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"Perchè non basta la cura del rigore", di Romano Prodi

Restringendo per una volta il nostro sguardo nell’ambito degli orizzonti nazionali, cerchiamo di capire come va oggi l’economia italiana e cosa probabilmente ci capiterà domani. Nelle ultime settimane siamo stati infatti oggetto di messaggi contrastanti. C’è chi ci descrive ormai fuori dal tunnel e chi prevede invece che la crisi durerà ancora a lungo. Essendo Pasqua cominceremo con pensieri positivi, tra i quali emerge il risanamento del bilancio pubblico che, pochi mesi fa, ci metteva in stato d’accusa di fronte a tutta la comunità internazionale. Il cammino verso il pareggio procede nei tempi richiesti e nessuno ci può più chiedere di fare i compiti a casa, anche se la mancanza di direzione della politica europea alimenta ancora gli umori negativi dei mercati. Gli spread oscillano verso l’alto e verso il basso anche quando non vi sono sostanziali novità nel quadro economico. L’incertezza domina, ma il rischio di un collasso italiano sembra essere definitivamente alle nostre spalle. L’Europa è in stato confusionale ma non saremo noi i primi a cadere.
La crisi dell’economia reale è invece ancora pesantemente in corso in Italia e un deciso segno meno caratterizza i dati degli ultimi mesi e le più recenti previsioni sul futuro (Prometeia Aprile 2012). Le tensioni della scorsa estate hanno ulteriormente aggravato lo stato di salute di un’economia già fragile, approfondendo ancora più la distanza tra l’Italia e gli altri grandi Paesi europei. Il Pil cala pesantemente ed è lontanissimo dai livelli pre-crisi. La conseguenza è un vero e proprio crollo dei consumi, degli investimenti e della produzione industriale. Tutti hanno ben presente i dati disastrosi della domanda e della produzione di automobili, ma ugualmente negativo è il mercato degli altri beni durevoli. La ferita è così profonda e così grave che persino i prodotti alimentari hanno un andamento negativo. I consumi globali caleranno di un altro 3% nell’anno in corso, per perdere un ulteriore 1% durante l’anno prossimo. Il cammino verso il basso dell’intera economia continuerà perciò almeno lungo tutto il 2012, con una caduta del Pil dell’1,5% quest’anno e con una crescita quasi nulla nel 2013.
La frana dei consumi si fermerà solo nel 2014 ed essi aumenteranno in modo quasi impercettibile nel periodo successivo. Se non vi saranno elementi nuovi si dovrà arrivare alla fine del decennio perché la nostra economia ritorni ai livelli del 2007. Con questi dati la disoccupazione non può che aumentare, per assestarsi non lontano dal fatidico 10%, mentre tre volte maggiore sarà la disoccupazione giovanile. A questa caduta della domanda interna e del potere d’acquisto delle famiglie non può porre rimedio il discreto andamento delle esportazioni perché, nonostante quest’aspetto positivo, la produzione industriale è ora del 18% inferiore rispetto al 2007. Inoltre, nel periodo precedente la crisi, la nostra economia si era salvata attraverso un attivo contributo dell’edilizia e della pubblica amministrazione, settori che ora esercitano ovviamente più la funzione di freno che di motore. Ci troviamo quindi in un quadro in cui le ombre sono più delle luci ma nel quale tutto è già stato programmato con estrema lucidità da una politica europea sempre meno comprensibile. Le decisioni dell’Ue impongono bilanci restrittivi e, a parte le aperture di credito della Bce, la strategia imposta dalla Germania non offre alcun sollievo nemmeno a chi ha fatto tutti i compiti a casa.
Il peso dell’aggiustamento viene lasciato interamente sulle spalle dei Paesi in difficoltà, a costo di indebolire la dinamica stessa dell’economia tedesca. Dobbiamo quindi arrangiarci da soli ma dobbiamo farlo in fretta. In primo luogo è urgente mettere in atto una politica industriale volta ad aumentare la produttività delle imprese e a incentivare gli investimenti. Le esportazioni, con tutti i loro limiti, rimangono di fatto l’unico elemento propulsivo dell’economia. Le imprese esportatrici sono quelle che hanno i bilanci più in ordine e che investono e innovano maggiormente. Sono la carta su cui scommettere.
In secondo luogo, a seguito della politica della Bce, è possibile riattivare progressivamente i canali del credito bancario, anche se in molti casi è la domanda stessa di credito a essere deficitaria. È in terzo luogo doveroso accelerare i pagamenti ai fornitori da parte della pubblica amministrazione centrale e locale, costruendo anche, se necessario, un accordo di ampio respiro con tutto il sistema bancario. Non è in ogni caso tollerabile che le imprese falliscano perché la pubblica amministrazione non paga i debiti e non è tollerabile che i prezzi delle forniture siano costantemente più elevati in Italia rispetto agli altri Paesi europei proprio in conseguenza di questi comportamenti dell’acquirente pubblico.
Queste misure sono semplici e di facile applicazione: non saranno certo sufficienti per dipingere di rosa un quadro che si presenta con i colori scuri che ho descritto in precedenza ma si tratta tuttavia di misure in grado di aiutare il sistema economico in modo rapido e duraturo. In ogni caso è inaccettabile che le conseguenze depressive di una necessaria operazione di risanamento del bilancio non siano accompagnate dall’adozione di tutte le misure capaci di accendere almeno una luce che ci aiuti ad attraversare il tunnel di una crisi che sembra non finire mai.

Il Messaggero 08.04.12

"La legge sui concorsi che obbliga i prof a fare gli amanuensi", di Gian Antonio Stella

E meno male che non si usano più i papiri, le pergamene di pelle di capra, le tavolette di cera o il calamaio! I membri d’una commissione universitaria, esasperati, l’hanno scritto nell’incipit di uno sterminato verbale di 67 pagine: non ha senso «copiare manualmente le centinaia di titoli e pubblicazioni prodotte». Per non dire del resto…
La commissione, composta dai professori Lucio Pegoraro, Roberto Toniatti e Laura Montanari, doveva scegliere il vincitore per un posto di ricercatore di ruolo in Diritto pubblico comparato alla facoltà di Giurisprudenza di Bologna. I candidati erano 10, scesi poi a sette. E a mano a mano che la procedura si rivelava in tutta la sua insulsa macchinosità burocratica, Pegoraro, ordinario di Diritto pubblico nell’ateneo felsineo e «profesor afiliado alla Universidad Autónoma de Nuevo León», in Messico, ribolliva di stizza.
«Mesi fa», racconta, «ero commissario per un posto di professore alla Sorbona. Commissione internazionale. Primo incontro in videoconferenza per scambiarci le idee, poi riunione a Parigi coi candidati. Un giorno ad ascoltare le lezioni di 45 minuti di ogni aspirante docente. Discussione tra noi, un membro incaricato di stendere il giudizio, comunicazione informatica, accettazione e nomina. A parte, gli amministrativi trattavano il compenso e la disponibilità offerta dai candidati. C’era gente di quattro o cinque Paesi diversi sia tra i commissari sia fra i candidati. Ha vinto il migliore. Lunghezza del verbale: una pagina. Non so se mi spiego: una».
In Italia no, a forza di semplificare (ricordate l’ipocrisia sbruffona dei ministri alla Semplificazione che bruciavano scatoloni pieni di leggi?) le cose si sono fatte ancora più complicate. Per un concorso per un posto da 1.500 euro al mese, accusa il docente, la legge Gelmini prevede che: «Dopo una riunione di insediamento che può essere (serve l’autorizzazione, però) telematica, la commissione deve riunirsi fisicamente nella sede del bando. Col richiamo a Bari, per dire, di un commissario di Torino o a Trieste di uno di Catania. In quella sede deve «aprire i plichi» dei candidati (segretissimi fino all’ultimo, anche se è materiale pubblico) e valutarli. Poi fare una prova orale e decidere. Di fatto: due o tre persone devono prendere il treno o l’aereo, andare in trasferta, leggere tutto, scrivere i giudizi e infine decidere e mettere a verbale…».
Un incubo: «All’ultimo concorso che ho presieduto il verbale era di 112 pagine: centododici!». Totale: oltre 35mila parole. Tanto per capirci: nove volte più di quelle servite (3.786) a Giovanni XXIII per aprire il concilio ecumenico Vaticano II. O, se volete, tre volte e mezzo quelle necessarie (10.668) a Karl Marx e Friedrich Engels per scrivere il Manifesto del partito comunista. Un delirio inferiore solo alla commemorazione (45.439 parole!) letta dal leader albanese Enver Hoxha per il centenario della nascita di Josip Stalin. Un diluvio retorico che andò avanti per oltre sette ore.
Ci vuole un sacco di tempo, per leggere «sul posto» le pubblicazioni di decine di candidati (per un concorso a Bologna se ne sono presentati recentemente oltre 70) ma non basta: «I commissari devono fare una valutazione “analitica” anche sui titoli non scientifici. Ad esempio, scrivo che mi sono diplomato nel liceo Tale con 44/60: è obbligatorio un giudizio anche su questo. Nell’ultimo concorso che ho presieduto, ho dovuto valutare circa 500 titoli, tra i quali quello di “toga d’oro” del Tribunale di Rimini o la partecipazione al convegno XY. Ci sono candidati che presentano elenchi di 50 partecipazioni passive a convegni. Che significa? Che ti sei seduto su una sedia in fondo e sei rimasto lì tre ore? Che valore può avere? Eppure dobbiamo copiarli tutti nel verbale, dato che vengono depositati in cartaceo (anche se poi c’è l’obbligo di fare il verbale elettronico) e scrivere: “bravo, bene, male, non interessante” su tutti. Anche se fosse il certificato di cresima. La valutazione analitica dei titoli non scientifici è una follia. Quanto a quelli cosiddetti “scientifici”… Cosa posso scrivere di uno che manda come titolo autonomo una cronaca di 18 righe sulle elezioni in Zimbabwe?». Si dirà: tutto necessario per smantellare finalmente il sistema dei concorsi farlocchi. No, aveva ragione Montesquieu: «Le leggi inutili indeboliscono le leggi necessarie».
Risultato finale: spese assurde per le casse pubbliche. Perdita abnorme di tempo. Lezioni cancellate perché il docente è in trasferta magari dall’altra parte dell’Italia per fare una valutazione che in un Paese occidentale potrebbe essere fatta online. E tutto, dato che non è facile far coincidere gli impegni di tutti, si trascina per settimane, per mesi, per anni…
Così, un giorno che proprio non ne potevano più, quei tre commissari hanno messo la loro insofferenza a verbale: «Preliminarmente, la Commissione esprime il proprio disappunto e la propria indignazione per l’assurdità dei nuovi criteri concorsuali. Essi costringono i commissari a copiare manualmente le centinaia di titoli e pubblicazioni prodotte, le quali non sono corredate da supporti informatici; a ricercare nelle biblioteche le pubblicazioni non inviate personalmente dai candidati, oppure a fotocopiare le stesse e riportarle nelle sedi di provenienza per poterle leggere, oppure al medesimo fine a soggiornare per giorni nella sede di concorso, con gravi oneri per l’erario e in spregio ai principi di buon andamento, efficienza ed efficacia della pubblica amministrazione».
«La Commissione reputa inoltre priva di ogni senso logico la valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni, atteso che i candidati presentano decine di titoli irrilevanti ai fini delle procedure concorsuali, sui quali nulla c’è da dire (es.: maturità classica, o partecipazione “passiva” a un convegno, o membro di una associazione), e pubblicazioni di poche righe, come cronache o simili, che assumono un senso per la valutazione dei candidati solo in un contesto complessivo, ma su tutti i quali ciascun commissario deve scrivere un giudizio completo e la commissione redigere un giudizio collegiale».
«Infine, ritiene incomprensibili le ragioni per cui i colloqui debbano svolgersi sui titoli (“Ci racconti di quella volta che è stato a un convegno a Teramo?”), e non sulle pubblicazioni. Stabilisce di inserire a verbale la presente dichiarazione». Domanda: qualcuno la prenderà sul serio?

Il Corriere della Sera 08.04.12

"La riscossa dei prof precari: il giudice li indennizza", di Ro.Da.

Sei un professore precario da oltre tre anni? Bene, anzi male. Però coraggio: significa che hai diritto ad essere assunto stabilmente. In attesa che il ministero apra le maglie delle assunzioni, hai diritto ad un risarcimento danni di circa 22mila euro per l’ingiusto precariato oltre agli scatti di anzianità. E’ quanto ha deciso il giudice del lavoro di Urbino accogliendo 27 ricorsi (22 docenti e 5 amministrativi) presentati dalla Flc Cgil. Altri 80 ricorsi sono in attesa di decisione avanti al tribunale di Pesaro. Il risarcimento stabilito dal giudice è pari a 12 mensilità più scatti di anzianità relativi agli anni di precariato. Tra i beneficiari del provvedimento del giudice, anche insegnanti delle superiori con contratti a tempo da oltre 10 anni. SCRIVE in una nota Lilli Gargamelli, della Flc Cgil: «Due anni fa, abbiamo avviato una vertenza nazionale contro la reiterazione di contratti a tempo determinato a favore del personale precario in servizio nelle scuole con almeno tre anni di servizio, al fine di ottenere la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato. Nei ricorsi promossi nel nostro territorio provinciale spiega la segretaria generale di Flc Cgil Pesaro Urbino abbiamo chiesto anche il riconoscimento degli scatti di anzianità e il risarcimento del danno perché i lavoratori hanno subìto ingiustamente una condizione di lavoro e un trattamento peggiore rispetto a quelli di cui avevano diritto. La Flc ha tutelato i lavoratori di tutti i comparti della conoscenza con rapporto di lavoro a tempo determinato che da 3 anni (36 mesi) occupano posti liberi e hanno i requisiti previsti per l’accesso al pubblico impiego (ad es. l’abilitazione per i docenti di scuola). Ora sono finalmente arrivati i primi pronunciamenti positivi nel nostro territorio prosegue Gargamelli di grande aiuto è stata la giurisprudenza europea che condanna il ricorso a contratti a tempo determinato non per esigenze temporanee, ma per coprire buchi di organico, ed è proprio qui che si ravvisa l’abuso dello strumento contrattuale utilizzato». LE QUASI TRENTA sentenze del tribunale di Urbino, accogliendo le richieste formulate dalla Flc Cgil, sanciscono la funzione sociale del contratto di lavoro a tempo indeterminato e il divieto di utilizzo continuativo del contratto a termine come strumento di “precarizzazione” del mercato del lavoro. Aggiunge Lilli Gargamelli: «Credo che andremo a chiedere di più di dodici mesi di stipendio. Perché quello è l’indennizzo di chi viene assunto a tempo indeterminato mentre i nostri assistiti non sono ancora passati a tempo indeterminato pur essendoci i posti in organico. Dunque, la battaglia non è finita e andremo presto a confrontarci per ottenere il rispetto dei diritti dei lavoratori per troppo tempo precari». ORA si attende la decisione del giudice del lavoro di Pesaro. Ne ha sul tavolo 81. Se dovesse confermare l’orientamento del collega urbinate, significhebbe per il ministero un esborso in indennizzi per oltre 2 milioni e mezzo di euro. E sarebbe solo l’inizio perché a quel punto anche tutti i precari che sono associati ad altre sigle sindacali percorrerebbero la stessa strada civilistica, l’unico modo rimasto per vedersi riconosciuti dei diritti stabiliti anche dai tribunali europei. Perché il timbro di precario non può essere per nessuno una seconda pelle. Prima o poi, qualcuno deve credere in te.

Il Resto del Carlino 08.04.12

"Ritratto di un paese tra padania e Wall Street", di Eugenio Scalfari

Di Umberto Bossi parlerò poco, dopo quanto abbiamo saputo di lui e della Lega. Le testimonianze che coinvolgono non soltanto i suoi familiari e la Rosy Mauro (che è addirittura vicepresidente del Senato) sono certamente testimonianze di parte, di chi ce l´ha con lui perché non ha difeso l´indifendibile Belsito, ma sono tuttavia confermate, quelle testimonianze, da documenti inoppugnabili, intercettazioni chiarissime, lettere, ricevute, assegni e bonifici bancari con intestazioni che parlano da sole.
Aspettiamo i seguiti dell´istruttoria e l´eventuale rinvio a giudizio, ma il giudizio politico va dato subito e l´ha già scritto venerdì scorso Ezio Mauro. La linea del nostro giornale è chiarissima: Bossi è stato al centro del malaffare che ha inquinato la famiglia e gran parte del gruppo dirigente leghista, specie quello di provenienza lombarda.
Quel gruppo dirigente è interamente presente nel triumvirato che reggerà la Lega fino al Congresso. L´immagine che hanno del vecchio capo e fondatore è quella d´un uomo assolutamente integro e raggirato eventualmente dai familiari. Quanto a lui, il “Senatur” si dice convinto d´esser vittima d´un complotto. I militanti leghisti dal canto loro si identificano con il vecchio capo carismatico, qualunque verità emerga dal processo.
Infine gli elettori, che sono molto più numerosi dei militanti, con un rapporto che sta tra i cinque e i dieci elettori per ogni militante a seconda delle province e dei comuni esaminati. Ebbene gli elettori sono in fuga.

Il grosso si asterrà, una piccola parte si orienterà verso il Pd o formazioni di accesa protesta sociale. Quanto all´”appeal” di Casini, tra gli ex elettori leghisti è bassissimo.
Se queste previsioni si verificheranno i partiti maggiori ne trarranno comunque beneficio a causa di un´astensione leghista massiccia. Solo a Verona dove Tosi ha un consenso che le attuali traversie leghiste non scalfirà se non marginalmente, riuscirà forse a mantenere le sue posizioni.
Bossi, dopo l´ictus che lo colpì otto anni fa, è stato un personaggio drammatico e al tempo stesso grottesco. Che un partito ed un elettorato lo abbia considerato, nelle condizioni in cui era ridotto, un punto di riferimento per ciò che diceva e per come lo diceva, è un segnale disperante del livello culturale d´una parte rilevante della società civile. Sul medesimo livello purtroppo si collocano anche tutte le clientele che sorreggono personaggi e situazioni di potere inquinate dalla demagogia e dalla corruzione, a Palermo come a Milano, a Bari, a Napoli, a Roma, a Imperia, a Genova, a Parma, in Calabria, a Cagliari.
La lebbra del clientelismo e l´analfabetismo leghista collocano la società civile del nostro Paese ad un livello ancora più basso del già bassissimo livello della classe politica. E l´antipolitica ne è il segnale.
Esiste una parte del Paese che, disgustata da quanto ha visto e vede attorno a sé, è da tempo mobilitata per un rinnovamento profondo, per riforme strutturali e per un mutamento radicale di abitudini e di modi di pensare. L´emergenza della crisi economica si è sovrapposta a questa situazione, ma in un certo senso ha risvegliato le persone perbene che sono ancora numerose in tutti i ceti e su tutto il territorio. Questo risveglio le preserva dal rifugiarsi nell´indifferenza. Il destino della nazione è affidato a loro, alle loro capacità di curare un Paese gravemente ammalato, invecchiato, inutilmente ribellista, anarcoide e corrotto.
* * *
Il governo Monti è stato un buon segnale di questa capacità terapeutica che va oltre l´emergenza economica, ma soffre anch´esso di alcune contraddizioni interne e di un quadro europeo a dir poco sconfortante dal quale la sua azione riformatrice è strettamente condizionata.
La composizione del governo è stata improvvisata in poche ore. Mediamente le scelte sono state di buon livello, ma alcune presenze non si sono dimostrate all´altezza delle responsabilità che incombevano. Non si tratta per fortuna di falle devastanti, ma di scarsa capacità di lettura politica, specialmente a livello dei sottosegretari. Le condizioni di emergenza e la brevità del tempo a disposizione rendono tuttavia impossibile rafforzare il Ministero che ha un tempo d´azione estremamente breve: dalla fine dell´anno avrà inizio la campagna elettorale e l´azione innovativa del governo sarà interrotta. Governerà per amministrare le novità già avviate.
Il tempo utile si restringe dunque a sette-otto mesi, con dentro le elezioni amministrative del prossimo 6 maggio il cui esito potrebbe anche modificare le prospettive attuali. La tenuta del Pdl è una di quelle, la crisi della Lega un´altra.
Chi pensa che il governo Monti sia al riparo dagli effetti delle amministrative di maggio è in errore. Il governo dipende dal Parlamento e dunque dai partiti che vi sono rappresentati. Dipende perfino dal voto degli Scilipoti. Lo so che non piace a nessuno ricordare questa situazione e scrivo quel nome solo per render ben chiaro che il Parlamento e le forze politiche che vi sono rappresentate sono quelle che sono, nel bene e nel male, nella loro presenza o nella loro irrilevanza nel Paese, ma i loro comportamenti parlamentari saranno condizionati dalle prospettive elettorali.
Del resto lo si vede già in questi giorni: è bastato un articolo del Wall Street Journal e un giudizio avventato della Marcegaglia a mettere in allarme il Pdl rispetto alla modifica dell´articolo 18 introdotta da Monti subito dopo il suo rientro dalla Cina; una modifica – va detto – che tiene conto d´una logica costituzionale sottovalutata nel progetto originario e niente affatto sconvolgente dell´impianto complessivo della riforma del lavoro. Se quella modifica non fosse stata introdotta avremmo avuto uno sconvolgimento della pace sociale con effetti devastanti sui mercati e per il governo.
Mi stupisce molto il giudizio dell´onorevole Ichino che sul Corriere della sera ha definito pessima quella modifica dell´articolo 18 perché, impedendo alle imprese di licenziare, le scoraggia anche ad assumere, e si sono anche messi in due a firmare questa sentenza.
Ragionamenti di questo genere hanno una validità risibile perché non possono essere in alcun modo dimostrati. Autorizzano anzi il ragionamento opposto: la modifica in questione impedisce i licenziamenti in una fase recessiva in cui il mercato del lavoro tende a far diminuire la forza lavoro impiegata e quindi la modifica ha il buon effetto di impedire questo assottigliamento evitando conseguenze ulteriormente recessive.
I due punti di vista simmetricamente opposti sono entrambi chiacchiere, che dimenticano tra l´altro che la riforma Fornero estende l´articolo 18 nella sua nuova formulazione a tutte le imprese mentre attualmente quelle con meno di 15 dipendenti ne erano escluse.
La verità è che la riforma attuale è positiva, combatte il precariato, estende il numero delle tutele dai 4 ai12 milioni di lavoratori, accresce la buona flessibilità e, per quanto riguarda l´articolo 18, si limita (ma era fondamentale farlo) ad assicurare l´eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e la libertà del giudice di emettere la sentenza sulla base del suo libero convincimento.
Questi sono diritti non negoziabili da una Marcegaglia in libera uscita. Quanto all´opinione dei giornali che riflettono anche nella testata quella dei banchieri d´affari di Wall Street, essi partono dall´idea che Monti fosse un clone della Thatcher e poiché si accorgono ora che non lo è, scoprono d´improvviso che Monti è un comunista.
Che valore possono avere opinioni di questa natura? Zero, anche se dimostrano che i banchieri d´affari americani alimentano la speculazione contro l´euro. Questo sì, è un pericolo che bisogna conoscere per poterlo evitare.
* * *
Non credo affatto che Monti voglia continuare a governare dopo le elezioni del 2013, ma non credo neppure che il suo lavoro contro l´emergenza a quella data sarà compiuto. E mi stupisco anche che ci siano persone che non si rendono conto della fine di un´epoca che stiamo vivendo.
La globalizzazione non è un incidente di percorso. I suoi aspetti negativi (e ce ne sono) possono essere evitati o almeno contenuti solo avendone capito bene la natura. La sua intima essenza è quella dei vasi comunicanti. Questa legge fisica ed anche economica operava anche all´epoca del “gold standard” ma con modalità e tecnologie completamente diversi.
Adesso è una realtà e significa: libertà di movimento di merci, capitali, persone e tendenza a pareggiare i dislivelli. Sicché i redditi dei Paesi di antica opulenza dovranno cedere una parte del loro benessere ai paesi di antica povertà. Con tutte le implicazioni sociali (e fiscali) che ciò comporta poiché il sistema dei vasi comunicanti vale – deve valere – anche all´interno dei Paesi di antica opulenza dove il principio delle pari opportunità per i ricchi e per i poveri deve essere realizzato con la massima energia e tempestività.
Ci vorranno due o tre generazioni per risolvere questi problemi, ma i primi passi debbono essere compiuti da subito e debbono coinvolgere tutte le parti sociali. Lo sappia il ministro Fornero ma lo sappia anche Susanna Camusso; Bersani lo sa e Casini pure, ma lo sappia anche Alfano e i suoi amici non tanto amici.
Bossi queste cose non le ha mai sapute, anzi ha fatto di tutto per impedirle e in parte c´è anche riuscito preparando all´Italia un destino di provincia. Ora sappiamo che preparava anche un destino di bordello, così il verso dantesco risulterà completo. Berlusconi, ovviamente, solidarizza con lui, ma forse per limitare le perdite proprie.

La Repubblica 08.04.12

"Bossi e la corte dei miracoli", di Lorenzo Mondo

Avevamo fatto il callo alle intemperanze di Umberto Bossi, alle sue provocazioni verbali e gestuali, dettate da un temperamento sanguigno che sapeva convertirsi in popolaresca astuzia. Colpiva, senza dispiacere necessariamente, il sentore di osteria che emanava dagli incontri e dai conciliaboli con la sua gente, la confidenza spiccia con i costumi delle valli lombarde. Anche in questo si manifestava la lontananza della Lega dal detestato Palazzo romano. Certo si accoglievano con un sorriso, se non con ironia, le sue incursioni nel mondo di una artefatta cultura. Inneggiava alla ribellione di Alberto da Giussano contro il Barbarossa per l’indipendenza di una Padania che, nelle suggestioni del federalismo, guardava adesso con simpatia alla tedesca Baviera.

Egli si prestava inoltre alla riesumazione, dal sapore fumettistico, della storia celtica e della religiosità druidica, con tanto di elmi cornuti, di ampolle riempite con le acque sacre del Po (improponibile, così nudo e crudo, per un utilizzo onomastico, è diventato Eridano al battesimo del suo ultimo figlio). Molti erano disposti ad assolvere questo folklore identitario, apprezzando la sollecitudine del suo movimento per le ragioni del Nord, delle aree più produttive e inascoltate del Paese. Ma il successo decretato dalle urne (e poi il malaugurato ictus) gli hanno dato alla testa. Prescindiamo dai fallimenti politici per tentare un possibile profilo di carattere antropologico. Per dire che la consueta arroganza non ha cancellato in lui la segreta afflizione per un deficit culturale di cui potevano fare a meno la sua vitalità e il suo istinto, ma non i figli, destinati a succedergli politicamente.

Ecco allora, stando alle testimonianze raccolte, il pagamento di lauree e diplomi con i soldi del partito, ecco i corsi del figlio Renzo, l’inarrivabile «Trota», in una misteriosa università privata d’Inghilterra. E lo stesso desiderio di promozione ha contagiato Rosy Mauro, stretta collaboratrice di Bossi e confidente della famiglia, che è andata a cercare, per sé e per il compagno, una laurea in Svizzera. Il tesoriere Belsito, l’ex buttafuori dal soma pugilistico, la chiama sprezzantemente «la Nera». Questa donna dedita, pare, alla cartomanzia, assume per i suoi accusatori i connotati d’una Lady Macbeth di provincia. Sono tratti e comportamenti che finiscono per comporre una corte dei miracoli la quale, oltre ad essere devastante per la Lega, rende più malinconico il tramonto di Umberto Bossi, protagonista per il bene e per il male della seconda Repubblica.

La Stampa 08.04.12

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“Le lauree in canottiera”, di Francesco Merlo

Sono il rogo dei libri nelle valli dei dané. E certo si capisce che ora circolino le battute sulla Lega che «chiude per rutto». E si sprecano le volgarità su Rosy Mauro, la nera che «sta rovinando il capo», «la dottoressa ‘Mamma Ebe’» che ha laureato in Svizzera anche il suo giovane compagno, poliziotto ed artista che cantando «ci hanno ridotto a culi nudi» un po’ si presta alla ferocia della satira sboccata. Perciò Mamma Ebe promette di riempire l’Italia di sganassoni con le sue grandi mani di fatica, rosse e nodose, il cerchio all’anulare, mani laureate in Svizzera che è un dettaglio gradasso di Bossi, una pernacchia in più all’Italia dei saperi: «non solo regalo la laurea alla mia badante, ma la compro addirittura in Svizzera», insomma meglio di quella di Mario Monti, meglio di quella della Fornero.
Come si vede, dunque, la degradazione del titolo di studio in patacca da rigattiere nella zona più ricca d’Italia non è il dettaglio pittoresco di una ben più seria sconfitta politica. Al contrario, nel Trota che manda in pensione l’asino e, dopo tre bocciature, il partito gli compra l’agognato e immeritato diploma al mercato nero di chissà dove, c’è già la secessione in atto.
Sulle spalle di questo povero figlio, che dal 2010 frequenta a Londra una misteriosa università («in economia» disse a Vanity Fair) pagata dagli italiani sotto forma di rimborsi elettorali, non c’è solo l’ennesimo aggiornamento del ‘tengo famiglia’ e della logica del cognome che pure spiegano la sua carriera politica. Ma c’è l’aggressione a quel primato dell’ingegno che ancora ci identifica in tutto il mondo, all’Italia che ora cammina sulle gambe di Riccardo Muti e di Renzo Piano, di Umberto Eco e di Carlo Rubbia, a quella che sarà pure diventata una retorica già gravemente minacciata di decadenza, ma che solo la faccia del trota economista a Londra riesce profondamente a umiliare.
Papà Bossi, che lo voleva come delfino ed erede politico, gli ha negato un’individualità, lo ha azzerato e senza offrirgli via di scampo lo ha modellato come pataccaro leghista, ancora più pataccaro e leghista di sé, ha marchiato la sua giovane coscienza con il dio Po e con tutte le altre corbellerie padane sino a fargli presentare, agli esami di maturità, delle tesi su quel Cattaneo che solo papà ha ridotto a piazzista politico e a imbroglione, ma che in realtà è un autore difficile anche per i professori. Il risultato ovvio non è solo la bocciatura, ma anche quella sua faccia apatica su cui si sarebbero esercitati Piero Camporesi e Arnold Gehelen, la faccia come modello d’inconsistenza che sognavano d’incontrare Walter Chiari, Cochi e Renato e i cabarettisti del Derby, la faccia su cui ora si sta crudelmente divertendo l’Italia.
Ebbene, quella faccia andrebbe presa drammaticamente sul serio perché esprime benissimo l’aggressione dell’incultura leghista all’identità nazionale, è la faccia-bandiera della competenza degradata ad incompetenza nella provincia nordista degli Aiazzone dove i libri sono da sempre arredamento.
Ecco perché il cerchio magico che si compra le lauree non è l’evoluzione nordista della vecchia e gloriosa truffa all’italiana. Qui non ci sono Totò e Peppino a Gemonio. E nella signora Bossi, premiata con una scuola privata, la Bosina, per la quale il marito chiede al partito un milione e mezzo di euro, non c’è solo il paese delle mogli, il trionfo della solita economia domestica che è l’unica scienza finanziaria nazionale, né c’è solo il tributo del celodurista spelacchiato all’Italia del matriarcato
dove, nonostante la biologia, è sempre la moglie che ingravida il marito. Certo, la signora Manuela, governando il marito ha governato l’intero governo italiano che della Lega è stato lungamente ostaggio, ma in quella scuola privata c’è qualcosa di più e di peggio, qualcosa forse di irreparabile nel mondo del mito sciaguratamente brianzolizzato del self made man che ora ricicla danaro illecito, nella fuga dalla condizione operaia verso quella dei piccoli padroni che evadono il fisco, nella corruzione politica da record che devasta la Lombardia… La scuola della Bossi è il dileggio finalmente realizzato della cultura che in quel mondo ha una sola funzione: essere dileggiata dall’asino, e dunque comprata ed esibita. È la scuola in canottiera, l’antiscuola, non un nuovo modello Montessori ma il raglio al posto delle grammatiche.
Non sarà facile liberare dall’anticultura e svelenire quella parte dell’Italia del Nord che con Bossi ha ancora un rapporto di identità corporale, non sarà semplice restaurare nei villaggi della val Brembana l’anima italiana, l’identità nazionale fondata sulle eccellenze dei saperi coltivati e depositati. Non c’è infatti nessuna simpatia canagliesca, non c’è nessuna allegria manigolda nelle due lauree — due — che il tesoriere Francesco Belsito, ex autista ed ex venditore di focacce, ‘indossa’ sul corpaccione da buttafuori, il tesoriere più pazzo del mondo, il gorilla leghista dottore in Scienza della comunicazione (università di Malta, scrisse nel sito del governo quando era sottosegretario) e dottore in Scienze politiche a Londra, dove, non avendo valore legale, si vendono lauree ai cialtroni di tutto il mondo, italiani, libanesi, ucraini…
Attenzione, dunque: questo Bossi non è il terrone padano, il solito terrone capovolto. Qui c’è infatti l’attacco alla scuola che non ha solo alfabetizzato l’Italia ma l’ha unita nell’orgoglio rinascimentale, nell’amore per le eccellenze, da Dante sino a Rita Levi Montalcini. Bossi nella sua vita di pataccaro si è finto medico, ha festeggiato per tre volte la laurea mai conseguita e non dimenticheremo mai che la Gelmini, ministro della Pubblica istruzione, convocò il senato accademico dell’Università di Varese pretendendo di dare il tocco e la toga alla volgarità del linguaggio politico, di maritare il Sapere con l’indecenza grammaticale, di adottare l’insulto come forma di comunicazione colta: «Voglio proprio vedere chi avrà il coraggio di mettere in dubbio il buon diritto di Umberto Bossi, che è parte della storia di questo Paese, a ricevere una laurea honoris causa».
Battistrada della via culturale alla secessione la Gelmini, appoggiata da un gruppetto di intellettuali disorientati e rampanti, diffondeva — ricordate? — tutta quella paccottiglia contro i professori meridionali, voleva gli esami in dialetto, fece guerra alla lingua del Manzoni in nome di una improbabile matematica, i numeri contro le lettere, roba che solo adesso, dinanzi al mercato della lauree, assume il suo vero volto di pernacchia. Il cerchio magico acquista solo lauree vere, non cerca la falsa laurea dei vecchi magliari del sud che, sia pure delittuosamente, esprimevano rispetto e soggezione per i professori che imitavano. Non viola in segreto la legge, ma la raggira alla luce del sole: non il delitto che collide con la norma, ma la patacca che collude con la norma; non il delitto che è grandezza e castigo, ma il valore comprato ed esibito, che è scherno e disprezzo. È l’unico vero sputo con cui la Lega ha davvero sporcato l’Italia.

La Repubbica 08.04.12

"Un milione di giovani non ha più un lavoro", di Giuseppe Vespo

Un milione di giovani è sparito dal mercato del lavoro. È la parte del saldo che l’economia presenta agli under 34 alla fine del terzo anno di piena crisi. Nel 2008, secondo le medie fornite dall’Istat, gli italiani occupati tra i 15 e i 34 anni erano 7,1 milioni, alla fine del 2011 sono sei milioni e cinquantasei mila. La differenza è del 14,8 per cento e sembra -ma è un’illusione – compensata dall’aumento del numero degli occupati nella fascia d’età tra i 55 e i 64 anni: più 15 per cento, per un totale di 376 mila persone (si passa dai quasi due milioni e mezzo nel 2008 a quasi due milioni e novecento mila nel 2011).
PARITÀ DEI SESSI Ad accrescere il numero degli occupati over55 sono soprattutto le donne, sulle quali si è fatto sentire maggiormente l’innalzamento dell’età pensionabile, il cui iter è stato accelerato dal provvedimento che ha seguito la sentenza della Corte di Giustizia Europea sulla parificazione dei criteri pensionistici tra uomini e donne. Le lavoratrici sono salite in tre anni di circa il 23 per cento (202 mila donne), mentre gli uomini sono aumentati di quasi l’11 per cento (174 mila). Pochi giorni fa le statistiche avevano aggiornato l’allarmante livello della disoccupazione e dell’occupazione giovanile, la prima cresciuta di oltre quattro punti percentuali in un anno (31,9%), la seconda in flessione di un punto (al 19,4%). Di fronte a questi segnali aumentano le pressioni nei confronti del governo Monti, da un po’ di tempo sotto il fuoco di partiti e sindacati per quel che riguarda le misure a sostegno della crescita e delle nuove generazioni. Una parte dei commenti più critici al ddl di riforma del lavoro appena presentato fa leva proprio sull’assenza di misure a favore della mobilità in entrata (mentre quella in uscita è stata agevolata). Non stupisce quindi sentire il segretario confederale Cgil, Vincenzo Scudiere, ribadire che «l’efficacia delle politiche economiche del governo si misura esattamente dalla politiche per la crescita, rispetto alle quali si registra un grave ritardo». Il sindacalista rincara la dose aggiungendo al carico di occupati persi i «tre miliardi di ore di cassa integrazione relative allo stesso periodo. Un combinato disposto che figura la pesantezza di una crisi che si abbatte principalmente sulle fasce più deboli, i giovani». Secondo Scudiere, quindi, «vanno riviste le norme del ddl per allargare e includere le parti più deboli». Alla Cgil ieri si è aggiunta la Cei, con il responsabile della commissione lavoro della conferenza dei vescovi, monsignor Giancarlo Bregantini, che chiede alla stessa Chiesa e a mondo degli adulti maggiore sensibilità verso «le attese e le ansie dei nostri giovani e della gente che vive drammaticamente questa realtà» di difficoltà economica e sociale. Mentre l’Italia dei Valori con Maurizio Zipponi avverte che giovani, cassa integrazione e pensioni, sono un mix che potrebbe far deflagrare la tensione sociale. Un’analisi non lontana da quella del segretario della Uil, Luigi Angeletti, che stima per il 2012 «duecento mila posti di lavoro a rischio. E ancora non abbiamo conosciuto le tensioni sociali più serie che sono quelle che potrebbero essere provocate dai licenziamenti di massa delle persone adulte». La risposta del governo arriva dal Libano, dove si trovava ieri Mario Monti: il lavoro per i giovani è «lo scopo principale» della riforma del lavoro, dice il premier, «così come lo è tutta la politica economica del governo: una volta che tutti avranno dismesso le lenti del corporativismo lo riconosceranno e parteciperanno allo sforzo collettivo».

L’Unità 08.04.12

"Vado in “paternità” perché voglio crescere con mia figlia", di Federico Cella

Mi chiedono: “Perché il congedo?” Non sono un eroe né uno originale. Voglio solo stare con mia figlia «Quand’è che inizi ad allattare?». La domanda che mi ha fatto un collega qualche giorno fa riassume in modo più colorito il dato che mi relega a una minoranza tanto piccola da farmi credere di non aver mai fatto parte di un gruppo così ristretto. Sarà che sono sempre stato poco originale. Ora non più: tra pochi giorni sarò tra il 6,9% dei padri che in Italia, secondo l’Istat, si prendono un congedo parentale di almeno un mese per stare a casa con i propri figli. Insomma, vado in paternità. E ci starò per poco meno di cinque mesi. Le reazioni alla «notizia» si dividono usualmente in due, a seconda del genere dell’interlocutore:

«Bravo!», dicono le donne; «E perché?!», mi chiedono gli uomini.

Perché la mia scelta, ragionata e condivisa in famiglia, è così originale pur non essendo per nulla eccezionale? Perché in Italia, per i padri, pensare di stare a casa con i figli è così difficile?

Scoperta la percentuale, ne ho parlato con Marina Piazza, sociologa esperta di politiche di genere che ha fatto parte per l’Italia del network comunitario «Family&work».

Le ragioni sarebbero sostanzialmente tre. Quella economica, legata al fatto che durante il congedo parentale lo stipendio scende al 30% (per i dipendenti pubblici il primo mese rimane al 100%), dato che ci pone all’ultimo posto in Europa: in Francia si è al 45%, nel Nord Europa all’80. C’è quindi un timore legato a una diffusa ostilità nelle aziende, che specialmente in tempo di crisi suggerisce di essere cauti con un certo tipo di scelte di vita. Spiega Piazza:

«Si viene visti come dei «traditori» del proprio genere: i maschi, a differenza delle femmine, dovrebbero dare tutto per il lavoro».

Infine, una motivazione più puramente culturale che vede in Italia ancora una rigida divisione dei ruoli che sarebbero propri dell’uomo e della donna: «Ma i giovani sono sempre meno legati a queste problematiche».

Una mentalità comunque dura a morire, ma che potrebbe essere incrinata dal recente Ddl sulla riforma del lavoro: «L’obbligo per il padre di astenersi dal lavoro, pur per soli tre giorni contro, per esempio, i quindici in Francia», conclude Piazza, «aiuterebbe a sostenere il concetto di genitorialità condivisa».

A questi motivi ne aggiungerei poi un quarto, quello che più ho faticato a superare: la paura di non essere all’altezza. Paura che può poi tradursi anche in non voglia. Perché fare il papà attivo (non chiamatelo «mammo»: esiste già «papà» ed è una parola così bella), al pari della mamma attiva, è una gran fatica. Un compito che non concede pause e che richiede un’alta professionalità. L’igiene personale del piccolo, i cambi di pannolini e vestitini (con l’attenta valutazione delle condizioni atmosferiche) non si possono improvvisare. Né tantomeno il cucinare e gestire la nutrizione di un bambino di un anno e tenere adeguatamente pulito e a sua misura — tra spigoli-killer e prese di corrente a portata di ditino — l’ambiente dove vive.

Una volta presa la decisione con Laura, mia moglie, era sorta un’altra preoccupazione: l’iter burocratico da percorrere per arrivare al congedo. Temevo compilazioni e code infinite, e reiterate, agli uffici Inps e una montagna di documenti da portare in azienda. Niente di più sbagliato: tutto si fa online sul sito www.inps.it.

Bisogna però prima capire cosa prevede la legge per il congedo parentale. Ecco: entro gli otto anni del figlio i genitori possono prendere, a turno, fino a dieci mesi di astensione facoltativa dal lavoro — che diventano undici se il padre ne fa almeno tre —, con un massimo di sei mesi per genitore (sul sito Cisl.it si trova un documento in «pdf» molto chiaro). A questo punto, dopo aver ottenuto il Pin d’accesso alla sezione «Servizi online» del sito Inps, basta compilare la domanda di richiesta. Inviata, si ottiene un numero di protocollo: basta comunicarlo all’azienda e la burocrazia è finita (e, papà, non dimenticate la possibilità di chiedere di integrare lo stipendio con il Tfr fino a tornare al 100% della spettanza mensile).
Per concludere voglio che siano chiare le mie motivazioni. Malgrado questo articolo, non vado in paternità per dare il buon esempio (e così incentivare i maschi italiani a condividere piaceri e doveri della genitorialità) o creare un caso. Non lo faccio per raccogliere materiale per un reportage sul maschio casalingo, né perché ho un libro da scrivere. La ragione è molto più alta e si chiama Martina, un amore che solo chi è genitore può capire. È una persona speciale con cui ho un rapporto speciale che la legge italiana mi permette di coltivare in esclusiva e senza distrazioni per un certo periodo di tempo. Per aiutarla a crescere, perché lei mi aiuti a crescere. Più prosaicamente, poi, l’uso del congedo parentale permette a Laura e me di stare a casa con nostra figlia fino a settembre. Sperando poi di essere fortunati nella lotteria dei nidi comunali. Ma questa è già un’altra storia.

Il Corriere della Sera 07.04.12