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"Gite scolastiche? Le scuole godono di piena autonomia", da lastampa.it

Nell’organizzazione di “viaggi di istruzione e visite guidate”, più comunemente conosciute come “gite scolastiche”, le scuole sono totalmente autonome. È quanto ribadisce il ministero dell’Istruzione con una nota emanata ieri in cui ricorda agli Uffici periferici e alle istituzioni scolastiche che dal 1° settembre 2000 le scuole godono del regime di autonomia a seguito dell’entrata in vigore del DPR n. 275 del 1999 (Regolamento in materia di autonomia scolastica).

La nota, come precisa lo stesso Miur, nasce dai «molteplici quesiti che pervengono al Ministero da parte delle istituzioni scolastiche relativi alle modalità di organizzazione dei viaggi di istruzione e visite guidate». La nota ricorda quindi alle scuole che «l’effettuazione di viaggi di istruzione e visite guidate deve tenere conto dei criteri definiti dal Collegio dei docenti in sede di programmazione dell’azione educativa e dal Consiglio di istituto o di circolo nell’ambito dell’organizzazione e programmazione della vita e dell’attività della scuola».

Ma, precisa il Miur, a decorrere dal 1° settembre 2000 il regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche ha configurato «la completa autonomia delle scuole anche in tale settore». Pertanto, conclude la nota ministeriale, «la previgente normativa in materia costituisce opportuno riferimento per orientamenti e suggerimenti operativi, ma non riveste più carattere prescrittivo».

La nota fa quindi espresso riferimento alle diverse circolari, dalla 291 del 1992 alla 349 del 1999, fino alla 623 del 2 ottobre 1996 che fornisce il quadro generale per le «Visite e viaggi di istruzione o connessi ad attività sportive» e che nel corso degli anni non ha subito sostanziali modifiche.

La circolare stabiliva espressamente che «l’intera gestione delle visite guidate e dei viaggi d’istruzione o connessi ad attività sportive in Italia e all’estero rientra nella completa autonomia decisionale e nella responsabilità degli organi di autogoverno delle istituzioni scolastiche. Non deve, quindi, essere richiesta alcuna autorizzazione ai provveditori agli studi né al Ministero per l’effettuazione delle iniziative in questione».

E ancora, secondo quanto prevedeva la circolare ministeriale, «la scuola determina, pertanto, autonomamente il periodo più opportuno di realizzazione dell’iniziativa in modo che sia compatibile con l’attività didattica, nonché il numero di allievi partecipanti, le destinazioni e la durata».

Tutte le iniziative, inoltre, «devono essere inquadrate nella programmazione didattica della scuola ed essere coerenti con gli obiettivi didattici e formativi propri di ciascun settore scolastico, nella puntuale attuazione delle finalità istituzionali, volte alla promozione personale e culturale degli allievi ed alla loro piena integrazione scolastica e sociale».

Era poi previsto che per organizzare un viaggio di istruzione dovessero partecipare almeno i due terzi degli alunni della classe e che vi fosse un docente ogni 15 alunni o 3 per ogni classe.

Infine, era consentita la partecipazione dei genitori a condizione che non vi siano oneri a carico della scuola e che questi si impegnino a partecipare alle attività programmate per gli alunni.

www.lastampa.it

"L'incontro di Areadem", di Marina Sereni

Sembra passato un secolo da quando, a marzo del 2011, Areadem da Cortona lanciava l’idea di ungoverno di transizione e di responsabilità nazionale, guidato da una personalità autorevole, in grado di allontanare l’Italia dal baratro del fallimento, di avviare l’uscita dal berlusconismo, e di preparare una stagione politica nuova. La svolta c’è stata: anche grazie all’iniziativa del Pd, Berlusconi non è più a Palazzo Chigi, dal 16 novembre è in carica il governo Monti il quale, con il sostegno parlamentare di Pd, Pdl e Terzo Polo, sta realizzando un ambizioso e complesso programma di riforme.
La concreta esperienza di questi cinque mesi ci ricorda che siamo di fronte ad una sfida di portata straordinaria: siamo in piena recessione, la disoccupazione ha raggiunto cifre record, le condizioni materiali di lavoratori, famiglie, imprese sono ancora durissime, l’instabilità finanziaria e i pericoli di attacchi speculativi contro l’Euro non sono scongiurati definitivamente e richiederebbero un’azione europea più coraggiosa. Le riforme
approvate fin qui in Parlamento non hanno avuto, né potevano avere, l’effetto miracoloso di far ripartire la crescita e di creare maggiori condizioni di equità sociale. Dopo i governi populisti della destra, l’Italia è più debole e ingiusta, e nella crisi paga il prezzo di un Paese con un debito altissimo, bassa produttività e bassa crescita, antiche strozzature e diseguaglianze. Il Pd ha mostrato di sostenere lealmente il governo, assumendosi la responsabilità di ricette amare, ma ha anche preteso di poter migliorare con le proprie proposte i provvedimenti sulle pensioni, sulle liberalizzazioni, sulla riforma del mercato del lavoro. A cinque mesi dall’insediamento del presidente Monti la diatriba tra diffidenti ed entusiasti del nuovo esecutivo ha lasciato il posto, almeno dentro il Pd, a un atteggiamento laico, responsabile, impegnato a far prevalere i contenuti e il merito piuttosto che le etichette. Dall’altro lato l’indignazione per le inchieste giudiziarie e per gli scandali che coinvolgono esponenti politici, il discredito crescente verso i partiti rischia di sommarsi al malessere frutto della crisi sociale ed economica. Mentre diventa sempre più evidente e drammatico il tramonto di personalità come Bossi e Berlusconi, che hanno segnato gli ultimi due decenni della vita italiana, in tanti alimentano gli umori dell’antipolitica auspicando l’implosione dell’intero sistema. La disaffezione e la sfiducia verso la politica sono così forti – e per molti aspetti fondati – da richiedere un’azione di riforma urgente, la dimostrazione di una seria capacità di autoriforma da parte dei partiti, nuove regole di finanziamento, una nuova legge elettorale, le modifiche costituzionali necessarie per ridurre il numero dei parlamentari e
differenziare le funzioni delle due Camere. Il nostro obiettivo è far sì che da questa crisi non si esca ricercando un nuovo «uomo della Provvidenza» ma con partiti rinnovati e una democrazia parlamentare moderna ed efficace. I mesi che ci separano dalle prossime elezioni politiche devono dunque essere utilizzati fino in fondo per dare alcune risposte convincenti su lavoro, crescita, risanamento finanziario, così come sul rinnovamento della politica e delle istituzioni democratiche. Ciò richiede alle forze politiche,e al Pd in particolare, un duplice sforzo: non soltanto essere protagonisti, qui e ora, delle riforme più urgenti e possibili; ma anche quello di guardare un po’ più in là, di elaborare e indicare una visione, un progetto per il futuro del Paese. Ecco, questo è il senso del titolo della tre giorni di Cortona che inizia oggi «Duemilatredici: idee per l’Italia che verrà». Dopo la relazione di Franceschini, si confronteranno con noi esponenti del governo, come il ministro Riccardi e la sottosegretaria al Welfare Guerra, esperti di varie discipline come i professori D’Alimonte e Giorgis (su riforma elettorale e
istituzionale), Barucci e Corazza (su crescita e lavoro), personalità come il presidente Amato cui abbiamo chiesto una riflessione sull’Europa, iornalisti come Giovanni Floris che approfondirà il tema delle classi dirigenti, amministratori e dirigenti politici come Piero Fassino, Graziano Delrio, Enrico Rossi. La presenza di Bersani, che chiuderà la mattinata di sabato, testimonia e conferma lo spirito unitario con il quale Areadem sin dall’inizio ha inteso interpretare e far vivere il pluralismo all’interno del partito. ACortona mostreremo dunque un Pd forte e unito, risorsa del Paese in un momento così difficile e incerto.

L’Unità 13.04.12

"Lusi, altri 13 milioni sospetti", di Mariantonietta Colimberti

Altri 13 milioni di euro sospetti sono stati evidenziati dall’esame della contabilità 2001-2011 della Margherita effettuato dalla Kpmg, la società di consulenza la cui relazione è stata depositata ieri in procura di Roma dai legali del partito, Margherita Titta Madia e Alessandro Diddi. La cifra riguarderebbe operazioni per gli anni dal 2001 al 2007, sulle quali non sono state effettuate ulteriori verifiche in attesa che si esauriscano le attività di controllo dell’Autorità giudiziaria e della Banca d’Italia.
Dalla relazione emergono anche altri particolari relativi alla gestione dei fondi della Margherita da parte di Luigi Lusi. Come gli oltre 800mila euro di spese non documentate, solo per il 2011. «Dall’esame della situazione contabile dell’esercizio 2011 – si legge nel documento di cinque pagine – risultano spese per viaggi e trasferte elettorali pari ad euro 869.428 che si riferiscono a centinaia di assegni di piccolo taglio (inferiori ai 12mila euro) emessi dal tesoriere sul conto corrente acceso presso Bnl».
Secondo i consulenti tali assegni sono registrati in contabilità «senza alcun documento a supporto della spesa sostenuta». Ci sono poi le fatture emesse, sempre nel 2011, con descrizione generica di una agenzia di viaggi di Roma, per un valore complessivo di 228mila euro. Nel documento si precisa che l’agenzia di viaggi ha fornito tutta la documentazione dalla quale è emerso che le fatture sono riconducibili a servizi di viaggio fruiti da Lusi e/o persone a lui riconducibili.
Nell’esercizio 2011 sono state rinvenute anche fatture emesse dall’agenzia Leader per servizi di aereo-taxi di cui una, presumibilmente riconducibile all’ex tesoriere, per la tratta Roma-Biggin Hill (Londra)-Roma svolta il 29 e 30 marzo 2011 al costo di 15mila euro. «Prosegue il rigoroso accertamento di tutta la verità in costante collaborazione con gli inquirenti. Siamo determinati a recuperare per intero il maltolto per restituirlo ai cittadini», hanno dichiarato in una nota Francesco Rutelli, Enzo Bianco e Gianpiero Bocci.

da Europa Quotidiano 13.04.12

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“AL DI SOTTO DI OGNI SOSPETTO”, di MASSIMO GIANNINI

POSSIAMO battezzare la fase con altre parole, e non evocare precedenti storici troppo «impegnativi»: Questione Morale, Tangentopoli, Mani Pulite.

Ma non possiamo non vedere che ancora una volta il fatiscente Palazzo d’Inverno della politica è assediato da una «batteria» impressionante di inchieste della magistratura. E non possiamo non vedere che la risposta della politica, dalle norme anti-corruzione a quelle sui rimborsi elettorali, è paurosamente lenta, inadeguata, al di sotto di ogni sospetto.

L’assedioè nei fatti. Dalla Carrocciopoli di casa Bossi alle nuove carte che inchiodano Berlusconi sul Ruby-gate. Dallo scandalo della ex Margherita di Lusi all’indagine sulla sanità nella Puglia di Vendola. L’assedio è nei numeri. In quest’ultima legislatura, i parlamentari indagati e/o condannati per corruzione, concussione, truffe e abusi d’ufficio sono stati 90, di cui 59 del Pdl, 13 del Pd e 8 dell’Udc. Nello stesso periodo, gli amministratori locali coinvolti da inchieste giudiziarie per gli stessi reati sono stati circa 400, di cui 110 del Pd e quasi il triplo del Pdl. Il garantismo è un presidio irrinunciabile della democrazia liberale: nessun imputato è colpevole finché la sentenza non è passata in giudicato. Ma di fronte a questi fatti e a questi numeri non si può non constatare che la democrazia liberale ha un problema enorme, e che i partiti non trovano la forza e la voglia di risolverlo.

La vicenda della nuova disciplina sul finanziamento ai partiti è penosa. Gli «sherpa» di Pdl, Pd e Terzo Polo hanno annunciato in pompa magna un accordo bipartisan. Pochi punti, ma «qualificanti»: certificazione dei bilanci a cura delle società di revisione, controllo affidato a una nuova «Commissione per la trasparenza», obbligo di pubblicizzare le donazioni private superiori ai 5 mila euro, sanzioni fino a tre volte gli importi non dichiarati, sospensione del versamento dell’ultima «rata» da 166 milioni di rimborsi dovuti ai partiti nel prossimo luglio. Hanno promesso solennemente: faremo un emendamento al decreto legge sulle semplificazioni.

Oggi il bluff è già scoperto. L’emendamento al decreto è giuridicamente inammissibile: abbondano i requisiti «di necessità», ma mancano quelli «di urgenza», come avrebbe previsto una qualunque matricola di giurisprudenza. Si ripiega sul solito disegno di legge, appeso ai tempi insondabili del Parlamento. Il ddl porta una firma autorevole, perché «tripartisan»: Alfano, Bersani e Casini. Ma al di là del suo valore simbolico, è un pannicello caldo sul corpo martoriato della politica: i partiti, qui ed ora, non si riducono un euro di rimborso. E dal testo scompare persino il rinvio del versamento della rata di luglio. Si passa dal decreto-fantasma al disegno di legge truffa. Non ci si può stupire se gli italiani, già pronti a pagare la stangata dell’Imu, si indignano. Non ci si può rammaricare se i populisti, a destra e a sinistra, si ingrassano. La vicenda della nuova disciplina contro la corruzione è pericolosa. Un timidissimo disegno di legge presentato dall’allora maggioranza forzaleghistae pluri-inquisita giace alla Camera dal maggio 2010. Ora, sull’onda dei furori di popolo alimentati dal malaffare dilagante, il governo Monti tenta un’accelerazione. Ma le nuove norme del ministro Guardasigilli Severino sono un impasto di buone intenzioni e di cattive soluzioni. Tra le prime, spiccano l’inasprimento delle pene per tuttii reati di natura corruttiva, dalla «corruzione privata» alla corruzione in atti giudiziari, dal peculato all’abuso d’ufficio, e poi l’introduzione del nuovo reato di «traffico di influenze» (che sarà punito fino a tre anni e colpirà «il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che fa promettere a sé o ad altri denaro o altra utilità»).

Tra le seconde, campeggia la riscrittura dell’articolo 317 del codice penale, cioè la «riforma» del reato di concussione. Una revisione spacciata dal centrodestra con una bugia: «Ce lo chiede l’Ocse e l ‘ E u r o p a » , c o m e h a non casualmente scritto «Il Giornale» della f a m i g l i a Berlusconi il 26 marzo scorso, in un’intervista al presid e n t e d e l gruppo di lavoro sulla corruzione Mark Pieth, i n t i t o l a t a «La concuss i o n e è u n ‘ i n v e n zione italiana». La verità, come ha spiegato il direttore del Servizio studi Davide Bonucci al Sole 24 Ore, è che «l’Ocse non ha mai chiesto all’Italia di eliminare la concussione». Nonostante questo, la «strana» maggioranza vuole eliminarla. Il Pd ha presentato a suo tempo una proposta che va proprio in questa direzione. La Severino ha dovuto cercare una mediazione. Il testo attuale prevede una pena fino a 12 anni per chiunque, abusando della propria posizione di pubblico ufficiale, ottenga da un altro soggetto denaro o altri vantaggi per sé o per un terzo. Il nuovo testo cancella questo reato, e lo riconfigura in due reati diversi: la concussione «per costrizione» (per la quale la pena massima resta di 12 anni ma la minima sale da 4 a 6) e la «indebita induzione» (per la quale la pena si riduce da un minimo di 3 a un massimo di 8 anni). Al di là dei tecnicismi, quello che conta è il risultato pratico di questa riformulazione del codice, che mette stranamente d’accordo sia il Pdl che il Pd. La nuova norma impatta su tutti i processi in c o r s o p e r concussione, che sono quasi un terzo dei 90 nei quali sono stati e sono c o i n v o l t i deputati e senatori e q u a s i l a metà degli oltre 400 che riguardano gli amministratori locali. Ma tra i processi in corso che rischiano di venire stravolti ce n’è soprattutto uno, che da solo spiega l ‘ i n t e r a «operazione»: è il processo di Berlusconi a Milano per il caso Ruby, che oltre alla prostituzione minorile vede l’ex premier imputato proprio per concussione, cioè per la famosa telefonata alla questura di Milano in cui chiese e ottenne da un funzionario il rilascio della papi-girl marocchina perché «nipote di Mubarak». Incidentalmente, ma finoa un certo punto, trai processia rischio c’è anche quello che riguarda l’ex vicepresidente del Consiglio regionale lombardo del Pd Filippo Penati,a sua volta imputato per concussione nella vicende delle aree ex Falck.

Ma è chiaro che quello che muove il sistema è soprattutto il destino giudiziario del Cavaliere.

Se al Ruby-gate fosse applicata la nuova norma, nella peggiore delle ipotesi salterebbe il processo. Nella migliore il reato addebitato all’ex premier non sarebbe più la concussione, ma l’«indebita induzione», per la quale si ridurrebbe non solo la pena, ma anche (e soprattutto) la prescrizione, che scenderebbe da 15 a 10 anni. Con un risultato paradossale: quello di contraddire i precetti dell’Ocse e della Ue (che invece ci chiedono di aumentare la prescrizione) e quindi di sconfessare il «movente» affermato per giustificare la riforma. Dunque, c’è da chiedersi il perché di questa strana rincorsa a «derubricare» un reato che può avere effetti devastanti, non solo sul piano giudiziario, ma anche dal punto di vista dell’immagine che la politica dà di sé, in questa lunga notte della Repubblica .

Ma c’è di più, e c’è di peggio. Nel negoziato sulla giustizia, oltre alle norme anti-corruzione, tornano di prepotenza anche quelle sul giro di vite delle intercettazioni telefoniche e sulla responsabilità civile dei magistrati. Misure che il Pdl torna ad usare come minaccia o come «merce» di uno scambio scellerato. Forzature irricevibili, e tanto più insopportabili in un momento come questo. L’opinione pubblica chiede verità e trasparenza. Alla vigilia di una tornata di amministrative che porterà alle urne 9 milioni di italiani, e poi del voto nazionale del 2013, gli elettori hanno il diritto di sapere se il candidato che stanno per votare ha pendenze giudiziarie.

La politica non può ricadere nei vecchi ricatti berlusconiani, rispondendo a questa domanda di legalità della società civile con le leggi ad personam o le leggi-bavaglio. Sarebbe un colpo di coda da «casta». L’ultimo, prima dello tsunami dell’anti-politica.

La Repubblica 13.04.12

Ruby, da Berlusconi, 257mila euro a tre testi,Ghedini: «Tutto lecito», di Claudia Fusani

La notizia è di per sé clamorosa: tra luglio e ottobre 2011, in piena crisi economica e politica maancora tenacemente premier, Silvio Berlusconi ha versato 127mila euro, in quattro diverse tranche, a tre testimoni del processo Ruby dove è imputato per concussione e prostituzione minorile. A tre ragazze, Nicole Minetti e le gemelline De Vivo, protagoniste delle serate di Arcore. La spiegazione della notizia, data dall’avvocato Niccolò Ghedini legale di Berlusconi, è ancora più clamorosa:
«Nulla di men che lecito», che a ben pensare fa il paio, tre anni dopo, con «l’utilizzatore finale» dei tempi della D’Addario. «È assai usuale e non desta alcuna problematica – spiega l’onorevole avvocato in una nota – che vi siano rapporti economici intercorrenti fra soggetti indagati o imputati e testimoni.
In realtà il presidente Berlusconi con la consueta generosità ha ritenuto di aiutare, in totale trasparenza e proprio mediante palese bonifico bancario, delle persone che, a cagione del clamore mediatico creato su inesistenti vicende processuali, stanno vivendo momenti di grande difficoltà familiare, professionale
ed economica». Tra la notizia e il suo commento, trovano pieno diritto di cittadinanza le dichiarazioni a verbale davanti all’aggiunto Ilda Boccassini di Enzo De Vivo, il babbo delle gemelline: «Ho incassato io i 72mila euro sul mio conto, da una persona mai conosciuta, per evitare pettegolezzi». Vero, infatti il padre De Vivo non ha mai incontrato Berlusconi. Succede anche questo nel palazzo di giustizia di Milano. A marzo infatti arriva sulla scrivania del procuratore aggiunto Ilda Boccassini, pm nel processo Ruby 1(dove è imputato Berlusconi) la nota dell’Unità
di informazione finanziaria della Banca d’Italia che segnala il trasferimento di danaro dai conti di Silvio Berlusconi ad altri conti correnti riconducibili a persone coinvolte nei processi del caso Ruby. Il primo luglio 2011, mentre l’Italia è sul baratro dello spread e del crollo delle borse, Berlusconi trasferisce dal proprio conto corrente presso il Monte dei Paschi, conto già diventato famoso per le buste e i regalini alle Olgettine, 42mila euro. Il beneficiario, presso l’agenzia napoletana della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza, è Enzo De Vivo, la causale è «regalia». Ma le gemelline sono esigenti, hanno un tenore di vita di un certo tipo e alla fine dell’estate si rifanno vive, ottenendo altri 30mila euro (7 ottobre).
PRESTITI INFRUTTIFERI
Va decisamente meglio per Nicole Minetti. L’ex igienista dentale catapultata nel 2010 dal San Raffaele al Pirellone come consigliere regionale (12mila netti al mese), tra aprile e novembre 2011 riceve 185mila euro in quattro diverse tranche, 30-100-15 e 40mila. Minetti è imputata nel processo Ruby 2 (con Mora e Fede per induzione e sfruttamento della prostituzione anche minorile) e testimone nel primo processo Ruby. Questa volta il passaggio del danaro è palese, diretto, in qualche causale si parla di «prestito infruttifero».
Ora, stando a quel che dice Ghedini («non c’è nulla di men che lecito») probabilmente è un esercizio pretestuoso quello di incrociare le date delle dazioni di danaro con l’andamento dei processi. Si tratta però di un esercizio giornalistico utile, visto il ruolo particolare delle destinatarien dei danari.
È un dato di fatto che in primavera, alla vigilia del processo in cui è imputata, Minetti ha cambiato avvocato, ha abbandonato una combattiva Daria Pesce per scegliere un altro studio legale. Il cambio di legale risale alla fine della primavera e coincide temporalmente con il bonifico da 100mila euro.
Le gemelline sono testimoni in entrambi i processi. Soprattutto non si sono mai costituite parte civile. Enzo De Vivo ha spiegato ai pm di aver «tenuto per sé 10mila euro per pagare la benzina (è titolare di un distributore, ndr) e per altre esigenze personali», un autofinanziamento dovuto «alla crisi».
«Le mie figlie – ha aggiunto – mi dissero che sul mio conto sarebbe arrivato denaro da parte dell’onorevole Berlusconi destinato a loro, che si erano rivolte a lui per un aiuto». Domani
è prevista un’udienza del processo Ruby 2. Lunedì sarà la volta delle prime testimoni dei bunga-bunga.

L’Unità 13.04.12

"Le carrette da fermare" di Giovanni Valentini

SE è vero che il mare copre il settanta per cento del pianeta, ed è fondamentale per l’equilibrio ecologico e per la vita dell’uomo, dovremmo preoccuparci di difenderlo meglio. Per tutelare innanzitutto la nostra stessa salute. E invece, lo consideriamo troppo spesso una pattumiera o addirittura una discarica a cielo aperto. Per un disastro ambientale evitato, come sembra fortunatamente accaduto ieri nel porto di Taranto, la verità è che tanti altri ne rischiamo ogni giorno intorno alla Penisola. Il mare è il più grande bene comune di cui dispone l’umanità ed esige senz’altro una vigilanza più adeguata: tanto più da parte di un Paese che, isole comprese, ha circa 7.500 chilometri di coste da salvaguardare. Una risorsa naturale, ma anche turistica ed economica, da cui dipende direttamente la sopravvivenza materiale di una buona parte della comunità nazionale.

Abbiamo ancora sotto gli occhi, purtroppo, il naufragio della Costa Concordia davanti al Giglio per non lanciare di nuovo l’allarme. Lì si trattava di una gigantesca nave da crociera, nient’affatto marina, una città galleggiante di dimensioni spropositate che trasportava passeggeri in vacanza; qui si tratta invece di un mercantile che doveva caricare coils, laminati d’acciaio, prodotti da un’ex “cattedrale nel deserto”. Ma in realtà non fa differenza. E poco importa, in fondo, che in questo caso lo sversamento di carburante sia avvenuto per una falla, per un errore di procedura o per qualsiasi altra causa.

È confortante apprendere che il sistema di protezione sia scattato tempestivamente, che le operazioni di disinquinamento siano iniziate subito e che la grande “macchia nera” sia stata già circoscritta. «La situazione è sotto controllo», assicura il mantra della Capitaneria di porto, secondo una liturgia planetaria dei disastri ambientalia cui ab biamo assistito fin troppe volte.

Sappiamo, però, che la bonifica durerà alcuni giornie auguriamoci che venga eseguita in modo rapido e completo per evitare danni ulteriori. L’allarme, tuttavia, non può finire qui. Dalle denunce di Greenpeace e di Legambiente, sappiamo anche che i tagli disposti dal governo sul bilancio del ministero dell’Ambiente (e della tutela del Territorio e del Mare, secondo la denominazione ufficiale) hanno ridotto drasticamente i fondi per la prevenzione e peri controlli.E sappiamo pure- come protesta il leader dei Verdi, Angelo Bonelli, candidato sindaco proprio a Taranto – che questo non è il primo incidentee il problema resta quello di “liberare il golfo dal petrolio”, qui e altrove.

Navi da crociera o mercantili che siano, tutte le grandi imbarcazioni commerciali sono cisterne naviganti e rappresentano perciò un pericolo potenziale. Senza dimenticare, poi, le petroliere vere e proprie che attraversano abitualmente le oasi marine e perfino la laguna di Venezia. Molte di queste navi sono vecchie, obsolete, classiche “carrette del mare”, prive di moderni apparati e dotazioni di sicurezza. E troppe continuano a seguire impunemente rotte proibite, mettendo a rischio l’ambiente e le coste.Nel naufragio della Costa Concordia, abbiamo scoperto recentemente la figura grottesca del comandante Schettino e il rito assurdo del cosiddetto “inchino”. Ma quand’è che impareremo finalmente a inchinarci alla forza del mare? A rispettarlo e a difenderlo? A mettere in giro navi più sicure e magari ad affidarle a mani più sicure? Saremo anche un “popolo di navigatori”, come recitava la retorica del regime, ma forse dobbiamo ancora cominciare a conoscere e ad amare realmente il mare.

La Repubblica 13.04.12

Il governo: "Gli esodati sono solo 65 mila" Per l´Inps sono 130.000, per i sindacati 350.000. Cgil polemica: "Dati sballati", di Valentina Conte

Gli “esodati” sono 65 mila e le risorse del governo adeguate. Problema risolto. Dopo settimane di tentennamenti, arrivano le conclusioni del tavolo tecnico tra Inps, Ragioneria, ministero del Lavoro. Ed è subito bufera.
A sorpresa, si confermano le stime di dicembre. I lavoratori che rischiano di rimanere senza reddito sono proprio quelli preventivati dalla riforma delle pensioni che ha allungato i requisiti previdenziali e lasciato privi di stipendio, sussidi o pensione migliaia di persone. Non 350 mila, come ipotizzato dai sindacati. Neanche 130 mila, come comunicato alla Camera appena due giorni fa dal direttore generale dell´Inps. Ma 65 mila. Un numero rassicurante per il ministro Fornero, perché già coperto con oltre 5 miliardi in 7 anni (2013-2019) proprio dalla manovra Salva-Italia. Ma che scatena l´ira dei sindacati, oggi in piazza a Roma per il primo sciopero unitario dell´era Monti, a sostegno degli “esodati” e contro le “ricongiunzioni onerose”, dallo slogan quantomai attuale: «Basta promesse».
«Dati sballati, il governo scherza col fuoco e nasconde il problema anziché risolverlo», attacca la Cgil, sostenuta dalla Cisl che rincara: «Gli esodati sono molti di più, minimizzare il problema è sbagliato e mette a rischio la coesione sociale». In linea, anche l´Ugl: «I numeri veri non sono questi», mentre la Uil teme «il gioco dell´oca» sulla pelle dei lavoratori. Il ministro Fornero affida le sue considerazioni a un comunicato. Riferisce che il «controllo dei dati» è stato «scrupoloso e preciso», frutto di «un´analisi di dettaglio molto puntuale», svolta in un tempo lungo e questo, ammette, «può aver alimentato preoccupazione» e «comprensibile ansia per migliaia di persone», ma anche «ingiustificato allarmismo». I «salvaguardati» – li definisce – sono dunque «circa 65 mila» e «l´importo finanziario individuato dalla riforma delle pensioni è adeguato», senza bisogno di «risorse aggiuntive». Fine della storia.
In realtà il ministero si riferisce a quanti matureranno i requisiti per la pensione nei prossimi due anni (criterio fissato dal Milleproroghe). La soluzione, per questi, sarà affidata a un decreto ministeriale che arriverà «nelle prossime settimane», seguito da altro «intervento normativo» per i lavoratori che hanno chiuso accordi collettivi «entro il 2011» e «beneficiari di ammortizzatori sociali», come quelli dell´ex Fiat di Termini Imerese, privi dell´ombrello dei due anni, ma anche di Irisbus. Evidente la contraddizione con il panorama descritto mercoledì da Mauro Nori, direttore generale dell´Inps: 45 mila lavoratori in mobilità che andranno in pensione entro 4 anni, 13-15 mila del fondo di solidarietà del credito, 70 mila usciti con accordi volontari, 4-5 mila statali e 1,4 milioni di persone che versano contributi volontari. «I numeri della Fornero tengono conto della sola mobilità. Ma questa è una provocazione, la gente è furibonda», attacca Vera Lamonica, segretario confederale Cgil. «Ci volevano tre mesi e un tavolo tecnico ad hoc per confermare un dato che il governo ha da dicembre? E come spiegare la contraddizione con quanto riferito dall´Inps?».

Il Corriere della Sera 13.04.12

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Il governo adesso dice “Gli esodati sono 65 mila” di Francesca Schianchi

Il tavolo tecnico del ministero del Lavoro annuncia: i cosiddetti «esodati» sono circa 65 mila, e per loro ci sono risorse già stanziate. Dichiarazione che però non rasserena per niente i sindacati, oggi uniti in una manifestazione a piazza Santi Apostoli a Roma proprio sull’argomento: dalla Cgil alla Cisl, dalla Uil all’Ugl, è un coro unanime per dire che i numeri sono sbagliati e «il governo scherza col fuoco». Secondo loro gli «esodati» (i lavoratori che hanno stretto accordi con le aziende per lasciare il posto ma che, con la riforma delle pensioni di dicembre che ha allungato i tempi di uscita, rischiano di trovarsi senza reddito e senza pensione), sono «decine di migliaia in più», come dichiara il leader Cisl Raffaele Bonanni.

«Il ministro Fornero ha voluto che il controllo dei dati fosse scrupoloso e preciso», si legge nella nota del ministero, «si è data così risposta a una situazione di comprensibile ansia per migliaia di persone, fugando un ingiustificato allarmismo», visto che per 65 mila persone «l’importo finanziario individuato dalla riforma delle pensioni è adeguato a corrispondere a tutte le esigenze senza dover ricorrere a risorse aggiuntive». Nelle prossime settimane arriverà quindi il previsto decreto ministeriale (che la Fornero deve emettere entro il 30 giugno).

Ma i sindacati sono tutti d’accordo nel ritenere il numero una stima al ribasso. Dalla Cgil alla Cisl («le persone coinvolte sono molto più numerose, minimizzare questo problema è sbagliato», il segretario confederale Maurizio Petriccioli), dalla Uil («il numero fa pensare a una sorta di gioco dell’oca», Domenico Proietti segretario confederale) all’Ugl («il governo continua a giocare sulla pelle dei lavoratori», il segretario generale Centrella), tutti concordi nel ritenere il conteggio sballato.

Si uniscono al coro anche i deputati Pd Boccia e Damiano: «Improbabili le stime del ministero a proposito degli esodati», dice l’ex ministro del lavoro.

Una stima che, spiegano fonti tecniche, nasce dal calcolo di chi ha maturato i requisiti per la pensione con le vecchie regole entro i prossimi due anni. A fornire però numeri più alti, è stato mercoledì il direttore generale dell’Inps Mauro Nori in audizione in commissione Lavoro alla Camera. Ha parlato di circa 130mila esodati più un’ampia platea di persone che hanno scelto la contribuzione volontaria: «Dai dati da lui illustrati si desume un numero di circa 250mila lavoratori in quattro anni», spiega il deputato Pdl Giuliano Cazzola, esperto di pensioni, «credo che il numero di 65 mila non dica tutta la verità: i soldi ora ci sono per questi, poi ne verranno altri, a cui bisognerà far fronte in altro modo».

Spiega inoltre il comunicato del ministero che si sta valutando, «per specifiche situazioni e con criteri analoghi», anche l’ipotesi di un intervento normativo per «trovare soluzioni che consentano a lavoratori interessati da accordi collettivi stipulati in sede governativa entro il 2011» di accedervi «secondo le pre-vigenti regole».

La Stampa 13.04.12

"Pulizia e giochi di potere" di Michele Brambilla

La giustizia sommaria ha questo di bello: che ti porta a parteggiare per il condannato. Ieri ad esempio ci ha costretti a simpatizzare per Rosi Mauro, alla quale avevamo chiesto, non più tardi di qualche giorno fa, di lasciare la vicepresidenza del Senato. Restiamo dell’idea che la signora avrebbe dovuto lasciarla, quella vicepresidenza: quanto era emerso dall’inchiesta sull’utilizzo dei rimborsi elettorali della Lega la metteva in grave imbarazzo, e chi è vicario della seconda carica dello Stato non può permettersi neanche un’ombra di sospetto. Ma il modo in cui la Lega, ieri, l’ha mandata sul rogo come una strega, ci costringe a solidarizzare con lei.

Espulsa dal partito in cui militava da una vita, partendo dai ruoli più umili (c’è chi sostiene che abbia cominciato facendo la portinaia della prima sede milanese, quella di via Arbe). Espulsa dal partito nel quale fino a poche settimane fa aveva un posto di primissimo piano. Cancellata. Indicata al pubblico disprezzo di quei militanti che la osannavano ogni volta che, dal palco di Pontida o da quello di Venezia, lei annunciava i successi del sindacato padano, i vantaggi degli «contratti territoriali»… La osannavano, quando gridava che il «governo centralista» (lo diceva anche quando al governo c’era pure la Lega) favoriva gli immigrati a scapito della «nostra gente». L’altra sera a Bergamo gli stessi militanti, aizzati dai nuovi dirigenti, le hanno dato della battona.

Perché in pochi giorni Rosi Mauro è passata dagli applausi all’espulsione? Il partito si è improvvisamente accorto della sua indegnità? Del suo presunto amante bodyguard? Dei suoi maneggi e intrallazzi con Belsito e con il cerchio magico? Si vuol far credere che, se ha sbagliato, lo ha fatto senza che nessun altro sapesse? Ma mi faccia il piacere, diceva Totò.

Da quando i giornalisti hanno cominciato a scrivere che attorno a un Bossi stanco e malato si era formato un «cerchio magico» che lo teneva in ostaggio, tutti – ripetiamo: tutti – i dirigenti della Lega urlavano, in pubblico, che si trattava di volgari menzogne dei soliti pennivendoli. Adesso tutti questi dirigenti parlano del «cerchio magico» come di una realtà acclarata da tempo, e fanno pulizia a colpi di scopa.

Ma è una pulizia suggerita dall’esigenza di nuovi equilibri di potere interni, non da un amor di trasparenza e onestà. Provate a guardare foto e filmati di Bossi degli ultimi otto anni: non c’è fotogramma in cui il vecchio capo non sia tenuto a braccetto da Rosi Mauro. È per questo che nella Lega tanti odiano questa donna. Nessuno poteva avvicinarsi a lui senza il consenso di lei. I giornalisti men che meno: Bossi non rilascia interviste vere da prima della malattia. Rosi «la badante», come la chiamavano i più gentili nella Lega (gli altri la chiamavano «mamma Ebe») era dunque riuscita nell’impresa di accudire Bossi per controllarlo, diventando insieme a pochi altri (il famoso cerchio magico) la vera segreteria politica della Lega.

Dicono i suoi nemici interni che questo ruolo lo abbia svolto con cinismo e senza pietà, facendo tabula rasa di oppositori e concorrenti. È probabile che sia vero. Ma si abbia il coraggio di dire che è per questo motivo che ora questa donna – neppure indagata, almeno per adesso – è stata espulsa. Si abbia il coraggio di dire che è una purga staliniana per giochi di potere interno, senza tirare in ballo l’uso del denaro del partito. Di verginelle, riguardo all’uso di quei soldi, ce ne sono poche.

Fa pena sentire, ora, che è stata espulsa perché ha disobbedito a Bossi, il quale le aveva chiesto di lasciare lo scranno al Senato: lo sanno anche i sassi che Bossi era stato costretto, dai nuovi vincitori interni, a chiederle quel passo indietro. La Lega è un partito lacerato da odi interni inimmaginabili, e le rese dei conti sono solo all’inizio.

Così spesso arrogante – con noi giornalisti e con tanti militanti -, Rosi Mauro non era simpatica. Adesso lo è un po’ di più, forte di quella compassione sempre generata da ogni capro espiatorio.

La Stampa 13.04.12

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“La successione condizionata dal Senatùr e dalle indagini” d MARCELLO SORGI
L’espulsione di Rosi L’ Mauro segna un altro passo avanti verso la presa del potere leghista di Maroni. L’ex ministro dell’Interno l’aveva platealmente annunciata dal palco della «notte delle scope» a Bergamo e l’ha ottenuta ieri mettendo sul tavolo, in caso contrario, le sue dimissioni dal vertice del Carroccio. La vicepresidente del Senato ha provato fino all’ultimo a difendersi, ma era chiaro che dopo le dimissioni di Bossi dalla segreteria, del Trota dal Consiglio regionale lombardo e dopo l’espulsione dell’ex tesoriere Belsito, la segretaria del famigerato Sindacato padano non aveva alcuna chance.

L’astensione di Bossi, che è uscito dalla stanza del consiglio federale in via Bellerio per non votare, non intacca il patto tra il fondatore, sempre più sommerso dalle rivelazioni delle inchieste sulla gestione familiare dei rimborsi elettorali, e il suo già delfino, e fino a ieri oppositore interno, se non proprio del Senatùr, del cosiddetto «cerchio magico» dei dirigenti più vicini, che lo avrebbero raggirato.

L’uomo che porterà la Lega al congresso di giugno è Maroni, che al momento resta anche il candidato più forte alla successione. Ma l’equilibrio interno del partito rimane precario e la presenza quotidiana di Bossi in via Bellerio sta a significare che il vecchio leader, malridotto com’è, non ha alcuna intenzione di lasciare il campo. Molto dipenderà dagli sviluppi giudiziari delle indagini ancora in corso e dall’esame della gran mole di carte sequestrate nella sede del partito, che continuano a produrre una quantità di dettagli perniciosi e ad intaccare la linea ufficiale di difesa, che tende ad accreditare Bossi come la principale vittima di un raggiro ai danni suoi e del partito, ad opera dei suoi familiari e famigli. In realtà, quel che va emergendo è che Bossi, pur stanco e malato, condivideva le decisioni più importanti sull’uso illecito dei fondi pubblici, e che fu fatto anche un tentativo, fallito, di coinvolgere Maroni prima che l’esplosione del caso degli investimenti in Tanzania lo mettesse sull’allarme, spingendolo a chiedere il chiarimento che proprio Rosi Mauro e il gruppo del «cerchio magico» gli volevano negare, e che a gennaio fu invece imposto a forza dalla mobilitazione di base dei militanti.

La sensazione insomma è che Bossi, malgrado le crescenti difficoltà della sua situazione personale, non intenda rinunciare in alcun modo ad avere un ruolo al congresso. In questo senso l’avanzata di Maroni verso la segreteria rimane legata alla sua capacità di mantenere il patto con il Senatùr, evitando gli schizzi di fango che provengono da casa sua.

La Stampa 13.04.12