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"Una patrimoniale per trovare le risorse", di Susanna Camusso

La manifestazione nazionale di oggi è la manifestazione di tanti, troppi, che si sono trovati senza un futuro, e senza un presente, perché il governo ha deciso che tagliare sulle pensioni era la via più semplice per fare cassa. Una scelta contrabbandata come giusta per i giovani, ma che ha prodotto infinite ingiustizie, ansie e sofferenze, a tutti coloro che si sono trovati senza lavoro, senza ammortizzatori e senza pensione. A quelli che hanno scoperto che dovevano, per effetto delle ricongiunzioni onerose, ripagarsi i contributi, fino a valutare la scelta di rimanere senza pensione. A coloro, infine, che hanno scoperto che non facevano un lavoro usurante o che i loro contributi per la cassa integrazione straordinaria o la mobilità non valevano ai fini di evitare ulteriori penalizzazioni. Da mesi tante persone vivono in uno stato di incertezza e di paura, senza che né l’Inps, in modo irresponsabile, né il ministero del Lavoro siano stati in grado, in tutto questo tempo, di quantificare il fenomeno, continuando a rinviare il momento in cui affrontare concretamente il problema. E il problema si affronta concretamente solamente dando una risposta previdenziale a chi, rispettando i criteri in essere, ha concluso la sua esperienza lavorativa e i contributi li ha versati per una vita. Dando copertura a tutti gli accordi, individuali e collettivi, che prevedono l’effettiva risoluzione del rapporto di lavoro anche oltre il 31 dicembre 2011. Parliamo di lavoratori e lavoratrici che pagano più di altri il prezzo della crisi, che hanno subito processi di ristrutturazione e che si sono dichiarati disponibili affinché altri, più giovani, non perdessero il lavoro. Va dunque cancellata quell’idea, che troppo spesso sentiamo riecheggiare, di lavoratori privilegiati, di pensioni non sufficientemente «contributive». Si è voluto tagliare sulle pensioni e ora si dice che non ci sono le risorse,male risorse si possono trovare cominciando da chi ha di più e paga di meno, introducendo una patrimoniale vera. Non è, infatti, concepibile che le pensioni «super », quelle cosiddette d’oro, che secondo alcuni calcoli rappresentano il20%della spesa totale, paghino un contributo proporzionalmente inferiore di coloro ai quali è stata sottratta la rivalutazione. Si ponga, allora, un tetto, si alzi il contributo di solidarietà, si paghi la differenza in titoli di Stato. In questo modo si potrebbe risparmiare sulla spesa corrente e, forse, le banche comincerebbero ad erogare più credito invece di investire i prestiti concessi dalla Bce in titoli di Stato. Un’idea che può avere un sapore antico ma importante è ridurre la diseguaglianza e rispettare la dignità di chi ha tanto lavorato.

L’Unità 13.04.12

Bersani: «Questa non è una riformina. E basta gettare fango su tutti», di Simone Collini

Bersani respinge la campagna contro il finanziamento pubblico: «Non accetto che si getti fango su tutto, non tutti i partiti utilizzano i rimborsi per ristrutturare case». Si discute sull’ultima tranche di 100 milioni. «Non accetto che venga gettato fango su tutti». Pier Luigi Bersani vede montare attorno ai partiti una campagna dai contenuti tutt’altro che inediti e dagli esiti ampiamente prevedibili. Grandi gruppi editoriali che mettono in discussione l’opportunità del finanziamento pubblico ai partiti, forze politiche (dall’Idv a Fli, dai grillini a pezzi del Pdl) che ne chiedono la cancellazione. «Non tutti i partiti utilizzano i fondi pubblici per ristrutturare case si sfoga il leader del Pd con chi lo avvicina mentre è in corso la riunione degli sherpa per disegnare le nuove regole serve qualsiasi forma la più stringente per controllare i bilanci ma non accetto che la Lega riesca a distruggere il sistema della democrazia, come era nella sua intenzione originaria. Dai tempi di Pericle, la democrazia ha sempre funzionato con il sostegno pubblico per evitare che il più ricco e il più forte facesse il burattinaio e governasse la città».
Il leader del Pd guarda con attenzione agli attacchi sferrati da più parti al sistema dei rimborsi elettorali, alle proposte di ridurli, abrogarli, alla richiesta di non erogare ai partiti l’ultima tranche di 100 milioni, prevista per luglio. E conversando con i cronisti alla Camera un po’ ricorda che i rimborsi già hanno subìto significativi tagli (erano 289 milioni di euro nel 2010, 189 nel 2011 e ora sono destinati a ridursi a 143), un po’ rivendica le scelte fatte dal suo partito prima che scoppiasse il caso Lusi e lo scandalo dei fondi leghisti («non dicano a noi che ci svegliamo ora, i conti del Pd sono certificati da una società esterna e abbiamo inventato le primarie e i codici etici») e un po’ difende il testo che in quegli stessi minuti stanno scrivendo gli sherpa di Pd, Pdl e Terzo polo per garantire maggior controllo e trasparenza sui bilanci dei partiti. «Non chiamatela riformina», dice a chi riporta le parole di qualche commentatore. E poi: «Non accetto che si butti fango su tutto, mica tutti i partiti ristrutturano le case con i soldi pubblici».
Una riforma del sistema dei finanziamenti pubblici si deve fare, per Bersani, che è primo firmatario di una proposta di legge su questo argomento depositata in commissione Affari costituzionali. Ma la discussione che va avanti da mesi sull’applicazione dell’articolo 49 della Costituzione dimostra (al di là del fatto che ieri il relatore del provvedimento, l’ex Pdl e oggi Popolo e territorio Andrea Orsini, non si è fatto vedere e ne è scoppiata una polemica) che bisogna estrapolare poche norme da approvare in tempi rapidi. «Per fare le cose per bene bisogna riflettere, bisogna ragionare. Ma da subito si possono aumentare i controlli su come vengono gestiti i soldi», è il ragionamento. Il Pd, dice Bersani, è pronto ad usare «qualsiasi strumento», anche il decreto, pur di intervenire rapidamente per rafforzare i controlli. E se qualcuno chiede di diminuire ancora il finanziamento pubblico, dice che il Pd è pronto a discutere, «purché sia chiaro che l’attività politica è stata finanziata fin dai tempi di Clistene, altrimenti si dica che diamo il bastone del comando al più ricco della città e abbiamo risolto».
L’ULTIMA TRANCHE DEI RIMBORSI
Ora entra nel dibattito pubblico la possibilità di non far entrare nelle casse dei partiti l’ultima tranche dei rimborsi. Non c’è solo chi, come Vannino Chiti, propone di sospenderne l’erogazione «fino a quando non verrà approvata la nuova legge» (che è un modo per sollecitare tutte le forze politiche a chiudere in fretta). Ci sono le Acli che chiedono di devolvere quei 100 milioni di euro per finanziare la partenza di 27mila ragazzi per il servizio civile nazionale e chi, come Antonio Di Pietro, propone di dare quei soldi «alla Fornero perché possa pensare alle parti sociali più deboli». Dice Bersani mentre gli sherpa concordano lo slittamento a dopo luglio: «Parliamo anche di quello. Ma occupiamoci anche di controllare come vengono spesi.

L’Unità 12.04.12

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“Scrivi partiti, leggi democrazia”, di Giorgio Merlo

La riforma dei partiti non è più prorogabile. E se non vogliamo riconsegnare l’Italia ad una nuova ondata populista simile a quella del ’94 con inevitabili rischi di caduta verticale della rappresentanza democratica e della stessa dialettica democratica, i partiti adesso devono battere un colpo.
Certo, sono in profonda crisi per grandi responsabilità proprie e per il clima di criminalizzazione scatenato da una feroce campagna mediatica dei grandi organi di informazione. Anche questa evidente a tutti. E le vicende legate alla Lega oggi, a Lusi e alla Margherita ieri e all’ex An ieri l’altro confermano, però, in modo persin plateale, che la riforma dei partiti in Italia non può più essere rinviata.
Una riforma che è necessaria anche perché, sino a prova contraria, l’alternativa democratica ai partiti continua a non esistere. O meglio, l’alternativa esiste ma sarebbe un concentrato di populismo, di autoritarismo e di cesarismo pericolosi e devastanti per chi continua a nutrire fiducia e speranza in una democrazia rappresentativa.
Non a caso, è proprio la miglior cultura cattolico democratica ad insegnarci la profonda differenza che esiste tra la “democrazia dei partiti” e la “democrazia delle persone”. La prima fatta dal confronto tra soggetti collettivi; la seconda retta da una cerchia oligarchica e dispotica che può tranquillamente convivere con una democrazia di fatto “sospesa”. Ma questa riforma, però, va fatta dal parlamento. Severino, Fornero e chicchessia pensino a governare, peraltro in modo eccellente come stanno facendo, i loro settori di competenza. Al parlamento il compito di affrontare e risolvere i nodi politici. E la riforma dei partiti è appunto uno di questi temi. Certo, un conto è evocare la riforma, altra cosa è tradurla in un articolato legislativo.
Ma, al di là delle ricette e della riforma che sarà approvata dal parlamento, è indubbio che attorno al futuro dei partiti si gioca la stessa credibilità della nostra democrazia. Una democrazia senza partiti non esiste e un sistema politico che si basa esclusivamente sul ruolo decisivo e miracolistico del “salvatore della patria” è destinata ad intraprendere, prima o poi, una deriva sudamericana se non autoritaria.
Certo, così non si può andare avanti come è semplicemente impensabile il perdurante silenzio di fronte ai cosiddetti “partiti padronali” o “personali” che ormai caratterizzano la stragrande maggioranza dei partiti italiani. È sotto gli occhi di tutti. Con i partiti padronali o personali, oltre a ridurre la democrazia ad un semplice orpello puramente ornamentale, la stessa gestione delle risorse è appaltata esclusivamente al “principale” e alla sua corte.
È sufficiente farsi una domanda: quanti sono i partiti italiani che fanno certificare i propri bilanci ad una società esterna? Uno, il Pd. Quanti sono i partiti italiani che non riportano il cognome del leader nel simbolo del partito? Pochi, se non pochissimi. Due esempi concreti per arrivare sostanzialmente ad una conclusione: nel nostro paese l’affermarsi dei partiti personali, e quindi padronali, ha negato alla radice quell’impianto democratico, partecipativo e trasparente che dovrebbe sempre caratterizzare il profilo di ogni formazione politica. E questo al di là della sua connotazione, della sua origine e del suo progetto politico.
Potremmo fare decine di esempi che confermano questa pericolosa deriva e che spiegano, senza tante analisi sociologiche e politologiche, le ragioni di fondo di questo decadimento etico e politico dei partiti. Certo, per superare queste degenerazioni servono atti concreti e non solo declamazioni di principio o meramente dettate dall’emergenza. Atti concreti, e quindi legislativi, che sono però essenziali per garantire la democrazia, per conservare il pluralismo e per certificare la trasparenza nella gestione delle risorse.
Innanzitutto la premessa che senza partiti si archivia la democrazia. Anche quando il superamento dei partiti viene sostenuto per ragioni modernizzatrici o moralizzatrici, l’esito non può che essere sempre lo stesso: e cioè, un sistema politico affidato a singoli. Una sorta di “dittatore democratico”.
In secondo luogo i partiti hanno un ruolo decisivo ed essenziale nella società democratica se rispettano anche al loro interno e sino in fondo la prassi democratica e partecipativa. Quindi va denunciato senza intransigenza e con nettezza la deriva personalistica e oligarchica. Una deriva che, se non viene arrestata, crea inesorabilmente le degenerazioni a cui abbiamo assistito in questi giorni e in questi ultimi mesi.
Quando c’è un capo o un padrone e non solo un leader o un segretario la democrazia è sospesa. E nella democrazia sospesa tutto è lecito e tutto è tollerato in virtù del fatto che il dissenso e il confronto interni sono permessi sino a quando non mettono in discussione ciò che fa e ciò che decide il “capo”. E, su questo versante, più che di riforma dei partiti si deve parlare di autoriforma dei partiti.
Infine va ripristinata la piena trasparenza nella vita interna ai partiti. Certo con una legge più severa e meno esposta alle furbizie e agli escamotage. Ma soprattutto, va eliminata quella discrezionalità e quella arbitrarietà di cui oggi godono quasi tutti i partiti.
Saranno solo i fatti a dirci se esiste la volontà politica per riformare realmente il mondo dei partiti o se prevarrà, ancora una volta, la tentazione gattopardesca.
Ma adesso in discussione non c’è solo il futuro e la prospettiva dei partiti che sono e rimangono semplici strumenti della lotta politica ma soprattutto la conservazione della democrazia nel nostro paese. E su questo non sono ammesse furbizie o pigrizie di sorta.

da Europa Quotidiano 12.04.12

Roma – Manifestazione Comitato Civico "Quota 96"

Roma Piazza Santi Apostoli

Il Comitato Civico «Quota 96», costituitosi il 7 marzo scorso, contesta la parte della riforma pensionistica (cosiddetta Fornero) che impedisce a quei lavoratori della scuola che maturano i requisiti nel corso dell’anno scolastico 2011/2012 di andare in pensione con le regole previgenti alla stessa riforma e li costringe a rimanere in servizio per altri sei lunghi anni.
Per il mondo della scuola le cadenze lavorative e pensionistiche sono regolate non secondo l’anno solare, come per tutti gli altri dipendenti pubblici, ma secondo l’anno scolastico. Per esso esiste un’unica ‘finestra’ di uscita: il primo settembre di ogni anno. La legge Fornero, invece, decretando che può andare in pensione nel 2012 con le vecchie regole solo chi ha maturato i requisiti entro il 31 dicembre del 2011, ha dimenticato, clamorosamente, la peculiarità del comparto scuola e ha spezzato l’a. s. in due. Le precedenti riforme previdenziali avevano tutte previsto un’apposita normativa volta a salvaguardare tale specificità.
La data del 31 dicembre 2011, quindi, non ha alcun senso per i lavoratori scolastici, anzi suona come una beffa giacché quelli che possedevano questi requisiti erano già andati in pensione da tre mesi, cioè dal primo settembre del 2011. Per chi lavora nella scuola è da sempre esistita la regola – confermata dal comma 9 dell’art. 59 della legge 449/1997– che si è collocati a riposo il 1 settembre di ogni anno scolastico purché il requisito dell’età anagrafica sia raggiunto entro la fine dell’anno solare.
Per ribadire le nostre sacrosante ragioni, che siamo qui venuti oggi, 13 aprile, a rivendicare insieme ai confederali, abbiamo organizzato, per domenica 29 aprile a Roma, una Manifestazione Nazionale autonoma del Comitato che si terrà in Piazza Santi Apostoli dalle ore 10 alle 14. All’evento, forse il primo nella storia delle battaglie scolastiche ad essere promosso senza il suggello dei sindacati, parteciperanno due esponenti del Pd, l’onorevole Manuela Ghizzoni e la senatrice Mariangela Bastico, oltre ad Alessandra Tibaldi, dell’Idv.
Vi invitiamo a venire con noi il 29 e a sostenerci per contrastare l’iniqua riforma Fornero. Oggi saremo noi ad essere in piazza. Domani potrebbe toccare a voi. Restiamo dunque uniti contro le ingiustizie. Perché un’ingiustizia è sempre un’ingiustizia. Per tutti.

"Il piano Pd per uscire dalla crisi: produttività e innovazione" di Laura Matteucci

Si parte da un’analisi critica delle difficoltà dell’eurozona, che vengono rilette in una chiave differente rispetto a quella corrente. Questo per evitare risposte sbagliate, o comunque inadeguate. Poi si arriva all’Italia e alla annosa debolezza della sua crescita. Con alcune proposte e, anche in questo caso, contrastando l’interpretazione della produttività come fosse una questione delegata al lavoratore e al costo del lavoro, tra deflazioni salariali e ulteriori flessibilità. Il punto, invece, sono gli investimenti e le condizioni di contesto che possono permettere alle aziende di crescere.
Con alcuni obiettivi prioritari: l’innalzamento del tasso di occupazione femminile, fino a raggiungere nel 2020 il 60% (3 milioni di donne occupate in più rispetto ad oggi, obiettivo correlato all’aumento di occupazione nel Mezzogiorno), e l’innalzamento della specializzazione produttiva. Il Pd l’ha presentato ieri alle altre forze di maggioranza: un insieme di proposte di politica economica, per l’Europa e per l’Italia, l’impianto della strategia di sviluppo messa a punto dal dipartimento Economia e lavoro. Da leggersi a complemento delle proposte per la riforma fiscale e delle politiche sociali.
È il contributo al Programma di stabilità e al Programma nazionale di riforma (sostanzialmente la ex Finanziaria) che il governo presenterà a giorni, in uno dei prossimi Consigli dei ministri, per poi avviare la discussione in Parlamento e portare il documento definitivo a Bruxelles entro fine aprile. Gli obiettivi dichiarati dovrebbero guidare interventi e riforme (il completamento delle liberalizzazioni, la riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni, la riqualificazione della spesa pubblica e la regolazione della democrazia nei luoghi di lavoro).
La crisi dell’area euro: le cause non vanno ricercate tanto negli squilibri di finanza pubblica, quanto nelle asimmetrie crescenti nei diversi Paesi dall’introduzione della moneta unica, che un’insufficiente politica comunitarianon è riuscita a risolvere.
Lettura differente dei motivi alla radice della crisi significa anche diverse possibili misure per uscirne. L’asse portante per il Pd, comunque, dev’essere una maggiore attenzione alla crescita, affrancandosi da eccessivi vincoli di austerità legati agli obiettivi di bilancio. Ovvero dalla linea attuale, le cui prospettive sono piuttosto scoraggianti: crescita nulla, ulteriore contrazione economica, aumento della disoccupazione, irrangiungibilità degli obiettivi di finanza pubblica, come spiega il responsabile Economia delPd Stefano Fassina. Le linee proposte per cambiare rotta sono quelle già presentate nella dichiarazione di Parigi, e vanno dall’emissione di obbligazioni europee garantite da tutti i Paesi alla trasformazione in Stability bond della parte corrispondente all’incremento del debito, dall’introduzione di uno standard retributivo europeo per promuovere un tasso di crescita delle retribuzioni reali (l’obiettivo è il riequilibrio tra Paesi in surplus e in deficit con l’estero) alla definizione di un Piano di sviluppo centrato su investimenti pubblici e produzione di beni comuni. Altro punto, promuovere una più equilibrata distribuzione del reddito, sia sul mercato del lavoro, sia attraverso interventi fiscali e di welfare.
Il focus sull’Italia che non cresce più parte da un’analisi delle diseguaglianze aumentate (di reddito e sociali) e della (non) redistribuzione del reddito, da ridurre attraverso un combinato disposto di investimenti nella scuola e nell’università, di riforme fiscali che spostino il peso dal lavoro alla ricchezza e alla rendita, di riduzione della precarietà sul lavoro. Poi, «bisogna tornare a parlare di politica industriale », dice Massimo D’Antoni, coordinatore del gruppo di economisti che ha lavorato al documento: «La priorità dev’essere data alla crescita della produttività rispetto a quello della liberalizzazione del mercato del lavoro».
Primo passo: avere chiara la vocazione industriale del Paese, definire i settori sui quali concentrare il sostegno, incentivare lo sviluppo di una rete di collaborazione tra imprese di piccole dimensioni. Si deve puntare sull’integrazione tra filiere manifatturiere e settori dei servizi, sulla politica industriale ecologica e sulla strategia delle reti. Individuate una serie di misure per far fronte al problema del credito e delle risorse da reperire (resta fondamentaleun riorientamento della spesa pubblica), tra cui la definizione di un quadro di incentivazione fiscale e finanziaria che favorisca la trasformazione del credito in capitale di rischio, con un potenziamento del Fondo centrale di garanzia. Il Pd propone anche un sistema di tassazione societaria che favorisca il rafforzamento patrimoniale e l’investimento. E, per quanto riguarda le crisi industriali, parla tra l’altro di riformare gli strumenti per la partecipazione dei lavoratori in forma associata, mutualistica e cooperativa, nel sostegno alla capitalizzazione e nella convenienza fiscale. Il ruolo della domanda pubblica, cui spetta il compito di definire gli standard qualitativi e prestazionali per i settori produttivi: soprattutto su sanità, infrastrutture e costruzioni.

L’Unità 12.04.12

"Gli esodati sono tanti Il governo è spiazzato e non trova i soldi", di Massimo Franchi

Continua il gioco al massacro sugli esodati. Nonostante le promesse fatte di prima mattina dalla ministra Elsa Fornero, un comunicato del ministero annuncia che la fatidica quota dei lavoratori che hanno sottoscritto un accordo con le rispettive aziende per dimettersi in attesa della pensione e che a causa dell’allungamento dei requisiti rischiano di restare anni e anni senza stipendio e senza pensione, sarà resa nota solo oggi. Proprio alla vigilia della manifestazione unitaria dei sindacati (Cgil, Cisl, Uil e Ugl) che da piazza Santi Apostoli a Roma denunceranno lo scandaloso ritardo assieme alla vicenda delle ricongiunzioni onerose. Da via Veneto si spiega che il comunicato conterrà,dopo una valutazione assieme alla Ragioneria dello Stato, anche l’indicazione dell’orientamento da parte del governo su come risolvere il problema (Fornero è chiamata emettere un decreto ministeriale entro il 30 giugno). La questione è sempre quella della copertura finanziaria: se le stime di 350mila esodati saranno confermate (lontanissimeda quella inziale di 65mila), il governo sostiene di non essere in grado di mandare in pensione tutte queste persone. Come già anticipato da Fornero nei giorni scorsi, l’idea è quella di trovare una sorta di ammortizzatore sociale per chi non rientrerà nelle coperture possibili.
La responsabilità del ritardo del conteggio viene rimpallata dall’Inps, che sostiene di non essere l’unico ente pensionistico coinvolto e di avere difficoltà ad avere i dati dalle varie aziende coinvolte.
STIME INCOMPLETE
Nell’audizione tenuta ieri in commissione Lavoro alla Camera, il direttore generale dell’Inps Mauro Mori ha snocciolato i dati in suo possesso. I lavoratori che nei prossimi quattro anni entreranno in mobilità sulla base degli accordi fatti entro dicembre 2011 (nuovo termine previsto dal decreto Milleproroghe, che ha prorogato quello di entrata in vigore della riforma delle pensioni del 4 dicembre) sono circa 45.000. Per Nori altri 13-15.000 lavoratori sono nel fondo di solidarietà del credito.
Altri 70.000 sono usciti dal lavoro sulla base di accordi volontari. La somma di queste quattro voci tocca quota 130mila persone, ma si tratta solo della platea massima perché una parte di questi avranno nei prossimi 4 anni i nuovi requisiti per la pensione. Non sono conteggiati invece i prepensionati degli altri enti pensionistici. Elaborando queste stesse cifre, Giuliano Cazzola (Pdl) ha rilanciato la stima dei «350mila esodati». Ieri intanto è toccato al presidente di Poste Italiane Giovanni Ialongo ha aggiunto: «Mi dicevano proprio l’altro giorno che stanno trovando una soluzione, la si dovrebbe trovare». Alla domanda dei cronisti su quanti fossero gli esodati di Poste italiane il presidente ha risposto: «Mi dicono circa 5mila», aggiungendo che «non è possibile, assolutamente no», riprenderne eventualmente una parte, anche minima, proposta avanzata dal sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo. Una stima che però viene subito smentita dai sindacati: «sono anche più di 5 mila, ma circa la metà dovrebbero salvarsi grazie al decreto milleproroghe», spiegano.
FMI: PENSIONI A RISCHIO LONGEVITÀ
La durezza della riforma Fornero però tiene l’Italia al riparo dall’ultimo richiamo del Fondomonetario internazionale sull’età pensionabile. Secondo l’Fmi infatti le aspettative di vita si allungano, ma le implicazioni finanziarie del vivere più a lungo sono ampie: se nel 2050 la vita media si allungherà di 3 anni rispetto alle attese attuali, i costi già ampi dell’invecchiamento della popolazione aumenteranno del 50%. Il Fondo invita quindi ad agire «ora, date le dimensioni dell’impatto finanziario e anche perché le misure richiedono tempo per dispiegare la loro efficacia». In particolare, da Washington arriva il pressante invito a riformare i sistemi previdenziali, allungando l’età pensionabile, aumentando il livello dei contributi e riducendo gli assegni da pagare. «Una riforma essenziale», si legge nel documento. Porre maggiore «attenzione all’invecchiamento della popolazione e ai rischi addizionali della longevita», conclude il
Rapporto, «è parte delle misure necessarie a ristabilire la fiducia sulla tenuta dei conti pubblici e privati».
OCSE: DISOCCUPAZIONE STABILE
Sempre ieri sono arrivate le stime dell’Ocse sulla disoccupazione nell’area di riferimento. Il tasso a gennaio è rimasto stabile all’8,2%, in linea con quanto registrato per tutto il 2011. In Italia, invece, la disoccupazione ha fatto registrare un significativo passo avanti, dall’8,9% di fine 2011 al 9,2%. Nell’eurozona la disoccupazione è aumentata di 0,1 punti percentuali a gennaio (45 milioni), «prolungando un aumento continuo da giugno 2011», ed è arrivata al 10,7%, «livello più elevato dall’inizio della crisi finanziaria mondiale», appesantita soprattutto dal 23,3% registrato in Spagna. Per la prima volta dal 2005, il numero di senza lavoro è aumentato anche in Germania, dal 5,7% di dicembre a 5,8%.

l’Unità 12.04.12

"Il Politecnico parlerà inglese un passo importante per il paese", di Irene Tinagli

Gli ingegneri italiani sono sempre stati un gran vanto per il nostro Paese, una tradizione che ha trainato la rinascita industriale del dopoguerra e che ha dato una forte identità a molte nostre aziende, marchi e prodotti. Una tradizione spesso sbandierata con orgoglio per contraddire le teorie più pessimiste sul potenziale del nostro Paese. Confesso di averlo fatto anch’io quando vivevo negli Stati Uniti. Ricordo una discussione con alcuni accademici e imprenditori americani e italiani «emigranti», il tema era il declino della formazione universitaria italiana, e come controargomento portai ad esempio le nostre facoltà d’ingegneria e i Politecnici, che da sempre sfornano ingegneri di primissima qualità. Mi sentii ribattere che probabilmente erano molto bravi, ma non parlavano una parola d’inglese. Questo accadeva poco meno di 15 fa. Molte cose sono accadute da allora. Il mondo ha attraversato trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali che all’epoca sarebbero state impensabili. Anche gli ingegneri italiani, ormai, parlano l’inglese. L’iniziativa del Politecnico di Milano sancisce il completamento di un percorso di «ammodernamento» che probabilmente sarà seguito presto da altre facoltà. Un cambiamento che non solo darà un bel contributo a tutti i nostri ingegneri che vogliano misurarsi con mercati e opportunità a livello internazionale, ma che renderà l’Italia un Paese più attraente per tutti gli studenti stranieri che vogliano approfittare della eccellente qualità della formazione ingegneristica del nostro Paese. Tutto questo agevolerà quel processo di scambio culturale e di apertura internazionale fondamentale per l’innovazione e la competitività di un paese.

C’è solo un piccolo, tenue rammarico. Imparare a conversare in una nuova lingua non cancella mai la capacità di conversare nella lingua madre. Ma quando si imparano concetti tecnici, specifici, che sono totalmente nuovi, li si imparano nella lingua con cui vengono presentati per la prima volta. E non viene automatico tradurli nella lingua madre come può accadere con parole consuete come buongiorno o buonasera. Anzi. Chiunque abbia esperienze di studio e specializzazione all’estero sa quanto tempo e fatica richieda «ritradurre» in italiano termini ed espressioni apprese per la prima volta in una lingua straniera. Questo significa che la strada del cambio linguistico per le nuove generazione di ingegneri italiani potrebbe essere senza ritorno. Non sarà banale per ragazzi formatisi in lingua inglese tornare a progettare in italiano.

Non è un dramma, ed è più lungimirante una scelta di questo genere di quella fatta, per esempio, da quelle università catalane che impongono esami in una lingua che non parla più nessuno. Ma è comunque un piccolo pezzo della nostra tradizione che ci lasceremo alle spalle.

E ogni grande tradizione deve sapersi adattare e cambiare pelle se vuole continuare a vivere nella realtà del suo tempo e non solo nei musei e nei libri di storia.

La Stampa 12.04.12

Alcol, aumenta il consumo fuori pasto dei giovanissimi. I dati dell’Istat

In Italia ci sono 8 milioni di bevitori “non moderati”. Stabile la quota di popolazione (66,9%) di 14 anni e più che ha consumato almeno una bevanda alcolica nell’anno. Cambia il tipo di bevande consumate e cresce il consumo con l’aumentare del titolo di studio. Nel 2011 il 66,9% della popolazione di 14 anni e più ha consumato almeno una bevanda alcolica nell’anno. Tale quota è stabile rispetto all’anno precedente e in diminuzione rispetto a 10 anni prima (72%). Dal 2001 al 2011 il numero di consumatori giornalieri di bevande alcoliche decresce del 18,4%, specialmente tra le donne (-25,7%). Aumenta invece la quota di quanti dichiarano di bere alcolici fuori dai pasti (dal 24,9% nel 2001 al 27,7% nel 2011) e di chi ne consuma occasionalmente (dal 37,1% nel 2001 al 40,3% nel 2011). Sono questi alcuni dei dati contenuti nel report dell’Istat sull’uso e l’abuso di alcol in Italia, diffuso questa mattina.

I ragazzi. Cresce fortemente il consumo di alcol fuori pasto dei giovanissimi. La quota di 14-17enni che consuma alcol fuori pasto passa dal 15,5% del 2001 al 18,8% del 2011. Cambia il tipo di bevande consumate. Diminuisce la quota di chi consuma solo vino e birra e rimane invariata quella di chi consuma anche aperitivi alcolici, amari e superalcolici. Sempre secondo l’Istat, nel 2011 ha consumato almeno una bevanda alcolica nell’anno il 65% della popolazione di 11 anni e più. Beve vino il 53,3%, birra il 46,2% e aperitivi alcolici, amari, superalcolici o liquori il 40,6%; beve vino tutti i giorni il 23,6% e birra il 4,5%.

Comportamenti a rischio. Nel complesso, i comportamenti a rischio nel consumo di alcol (consumo giornaliero non moderato, binge drinking, consumo di alcol da parte dei ragazzi di 11-15 anni) riguardano 8 milioni e 179 mila persone. “Tale quota, rispetto al 2010, appare in diminuzione principalmente per la riduzione nell’abitudine al binge drinking, che passa dall’8,3% al 7,5%”, spiega l’Istat. I comportamenti a rischio sono più diffusi tra gli anziani di 65 anni e più (il 43,0% degli uomini contro l’10,9% delle donne), i giovani di 18-24 anni (il 22,8% dei maschi e l’8,4% delle femmine) e gli adolescenti di 11-17 anni (il 14,1% dei maschi e l’8,4% delle femmine). La popolazione più a rischio di binge drinking è quella giovanile (18-24 anni): il 15,1% dei giovani (21,8% dei maschi e 7,9% delle femmine) si comporta in questo modo, per lo più durante momenti di socializzazione. Tra i ragazzi di 11-15 anni la quota di chi ha almeno un comportamento a rischio è pari all’11,9% senza differenze di genere evidenti. “Tale comportamento è grave anche perché pone le basi per possibili consumi non moderati nel corso della vita”, si precisa. Tra i giovani di 18-24 anni che frequentano assiduamente le discoteche i comportamenti di consumo di alcol a rischio sono più diffusi (31,9%) rispetto ai coetanei che non vanno in discoteca (7,8%). Stesse differenze si riscontrano tra frequentatori e non di spettacoli sportivi e concerti di musica non classica.

Consumo più forte nel Centro-Nord. Il consumo di alcol nell’anno è più forte nel Centro-Nord, soprattutto nel Nord-est, in particolare tra i maschi. In modo analogo si distribuiscono i consumatori giornalieri, con una quota nel Nord del 28,1%. “Considerando l’ampiezza demografica dei comuni, la quota di consumatori nell’anno è più elevata nei comuni Centro dell’area metropolitana – rileva l’Istat -. Nei comuni fino a duemila abitanti è maggiormente elevato il numero dei consumatori giornalieri, anche se, rispetto al 2010, in questi comuni si osservano riduzioni significative nella quota di consumatori sia nell’anno che giornalieri: i primi passano dal 68,5% del 2010 al 63,5% del 2011, mentre i secondi dal 34,7% al 30,5%”.

Consumo di alcol e titolo di studio. Tra le persone di 25 anni e più, la quota di consumatori nell’anno di bevande alcoliche aumenta al crescere del titolo di studio più alto conseguito. “Ciò avviene soprattutto per le donne – spiega l’Istat -: se tra quelle con massimo la licenza elementare il 41,9% consuma alcol, per le laureate la quota raggiunge il 68,6%. Le differenze di genere, pur permanendo, diminuiscono all’aumentare del titolo di studio”. Andamento inverso ha, invece, quello del consumo quotidiano, che risulta crescente al diminuire del titolo di studio, sia per gli uomini sia tra le donne.

da Redattore Sociale