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"Bersani a Monti: ora la crescita", di Maria Zegarelli

Intervenendo alla convention di Area Democratica il segretario Pd fissa le priorità in vista del vertice con Monti: misure per sviluppo e occupazione, allentamento del Patto di stabilità per i Comuni, legge sui partiti. Crescita e lavoro, liquidità per i Comuni attraverso un allentamento del Patto di stabilità, pochi ma mirati interventi per la riforma del mercato del lavoro senza stravolgerne l’impianto: sono queste le priorità del Pd in vista del vertice di martedì con il premier Mario Monti e i leader di Pdl e Terzo Polo, Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini.
Ad annunciare quale sarà la linea è lo stesso segretario Pier Luigi Bersani intervenendo alla convention di Areadem a Cortona, occasione per rispondere anche a quanti, sulla scia degli scandali, chiedono l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. «Siamo disposti anche a spostare la tranche di luglio», spiega. Ma «non andremo a battere cassa alle buonuscite dei supermanager né a bussare alla porta dei palazzinari». Pronti a ridiscutere il quanto, «tenendo ben presente che i finanziamenti sono stati già dimezzati», ad accelerate il ddl che ne garantisca trasparenza, ma contrari all’abolizione.
IL BRACCIO DI FERRO
Quanto all’incontro di martedì con il premier, il segretario si dice pronto anche «a derubricare la parola crescita che dà idea di riforme strutturali e politica industriale. Diamo un po’ di lavoro in giro, non per invertire la recessione, ma per limitarla». Una risposta immediata potrebbe essere l’allentamento del Patto di stabilità. «I Comuni non sanno che pesci prendere e con questo meccanismo non pagano gli stipendi come mi ha spiegato poco fa proprio Piero Fassino», avverte il segretario, mentre il sindaco di Torino prevede che «con la rateizzazione dell’Imu i Comuni non saranno in grado di chiudere i bilanci».
Sarà un vertice lungo e complesso, considerati i nodi da sciogliere, il segretario Pd andrà con le sue proposte e illustrerà i punti di caduta accettabili sulle questioni aperte, ma ad Alfano anticipa qualche titolo: «Voglio dirgli che neanche a me piace l’Imu e infatti noi avevamo una proposta diversa: un’Imu più leggera e una tassa sui grandi patrimoni immobiliari. Ne vogliamo parlare? Noi siamo pronti». E promette: «Quello che non ci hanno fatto fare adesso noi lo faremo dopo».
Imu e riforma del lavoro sono il terreno su cui si gioca il braccio di ferro tra i due maggiori partiti della “strana maggioranza”. Fibrillazioni nel Pdl dopo le dichiarazioni di Tiziano Treu e Cesare Damiano. Scintille quando Bersani affonda: «Chiedo a tutti noi di non accettare che la memoria si faccia troppo corta e che le cose vengano raccontate in modo diverso da come sono. Il governo Monti non è venuto dopo i partiti, è venuto dopo Berlusconi, e se noi siamo a questo punto è perché è stato il governo Berlusconi a portarci qui».
Troppo comodo per gli azzurri, «cercare di mettersi al riparo» in vista del 2013. «Politicamente siamo noi in una situazione piuttosto scomoda», ammette il segretario nel pieno delle mediazioni su riforma del lavoro e legge elettorale. «C’è malumore e sofferenza nel Paese che derivano da una doppia crisi, la più grave crisi economica dal ’29 e la più grave crisi di credibilità della politica dal ’92». E in questo humus, avverte, «sotto la pelle abbiamo di nuovo dei populismi in cerca d’autore e degli apprendisti stregoni che pensano di coltivare e fomentare l’antipolitica, pensando che via la politica arrivi comunque qualcuno in doppiopetto e garbato. Stiano attenti: non è così».
UNA LUNGA MARCIA
Di tempo non ce n’è molto: «Si deve intraprendere una lunga marcia di ricostruzione di una democrazia riformata», e non può essere soltanto un problema del Pd, riguarda tutti i partiti. «Ma noi non ci stiamo a che si mettano tutti nel mucchio». Sfida Alfano a portare fino in fondo le riforme e conferma la linea tracciata da Dario Franceschini: se entro maggio non si arriva all’approvazione in prima lettura al Senato «è evidente che non ci sono i tempi per la riforma costituzionale. Noi siamo per andare avanti, diciamo quale è il nostro punto di caduta, adesso lo dicano gli altri».
L’immagine che rimanda Cortona è quella di un partito che discute ma «è solido», come dice Franceschini. «Grazie a Dario e a Areadem perché lavorate lealmente per la ditta», sottolinea Bersani. E la ditta sa bene quale sia la vera battaglia da vincere: l’antipolitica.
Lo ribadiscono nei loro interventi, tra gli altri, anche Giuliano Amato, Pierluigi Castagnetti, Ettore Rosato, Piero Fassino. Riconquistare la fiducia degli italiani è importante tanto quanto vincere le amministrative.

L’Unità 15.04.12

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Bersani: “Riduciamo i rimborsi ai partiti Ma basta populismo”, di Carlo Bertini

«Non cederò all’antipolitica e a chi vuole mettere tutti nello stesso mucchio». Il segretario Pd: “Già nel 2015 verranno dimezzati e le quote saranno più basse di Francia e Germania”. Io sono disposto a inserire nella norma sulla trasparenza non solo il congelamento dell’ultima tranche di luglio, ma anche una riduzione dei rimborsi. Ma bisogna pur dire che il dimezzamento dei fondi ai partiti è stato fatto e che nel 2015 arriveranno a essere la metà, 145 milioni di euro rispetto ai 285 e passa del 2008. Per me va bene fare ancora di più, ma se non mettiamo tutti un argine a questa ondata di antipolitica non basterà neanche questo». Di fronte alle pressioni che montano fuori e dentro il suo partito, dove personalità come Fassino, Fioroni o Castagnetti chiedono di battere un colpo subito, Pierluigi Bersani capisce che è il caso di rompere gli indugi e ammette che l’entità delle risorse ai partiti va ridotta. Ma non si spinge a seguire la Lega e l’Idv nella rinuncia alla quota annuale che i partiti dovrebbero incassare a breve. Il segretario del Pd non lo può dire chiaro e tondo, ma ci pensa il tesoriere Antonio Misiani sul Fatto Quotidiano ad ammettere che in pratica quei fondi sono già impegnati, che il partito ha un disavanzo di 43 milioni di euro e senza quei soldi «chiuderebbe» i battenti. Il timore non detto invece è non avere mezzi adeguati per affrontare la campagna elettorale del 2013 ed è questo a sconsigliare le rinunce che altri possono permettersi di sbandierare.
E’ ben consapevole Bersani che dopo gli ultimi scandali nel paese monta l’indignazione, che la gente arriva a minacciare di non pagare l’Imu fino a quando non verranno asciugate le casse dei partiti. E prima di dire la sua al convegno di Cortona, in privato si sfoga «perché lo so bene che ci sono queste spinte qui, vado in giro e mi dicono le stesse cose. Ma non c’è modo di frenarle se non con un processo collettivo. E sono pure pronto a rispondere ok, tagliamo ancora i nostri fondi, ma prima voglio che qualcuno mi dica ben chiaro se il concetto di democrazia va tutelato o no».
Forse sarebbe il caso di ammettere che i cosiddetti rimborsi elettorali in realtà sono usati anche per mantenere le strutture dei partiti, sedi e dipendenti, tutto l’anno? «E’ vero, bisogna chiamarli col loro nome, finanziamento pubblico e dire che serve per garantire una vita ai partiti e alla democrazia». E se gli si fa notare che con quei cento e passa milioni di euro della famosa ultima tranche di luglio si potrebbe magari reintrodurre il tempo pieno nelle scuole materne, il leader Pd si rabbuia. Perché se si vogliono usare argomenti del genere, reagisce, «anche con le liquidazioni d’oro di dieci supermanager si potrebbero fare tante cose utili. Ma qui il rischio è che entro sei mesi ci troveremo di fronte ad un bivio tra nuove forme di populismo e una riscossa civica che porti tutti, tutti, cioè politica, classe dirigente, commentatori e pubblica opinione, a stabilire la difesa di certi valori. Capisco che ciò vuol dire andare controcorrente, ma non cederò all’antipolitica e non ci sto che i partiti vengano messi tutti nello stesso mucchio».
E se in privato se la prende con le campagne dei media che cavalcano la rabbia popolare, davanti ai dirigenti di AreaDem, Bersani articola così le sue paure: «Viviamo la più grave crisi economica dal 1929 ad oggi e la più grave crisi della politica dal ‘92 ad oggi, tutte e due assieme. E badate che la tecnocrazia non può interpretare l’antipolitica in modo sanguigno. Qui ci sono populisti in cerca d’autore e apprendisti stregoni che credono di fomentare l’antipolitica, ma se pensano che dopo arrivi qualcuno in doppio petto si sbagliano. Da qui al 2013, o si rilanciano forme larvatamente populistiche o si intraprende una lunga marcia per ricostruire l’unità del paese. E noi non gonfieremo le nostre vele con un vento cattivo che non porta sulla buona rotta».
Ma dovendo dare qualche segnale tangibile su un tema così sensibile, il segretario Pd delinea questo percorso: «Partiamo con i controlli dei bilanci, i nostri sono già trasparenti, e al tempo stesso ragioniamo su forme e quantità dei finanziamenti, ma dentro un quadro di compatibilità con la vita dei partiti. Possiamo darci due mesi di tempo e usare la legge sulla trasparenza dove inserire anche due o tre articoli sulla democrazia interna dei partiti, per attuare già in quella sede pure l’articolo 49 della Costituzione. Ma oltre a fare presto, va raccontata la verità: il dimezzamento dei fondi è già in corso e a regime la quota pro-capite sarà più bassa che in Francia e Germania». E per rispondere indirettamente a Fini, Bersani chiude ai fondi privati, perché «ad una politica che si finanzi andando a battere cassa a grandi manager ed ereditieri io dico no e poi no».

La Stampa 15.04.12

"Famiglie povere senza difesa perso il 12% del potere d'acquisto", di Filippo Santelli

Per loro il costo più alto della crisi. L’identikit della classe più svantaggiata: donne pensionate residenti al Sud. Di mille euro da usare per spese e bollette, 120 sono andati letteralmente in fumo. C’è un gruppo di famiglie italiane che dalla crisi non è mai uscito. Neanche nel 2010, anno in cui l’economia del Paese era tornata a crescere. Sono quelle più povere, costrette ad arrangiarsi con meno di mille euro al mese. Per lo più pensionati, molte donne, in gran parte residenti al Sud o nelle Isole. Il loro reddito disponibile, negli ultimi anni, non ha fatto che diminuire. Lo rivela un’analisi di tre ricercatori, Monica Montella, Franco Mostacci e Paolo Roberti, basata sui dati della Banca d’Italia e pubblicata sul sito lavoce.info. Nel biennio 2009-2010 il reddito delle famiglie italiane, al netto dell’inflazione, è di poco aumentato. Ma mentre per la classe media il recupero di potere d’acquisto è stato sensibile, il decimo più povero delle famiglie italiane lo ha visto scendere del 4,5%. Una caduta che sommata a quella del biennio precedente, del 7,5%, spinge il bilancio familiare per il periodo 2007-2010 in profondo rosso. Di 1000 euro da usare per spese e bollette quasi 120 sono andati persi.

L’IDENTIKIT
Per dare corpo ai numeri gli autori disegnano un profilo delle famiglie più svantaggiate. Quasi sei su dieci vivono al Sud o nelle Isole e sono formate da un solo componente. Nel 57,5% dei casi il capofamiglia è donna, un valore quasi doppio rispetto alla media italiana. Cittadini con un livello di istruzione basso: la metà non ha nessun titolo di studio o solo la licenza elementare. Ma ciò che più li accomuna è il vivere fuori dal mondo del lavoro. Esserne esclusi, come nel caso del 22% dei capifamiglia disoccupati, quando il dato complessivo per l’Italia non arriva al 4%. O esserne usciti: la metà di loro è in pensione.

MONOREDDITO
Da dove arrivano i soldi? Nella torta delle entrate delle famiglie la fetta più importante è quella degli stipendi, quasi il 40% del totale. Seguono pensioni e rendite, rispettivamente al 25 e al 22%. Se però isoliamo il gruppo delle famiglie più deboli la ricetta per arrivare a fine mese cambia. Il lavoro, autonomo o subordinato, conta appena per un quarto, mentre la quota dei trasferimenti netti si allarga, tra pensioni e sussidi, fino al 52%. Ma più ancora del “come”, sui bilanci domestici incide il “quanto”, la varietà delle fonti di reddito. In quasi tutte le famiglie più povere è solo uno dei componenti a guadagnare. Se in Italia le famiglie monoreddito sono molte, quasi la metà del totale, nel gruppo dei più svantaggiati arrivano a nove su dieci.

INVERSIONE DI TENDENZA
Tra il 2006 e il 2008 il potere d’acquisto delle famiglie italiane era sceso del 4,1%. Nei due anni successivi è tornato a crescere, dello 0,3%. Ma dell’inversione di tendenza hanno beneficiato soprattutto le famiglie a reddito medio, tra i 25 e i 35mila euro l’anno, che hanno visto le disponibilità di spesa aumentare di quasi il 2%. Così nel biennio l’indice di Gini, termometro delle disuguaglianze del Paese, è sceso di qualche decimo. “Ma quello è un valore complessivo”, spiega Franco Mostacci, uno degli autori della ricerca, “i dati scomposti per classi di reddito dicono di più”. Qualcosa di preoccupante rispetto al welfare italiano: “Fino al 2006 erano i più deboli ad ottenere i maggiori dividendi della crescita economica. Poi la tendenza si è invertita: la redistribuzione della ricchezza li ha sfavoriti”. Da tenere presente, in tempi di riforme delle pensioni e del lavoro.

La Repubblica 15.04.12

"Emorragia di voti per la Lega: è al 6,6% Se ne vanno giovani, operai e pensionati", di Renato Mannheimer

La Lega Nord è nell’occhio del ciclone. E le drammatiche vicende interne del movimento di Umberto Bossi hanno avuto ripercussioni non solo sul partito dei lumbard, ma su tutto lo scenario politico.
Naturalmente, la più evidente conseguenza dello scandalo che ha coinvolto la Lega è stato il significativo incremento del trend di erosione dei suoi consensi. Come si sa, il Carroccio aveva ottenuto poco più dell’8% alle ultime elezioni politiche, per crescere ulteriormente sino a più del 10% alle successive europee del giugno 2009. Poi è cominciato il declino. Alla fine del febbraio scorso la Lega raccoglieva nei sondaggi il 9%. Che diveniva l’8,8% alla fine di marzo, il 7,9% il 4 aprile, sino alla perdita di più di un punto percentuale in pochi giorni, che la porta al 6,6% di oggi, il minimo registrato da molti mesi. C’è dunque stato un calo relativamente forte a seguito dello scandalo; ma quest’ultimo non ha fatto che accentuare l’andamento negativo già in atto da un periodo più lungo e originato dalla crisi interna che la Lega vive da molti mesi. In particolare, hanno abbandonato il Carroccio in misura maggiore gli elettori più giovani, gli operai e (ma un po’ meno) i pensionati.
I voti persi dal Carroccio in questo lasso di tempo — e, in particolare, nell’ultima settimana — non sono andati, tuttavia, prevalentemente agli altri partiti. La gran parte si è rifugiata, per ora, tra gli indecisi e i tentati dall’astensione. Anche per questo, Roberto Maroni si è dichiarato certo di riuscire a recuperare questi consensi, «facendo pulizia» — a suo avviso già quasi terminata — nel suo partito, per tentare di ridargli un’immagine nuovamente «diversa» da quella delle altre forze politiche. Il problema, naturalmente, è vedere se l’ex ministro dell’Interno può riuscire nel suo intento. Interrogati al riguardo, gli italiani mostrano di avere molti dubbi a proposito: più dell’80% non crede che la Lega sia in grado di riscattarsi dal proprio declino. Sia a motivo della sua crisi interna, sia, specialmente, a causa della ricorrente ambiguità della linea politica e del frequente mutamento degli obiettivi strategici proposti in questi anni dal Carroccio. Solo il 14% (che sale al 35% — restando dunque una minoranza — tra gli elettori del centrodestra) la pensa all’opposto e ritiene che Maroni possa farcela.
L’operazione ipotizzata dal leader leghista appare dunque assai ardua. Anche se, teoricamente, egli può godere di un mercato potenziale di consensi molto ampio, sia pure in concorrenza con altri movimenti di opposizione. La profonda sfiducia nei partiti che, come si sa, è radicata nella popolazione, dà infatti luogo ad una diffusa richiesta di forze politiche «nuove», che si differenzino in toto da quelle tradizionali.
Si tratta di un fenomeno che si è ulteriormente ampliato negli ultimi giorni. Gli ultimi scandali finanziari che hanno coinvolto il Carroccio (dopo avere investito altri partiti), assieme ai ritardi e alle titubanze delle forze politiche nel varare una riforma che regoli e possibilmente tagli i loro abbondanti finanziamenti, hanno infatti contribuito la settimana scorsa a far scendere ulteriormente la stima espressa nei confronti dei partiti presenti sullo scenario politico. Questa si è ormai ridotta ai minimi termini: oggi solo il 2% della popolazione dichiara di avere fiducia nelle forze politiche. Il valore, già esiguo, del 4% rilevato il mese scorso, si è dunque addirittura dimezzato. Il 2% della popolazione adulta corrisponde a circa un milione di persone, vale a dire probabilmente meno di quanti sono attivamente coinvolti ai diversi livelli, da sostenitori a militanti, nei partiti. Ciò significa che una parte di chi vive comunque una vita di partito manifesta al tempo stesso sfiducia in quest’ultimo.
In più, ciò che ci sembra ancora più grave, questa perdita di consenso ha finito col riguardare anche le principali istituzioni democratiche. Ad esempio, la fiducia verso il Parlamento è scesa dal 25% rilevato un anno fa, nell’aprile 2011, al minimo storico dell’11% registrato oggi. Quasi nove italiani su dieci non credono più al principale organo elettivo della nostra nazione e non si sentono più rappresentati da quest’ultimo. Una crisi di consenso istituzionale gravissima. Di fronte alla quale occorrerebbe una reazione forte e immediata.

Il Corriere della Sera 15.04.12

"La vera posta in gioco", di Claudio Sardo

Per riscattare la politica dalla sfiducia e dal discredito che l’hanno investita occorre anzitutto calarsi nella drammaticità della crisi, nella sofferenza delle famiglie, in questa diffusa paura del futuro, nella sensazione di impotenza che purtroppo trasmettono le stesse istituzioni democratiche, ridotte spesso a esecutrici di mandati esterni (e per di più sbagliati). È la crisi più grave che la generazione post-bellica abbia conosciuto. E i suoi effetti sociali sono ormai il contesto in cui si svolge la battaglia politica, si misura l’eticità dei comportamenti, si animano vecchi e nuovi populismi. Il cambiamento è possibile. Ma in questo tornante i rischi sono molto elevati. Compresi rischi democratici. Le classi dirigenti hanno grandi responsabilità. I partiti, e con loro i corpi intermedi, debbono resistere a chi li vuole morti perché, se il cittadino diventerà solo davanti a un mercato senza regole, allora sarà finito il modello sociale europeo.
Non c’è democrazia senza partiti. Non c’è vero pluralismo senza corpi intermedi.Nonc’è possibilità di contrastare il pensiero unico, il predominio della finanza, i poteri forti senza la politica. Neppure è concepibile una ricetta diversa per uscire da questa austerità priva di sbocco, e riprendere la via della crescita, senza forze organizzate che trasformino la speranza civile in programma di governo. Peraltro il raccordo di governo ormai non può che essere a livello europeo: per questo le elezioni francesi sono così importanti per noi e condizioneranno la stessa candidatura del centrosinistra italiano a guidare il Paese dopo Monti. Ma intanto c’è un’emergenza da affrontare. È il crollo di credibilità seguito al doppio scandalo di Luigi Lusi e della «famiglia» leghista. I partiti devono usare verso loro stessiuna misura di sobrietà, di rigore, di moralità maggiore di quella che usano per gli altri. Non tanto perché lo chiede quella parte dell’establishment che fino a ieri applaudiva Berlusconi, Bossi e Tremonti, quanto perché la crisi sta colpendo i ceti medi e le fasce più deboli. E non può la politica democratica separarsi dal suo popolo: se lo facesse, sarebbe destinata a morte certa. La necessaria umiltà e il rigore non devono comunque far perdere di vista il carattere politico dell’offensiva oggi rivolta contro i partiti (ma soprattutto contro il Pd e il centrosinistra). L’ha detto con molta efficacia Alfredo Reichlin ieri sul nostro giornale: il vero tema dello scontro è come uscire dalla crisi, o meglio quali forze, quali interessi devono prevalere nel Paese dopo la stagione di Monti. Il governo politico dei tecnici è figlio di un compromesso.
Una soluzione che ha visto protagoniste in primo luogo le opposizioni, il Pd e l’Udc. Ma dal primo giorno è cominciata la narrazione dei tecnici buoni contrapposti ai partiti cattivi. Dal primo giorno chi aveva scommesso su Berlusconi si è messo a descrivere il fallimento politico del centrodestra come fallimento dell’intera politica. Anzi, come la fine della politica.
In fondo, la risposta al naufragio di Bossi è stata le stessa seguita alla caduta di Berlusconi: scaricando le colpe sulla casta indistinta. Tutti uguali, tutti screditati, tutti colpevoli. Nessuna distinzione. E che si spengano i riflettori sui veri conflitti sociali, su chi ha abbandonato gli esodati, su chi voleva eliminare l’articolo 18, su chi intende cancellare i contratti nazionali, su chi preferisce tassare il lavoro e i consumi primari anziché i grandi patrimoni.
I controlli sui bilanci e la riduzione dei finanziamenti pubblici ai partiti sono necessari non per pagare un dazio a chi teorizza la casta al fine di giustificare soluzioni oligarchiche. I controlli e i tagli servono per ribadire a testa alta che il finanziamento pubblico dei partiti è indispensabile, a meno di consegnare tutti i partiti alle lobby di interessati (ed esigenti) finanziatori. Anche se oggi è scomododirlo, i democratici non possono tacere. Certo, il finanziamento deve restare «pubblico» in tutte le sue fasi, fino alla restituzione allo Stato di ciò che non viene utilizzato. Ma senza risorse pubbliche non c’è autonomia dei partiti.El’autonomia è oggi esattamente il valore più prezioso da recuperare: lo scrive anche il Financial Times, che pone giustamente il recupero di potere sulla finanza come condizione minima per una diversa politica economica. Un criterio questo da tenere bene a mente per la riforma elettorale: se non si cancellerà il Porcellum, i partiti avranno comunque poche chance.
Il cambiamento passa dalla politica, dai partiti, dall’autonomia dei corpi intermedi. Chi lo contrasta confida in un esito oligarchico e/o tecnocratico. Spera insomma di domare la tigre e proteggere gli interessi di un capitalismo debole, impedendo soluzioni politiche guidate dal centrosinistra. Ma anche costoro rischiano di essere alla fine scalzati da una crisi, così acuta da far ricomparire gli spettri di populismi e autoritarismi che pensavamo sconfitti per sempre .

L’Unità 15.04.12

"Depistata la verità", di Benedetta Tobagi

Forse non ve ne siete resi conto, ma ieri mattina, quasi in sordina, si è chiusa un´epoca. Per quanto sopravviva una flebile speranza di nuove inchieste, ieri a Brescia nella sostanza (resta solo il ricorso in Cassazione) si è chiusa, con bilancio fallimentare, la pluridecennale stagione delle inchieste giudiziarie per le bombe della “strategia della tensione”. La strage di Brescia gode di un triste primato: nessun condannato. «Me l´aspettavo» è il commento più frequente al dispositivo della sentenza d´appello. Realismo comprensibile, ma non per questo meno tremendo. Quanto è terribile essere preparati a qualcosa di inaccettabile sotto il profilo etico, civile e semplicemente umano? Non aspettarsi più condanne per una strage di matrice politica che ha ucciso 8 persone: 5 insegnanti attivi nel sindacato, 2 operai, un ex partigiano. Un microcosmo specchio dell´Italia che pacificamente lottava, lavorava e sperava, in piazza della Loggia per una manifestazione antifascista e in piazza ucciso dall´ennesima bomba neofascista (con buona pace dei “negazionisti” di casa nostra, questo è accertato). Mentre l´Italia inorridiva davanti alla carneficina, il luogotenente per il triveneto dell´organizzazione terroristica Ordine Nuovo, Carlo Maria Maggi, arringava i suoi “soldati”: «Brescia non deve rimanere un fatto isolato». Assolto: ma siano noti a tutti i suoi reiterati proclami stragisti, nell´Italia dove le stragi sono accadute per mano di individui che l´hanno fatta franca.
Terribile perché – e lo vedi negli occhi rossi, nelle facce tirate – dopo una lunghissima inchiesta (per consentire lo svolgimento di un´indagine complessa grazie all´impegno civile dei famigliari delle vittime ci sono stati interventi legislativi ad stragem per prorogare i tempi oltre il limite dei 2 anni) e un lungo processo, la possibilità di condannare esisteva. Parafrasando Pasolini: oggi non solo sappiamo, ma abbiamo faticosamente accumulato prove e indizi, «che in tanti processi comuni bastano e avanzano a condannare» – commenta a caldo un legale di parte civile. Insufficienti a provare il concorso in strage al di là di ogni ragionevole dubbio nel rito lento e cauto del processo accusatorio, in uno stato di diritto. Sia chiaro a quanti storcono il naso pensando che qualcuno andasse a caccia di un colpevole a tutti i costi. Non è un caso che le prove, nei processi per strage, non bastino mai.
Quest´assoluzione è solo l´ultima, umiliante vittoria di un´attività sistematica volta a distruggerle e depistare le indagini. Cominciata la mattina della strage, col frettoloso lavaggio della piazza, con sacchi di materiale raccolto dopo l´esplosione finiti nella spazzatura, anziché repertati: forse anche frammenti del timer della “bomba fantasma” su cui in aula si è guerreggiato. Le testimonianze dei primi periti, concordanti con la descrizione del defunto collaboratore Carlo Digilio (l´armiere di Ordine Nuovo, che preparò l´ordigno di piazza Fontana) non sono bastate a far ritenere credibile la sua testimonianza. Brescia fu il prototipo di una strategia di depistaggio sofisticata (poi smascherata dagli stessi tribunali). Una tecnica più subdola delle “piste rosse” costruite intorno a piazza Fontana: la “falsa pista nera”. I responsabili? Si additò un manipolo di fascistelli sbandati, piccoli criminali capeggiati dall´istrionico manipolatore Ermanno Buzzi. Una pista circoscritta, lontana dalle “trame nere” milanesi (oggetto del secondo ciclo di processi, che mandò assolti gli imputati per strage, ma tracciò il quadro della rete terroristica cui doveva appartenere la manovalanza) e da quelle venete, a cui appartenevano gli imputati dell´ultimo processo. Processo istruito anche sulla base di note informative del Sid coeve ai fatti (la fonte era l´imputato Maurizio Tramonte): queste portano dritto alla galassia terroristica di Ordine Nero, che aveva esplosivi, uomini, intenti eversivi, responsabile di uno stillicidio di attentati nell´anno precedente, filiazione del blocco eversivo di Ordine Nuovo, disciolto dopo la condanna del 1973 per ricostituzione del partito fascista. Un manipolo di sbandati prudentemente lontano dalle trame di golpe “bianco” autoritario o presidenzialista – anch´esse più sofisticate del progetto di golpe militare modello greco di Borghese – emerse proprio nel 1974 con le inchieste Mar e “Rosa dei venti”. Una pista nera “sbiadita” e innocua, portata avanti con ogni mezzo dal generale Francesco Delfino, passato sul banco degli imputati. Assolto dal concorso in strage, forse leggeremo nelle motivazioni che è stato responsabile di favoreggiamento, ormai prescritto: le arringhe di parte civile l´hanno argomentato in modo stringente. Sarebbero andate diversamente le cose se i centri di controspionaggio del Sid, anziché occultarle fino agli anni Novanta, avessero fornito nel ‘74 quelle note informative (confermate anche dal generale del Sid Maletti, un “depistatore” di piazza Fontana, dal suo buen retiro sudafricano)? Se i carabinieri di Padova, comandati dal piduista Del Gaudio, avessero fornito le copie che avevano? Se il centro di controspionaggio di Padova non avesse distrutto non solo i documenti, ma – contro regolamenti – anche i registri che dovrebbero lasciarne traccia? Una parte di Stato ha lavorato con costanza e sistematicità per coprire i bombaroli che alimentavano la tensione, e poi per proteggere se stessa. Le condanne mancate parlano dell´inquietante sopravvivenza di reti di solidarietà occulte, suggeriscono una continuità di pratiche illegali annidate in seno alle forze di sicurezza, che ci balenano davanti agli occhi nei “depistaggi sofisticati”, a base di piste false ma verosimili, messi in atto quando s´indaga sulle stragi mafiose, sulle trattative Stato-mafia.
La zizzania e il grano continuano a crescere insieme. Siamo figli di quei peccati e di quelle omissioni, ne portiamo il peso, ne paghiamo il prezzo. Oggi, nell´Italia impoverita, pessimista, delusa dalla politica, stritolata dalle organizzazioni mafiose, la tenacia e la battaglia democratica degli inquirenti, delle parti civili, di tanta società civile forniscono l´insegnamento più prezioso: vale comunque la pena lavorare, si riesce a consolidare un corpo vivente di carte, prove, voci, immagini che ci raccontano cosa è accaduto attorno a noi. Le assoluzioni non bastano a cancellarlo. Cantava De Andrè: “Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti”.

La Repubblica 15.04.12

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Piazza della Loggia, cala il sipario tutti assolti: strage senza colpevoli”, di Cinzia Sasso

Il pm aveva chiesto l´ergastolo. Zorzi: vince il garantismo Maggi: innocente, me l´aspettavo. Un´altra strage senza colpevoli. Dopo piazza Fontana, a Milano, 12 dicembre 1969, anche piazza della Loggia, a Brescia, 8 maggio 1974, otto morti e 102 feriti, resta un massacro impunito. Il sipario scende su un pezzo della nostra storia recente e sulla scena resta solo il buio. Alle undici e dieci del mattino, trentotto anni dopo quel giorno di sangue e terrore, è di nuovo nel nome del popolo italiano che la giustizia si arrende. Ed è con un silenzio sbigottito che un´aula strapiena accoglie l´ultimo schiaffo. Anche se loro, i parenti delle vittime, dovranno pagare le spese processuali. Dopo quattro giorni di camera di consiglio, Enzo Platè, il presidente della Corte d´Assise d´appello, legge la sentenza di assoluzione. È un pronunciamento che ricalca quello di primo grado: tutti puliti, seppure con l´ombra del dubbio. Assolto il medico veneziano Carlo Maria Maggi; l´imprenditore diventato giapponese Delfo Zorzi; l´informatore del Sid Maurizio Tramonte; il generale dei carabinieri Francesco Delfino. Assolto – anche se lui non rischiava l´ergastolo ma solo di essere chiamato a risarcire le parti civili – Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo e già segretario del Msi.
L´accusa aveva chiesto quattro ergastoli, il processo si chiude con quattro assoluzioni, ma il silenzio dell´aula e i commenti a caldo sono una lezione di civiltà. Roberto Di Martino, il procuratore di Cremona distaccato a Brescia per seguire questo processo insieme al pm Francesco Piantoni, hanno fatto di tutto per portare alla luce la verità. Nonostante il tempo passato, le prove distrutte, le indagini deviate, le testimonianze false, i pentimenti tardivi e le ritrattazioni. Dicono: «Siamo sereni perché è stato fatto tutto il possibile. Ormai, questa, è una vicenda che va affidata alla storia, ancor più che alla giustizia». E Manlio Milani, il presidente dell´associazione caduti di piazza della Loggia: «Le sentenze si possono non condividere, ma si accettano». Adriano Paroli, sindaco di Brescia: «Quello che rimane è l´attesa con cui la città e l´intero Paese stanno aspettando da tanti anni una risposta. Una risposta che deve essere fatta di verità e giustizia. E oggi mancano entrambe all´appello». Perfino Alfredo Bazoli, figlio di una delle vittime – sua madre si chiamava Giulietta, era un´insegnante, aveva 34 anni – oggi consigliere comunale del Pd, esprime solo una grande tristezza: «La politica deve chiedersi perché non siamo riusciti a raggiungere una verità processuale, indiscutibile, che ci metta al riparo dalle mistificazioni. Questo resta un buco nero nella democrazia italiana».
Resta solo la verità storica. E Guido Salvini, il magistrato che a Milano si occupò delle inchieste sulle trame nere, la riassume così: «Le enormi fonti di conoscenza portate dalle indagini di Milano e Brescia testimoniano comunque che le stragi di quegli anni furono opera della strategia di Ordine Nuovo». Maurizio Tramonte, fonte del Sid con il nome Tritone, aveva confessato il suo ruolo e aveva raccontato di aver partecipato con i capi ordinovisti veneti alla preparazione dell´attentato. In aula, però, ha ritrattato. Sono stati quattro i processi celebrati finora: il primo, nel 1981, si chiuse con la condanna di alcuni esponenti della destra bresciana e poi uno di loro, Ermanno Buzzi, venne strangolato in carcere dai neri Pierluigi Concutelli e Mario Tuti. Quelle condanne divennero assoluzioni in appello. Nell´84 sono i pentiti a far aprire un nuovo filone di indagine e sotto accusa sono ancora uomini della destra eversiva che però saranno assolti per insufficienza di prove. Nell´intreccio delle indagini si fa strada l´ipotesi del coinvolgimento di apparati dello Stato e dei servizi segreti. A guidare le prime indagini, in modo che sarà impossibile ricostruire la verità, era Francesco Delfino.
Adesso si aspettano le motivazioni. Mentre resta aperto un altro procedimento, a carico di un uomo che allora era minorenne. Nell´amarezza generale, risalta la «gioia immensa» degli imputati assolti. Da Delfino a Maggi («Sono innocente, me l´aspettavo») a Zorzi, che dal lontano Giappone manda a dire: «Ha prevalso il garantismo. Spero solo che il pg non voglia impugnare in Cassazione. Sarebbe procrastinare l´attesa dei familiari delle vittime ai quali ci sentiamo vicini».

La Repubblica 15.04.12

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“Quei misteri d’Italia”, di PIERO COLAPRICO

«Non fu», è questa l´amara cantilena delle stragi italiane. Non fu Freda e non fu Ventura, per la banca dell´agricoltura in piazza Fontana, 1969, 12 dicembre, la «madre» di tutte le violenze di Stato e Antistato. «Non fu» nemmeno il loro fedele Delfo Zorzi, camerata trapiantato in Giappone, rintracciato anni dopo. Nuovi indizi portavano a Zorzi, ma per sentenza il nazista della provincia veneta diventato Hagen Roi, «non fu». Non c´entra né con Milano, anche se erano stati i suoi camerati Freda e Ventura a ordinare, comprare, smistare i timer, a comprare proprio quel modello di valigia, ma non basta. E «non fu» Zorzi nemmeno per la strage di piazza della Loggia a Brescia, il 28 maggio del 1974, così ieri è stato ripetuto alla fine del processo d´appello. In queste due città, 25 morti e 192 feriti.
«Non fu» Mario Tuti, fascista e assassino di carabinieri, il mandante dell´ordigno sull´Italicus, il 4 agosto 1974, 12 morti, 48 feriti. Come «non fu» Luciano Franci a fare da palo alla stazione di Santa Maria Novella, «non fu» Piero Malentacchi a confezionare la bomba. Il perenne «non fu» spunta cupo dopo varie tonnellate di carte scritte a mano, a macchina, a macchina elettronica, infine a computer. Archeologia di verbali e chiavette usb. Con dentro migliaia di testimonianze che significano persone che parlano, ricordano, piangono, si portano dietro il male subito, o nascosto, o fatto. Il «non fu» viene stabilito dopo interrogatori di chi non ricorda, balbetta, imbroglia: e quasi rimpiangi, quando li senti, che tu sia parente, che tu sia pubblico, i cardini dello Stato democratico, quel «meglio dieci colpevoli liberi che un innocente in galera».
Eppure, stringendo i denti, è a questo che le associazioni delle vittime si aggrappano: alla possibile verità nella legalità. È nella verità e nella legalità, in fondo nella giustizia, che sperano sempre, mentre si va moltiplicando via Internet il buio delle sentenze in contraddizione, delle invettive e delle ipotesi balorde. Le stragi, più che di nebbia, sanno di labirinto: l´abbiamo esplorato tante volte, riuscendo a scorgere sempre qualche cosa, ma è solo l´ombra nera del Minotauro, e non entra nell´identikit.
C´è chi, in passato, ha gettato la croce sugli inquirenti. Negli anni ´70 e ´80, mentre per il terrorismo rosso che sparava alla classe dirigente sono stati impiegati in forze i migliori magistrati e investigatori, a cercare di raccapezzarsi nelle nefandezze di terrorismo nero e possibili golpe sono stati lasciati – si diceva – quelli che c´erano. E uno di questi solitari, che cercava i fili scoperti di Ordine Nuovo, è stato ammazzato nel 1980: il giudice Mario Amato. Vera o falsa che sia questa lettura, negli ultimi anni, con la politica spesso più assente e lontana, è stata però la magistratura a «resistere», a cercare.
Il bilancio, però, resta scarso. Anzi, se osserviamo da vicino tutte le stragi, sapendo quello che sappiamo, la piena verità c´è solo in una. È quella del 17 maggio 1973 davanti alla questura milanese. Veniva commemorato il commissario Luigi Calabresi, ucciso sotto casa un anno prima. Viene lanciata una bomba, l´obiettivo è l´allora ministro dell´Interno Mariano Rumor, invece muoiono dilaniate quattro persone, cinquantadue i feriti. L´autore resta lì: è Gianfranco Bertoli. Un anarchico, si definisce. È anche informatore dei servizi segreti Sid e Sifar, vivrà una vita da ergastolano senza aggiungere mezza parola al gesto, a come s´è procurato la bomba, ma è stato lui.
Esistono poi stragi con sentenze di colpevolezza passata in giudicato: Giusva Fioravanti e Valeria Mambro sono ritenuti i responsabili della strage più sanguinosa, quella del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, 85 morti e 200 feriti. I parenti delle vittime sono d´accordo con i giudici, sanno però che questa decisione non soddisfa tutti gli esperti: anzi, per alcuni, la potentissima bomba messa nella sala d´aspetto è in qualche modo legata a un altro mistero italiano, alla precedente strage di Ustica. Era il 20 giugno, quando un Dc 9 Itavia scoppia e precipita. Molto probabilmente per causa di un missile francese che, su mandato americano, cercava di colpire l´aereo sul quale viaggiava il nemico di sempre, il libico Muhammar Gheddafi. Anche qui lunghe, difficilissime indagini, colpevoli zero: con non pochi dipendenti dell´Aeronautica militare, alcuni di servizio ai radar, che muoiono per suicidi dubbi e incidenti sospetti.
Anche l´ultima strage – l´ultima prima delle autobombe piazzate senza dubbio dalla mafia del ´93 – è circondata dall´ambiguità. È la strage di Natale del 1984: il 23 dicembre, il treno Napoli-Milano-Brennero scoppia in galleria a San Benedetto Val Di Sambro, 16 morti, 117 feriti. Due le condanne principali, riguardano i mafiosi Pippo Calò e Guido Cercola, ossia il cassiere dei corleonesi e un picciotto che sarà trovato in cella con i lacci delle scarpe stretti intorno al collo. Nonostante le indagini capillari, «non fu» condannato un possibile complice fascista, ritenuto l´anello di congiunzione tra criminali organizzati e altri «ambienti», altri stragisti.
Qualche giorno dopo le vetture sventrate, i bambini feriti lungo i binari, si conta un´altra vittima. Uno dei primi soccorritori, il vice-ispettore della Polfer, è sotto shock. Si punta la pistola alla tempia e si uccide. Ha lasciato un biglietto: «Questa è una società maledetta». È una frase che risuona ancora, quando si parla tra chi ha perso i suoi cari: «I nostri morti – si sente ripetere – vagano e non trovano un posto dove stare in pace con noi che li piangiamo». Una memoria annaffiata dalle lacrime, questo ci resta dopo i troppi «non fu»?

La Repubblica 15.04.12

Se non ora quando: «Parità di genere nelle liste elettorali», di Laura Matteucci

Le proposte di “Se non ora quando” per la riforma elettorale: doppia preferenza e sanzioni per le liste che non adotteranno i criteri di parità. «Vogliamo accelerare il cambiamento». La necessità di un ricambio generazionale Le donne di Se non ora quando hanno un «nuovo» obiettivo: affrontare il muro di gomma della rappresentanza femminile in politica, in vista delle elezioni prossime e semi prossime (amministrative di maggio, nazionali dell’anno prossimo), e dell’arrivo in Parlamento, entro un paio di mesi al massimo, della discussione su riforma elettorale e dei partiti. L’ultimo incontro nazionale – ieri a Milano – è servito a fare il punto e a produrre proposte da sottoporre poi all’attenzione dei partiti: in caso di riforma della legge elettorale, le donne chiedono si preveda la possibilità del «50e50» in partenza. In sostanza, le liste elettorali dovranno essere paritarie e prevedere l’alternanza di
candidati uomini e donne, con attenzione anche alla testa di lista. Nei collegi uninominali va garantita un’equa rappresentanza di genere. Fatto del tutto nuovo, la legge dovrebbe contemplare delle sanzioni, fino all’inammissibilità delle liste, in caso non venissero rispettati i criteri. Il fil rouge è lo stesso se si andasse a votare con il Porcellum: la richiesta a tutti i partiti di costruire liste paritarie, e l’indicazione da parte del movimento di votare solo le liste «virtuose». «Non vogliamo discutere di nicchie, di quote – dice Barbara Pollastrini, parlamentare Pd – ma di come risolvere la grave crisi di democrazia e rappresentanza che stiamo vivendo nel Paese». I numeri sono lì a confermarlo: la media italiana delle parlamentari donne non centra il 22% (nel Pd è del36%), e questo considerando solo la Camera. Siamo al 48esimo posto in classifica, in pratica veniamo dopo il Ruanda (con il 56% di donne), e pure dopo l’Uzbekistan. Anche la senatrice Pd Marilena Adamo punta sull’«intensa stagione di riforme», aggiungendo una proposta che riguarda il nuovo corso dei rimborsi elettorali: «Si può inserire una clausola per la quale vengono persi anche nel caso non si accettino le norme antidiscriminatorie».
Come dice Elena Lattuada, della segreteria della Cgil Lombardia, «le proposte sono tante, tutti utili strumenti al fine della democrazia rappresentativa. Ma il punto è che vogliamo
un’accelerazione su questi temi: il movimento delle donne deve incidere di più nella dimensione del potere». Perché questo avvenga, però, la ricercatrice universitaria Elena Del Giorgio ricorda una condizione essenziale, il ricambio della classe dirigente politica: «In Italia non c’è mai stato, e questo ha avuto effetti nefasti». Il tema, insomma, è la stretta relazione tra genere e anagrafe.
Tra i contributi della giornata di ieri anche il video prodotto da Giulia, la rete nazionale delle giornaliste unite, ad illustrare i numeri, le buone pratiche e le lotte del movimento delle donne.

L’Unità 54.04.12

"Le sfide del sindacato unito", di Guglielmo Epifani

Partendo dalla manifestazione unitaria dei sindacati in difesa di quei lavoratori costretti dalle scelte del governo a non avere né pensione né lavoro, Franco Marini rilancia con forza il bisogno di un sindacato che ritrovi la sua unità e di un Paese che torni a investire sulla concertazione, intesa come metodo e come valore. Queste parole vanno ascoltate e per quanto non facile, per il peso delle divisioni che vi sono state durante il governo Berlusconi e che tuttora permangono su molti aspetti delle scelte confederali, va riaperto il dibattito sul tema dell’unita. Lo richiede anzitutto la durata e la qualità della crisi che attraversiamo, che è insieme finanziaria, monetaria, economica e sociale; e il rischio che corrono la nostra democrazia e la costruzione europea. Nessuno sa, a distanza di quattro anni, come uscire dalla situazione in cui siamo, e dalle trappole che la caratterizzano. Avremmo bisogno di tregua da parte dei mercati e questa non ci viene data; avremmo bisogno di politiche per lo sviluppo per contrastare disoccupazione e crescita del debito, e questo è difficile farlo senza una diversa politica europea; avremmo urgenza di un’Europa che ritrovi il valore della solidarietà comune, quella che è mancata nel caso della Grecia, e invece ogni Paese è portato a chiudersi in se stesso rispondendo alla propria opinione pubblica e illudendosi di potersi salvare da solo. È insomma uno stato di incertezza quello che caratterizza il nostro presente, mentre i tanti che scommettono contro l’euro hanno giorno dopo giorno occasioni sempre più invitanti, come dimostrano le difficoltà della Spagna. Per i lavoratori, i giovani, i pensionati, e anche per le imprese, i costi sociali che si stanno pagando sono enormi e soprattutto non si vede né una via di uscita a breve, né un motivo per rendere sopportabili sacrifici sempre più al limite. Anche le classi dirigenti sembrano smarrite, divise tra la volontà di non far fallire la scommessa dell’euro e l’impossibilità di convincere la Germania a cambiare logica e strumenti di intervento. Fa parte di questo smarrimento l’ingenua pretesa che tocchi alla dimensione tecnica provare a risolvere quello che la politica non sembra in grado di risolvere; ma anche la pericolosa tentazione di considerare superati il ruolo dei partiti e la funzione della politica a fronte della portata di questa crisi. Come se vi potesse essere una democrazia senza politica e senza partiti. E va da sé che lungo questa deriva anche la funzione della rappresentanza sociale e dei corpi intermedi viene messa in discussione con il ridimensionamento di una decente idea di democrazia. In questo quadro inedito e pericoloso, un sindacato consapevolmente di nuovo unito in ragione della portata epocale della sfida avrebbe di fronte tre campi di intervento: quello della pressione sulla confederazione europea dei sindacati, senza voce e troppo condizionata dalle scelte contraddittorie della Dgb, il sindacato tedesco; quello di ridare più fiducia e risultati a una rappresentanza sociale che si va scomponendo lungo i mille fili degli interessi e si va chiudendo in se stessa; quello di impedire che le difficoltà delle sedi e dei soggetti della responsabilità democratica travolgano il ruolo di tutti i soggetti collettivi, e dei valori loro propri, aprendo la strada a soluzioni autoritarie e populistiche. Naturalmente non basta la coscienza della delicatezza della fase storica per superare di colpo anni e anni di divisioni e di problemi. Ma certo questa può aiutare un percorso che tra alti e bassi, tanto più dopo la caduta del governo Berlusconi e l’aggravarsi della crisi, sta avvicinando le confederazioni. Prima della manifestazione di venerdì, altre iniziative di categoria e di territori hanno unito le strutture delle confederazioni, a partire dallo sciopero della Sardegna e la manifestazione dei lavoratori edili. Il prossimo primo Maggio sarà unitario in tutta Italia e anche a Bologna dove l’anno scorso si celebrò sotto il segno della polemica e della divisione. E in due realtà importanti come Bergamo e Napoli sono in preparazioni due scioperi generali unitari contro la crisi e per la difesa dell’occupazione. Infine anche sul tema della verifica certificata della rappresentatività si stanno facendo dei passi decisivi. Altri temi e situazioni sono ancora alla ricerca di una difficile composizione unitaria; i rapporti alla Fiat, il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, il punto dolente della democrazia e della rappresentanza nei luoghi di lavoro e il lascito sciagurato di quel referendum che amputò colpevolmente quell’equilibrio voluto dallo statuto dei lavoratori. Lo stesso esito del percorso parlamentare sul mercato del lavoro a seconda del suo esito può pesare in un modo o in un altro sul rapporto unitario. Eppure la durezza della fase esige più unità e più unità del e nel mondo del lavoro. Quella stessa unità che i sindacati nazionali hanno saputo ritrovare in tutti i Paesi al tempo della crisi e che per troppo tempo solo da noi non è stata possibile. Si può naturalmente non raggiungere questo obbiettivo, ma non c’è alternativa a impegnarsi fino in fondo e anche di più per provare a ottenerlo.

L’Unità 15.04.12