pensa che se qualcuno vuole mandargli un segnale deve dirlo». Ma da giorni il triumviro va ripetendo che fare pulizia non significa procedere con le «epurazioni di massa». Il fatto è che la Rizzi lo ha sfidato: «Con Bobo segretario la Lega durerà solo sei mesi».

La Repubblica 16.04.12

Meloni e Ghizzoni (PD): Tassare le borse di studio è un errore, abrogare norma Senato

L’emendamento, approvato dal Senato, che sottopone a tassazione le borse di studio per la quota superiore agli 11.500 euro è irragionevole: sottopone tutti i dottorandi e gli specializzandi all’obbligo di presentare la denuncia dei redditi, anche qualora rientrino nelle fasce di esenzione; decurterebbe di fatto i compensi – già molto limitati – di giovani ricercatori che non hanno un contratto di lavoro dipendente, e che in questo modo ne subirebbero solo le conseguenze negative; produrrebbe un impatto in termini di introiti per lo Stato di misura assai esigua. È certamente auspicabile che si proceda rapidamente a una revisione dei contratti dei ricercatori nella fase post-dottorato e pre-ruolo, che razionalizzi le diverse tipologie di rapporto attualmente possibili, e giunga alla tendenziale identificazione di un contratto unico per i giovani ricercatori, che verrebbero così considerati dei lavoratori dipendenti a tempo determinato, differenziando queste figure dai titolari di borse di studio, i quali dovrebbero continuare ad essere esenti da tassazione: il Partito Democratico presenterà nei prossimi giorni una sua proposta in materia. Riteniamo quindi inopportuno affrontare il tema nel decreto di semplificazione fiscale, attualmente all’esame del Parlamento, e sbagliata la soluzione adottata dal Senato. Per queste ragioni chiediamo che domani la Commissione Finanze della Camera approvi l’emendamento del PD che prevede l’abrogazione della norma approvata dal Senato.

Lo dichiarano Marco Meloni, responsabile Università e Ricerca del PD, e Manuela Ghizzoni, capogruppo del PD nella Commissione Cultura e Istruzione della Camera dei Deputati.

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ROMA, 15/4/2012

Un emendamento al “decreto fiscale” approvato dalle Commissioni Bilancio e Finanze del Senato il 4 Aprile assoggetta a tassazione (Irpef) le somme superiori a 11.500 euro corrisposte a titolo di borsa di studio o di assegno, premio o sussidio per fini di studio o di addestramento professionale in quanto concorrono a formare “reddito personale”. Una misura che, se approvata, andrà a colpire borse di studio percepite dai medici specializzandi, dai dottorandi, e dai corsisti in medicina generale.

È un insulto per chi riceve borse di studio (non uno stipendio!) tra le più basse d’Europa e si trova nel guado tra i doveri degli studenti di dover pagare le tasse universitarie e quelli dei lavoratori dipendenti, avendo tassato la borsa come fosse reddito. Dall’altra parte del guado, non ci sono diritti però, nè quelli dei lavoratori nè quelli degli studenti. Far cassa, pochi spiccioli, su una somma investita dallo stato per incentivare studio e ricerca è la metafora delle contraddizioni del paese, lento nel riconoscere diritti e veloce come un fulmine nel tassare quelli dei più deboli.

Per questo ragioni chiediamo ai deputati che domani si troveranno a votare queste norme di stralciare l’emendamento, come proposto dai parlamentari del PD. Si può fare un passo in più, riconoscendo agli speciliazzandi lo status di lavoratori a tutti gli effetti.

-RUN – Rete Universitaria Nazionale

«L’Europa si muova. Il rigore è necessario ma non è la soluzione», intervista a Lucrezia Reichlin di Bianca Di Giovanni

«I cittadini Ue non vogliono condividere il rischio, nessun partito se la sente di sfidare questo sentimento. Così, addio euro». Dall’Europa continuano a giungere segnali inquietanti. L’ultimo allarme della Bce ha riguardato il lavoro. Quanto ai mercati, le tensioni restano alte. Cosa si è sbagliato? Ne parliamo con Lucrezia Reichlin, docente di economia alla London Business School.
L’Europa non esce dal tunnel della crisi. Quali errori sono stati fatti? «L’Europa ha difficoltà ad uscire dalla crisi per errori passati e recenti. Per il passato si è sottovalutato l’effetto sulla stabilità della zona euro della combinazione di tre fattori: integrazione finanziaria, un sistema bancario mal regolato e una mancanza di coordinamento tra le politiche macroeconomiche dei paesi dell’Unione. La crisi internazionale è arrivata dall’esterno ma ha reso palese la fragilità di un sistema in cui le banche del nord favorivano flussi di capitale verso il sud che andavano ad alimentare bolle speculative. La crisi ha inoltre dimostrato che le istituzioni europee non avevano gli strumenti per fronteggiare lo stress finanziario date le restrizioni sul mandato della Bce, la mancanza di strumenti di garanzia del debito al livello europeo e la decentralizzazione delle politiche di bilancio. Su questo si sono aggiunti gli errori nuovi e la lentezza in cui tutti, a parte la Bce, si sono mossi. In mancanza di altri strumenti non è rimasta che la via dell’aggiustamento rapido di bilancio che ha effetti prociclici e ci porta in un circolo vizioso di politiche restrittive, approfondimento della recessione e peggioramento della sostenibilita del debito».
Troppo rigorismo?
«Il rigore è necessario, ma se l’Europa avesse avuto istituzioni federali di garanzia del debito si sarebbe potuto rendere l’aggiustamento più graduale. Questo avrebbe permesso a Paesi come l’Italia che ha un problema di liquidità e non di solvibilità di spalmare l’aggiustamento su più anni».
Hollande promette che punterà sulla crescita, stessa cosa dice Monti. Eppure il Pil va sempre più indietro. Promesse impossibili?
«Io credo che ci debbano essere iniziative in questo senso anche a livello europeo e qualcosa si sta muovendo, ma forse è troppo tardi. Al fondo c’è un problema politico: i cittadini europei non hanno nessuna voglia di condividere il rischio e nessun partito se la sente di sfidare questo sentimento. Si sta vedendo un arretramento del progetto dell’euro invece che un suo approfondimento».
La Bce ha dato risorse alle banche, ma le imprese restano a secco. Non era prevedibile che gli istituti utilizzassero quelle risorse per operazioni di consolidamento dei propri bilanci?
«Le operazioni della Bce hanno salvato il sistema bancario dalla catastrofe e questo non si deve sottovalutare. La Bce si è sostituita al mercato e, divenendo intermediaria lei stessa, ha permesso alle banche di colmare un gap tra prestiti e depositi in una situazione in cui si chiede alle banche di migliorare la loro situazione patrimoniale. Non si può chiedere alle banche di rafforzare i loro bilanci e poi chiedergli di esporsi sul credito soprattutto in una situazione in cui, data la congiuntura, il rischio è molto alto».
Vuole dire che non si poteva fare altro per favorire il credito?
«La Bce ha l’obiettivo di aumentare la liquidità, non di risolvere i problemi di politica industriale. Se una banca centrale non interviene in questi casi si rischia la paralisi del sistema finanziario. Se poi le banche prestano o no denaro è una questione molto più complessa, che dipende da diversi fattori, ma certamente se devono raggiungere ratio patrimoniali più rigorose automaticamente si riducono gli impieghi. Questo sul lato dell’ offerta. Su quello della domanda bisogna considerare che c’è la recessione, e che non tutti ce la fanno a reggere. È vero che ci sono le piccole imprese “strozzate” dai debiti, ma non è detto che queste debbano sopravvivere a tutti i costi. Le banche hanno il compito di valutare la solidità della controparte, altrimenti si esporrebbero a rischi che avrebbero effetti nefasti sull’economia. Tenere in vita imprese in dissesto e l’errore che ha fatto il Giappone negli anni novanta e non ha certo dato buoni risultati. Consideriamo anche che nell’aggregato il risparmio delle imprese, a differenza di quello delle famiglie è aumentato. Questo ci fa capire che il problema non è l’offerta di credito ma la domanda. Certamente è un dato aggregato, e questo non esclude criticità sul credito per alcuni, ma non è sempre così». Il rischio Spagna è concreto? «Certo, ma è un problema di liquidità che dobbiamo evitare diventi un problema di solvibilità. Questo succederà se la risposta al livello europeo non sarà decisa. Il fondo salva-Stati è insufficiente. Speriamo nella Bce».
La Grecia è definitivamente fuori dal rischio default?
«No ed e questo che sta prezzando il mercato. La Grecia non è solvibile».
Che rapporto c’è tra liquidità e solvibilità?
«Si può essere solvibili, ma non liquidi, e in quel caso basta un prestito per superare il problema. Ma se i tassi sono molto elevati la illiquidità diventa facilmente insolvibilità. A tassi elevati e in una situazione di crescita negativa o modesta, il debito non è più sostenibile, cioè il rapporto debito-pil aumenta nel tempo. Per questo è decisivo che le autorità europee dicano chiaramente che sono pronte a intervenire finché i tassi non si abbassano. Questo avrebbe un effetto sulle aspettative e quindi sui tassi. Lo dovrebbe fare la Bce, che però non ha il mandato per farlo».

L’Unità 15.04.12

"L'araba fenice e le misure per la crescita", di Giuliano Amato

Ha ragione il Capo dello Stato quando osserva che il continuo richiamo alla crescita, fatto troppo spesso con la sola enunciazione della parola, la trasforma in una sorta di araba fenice, che nessuno sa come sia e che il governo avrebbe però il torto di non catturare. Sia chiaro, il problema della crescita esiste e su questo giornale siamo stati in diversi a sollevarlo più volte. Ma quando se ne parla, è bene essere consapevoli di chi e di che cosa può fare al riguardo, giacché ci sono dei limiti oggettivi a ciò che può essere fatto dal nostro governo (come dal governo di ogni altro Stato dell’eurozona), mentre c’è molto, anzi moltissimo che può e deve essere fatto a livello europeo.
Tocca di sicuro ai governi nazionali cimentarsi con le cosiddette riforme di struttura – le pensioni, le liberalizzazioni, il mercato del lavoro- e il nostro lo ha fatto da subito. Ma le riforme di strutture producono i loro effetti a una qualche distanza di tempo e ad un’economia in affanno non possono dare né le concrete prospettive di investimento su cui formare le aspettative future, né le risorse di cui può aver bisogno per non fermarsi nell’immediato.

Servono qui altre cose e anche su queste del resto il governo ha cominciato a lavorare: serve pagare i debiti dello Stato verso le imprese, magari attraverso un factoring con le banche che anticipano i soldi e diventano loro creditrici dello Stato, serve indurre le stesse banche a un maggiore equilibrio fra l’acquisto dei titoli pubblici e il credito alle imprese, serve avviare gli investimenti pubblici, nazionali e locali, che risultano finanziati e cantierabili, serve rafforzare la competitività esterna di chi esporta.
Sono le bombole di ossigeno di cui avevo parlato io stesso due settimane fa ed è ragionevole aspettarsi che il governo le fornisca al più presto. Ma sarebbe illusorio pensare che potremmo uscire grazie a ciò da una recessione che ha investito l’intera eurozona e che solo a quel livello può essere efficacemente affrontata, in conformità del resto alla diagnosi della crisi sempre più condivisa fra gli economisti.
Come hanno scritto in questi giorni Lucrezia Reichlin sul Corriere della Sera e Martin Wolf sul Financial Times, l’eurozona non ha portato alla convergenza delle economie che ne fanno parte, ha portato piuttosto alla convergenza di grossi afflussi di capitale dall’Europa più benestante alle periferie e ha alimentato così abnormi bolle speculative e forti disavanzi delle bilance commerciali. Quando l’euforia è finita, ci sono rimasti gravi squilibri macroeconomici ed è ad essi, a questo punto, che dobbiamo porre rimedio, pena – come ha scritto cinicamente ma lucidamente l’Economist – la disintegrazione dell’euro.

È vero che la situazione dell’Italia è in parte diversa da quella dei paesi più periferici, ma è un fatto che il vagone italiano viaggia con lo stesso treno degli altri e risente delle sue complessive vicende. E se il mondo guarda con preoccupazione al treno europeo perché nell’economia globale è quello che viaggia più lentamente, tocca all’Europa, che agli Stati ha affidato la pulizia dei vagoni, aumentare la velocità complessiva ed evitare così che il treno si fermi e vada in pezzi.

Ancor prima del Fiscal Compact e di sicuro dopo di esso, la linea prescelta è stata quella della più severa austerità nei bilanci nazionali. Se è difficile dar torto a chi dice che per crescere occorrono risorse da destinare agli investimenti, è altrettanto difficile aspettarsi che tali risorse possano venire da bilanci nazionali, sui quali i mercati gettano i loro strali non appena fuoriescono dai binari della promessa austerità. Tocca dunque all’Europa, dicevo, e l’Europa può farlo, sciogliendo alcuni nodi che dipendono soltanto dalla volontà e dalla lungimiranza politica di coloro che la guidano.
In sede europea vi sono progetti per infrastrutture, reti, comunicazioni, circolazione di innovazioni, che possono migliorare nel tempo le nostre economie e cambiare da subito le aspettative di investitori e operatori.

Ebbene, sono progetti paralizzati, perché non ricevono i finanziamenti, che pure sul mercato potrebbero trovare. Pochi sanno che le nostre banche e le nostre assicurazioni, a causa delle nuove regole prudenziali introdotte da Basilea 3 e dalla direttiva Solvency 2 allo scopo di rendere i loro asset facilmente liquidabili in caso di bisogno, si tengono alla larga dagli investimenti di lungo periodo, che sono divenuti per loro penalizzanti perché molto costosi. Quale sia il senso di ciò in particolare per le assicurazioni lo sa solo Dio, certo si è che l’effetto sui progetti prima indicati è disarmante, anche perché, a questo punto, se ne tengono alla larga gli stessi fondi pensione e gli altri grandi investitori istituzionali.

Il rimedio ci sarebbe ed è costituito dai project bonds, titoli che potrebbero essere emessi dalla banca Europea degli Investimenti, senza gravare né sui debiti nazionali, né sul debito europeo. I project bonds avrebbero la tripla A, la potrebbero estendere, garantendoli, ai debiti già emessi a favore dei medesimi progetti e darebbero in tal modo un immediato e formidabile impulso alla loro credibilità e alla loro concreta realizzazione. Lo propone l’Eurofi, il centro di ricerca presieduto da Jacques de Larosière, che certo non è uno sconsiderato, come non lo è Franco Bassanini, che da tempo lo predica in Italia. Perché la cosa non viene portata, il più rapidamente possibile, al tavolo delle decisioni europee?

C’è poi la questione del nuovo bilancio dell’Unione, che certo non dispone di enormi risorse, ma potrebbe aumentarle con la tassa sulle transazioni finanziarie e potrebbe comunque orientarle a beneficio della crescita anziché delle tradizionali e obsolete priorità. Si legga il saggio appena scritto da John Peet per il Centre for European Reform. Si apprende che la politica agricola continua a primeggiare fra le spese comuni arrivando al 36% del totale e che i suoi pagamenti vanno per quattro quinti a un quarto degli agricoltori europei, cioè i più grandi, inclusa la famiglia reale britannica con mezzo milione di euro l’anno. La Commissione, sia pure con timidezza superiore alle necessità, qualche innovazione l’ha proposta per il periodo 2014-2010. Come si comporteranno i governi al tavolo del Consiglio Europeo?

Insomma, questa non è l’araba fenice, queste sono misure concrete per la crescita che abbiamo il diritto di pretendere non dal solo Mario Monti, ma da quanti insieme concorrono alle politiche e alle scelte dell’Unione. Fu proprio Monti a dirmi una volta che pensava di coinvolgere anche i leaders dei partiti nazionali, componenti autorevoli dei partiti europei, nell’azione necessaria ad influire su quelle scelte. Martedì avrà una buona occasione per farlo.

Il Sole 24 Ore 15.04.12

"La politica può rinascere se combatte con le idee il dominio della finanza", di Nadia Urbinati

La fine del compromesso tra capitalismo e democrazia ha aperto la strada a un liberismo in cui il mercato è regista e la politica va tenuta nell’angolo. Per questo occorre rilanciare la sfida del governo democratico e della «ragione pubblica». Le ragioni specifiche del declino della sinistra italiana si sono incontrate o hanno coinciso con l’emergere prepotente di un fattore di mutamento ancora più profondo e che attraversa tutte le democrazie consolidate dell’Occidente. Questo mutamento può essere rappresentato come la fine del compromesso tra capitalismo e democrazia in seguito al mutamento del capitalismo da industriale a finanziario. La combinazione di capitalismo e democrazia è stata un compromesso tra proprietà dei mezzi privati di produzione e suffragio universale, per cui chi possedeva i primi ha accettato istituzioni politiche in cui le decisioni prese a maggioranza erano l’aggregato di voti di uguale peso.
Il keynesianismo ha dato i fondamenti ideologici e politici di questo compromesso, e lo ha fatto rispondendo alla crisi del 1929 che lasciò sul tappeto una disoccupazione tremenda e regimi totalitari. Il compromesso consistette nell’assegnare al pubblico un ruolo centrale poiché, invece di assistere i poveri come lo Stato aveva fatto nei decenni precendenti, li impiegava o promuoveva politiche sociali che creavano impiego. Si trattò di un cambiamento anche rispetto alla scienza economica che passò dal mito del laissez faire alle politiche economiche programmatiche dei governi centrali. Questo comportò l’incremento della domanda e la ripresa dell’occupazione (…).
L’esito del compromesso tra democrazia e capitalismo industriale fu che i poveri diventarono davvero i rappresentanti dell’interesse generale della società: la loro emancipazione bloccò le politiche restauratrici della classe che possedeva il potere economico. L’allargamento dei consumi privati mise in moto il più importante investimento, quello sulla cittadinanza. La politica del doppio binario “piena occupazione e eguaglianza politica” fu la costituzione materiale delle Costituzioni democratiche dalla fine della seconda guerra mondiale. L’esito fu che l’allocazione delle risorse economiche dal lavoro ai beni sociali e primari ai sevizi fu dominata dalle relazioni delle forze politiche. I partiti politici si incaricarono di gestire la politica, di essere rappresentanti delle forze sociali, le quali rinunciavano a fare da sole (…). A partire dagli anni Ottanta l’accumulazione si è liberata dai lacci imposti dalla democrazia; l’accumulazione si è liberata dai vincoli dell’investimento imposti dalla filosofia della piena occupazione. La nuova destra ha preso corpo, quella che ha promosso piani di detassazione dei profitti, di abolizione dei controlli sull’impatto ambientale e sulle condizioni di lavoro (l’aumento degli incidenti sul lavoro non è accidentale), l’indebolimento dei sindacati e il loro riorientamento dalla contrattazione nazionale a quella aziendale, le liberalizzazioni. Questa fase, che è quella sulle cui conseguenze l’Europa si sta dibattendo negli ultimi mesi, impersona a tutto tondo una nuova società, una mutazione della democrazia. Verso quale direzione?
Nel passato keynesiano, la rottura del compromesso per imporre la fine di politiche sociali si era servita di strategie anche violente: il colpo di Stato in Cile nel 1973 impose una svolta liberista radicale e immediata. È difficile pensare a qualcosa di simile oggi, nel nostro continente, benché la storia insegni a «mai dire mai». Un altro cambiamento, forse meno indolore seppure non assolutamente senza sofferenza, è quello che si sta profilando a chiare lettere in questi anni: la depoliticizzazione delle relazioni economiche. Non la soppressione violenta della libertà politica ma alcuni mutamenti rilevanti: ad esempio la diminuzione della partecipazione elettorale, la trasformazione dei partiti in macchine elettorali e la concentranzione dei mezzi di informazione, sono mutamenti che incidono sul tenore e sulla fisionomia della democrazia pur senza sospenderla. La democrazia che aveva siglato il compromesso con il capitalismo industriale aveva rivendicato la natura politica di tutte le relazioni sociali, e i diritti civili bastavano a limitare il potere decisionale delle maggioranze. In questo modo la politica democratica entrava in tutte le pieghe della società ogni qualvolta si trattava di difendere l’eguale libertà dei cittadini. Con la fine di quel compromesso, la politica arretra progressivamente, e soprattutto fa giganti passi indietro nel mondo del lavoro e delle relazioni industriali. Il lavoro torna a essere come nell’età pre-keynesiana un bene solo economico, fuori dai lacci del diritto e della politica. La battaglia sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha questo significato.
Si è detto che questo articolo aveva comunque poco impatto operando su aziende medio-grandi mentre l’Italia ha in maggioranza aziende medio-piccole o familiari. Allora perché? Perché, si è detto, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una decisione simbolica, un segnale. E perché i mercati hanno bisogno di questo tipo di segnale? La risposta si ricava da quanto detto fin qui: la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge, il legislatore, lo Stato, ma il mercato. Perché una parte importante della sfera sociale deve tornare a essere privata, e quindi cacciare l’interferenza della politica (…)
E vengo così alla terza e ultima parte della mia riflessione, che verte sul bisogno di politica e, per quanto riguarda il nostro Paese, sulla necessità di uscire prima possibile dal dopo Berlusconi, di chiudere quella che è stata chiamata la fase del governo di emergenza prima di tutto per l’inadeguatezza del governo democraticamente eletto nel 2008 e poi perché come una guerra la crisi finanziaria ed economica ha chiesto e chiede ai governi di prendere decisioni che sono così impopolari che nessun partito può perseguirle pena la perdita dei consensi elettorali. La dialettica politica e partitica mal si adatta ai tempi di emergenza, non c’è bisogno di scomodare Carl Schmitt (il quale del resto sta godendo di grande successo anche negli Stati Uniti dove si invocano esecutivi forti e meno condizionati dal Congresso, luogo di mediazioni e compromessi che rendono le decisioni stentate, lente e deboli).
In Italia noi abbiamo un governo dell’emergenza. Quello di Monti è un governo ad interim che per unanime consenso è temporaneo perché di emergenza. Secondo gli scettici della democrazia parlamentare, nei momenti di crisi radicale serve un forte esecutivo che risolva l’impotenza della deliberazione collettiva a decidere con celerità e senza calcoli elettoralistici. In questi mesi di guerra dei mercati finanziari agli Stati democratici, la politica è stata messa all’angolo. Il fatto poi che l’Italia abbia avuto per anni un governo a dir poco imbarazzante ha reso il silenzio della politica addirittura desiderabile. Ma la politica deve uscire dall’angolo e tornare a coprire il suo ruolo di governo della società per mezzo della libera competizione di programmi e idee (…).
Sono almeno due le sfide più impegnative. La prima è quella che conosciamo con il nome di liberismo o neoliberalismo. Nato insieme allo Stato con funzione sociale e per combatterlo, ha nel tempo assunto diverse conformazioni a seconda del tipo di Stato sociale da limitare e del tipo di mercato da rafforzare. Il liberismo che governa oggi i Paesi occidentali e che trova facile via di penetrazione attraverso la retorica dell’emergenza impersona il potere impersonale (il bisticcio è voluto) della finanza: detta regole agli esecutivi e ai parlamenti, non accetta trattativa o compromessi. È quanto di più lontano ci sia dalla politica democratica (…).
La rinascita della politica non potrà che partire di qui: dal rispondere a questa sfida, e saper dire come riportare i valori democratici al centro della progettualità, di quel che siamo e vogliamo essere come Paese (questa ricerca è già cominciata, come mostra la recente riunione parigina delle maggiori fondazioni politiche della sinistra europea). Diceva Norberto Bobbio che nelle democrazie la sfida non sta tanto nella risposta alla domanda «chi» vota, ma «dove» si vota, cioè in quali ambiti di vita la ragione pubblica opera. La prima sfida alla politica sta nella seguente domanda: come si deve rispondere a coloro che sostengono che le relazioni economiche non devono più sottostare alla ragione pubblica? Ovvero, per riprendere il filo del secondo argomento qui sviluppato, come si deve attrezzare la democrazia elettorale al mutamento del capitalismo, alla sua richiesta di essere libero da ogni obbligo verso la comunità?
La seconda sfida, conseguente alla prima, è quella che si materializza nella debolezza delle sovranità nazionali. Poiché a queste domande, nessun Paese da solo può pensare di dare una risposta. Le interconnessioni globali si sono così addensate che nessun governo ha da anni ormai la capacità di progettare e programmare politiche nazionali e sociali senza coordinazione e cooperazione con altri governi. L’Europa è stata da questo punto di vista una creazione lungimirante. Il Vecchio continente ha saputo intercettare con utopica prudenza l’esigenza di una politica sovranazionale. Oggi, questa potenziale ricchezza rischia di essere dissipata o deturpata a causa dello sbilanciamento di potere economico e finanziario degli Stati membri. La seconda sfida che la politica dovrà affrontare sta in questa domanda: è possibile un’unione tra partner che non sono equipollenti e quando alcuni dominano e tengono altri sotto tutela? (…).
Un’indicazione sul percorso verso la rinascita della politica e la risposta a queste sfide ci viene dall’esperienza di questi mesi di governo di emergenza nel nostro Paese. Sappiamo ora con provata certezza che nessun diritto è sacrosanto e nessuna conquista è al riparo da cadute, anche quando incardinata nelle leggi e coerente al dettato costituzionale. Sappiamo che la democratizzazione che aveva elevato l’Europa del secondo dopoguerra a stella polare di civiltà può essere bloccata e cambiata nel suo significato. Sappiamo, in sostanza, che non tutti i cittadini e le cittadine, e poi non tutti gli Stati, hanno eguale peso nel processo decisionale.
Di fronte a questa incrinatura palese della democrazia l’assenza della politica è disarmante e rischiosa. Ma sapere da che parte si sta è già un primo importante passo verso la rinascita. La rinascita della politica non sarà probabilmente un fatto repentino, né avverrà dall’oggi al domani. Il declino della partecipazione al voto che tutti i sondaggi stanno misurando, in Italia come nel resto dei Paesi occidentali, è segno profondo di quanto grande sia la distanza tra il bisogno di risposte politiche da parte dei cittadini e la volontà o la capacità dei soggetti politici che dovrebbero darle. La rinascita della politica coincide quindi con la ricostituzione del Partito Democratico intorno a un progetto politico che sia consapevole di questi mutamenti che sono epocali, non solamente a livello nazionale, e soprattutto senza la certezza che si possano governare con gli strumenti con i quali sono stati finora governati.

L’Unità 15.04.12