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"L'Aquila sfila in ricordo delle vittime il dolore della città a tre anni dal sisma", di Piera Matteucci

I parenti delle 309 vittime del terremoto che il 6 aprile 2009 ha distrutto la città, insieme a migliaia di cittadini, in un lungo e silenzioso corteo per le strade del centro storico. Poi alle 3:32, l’ora della scossa, la lettura dei nomi dei morti. Con l’obiettivo di non dimenticare. C’è la luna piena quando le diecimila fiammelle iniziano a muoversi dalla Fontana Luminosa. Non si sono fatti spaventare dal nubifragio che, fino a tarda sera, si è abbattuto sull’Aquila, e per il terzo anno, dopo la terribile notte del 6 aprile 2009 quando il terremoto ha devastato la città e numerosi paesi vicini, i parenti delle 309 vittime del sisma e migliaia di aquilani – tra cui il sindaco Massimo Cialente e il presidente della Provincia Gianni Chiodi, affiancati dal ministro per la Coesione territoriale, Fabrizio Barca – si sono riuniti in assoluto silenzio in una lunghissima fiaccolata.

Il percorso è lo stesso dello scorso anno, molti i visi già visti e stessa la tristezza. Il dolore che ha segnato la storia di un’intera città e ha sconvolto la vita di migliaia di persone è in ogni sguardo, come se non fosse passato nemmeno un giorno. Invece, di giorni ne sono trascorsi quasi mille, ma le macerie sono ancora qui, quelle dei palazzi distrutti e quelle delle anime di chi, oltre alla casa, ha perso i propri cari.

E se il dolore non si è affievolito, lo ha fatto la speranza di riavere in tempi brevi la città ricostruita. Nel terzo anniversario del sisma il centro storico è completamente fermo. La ricostruzione del cuore del capoluogo
non è ancora partita e le cifre relative all’assistenza della popolazione sono impressionanti: 21.731 persone ancora assistite, secondo i dati della Struttura per la gestione dell’emergenza, di cui diecimila alloggiate a carico dello Stato e 11.312 che godono dell’autonoma sistemazione. E ancora: 173 aquilani sono ospitati negli alberghi e 141 nelle strutture di permanenza temporanea (come la caserma della Guardia di finanza). Le macerie, poi, sono quasi tutte lì da 36 mesi: solo il 5% è stato rimosso.

Il ministro Barca – che ha voluto essere presente nel terzo anniversario oltre che nel suo ruolo istituzionale anche per un legame personale – ha assicurato tempi brevi per l’apertura dei cantieri e per la ripresa di una città che, nonostante le mille difficoltà, non vuole morire.

Lo dimostra la tenacia della maggior parte degli aquilani che sono rimasti a vivere qui o che ci tornano ogni volta che possono, perché non vogliono dimenticare, ma vogliono guardare verso il domani. E le note e le parole di ‘Domani’, la canzone che 56 grandi artisti italiani hanno inciso per L’Aquila pochi giorni dopo il sisma risuonano come un sussurro da un cellulare di un ragazzino in testa al corteo, mandata a ripetizione per tutto il percorso, quasi a voler incoraggiare tutti a non mollare.

Poi, alle 3:32, l’ora della scossa, i 309 rintocchi della campana della chiesa delle Anime Sante che accompagnano la lettura dei nomi delle vittime e di due ragazze morte in un incidente stradale di ritorno dalla fiaccolata dell’anno scorso. Con le voci dei cori cittadini – corale Gran Sasso e Novantanove – che chiudono la sarata della memoria di una notte che nessuno può dimenticare.

da repubblica.it

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L´Aquila, i soldi di Jovanotti & Friends finalmente sbloccati per un nuovo teatro”, di Riccardo Luna

Quasi 20 milioni di euro tra quelli raccolti per l´Abruzzo non sono mai stati investiti. “Qui c´è in gioco la generosità della gente comune, fare chiarezza diventa indispensabile”. È partito tutto con un tweet e con un tweet forse finirà. Era il 18 marzo scorso, il presidente del Consiglio Mario Monti si aggirava per l´Aquila prima di andare a chiudere solennemente un convegno sul dopo terremoto. Intanto su Twitter il cantante Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, scriveva ai suoi 800mila followers: “sarebbe bello se il ministro Fabrizio Barca, che ha la delega per la ricostruzione, ci dicesse dove sono finiti i soldi raccolti con la canzone Domani che aveva visto riunite praticamente tutte le star della musica italiana in un grande momento di solidarietà”. Il messaggio non è andato perduto. Oggi Barca torna all´Aquila, nel terzo anniversario del terremoto, per dare finalmente la risposta che in tanti aspettano: quei soldi ammontano a poco più di un milione di euro, sono sempre rimasti al ministero dei Beni Culturali, dove evidentemente qualcuno si è distratto, e se i cantanti accetteranno di cambiare le destinazione, rinunciando al restauro del Conservatorio Casella per concentrarsi su un teatro, saranno subito sbloccati.
I cantanti diranno sì: già due anni fa lo stesso Jovanotti scrisse una lettera aperta all´allora ministro Bondi chiedendogli di utilizzarli su un progetto diverso visto che quello prescelto si era rivelato troppo complesso. Non ebbe nessuna risposta e questa vicenda dei soldi di Domani è diventata il simbolo della gestione opaca delle donazioni per l´Abruzzo. Dove sono finiti i nostri sms, le tantissime donazioni da 1 euro effettuate sull´onda dell´emozione? E gli stanziamenti degli Stati esteri? Tutti ricordano i presidenti del G8 aggirarsi pensosi e commossi fra le macerie: hanno poi effettivamente dato corso alle promesse? E quei soldi sono stati effettivamente spesi?
Pungolato anche dal tweet di Jovanotti, Fabrizio Barca ha chiesto al suo staff di raccogliere tutti i dati possibili. E fare finalmente un´operazione trasparenza. Intendiamoci. Parliamo di circa 90 milioni di euro in totale, ovvero di somme relativamente esigue se paragonate ai soldi ancora da spendere per la ricostruzione che ammontano a 5,7 miliardi di euro. Ma il ministro ha capito che qui c´è in gioco la generosità della gente comune, di quelli che hanno dato un aiuto subito sperando che servisse davvero, e non fare chiarezza su questo punto vuol dire impedire che la ricostruzione possa avere successo perché la trasparenza è alla base della fiducia che in Abruzzo sembra svanita. La prima cosa che emerge scorrendo i dati che sono ancora su tabelle contraddittorie e lacunose, è che non è vero che le donazioni non sono servite a nulla: per esempio la Protezione civile, che ha gestito tra gli altri quasi 20 milioni dai nostri sms, ne ha spesi 38 per le cosiddette CASE, ovvero i complessi antisismici sostenibili eco-compatibili: si tratta di 185 edifici pari a 4.449 appartamenti destinati a 14.657 abitanti. Sono stati consegnati al comune dell´Aquila il 31 marzo 2010 e sono stati pagati anche da milioni di sms.
Più misteriosa la questione delle donazioni degli Stati esteri: secondo i dati forniti dal ministero degli Esteri, si tratta di 31 milioni di euro, ovvero un terzo del totale. Solo dieci i Paesi che ci hanno aiutato: guidano la classifica Giappone e Russia e brilla l´assenza degli Stati Uniti. Sorprendente per chi si ricorda del presidente Barack Obama, ma anche dell´attore George Clooney, in giro fra le macerie durante il G8. Possibile che gli Usa abbiano voltato le spalle all´Abruzzo? Così pare, ma i dati sono ancora incerti. Da verificare attentamente. Così come una verifica attenta è indispensabile per capire dove sono finiti 15 milioni donati ma di cui non si non si sa nulla.
Dei soldi provenienti dall´estero fanno parte quelli raccolti in Australia, fra gli emigranti della comunità abruzzese che vive a Canberra: quasi tre milioni di euro, neanche pochi. Dovevano contribuire a pagare un nuovo teatro da sei milioni. Idea della Federlegno, progetto donato dall´architetto Mario Cucinella, benedizione sul masterplan di Dario Fo. Sembrava tutto pronto, ma a quel punto la Federlegno ha detto che il legno necessario gli aquilani non potevano averlo gratis ma avrebbero potuto acquistarlo al prezzo di costo. E così si è fermato tutto per due anni, fino a quando il comune dell´Aquila ha ripreso in mano la situazione, mettendo la somma mancante e bandendo una gara internazionale che è in corso. Più fortunate sono state le cantanti Gianna Nannini, Laura Pausini, Fiorella Mannoia e le altre raccolte nel progetto “Amiche per l´Abruzzo”, che nel 2009 organizzarono un concertone allo stadio di San Siro. Fu un successo che, grazie al dvd, è servito a raccogliere un milione e mezzo di euro, per ricostruire una scuola elementare. Nel giugno 2010 la Pausini portò fisicamente l´assegno al comune dell´Aquila. Nove mesi dopo fu la Mannoia ad andare a chiedere che quei soldi fossero spesi. Venne cambiata destinazione e il 13 gennaio scorso la Mannoia e la Nannini erano felici all´inaugurazione del nuovo edificio che ospita le aule del polo universitario di Coppito.

La Repubblica 06.04.12

Pompei, con 105 milioni via al grande progetto «Bloccheremo le mafie», di Luca Del Fra

«È necessario rimanga in piedi» –ha statuito ieri a Napoli il presidente del consiglio a proposito di Pompei. Non poteva mancare lo humour britannico di Mario Monti alla presentazione del Grande Progetto Pompei, finanziato con un fondo della Commissione Europea
pari alla notevole cifra di 105 milioni di Euro. La conferenza stampa è stata caratterizzata da un poderoso schieramento istituzionale di quattro ministri: Annamaria Cancellieri, Interno, Francesco Profumo, Istruzione, Università e Ricerca, Lorenzo Ornaghi, Beni e Attività culturali –il vero ministro competente sulla materia–, Fabrizio Barca, Coesione territoriale. Non mancavano i rappresentanti delle amministrazioni locali come Stefano Caldoro, governatore della Campania, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, e quello diPompei Claudio D’Alessio, nonché
dell’advisor tecnico Domenico Arcuri, ad di Invitalia. Conferenza stampa fiume dunque, ma a cui, occorre sottolinearlo, non ha preso la parola proprio il soprintendente di Napoli e Pompei, Mariateresa Cinquantaquattro, che pure era presente.
«SE RESTA IN PIEDI…»
L’occasione serviva per annunciare il lancio dei primi cinque bandi
di concorso, per una cifra totale di 6 milioni di euro, pubblicati oggi sulla gazzetta ufficiale e che saranno assegnati entro il prossimo 31 dicembre. Ma anche la creazione «di un gruppo di lavoro –ha spiegato il ministro Cancellieri–, presieduto da un prefetto, che visionerà bandi di gara, flussi di denaro e lavoro nei cantieri». L’obiettivo è contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata e il lavoro nero, e nel gruppo di lavoro saranno coinvolti due rappresentanti del Viminale, dei ministeri dell’Istruzione, dei Beni Culturali e della Coesione territoriale. I controlli ai cantieri, ha concluso Cancellieri, «saranno anche minuto per minuto». A questo va aggiunta la creazione di una squadra di Vigili del Fuoco, specializzata nella messa in sicurezza, che coadiuverà archeologi e restauratori nel lavoro.
Naturalmente i ministri e amministratori non hanno fatto mancare alla stampa convenuta il mantra della “cultura volano dell’economia”: «La mancata valorizzazione per scopi di sviluppo del patrimonio naturale e culturale particolarmente ricco nel sud è una delle conseguenze di questa situazione», ha spiegato con frase un po’ ellittica Monti, dimenticando però che i fondi UE sono destinati alla tutela e non alla valorizzazione.
Il ministro Ornaghi pone una meta: «Che lo straordinario bene che è
Pompei non sia più il grande malato del sistema culturale italiano», e vedremo se l’obiettivo sarà raggiunto.
Intanto i bandi riguarderanno le domus di Sirico, del Marinaio, dei Dioscuri, delle pareti rosse e del Criptoportico, interessando così varie zone dell’area archeologica pompeiana. Nel frattempo a Pompei è già stata avviata l’indagine idrogeologica propedeutica alla messa in sicurezza dei terreni demaniali ai confini dell’area di scavo lungo via dell’Abbondanza, con procedure di gara ridotte
al 50%dei tempi standard. Appare oramai certo che il dissesto
idrogeologico sia stata la causa delle frane e degli smottamenti che hanno causato i numerosi crolli –tra cui fece scalpore in tutto il mondo quello della Schola armaturarum– che si sono susseguiti a Pompei durante il commissariamento e nei mesi ad esso successivi. Resta ancora da stabilire tuttavia se il dissesto fosse stato a sua volta causato dai molto discussi interventi intrapresi dall’allora Commissario Marcello Fiori. La cronaca segnala in serata un’avvilita reazione di Sandro Bondi all’ironia di Monti sul far restare in piedi Pompei: in effetti il ministro poeta è stato il simbolo dei crolli pompeiani.

L’Unità 06.04.12

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La vera emergenza del sito è tornare alla normalità

L’ottimismo regna sovrano alla terza, forse alla quarta presentazione del piano di emergenza per Pompei che, finanziato con i fondi della Commissione Europea, ha preso il nome, tanto gradito dal presidente del Consiglio Mario Monti, di Grande Progetto Pompei. La novità stavolta è la creazione da parte del governo italiano di «una squadra di lavoro» per contrastare le infiltrazioni dellla criminalità organizzata con rappresentanti di quattro ministeri – Interni, Beni Culturali, Coesione territoriale e Istruzione –, nonché dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici. L’esigenza di combattere la camorra di fronte a lavori per 105 milioni di euro che saranno intrapresi nei prossimi a Pompei è del tutto legittima, tuttavia le perplessità non mancano. Come ricordava il direttore generale alle antichità Luigi Malnati nel suo intervento nel volume “Pompei Archeologia”, l’area di Pompei dal 2000 ha cambiato per almeno 4 volte assetto: da normale Soprintendenza è stata trasformata in Soprintendenza Speciale, poi è stata fusa con la soprintendenza di Napoli, successivamente è stata commissariata, infine riportata alla normalità, ma con una legge che apriva la possibilità al soprintendente di avere poteri speciali. Un vero tour de force che ha continuamente distratto energie e forze al vero lavoro che si dovrebbe compiere: la tutela e non il trasformismo amministrativo. In questo singultante processo il periodo di commissariamento è coinciso con un irrigidimento, per non dire stallo totale, nel campo della tutela. Con i poteri di Commissario straordinario Marcello Fiori infatti ha intrapreso lavori molto discutibili, spendendo con disinvoltura
decine di milioni di euro per lo più in valorizzazione e nella creazione di eventi, di cui simbolo imperituro è la vergognosa ricostruzione del Teatro grande in cemento. Non a caso proprio durante il commissariamento, difeso a spada tratta dall’allora ministro Bondi, cominciarono i crolli in serie. È bene ricordare che i cinque bandi presentati ieri riguardano piani che nascono nel biennio 2008 – 2009, cioè sotto la soprintendenza di Pietro Giovanni Guzzo: veri progetti di tutela che hanno dovuto aspettare
ben quattro anni per andare a bando e, sia detto in linea con il Governo e cioè «ottimisticamente», dovranno passare almeno altri due perché siano realizzati. Un ritardo spaventoso dovuto a precise volontà politiche del governo Berlusconi e del ministro Bondi, oltre che alla farragine burocratica. Ma al solito è stata data la colpa alla lentezza degli archeologi: di qui l’esigenza, espressa da più parti, di dare alla soprintendenza di Pompei maggiori poteri per snellire le procedure. Sarebbe auspicabile, ma allora a cosa serve la cosiddetta squadra di lavoro che controlla le procedure amministrative? Si crea un altro passaggio, che certo non velocizzerà le procedure. Se l’esigenza di contrastare le infiltrazioni camorristiche è legittima, dovrebbe riguardare tutto il territorio e non solo Pompei. E anche in questo senso i ritardi sono epocali, basti pensare che la certezza della presenza di infiltrazioni camorristiche a Pompei risale al 2007, quando con un vero atto di violenta intimidazione i soliti ignoti fecero crollare a calci e spinte una colonna della domus di Obellio Firmo. Un chiaro avvertimento, cui non è seguita una vera reazione dello Stato, ma quello che a molti è sembrata una progressiva serie di aggiustamenti reciproci, soprattutto in epoca commissariale. La vera emergenza di Pompei è tornare alla normalità, il che significa regolari lavori di manutenzione, tutela e soprattutto tutela preventiva, articolati secondo un piano pluriennale ben studiato. I tredici archeologi e gli otto architetti assunti a partire da gennaio scorso in questo senso sono un piccolo ma significativo passo avanti. Basti considerare che nella sterminata area archeologica di Pompei prima lavoravano appena nove archeologi, ora sono sempre pochi,ma almeno sono ventidue. Senonché i nuovi arrivati erano vincitori di precedenti concorsi del Ministero in attesa di inserimento, e per lo più sono medievisti, il che non è proprio l’ideale per un sito come Pompei.
Quindi se è apprezzabile che il Governo di Mario Monti si sia mobilitato in forze per la presentazione di questo Grande Progetto Pompei, non basta pensare solo a creare strutture un po’ barocche con quattro ministeri e un’autority per controllare l’amministrazione di questi benedetti 105 milioni di euro della Ue. Ora che i fondi ci sono è urgente mobilitare e far convergere i migliori pompeianisti del mondo a Pompei, e dare un deciso impulso alla tutela archeologica, offrendo ai giovani appena assunti la possibilità di acquisire gli strumenti per poter rendere il loro servizio al meglio. Sarebbe un dovere perché questa meravigliosa area è una testimonianza unica e irripetibile del passato non solo nostro, ma dell’umanità, come ci hanno ricordato da Bruxelles nell’erogarci i fondi.

L’Unità 06.04.12

"Scuole paritarie scadenti? Una indagine voluta da Gelmini lo confermerebbe", di P.A. da La Tecnica della Scuola

Oltre l’Ocse, a dirlo sarebbe pure uno studio, commissionato dall’ex ministra Gelmini, che dichiarerebbe l’arretratezza della scuole paritarie. Nonostante rette e finanziamenti sarebbero in ritardo di ben 10 anni rispetto alle pubbliche. Repubblica, che ha esaminato il primo monitoraggio sullo stato della riforma Gelmini nel primo ciclo, pubblicato il 2 aprile dal ministero dell’Istruzione, lancia la notizia, sottolineando che “il quadro che emerge dal report di viale Trastevere sulle scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado” è desolante e scaglia granate di cifre, sfatando così pure l’antica litania della destra che per le scuole private ha avuto sempre un debole particolare.
Mentre il 99,3% delle scuole pubbliche – tra quelle dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado – è dotata di laboratori tecnologici e multimediali, la percentuale crolla al 48,6% per quelle paritarie. Le scuole private sono anche meno connesse con Adsl rispetto alle pubbliche: 78% contro 90%.
Le paritarie sono indietro anche per le lavagne interattive multimediali (lim), solo una su cinque ne è dotata, rispetto all’82% di quelle pubbliche. Ma anche sotto altri aspetti le scuole paritarie sono indietro, nonostante i finanziamenti pubblici, in nome di quella “libertà di insegnamento e di educazione”su cui i privati hanno sempre puntato.
Tuttavia anche dal rapporto della Fondazione Agnelli, che ha seguito i risultati delle matricole a conclusione del primo anno di università, è emerso che le scuole private, relativamente alla secondaria superiore, stentano rispetto alle pubbliche

La Tecnica della Scuola 06.04.12

"La caduta degli idoli", di Ezio Mauro

Cadono ad uno ad uno gli idoli della destra italiana che fino a ieri guidavano il Paese, trasmettendo attraverso il loro potere alieno alle istituzioni l´immagine di un´Italia da comandare, più che da governare. Le dimissioni di Umberto Bossi, affondato dalla nemesi di uno scandalo per uso privato di denaro pubblico, azzerano la politica e persino il linguaggio della Lega, rovesciando sul Capo fondatore quelle accuse spedite per anni contro “Roma ladrona” e contro lo “Stato saccheggiatore”. I ladroni la Lega li aveva in casa, anzi a casa Bossi. E il saccheggio lo aveva in sede, a danno del denaro dei contribuenti.
La Lega è il più vecchio partito italiano, nato nell´agonia pentapartitica della prima repubblica, sopravvissuto e cresciuto nella bufera di Tangentopoli che ha cambiato per sempre la geografia politica. Poi alleata con l´altro figlio legittimo della prima repubblica, quel Berlusconi protetto dal Caf, abile più di tutti a infilarsi nella breccia aperta da Mani Pulite nel muro del sistema, e a ereditarne il comando come presunto uomo nuovo, esterno ed estraneo. L´unione di convenienza dei due leader – al di là della rottura del ‘94, quando Bossi tuona contro “il mafioso Berlusconi” e la sua “porcilaia fascista” – via via si rinsalda su una prassi e un istinto ideologico, che dà vita all´esperimento italiano di una “destra reale”, o realizzata. Qualcosa di inedito nelle culture di governo dell´Occidente, nel suo mix populista di potenza economico-finanziaria e paganesimo localista, di cesarismo carismatico e telematico e di fazzoletti verdi agitati nel perimetro padano, eccitato dal federalismo alla secessione, fino alla xenofobia. Quella destra “reale” ed estrema che da oggi, dopo la caduta di Bossi e Berlusconi, non vedremo mai più nella forma con cui l´abbiamo conosciuta.
Bossi viveva se stesso come il Capo indiscusso e perenne di una potenza straniera, che aveva ricevuto dalla decadenza del sistema italiano di rappresentanza politica l´occasione di governare l´Italia come una colonia da spolpare. Parlava contro lo Stato viaggiando sulle sue auto blu, oltraggiava il tricolore rappresentandolo nelle istituzioni, attaccava la Costituzione dopo averle giurato, da ministro, fedeltà repubblicana. Tutto ciò in combutta con un leader a cui permetteva e perdonava tutto, scandali, vergogne, eccessi ed errori, in cambio di rendite di posizione parziali per sé e per il suo gruppo dirigente. Con il miraggio eterno della terra promessa, la Padania autonoma nello Stato federale e nemico, e la promessa finale (in cambio dei voti sulle leggi ad personam) della più prosaica e concreta Lombardia, per il dopo-Formigoni ormai alle porte.
Invece è arrivato il ciclone dei rimborsi elettorali usati a fini di famiglia. Si è finalmente capito di che pasta era fatto quel “cerchio magico” che proteggeva e ingabbiava il Capo, e quale cemento lo univa, lubrificandolo a spese del contribuente italiano. I soldi dello Stato, per Bossi e i suoi, erano come i beni di un Paese occupato, che bisogna spogliare. Il “cerchio” alimentava se stesso, tiranneggiando il tesoriere, e muniva così il suo potere. Dentro il cerchio, la famiglia lucrava per sé, piccoli e grandi vizi, la casa del Capo e l´auto del figlio, le spese minute per tutti, e soldi – dicono le carte – anche per quel Calderoli che oggi pretende di sopravvivere a se stesso e alla vergogna nel ruolo di reggente, insieme con Maroni e Manuela Dal Lago.
La verità è che la Lega non c´era più da tempo, e oggi ciò che ne resta affonda insieme con Bossi. Il capo barbaro degli inizi aveva un istinto politico fortissimo, un linguaggio basico dunque nuovo nella sua spregiudicatezza, un legame istintivo coi militanti, una pratica politica di estraneità al sistema politico declinante, dunque anche ai suoi vizi. La prima auto blu ha trasformato Bossi. La malattia ha fatto il resto, depotenziando il vigore di un leader in cui la fisicità (metaforizzata come virilità politica) era icona del comando, testimonianza di una ribellione perenne, conferma di una irriducibilità permanente. All´impedimento fisico si è accompagnato una sorta di ottundimento dell´istinto, quindi della manovra politica, alla fine dell´autonomia e della libertà. Da scelta negoziata, Berlusconi è diventato necessità, appoggio, rifugio. Nato come partner, libero e autonomo fino ad andarsene e tornare, il Bossi malato è finito nella tasca capiente e sapiente di Berlusconi, prigioniero volontario di un´alleanza come assicurazione senile di potere.
Il “cerchio magico” ha funzionato da coro greco, impedendo che l´autonomia perduta dal Capo venisse recuperata ed esercitata dal partito, tenuto in minorità permanente, costretto a ricevere e ad ascoltare dai sacerdoti del “cerchio” la traduzione delle parole d´ordine del Capo, elevato (in realtà ridotto) da leader a totem. Un Bossi totemico, simbolo indebolito di se stesso, che non governava ormai più, ma esercitava un potere mediato attraverso il “cerchio”. Che in questo modo aveva in mano il controllo del partito ed impediva la crescita di ogni discussione, di qualsiasi articolazione di leadership ausiliaria, di tutte le ipotesi di delfinato. Il punto è che il “cerchio magico” si è impadronito della malattia del Segretario. E quindi, come in un brutto romanzo sudamericano tradotto in dialetto padano, ha cercato di perpetuare l´immobilismo totemico di un potere bloccato ma refrattario ad ogni soggetto esterno, per esercitare così un comando derivato.
Come in tutti i sistemi impaludati e stagnanti, anche nelle acque ferme del vertice leghista si è fatta strada la corruzione, probabilmente come strumento di arricchimento privato, dei singoli membri e della famiglia reale, ma anche come mezzo di potere e di controllo nei confronti degli altri, avversari o pretendenti. Per la Lega, e per Bossi stesso, è il cappio padano che cambia collo, e dalle odiate grisaglie di Stato e di regime passa indosso alle camicie verdi. Peggio di una tangente, dei soldi corruttori di qualche imprenditore in cambio di un appalto, se si può fare una scala in queste cose: perché si tratta di denaro pubblico, finanziamento dello Stato, soldi di Roma, che il “cerchio” e la famiglia (culmine sacro e pagano di tutto) intascavano a loro profitto, truffando tre soggetti in un colpo solo: lo Stato, i contribuenti, e il partito, derubato da chi lo comandava.
La stessa retorica leghista viene annichilita da questo scandalo, che si racconta al contrario delle leggende bossiane, perduta quella purezza che dava forza e credibilità alla denuncia contro gli sprechi “romani” e lo Stato burocrate, oppressore delle sane abitudini padane. Ecco perché Bossi si è dimesso, ed ecco perché – soprattutto – le dimissioni erano inevitabili, e molto probabilmente non basteranno. Passata da più di un anno dalla guerra di secessione a quella di successione (che Maroni non ha mai dichiarato formalmente, per non uccidere politicamente Bossi con le sue mani, ma sentendosi l´unico erede), adesso la Lega deve giocare una battaglia di sopravvivenza, che riguarda tutti. Non è credibile che gli altri capi e capetti (da Calderoli a Castelli allo stesso Maroni) non sapessero. I militanti ripeteranno l´ultima leggenda, quella della cospirazione esterna. Ma gli elettori, i simpatizzanti, si sentono definitivamente truffati da un gruppo dirigente confiscato da un piccolo cerchio di potere con pratiche umilianti, che comandava per rubare – come nella peggiore Tangentopoli – e rubava per continuare a comandare.
Resta il problema enorme della rappresentanza del Nord, storica, culturale, politica. Rappresentanza simbolica e di interessi concreti. Non è affatto detto che questi interessi debbano coniugarsi per forza alla xenofobia, alle paure per la globalizzazione, all´invettiva spaventata contro l´euro e l´Europa. Un´altra rappresentanza è possibile, se i partiti avranno la forza, la capacità e l´ambizione di concorrere per dare ascolto e soddisfazione alla parte più forte e moderna del Paese, liberandola dei falsi miti, unendola alle istituzioni e al destino repubblicano e nazionale. Facendole capire che la politica non è una cosa sporca, l´Europa è il nostro destino, e destra e sinistra – finalmente – non sono soltanto le due sponde del sacro Po: restituito ieri da falso nume a fiume, come accade nel Paese reale in cui vorremmo vivere.

La Repubblica 06.04.12

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“Le conversazioni barbariche”, di Piero Colaprico

Dalla «magia nera» della moglie di Umberto Bossi alla «cattiveria» di Rosy Mauro. Dal nomignolo «principe» per il figlio «trota» di Bossi al «tombolotto» che è l´ex tesoriere Francesco Belsito. Che cos´era davvero la Lega? E che cos´era il «cerchio magico»? Di sicuro non un´invenzione dei giornali. C´è un´intercettazione che va pubblicata quasi integralmente, perché ora che le carte giudiziarie si sono posate, ora che è possibile capire un bel po´ di più delle dimissioni improvvise di Bossi, è bene che anche i militanti conoscano meglio la leadership. Stanno parlando Francesco Belsito e Nadia Degrada. I due si occupano dei soldi della Lega e fanno asse, anche perché «Viene fuori il pieno e andiamo tutti nella merda».
Il pieno è arrivato oggi, ma Belsito era preveggente: «Oh, io ho una sensazione, quando mi prude il naso, sta arrivando una disgrazia, e ieri…». «Ma tu – lo interrompe Degrada, segretaria amministrativa della Lega in via Bellerio – sei mai stato a casa di lei, a Gemonio, no? Sei andato a vedere dove dorme lei? Tu lo sai che su c´è una mansarda?».
«Parli della moglie (Manuela Marrone) o dell´altra?», chiede Belsito. L´«altra» è Rosi Mauro, soprannominata “la nera”.
Della moglie, ma «tombolotto» era rimasto al piano terra, in cucina, e la sua amica gli rivela: «Se tu vai sopra alla mansarda, c´è una brandina, ma non sto scherzando, ci sono le foto. C´è una brandina di quelle che sembrano per bambini, un comodino ed una lampada. Per terra, piena piena, che prende tutta la stanza, libri di magia nera. Cartomanzia. Astrologia. Tutti eh!… Ma ce ne saranno almeno un centinaio, tutti per terra, non su una scrivania. Niente, lei vive lì, quando è in casa è lì, con quei libri»
«E che cazzo fa? Eh allora non ho via d´uscita, non so né cartomante né mago», ride sconsolato Belsito. E più tardi, in un´altra telefonata, dirà: «È che sono un deficiente, che mi sono preso a banconate la scuola (Bosina), capisci tutti i soldi a quella grande p… della moglie (di Bossi), che stupido che sono».
Le carte parlano di soldi in Tanzania, affari, imbrogli, terrazzi, spese del dentista, spunta il consiglio «Tieniti le copie, metti gli originali dove non li possa rintracciare nessuno». Parlano persino di bar di lusso che forse sono acquistati attraverso prestanome di Bossi in piena San Babila, grazie ai soldi dei rimborsi elettorali dello Stato. I soldi intascati, nell´era Tangentopoli, al bar Donney sono antiquariato, anche i vecchi conti della clinica svizzera non tornano: «…visto che da pagare gli hai dato tutto te ed è arrivato persino indietro l´insoluto, se ti ricordi».
Se il «cerchio magico» non è materia per i magistrati, diventa materia per i magistrati il potenziale clima di ricatto costante che circonda il fondatore della Lega. Perché Nadia Dagrada, quando parla con Belsito, non usa mezzi termini: «Diglielo anche a Roberto (Calderoli), vedrai la soluzione da far capire al capo (Bossi). Guarda che tu (Bossi) non hai la possibilità di rimediare a tutto quello che è stato dato a tua moglie, sia per lei sia per la scuola e sia per i tuoi figli, perché sono troppi, troppi soldi. E c´è tutto il restante e se ci mettono le mani Castelli (Roberto, ex ministro) e Stiffoni (Piergiorgio, senatore) di turno, tu non puoi più garantire che le cose restino segrete».
Se Roberto Maroni è «il barbaro sognante», e su di lui c´è poco da sparlare, Castelli, bocciato alle elezioni, è l´altro nemico: «È lui il cerchio magico, lui non è più il capo della Lega, è il capo del “cerchio magico”». Anche Castelli, però, dove può andare? «Castelli lavora tutto alle spalle, quando ha pagato di sua moglie dei cazzi e dei mazzi, io ho tutto scritto, eh», dice Belsito. E si svela un cerchio magico sempre più impaurito, con Renzo Bossi che traffica intorno «alla storia della casa» ristrutturata a Gemonio. L´ansia di essere beccati era tanta che «sono venuti a prendere, Renzo e la fidanzata (Silvia), tutti i faldoni da via Bellerio, e li hanno portati tutti via», confida la dirigente amministrativa al tesoriere. «Adesso hanno parecchia caga (…) E visto che comunque lei (Manuela Marrone) di ascendente ce ne ha, devi dire che Castelli c´è da tenerlo d´occhio».
La Lega, che si raccontava barbara, dura e pura, vista dall´interno, grazie anche alle intercettazioni telefoniche che i «padani» volevano abolire d´accordo con Silvio Berlusconi, non è che si affloscia soltanto nell´identità, come un qualsiasi partito della prima Repubblica. Appare come un nido di vipere, si usano espressioni come «sfacelo», «merda umana», «è una cogliona integrale», «fargli prendere paura». Rosi Mauro, oltre ad essere coinvolta gravemente nei flussi di denaro, riceve descrizioni da romanzo: «Lei ha un odio viscerale nei confronti delle persone, ma è sempre stata così, solo che adesso secondo me gli è andato alla testa il potere, sta perdendo il lume della ragione». La sfottono pure sui «diecimila telefonini in borsetta». La sua colpa? «Una puttana, sta rovinando il Capo, lo sta mettendo contro tutti». Invece dovrebbe capire che «salta il capo, sei morta anche tu».
Il rombo della «disgrazia» è sempre più percepibile, l´unica via d´uscita sarebbe che Belsito parlasse direttamente con Bossi. Ma non di nomine e cariche politiche: «Gli dici: “Guarda capo, è meglio che sia ben chiaro, se queste persone mettano mano ai conti del Federale, vedono quelle che sono le spese di tua moglie dei tuoi figli, le tue, a questo punto salta la Lega”. Proprio così eh, papale papale glielo devi dire». E se gli altri confidano nel suo silenzio, Belsito ha un´arma, quella che negli anni Novanta fu definita «la politica del ricatto»: «Tu gli dici: “Ragazzi, forse non avete capito che se io parlo, voi finite in manette, o con i forconi appesi…”. Domani inizia a parlarne con Roberto, (Calderoli)». Perché, alla fin fine, «ma a chi volete cagare il cazzo?».
Il fiume carsico dei soldi alla «famiglia» rivela a ogni emersione un dettaglio che sconcerta: «Gli tiri fuori perfino le spese del dentista di Sirio». Oppure le «bollette del telefono di Renzo Bossi», e nel taccuino c´è «l´ultima macchina del “principe”, 50 mila». «Tanto ce l´hai la fattura, no?», chiede Dagrada. «E certo!, esclama Belsito. E questo «è certo!» risuona sinistro e più volte, con Riccardo Bossi, figlio del primo matrimonio, nullafacente, che sembra aver utilizzato «250 mila euro solo nel 2010 e 2011» con American express non pagata da lui. E questo portafoglio invita a scherzare sul figlio più piccolo, che ancora non ha la patente: «A Eridanio bisogna procurargli un go kart».
Risate o non risate, il concetto è semplice: se questa è «una patata troppo bollente, con la storia della famiglia», se Bossi immaginasse di liquidare il tesoriere-faccendiere per salvare la sua faccia, e il suo partito, il «tombolotto» reagirà. È in grado di aggiungere altri dettagli: «Capo, il punto è che fino a adesso, quello che è stato speso per tua moglie per tuo figlio Renzo, per tuo figlio Roberto, per la Rosi Mauro, per l´amante della Rosi Mauro, è rimasto per me. Sicuro che se mettiamo di mezzo dell´altra gente queste cose non escono?». Per cui niente Castelli, serve «un´altra persona di fiducia come Gibelli o se preferisci come presidente Alessandri che però è già presidente federale, quindi è da vedere», comunque i bilanci vanno approvati, firmati, chiusi.
Non sappiamo se questo discorso sia stato fatto, o se i carabinieri comandati da «Ultimo» l´abbiano impedito arrivando prima con le indagini. Bossi, diceva ieri dopo le dimissioni, sa che in un uomo non conta la carica, contano «cuore e cervello». Ma allora, ictus a parte, che cosa gli è successo per aver chiuso occhi e orecchie per così tanto tempo anche in casa sua? E il «cerchio magico», queste anime nere cresciute dentro il partito verde, quanta responsabilità hanno nella malattia che contagia un intero movimento?

La Repubblica 06.04.12

"Partiti, una legge subito", di Antonio Misiani

I fatti gravissimi emersi prima con il caso Lusi e ora con l’inchiesta sui conti della Lega Nord rappresentano la goccia che può far traboccare il vaso del rapporto dei cittadini con la politica. Da tempo la fiducia nei confronti dei partiti è in caduta libera ma queste vicende rischiano di azzerarla, con conseguenze potenzialmente devastanti per la nostra democrazia.
Bisogna intervenire, e bisogna farlo rapidamente. Cancellare i finanziamenti pubblici destinati ai partiti – già drasticamente tagliati dalle manovre finanziarie del 2010-2011 – sarebbe un errore drammatico, che punirebbe tutti allo stesso modo (compresi coloro che in questi anni le regole le hanno rispettate scrupolosamente) e metterebbe la politica completamente nelle mani di lobbies, centri di potere e di interesse particolare.
Il punto è un altro: trasformare il finanziamento pubblico nella leva per riformare i partiti. Come ha ricordato il presidente Napolitano, è necessario sancire per legge regole di democraticità e trasparenza nella vita dei partiti e meccanismi corretti e misurati di finanziamento della loro attività.
In condizioni normali la strada maestra sarebbe quella della discussione e dell’approvazione di una legge organica che trasformi i partiti in associazioni riconosciute, dotate di personalità giuridica con precisi requisiti statutari. Nella commissione affari costituzionali della camera sono in discussione diverse proposte di legge di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione.
Tra queste, vi è quella del Pd che vede come primo firmatario il segretario Bersani.
Non siamo però in condizioni normali: una nuova normativa sulla trasparenza e i controlli è ormai improrogabile e deve diventare oggetto di un provvedimento specifico, da approvarsi nei tempi più rapidi possibili.
Serve una legge di pochi articoli, che cambi le regole su alcuni aspetti cruciali della gestione finanziaria dei partiti.
Primo: i sistemi di controllo.
Va resa obbligatoria per legge la verifica e la certificazione dei bilanci dei partiti da parte di società di revisione esterne ed indipendenti, come il Pd fa sin dall’inizio (il bilancio nazionale del partito è sottoposto alla certificazione di Pricewaterhouse- Coopers, che da quest’anno estenderà i propri controlli anche ai conti delle strutture regionali del Pd). I controlli esterni dei bilanci vanno attribuiti alla Corte dei conti, superando il sistema di verifiche meramente formali effettuate dai revisori nominati da camera e senato.
Secondo: la trasparenza. Bisogna abbassare da 50 a 5 mila euro la soglia oltre la quale i contributi ai partiti vanno dichiarati pubblicamente e i conti dei partiti vanno pubblicati obbligatoriamente su Internet, permettendo a tutti i cittadini di verificare dove i partiti si procurano le risorse e come le impiegano.
Terzo: le sanzioni. Chi sgarra deve subire non una sospensione, come accade oggi, ma una vera e propria decurtazione dei rimborsi elettorali, proporzionata alla gravità delle irregolarità fino all’annullamento dei rimborsi stessi. Questi interventi – largamente condivisi dalle forze politiche presenti in parlamento, almeno sulla carta – si possono fare subito e rappresenterebbero una svolta vera rispetto ai limiti evidenti del sistema attualmente in vigore. È tempo di passare dalle parole ai fatti.

da Europa Quotidiano 06.04.12

"Reintegro, deciderà il giudice quando c’è manifesta insussistenza", di Mario Tedeschi

L’opposizione dura della Cgil in ambito sindacale, l’opposizione ferma e responsabile del Pd in ambito politico hanno portato al risultato di una modifica decisiva sulle iniziali intenzioni del governo sull’articolo 18 ed in particolare del ministro Elsa Fornero. Il reintegro sui licenziamenti per motivi economici che sembrava impossibile è stato dunque riconquistato. Il drammatico snodo di due settimane fa che ha portato alla mobilitazione sindacale, così come era stato nel 2002 per un analogo attacco ai fondamenti dell’articolo18 dello Statuto dei lavoratori, è stato superato attraverso la mediazione politica e la rivolta della base ad ogni livello politico e sindacale. La prima versione dell’esecutivo escludeva il reintegro per licenziamento economici, bensì solo l’indennizzo tra 12 e 27 mesi. Versione gradita a Confindustria e a tutta la destra e il centro che sostengono il governo. Camusso ha messo subito le mani avanti: si apre la strada alla cacciata dal mondo del lavoro di tutti i cinquantenni, più costosi perché con maggiore anzianità.Una jungla sociale insopportabile in una situazione economica in cui, articolo 18 vigente, le imprese stanno licenziando a rotta di collo. Il Pd ha subito fatto sapere che un provvedimento del genere non avrebbe potuto votarlo sic et simpliciter in Parlamento, rivendicando la centralità delle Camere per modificarlo sostanzialmente. Anche molta stampa inizialmente favorevole strada facendo ha cambiato idea. L’Unità è stato il principale baluardo a difesa dei lavoratori e della loro dignità su questo punto. Ecco, dunque a cosa siamo arrivati. Se la motivazione economica è «manifestamente insussistente», il giudice può ordinare il reintegro in caso di licenziamento per motivi economici. Ove non vi sia, in tutti gli altri casi, c’è l’indennizzo compreso tra 12 e 24 mensilità. Ai fini della determinazione dell’indennità il giudice tiene conto anche delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle aprti nell’ambito della procedura di conciliazione. Qualora nel corso del giudizio sulla base della domanda formulata dal lavoratore che non ha l’onere della prova il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, il giudice applicherà le relative tutele previste per questa tipologia di licenziamento. Quindi: lettera di licenziamento; impugnazione del provvedimento; procedura obbligatoria di conciliazione; entro sette giorni convocazione delle parti all’Ufficio del Lavoro; accordo con indennizzo o reintegro. Senza accordo si va dal giudice. Sulla manifesta insussistenza si è detto. Se è illegittimo il licenziamento economico, ma non manifestamente insussistente c’è l’indennizzo da 12 a 24 mensilità; se si accerta la discriminazione si passa alle norme che la tutelano. Nel caso in cui il giudice dà ragione all’azienda nonc’è né reintegro né indennizzo. Per quelli disciplinari c’èuna doppia strada: o il reintegro o l’indennizzo a seconda del fatto contestato dall’azienda e risultato poi illegittimo. Se è inesistente il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente, oltre al risarcimento dei danni da esso subiti in una misura non superiore a 12 mensilità e al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali. negli altri casi scatterà solo l’indennizzo tra 12 e 24 mensilità in base all’anzianità del lavoratore e altri parametri compresa la dimensione dell’azienda. Nel caso di licenziamenti discriminatori non cambia nulla, quale sia il numero dei dipendenti, obbligando all’immediato reintegro.

L’Unità 06.04.12

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«Salvata la dignità dei lavoratori. Il governo ha perso», di Oreste Pivetta

Un passo indietro. Abbiamo costretto il governo ad un passo indietro. Non succedeva da tempo». Primo commento di Susanna Camusso, segretario Cgil, al testo ufficiale del disegno di legge sul mercato del lavoro. Contenta, evidentemente, per il risultato, che in fondo premia un sindacato che tante volte ministri passati e presenti pensavano d’aver costretto alle corde, che s’è visto spesso sostenere battaglie in solitudine e parte di questo Paese. Commento favorevole perché si è ripristinato il reintegro nel caso di licenziamenti economici con giustificazioni “insussistenti”. Insieme compaiono le critiche, però, perché altro bisognerebbe fare sul precariato, altro per gli ammortizzatori sociali «perché l’universalità dichiarata proprio non esiste» e soprattutto perché la “crescita” sta solo, come annuncio, nel bel titolo speranzoso, «Riforma del lavoro in una prospettiva di crescita ». Niente per le tasse, niente per i salari, niente per gli investimenti. Il comunicato della Cgil è ancora duro:

«Le distanze tra il testo presentato rispetto agli annunci propagandistici del governo sono evidenti e rischiano di arretrare i risultati ottenuti nel confronto con le organizzazioni sindacali».

Segretario, se ne sono accorti anche all’estero della nostra “reticenza” di fronte a strumenti e obiettivi possibili di crescita. I giornali stranieri scrivono, autorevolmente, che siamo un paese in recessione che non s’attrezza per uscirne. L’Ocse ci comunica un ulteriore calo del Pil. È vero che si continua a far troppo poco?

«Sì, purtroppo è così, grazie a un governo che pensa di poter aggiustare i conti con i partner internazionali semplicemente lavorando sul debito e che in Italia progetta e vara riforme di contesto che dovrebbero riavviare di per sé la crescita. Non è così. Non si capisce come certe riforme dovrebbero rimetterci in corsa. Però altri provvedimenti non sembrano trovar spazio tra le priorità del governo. Con il risultato che la recessione s’aggrava, il Pil rallenta, il debito aumenta. Per questo la nostra mobilitazione non cessa, dopo il passo indietro del governo sull’articolo 18, anzi si presenta con nuovi temi, cercando di riprodurre quell’unità e quella mobilitazione che sono maturate in questi giorni. Pensiamo, e lo proporremo a Cisl e Uil, che bisognerà intanto presidiare il percorso parlamentare con la mobilitazione, perché su ammortizzatori sociali e precarietà ci siano altre risposte, perché l’azione per la crescita conquisti il primo piano».

C’è in ballo uno sciopero generale. Verrà confermato? «Si riunirà il direttivo e deciderà. Certo viene confermata una iniziativa costante. Non smobilitiamo di fronte a un primo successo. Non abbassiamo la guardia, intanto perché la riforma è attesa all’esame del Senato prima e della Camera poi, esame che potrebbe originare modifiche. Si dovrà stare bene attenti. Le leggi si controllano nei particolari, particolari che possono diventare decisivi. E si dovrà stare attenti perché si possa appunto cambiare qualcosa a proposito di ammortizzatori, che non vengono affatto estesi, malgrado si pretendano più soldi, mentre aumentano i contributi, e a proposito di norme sul precariato che lasciano intatte figure di lavoratori in condizioni inaccettabili. Faccio un esempio: l’associazione in partecipazione, forma di lavoro autonomo che maschera un lavoro subordinato, che esclude il lavoratore dagli utili e gli scarica addosso le perdite, attribuendogli una quota di partecipazione senza alcuna possibilità di controllo. Promettevano di ridurre il dualismo,ma non mi pare che abbiano mantenuto la promessa. Anche in questo caso c’è stato un passo indietro rispetto al testo uscito dal Consiglio dei ministri del 23 marzo, ma di segno completamente negativo: allora si diceva che l’associazione in partecipazione poteva riguardare soltanto i parenti di primo grado del titolare di una impresa, adesso si va oltre il terzo grado».

Invece con l’articolo 18 è andata bene… «Sì, per il reintegro, ripristinando un principio di civiltà giuridica. E poi rendendo più rapido l’iter di giudizio, riconoscendo il ruolo del sindacato nella conciliazione, attribuendo l’onere della prova all’azienda. L’articolo 18 conserva così il suo valore deterrente, che scongiura la pratica dei licenziamenti facili, che governo e Confindustria avrebbero voluto introdurre. Questo grazie alla nostra mobilitazione e al consenso che si è costruito nel Paese. La difesa della dignità del lavoro è tornata ad essere argomento comune di impegno e di lotta, di fronte al quale si sono ritrovati i sindacati e le forze politiche progressiste».

Insomma,qualche merito andrebbe riconosciuto finalmente al Pd di Bersani… «Diciamo che il Partito democratico ha prestato ascolto a un sentimento diffuso che si è manifestato nel corso di queste settimane…». Forse la gente s’è resa conto che smantellare l’articolo 18 non avrebbe cambiato di una virgola il nostro orizzonte di crisi.

La Confindustria pare se la sia presa a morte, invece… La Marcegaglia ha definito il testo addirittura “pessimo». «Evidentemente avevano dato per scontato un esito diverso. Credo che siano stati colti in contropiede, di sorpresa. La Confindustria si conferma purtroppo nell’idea che alla crisi si dia risposta comprimendo i diritti, riducendo i salari, risparmiando sul costo del lavoro. Non è così. Vecchie strategie…».

E vecchia Confindustria. In attesa del nuovo presidente, Squinzi… «Presidente di Confindustria è ancora Emma Marcegaglia. Comunque la reazione degli industriali e quella di conseguenza di certa politica ci dimostrano che non è il momento di ritrarsi, che i pericoli sono ancora tanti, soprattutto perché tanti sono i problemi aperti e tanti sono gli obiettivi. Ripeto: tasse, provvedimenti anti recessione, pensioni. Resta ad esempio aperta la questione di quei lavoratori con più di cinquantacinque anni che hanno la pensione sempre più lontana. Resta aperta, malgrado le assicurazione, la questione degli esodati…».

Ecco, siamo ad un altro appuntamento. In piazza con Angeletti e Bonanni. «Con la manifestazione del13 aprile, con Cisl e Uil. Sarà una buona occasione per scrivere per l’ennesima volta il libro dei problemi e delle nostre proposte e per pretendere una soluzione al caso di migliaia di persone senza più stipendio e senza pensioni. È da troppo tempo che si aspetta…».❖

L’Unità 06.04.12

"Bossi, la resa che chiude un'era", di Michele Brambilla

Non è un caso che l’addio di Umberto Bossi sia arrivato appena cinque mesi dopo quello di Silvio Berlusconi. Per quanto diversi per censo e perfino per tratti antropologici, i due erano legati fra loro assai più di quanto non siano legati due semplici alleati politici. La loro avventura era evidentemente destinata ad avere un inizio e una fine comuni, e come certi vedovi inconsolabili, l’uno non poteva sopravvivere alla fine dell’altro.

Così in soli cinque mesi la loro uscita di scena cambia di colpo, e probabilmente per sempre, il profilo della destra italiana e l’intero scenario politico nazionale. Finisce un’era: quella dei «fondatori», dei partiti personali, del leaderismo e del culto del capo, dei finti congressi e delle acclamazioni. Finisce anche, si spera, la stagione delle forti contrapposizioni e delle chiamate alle armi.

Pure nell’addio i due vecchi capipopolo risultano così simili da apparire inseparabili. Per tutti e due, non s’è trattato di dimissioni: s’è trattato di una resa. Non lasciano perché ritengono sia giunta l’era del buen retiro, ma perché travolti dagli avvenimenti. Non lasciano da vincitori, ma da sconfitti. Eppure, sono sconfitti cui va riconosciuto l’onore delle armi.

Se è vero infatti che sarà la storia a separare per entrambi il grano dal loglio, già oggi si può dire che sia Berlusconi sia Bossi sembrano migliori da vinti che da vincitori. Uomo destinato (e non solo per colpa sua) a dividere, Berlusconi ha lasciato unendo: se oggi l’Italia tenta faticosamente di uscire dalla crisi con un governo di solidarietà nazionale, è anche perché il Cavaliere ha saputo, all’ultimo, tenere a freno i suoi falchi. Magari l’avrà fatto anche per interesse personale, ma l’ha fatto.

Allo stesso modo, Bossi mostra più nobiltà nel lasciare di quanta ne abbia mostrata restando – non si sa quanto consapevolmente – attaccato a un trono che era diventato la vacca da mungere da parte di una losca compagnia di giro. La vicenda umana di Bossi è segnata, come molte, da quelle leggi implacabili che si chiamano del contrappasso e dell’eterogenesi dei fini. Lui che tante volte ha urlato di voler usare come carta igienica la bandiera italiana, è stato di fatto il porta vessillo della versione più meschina della bandiera italiana: quella che, come diceva Longanesi, al centro ha la scritta «ho famiglia». Lui che organizzò due finte feste di laurea, e che fece credere alla sua prima moglie di essere medico, cade per essersi scelto un tesoriere che comprava lauree e diplomi; e per dare un futuro a un figlio che qualcuno gli faceva credere già quasi laureato.

Miserie, fragilità, debolezze. Da guardare però con misericordia nel giorno in cui il misero, il fragile e il debole cade. Per quante responsabilità possa avere avuto, suscita pietà il vecchio capo che con orgoglio parla a un collega del figlio che – crede lui – ha fatto da interprete a Berlusconi e Hillary Clinton; e che poi apprende con sgomento che il libretto universitario del suo erede non ha dei trenta ma degli spazi bianchi. Proprio perché noi non ci vergogniamo a essere italiani nel bene e nel male, non ci accodiamo a chi infierisce su un padre che va in crisi per un figlio.

Così è strana la vita: il politico del «celodurismo» cade per essere stato troppo debole in famiglia; e l’uomo che dal niente aveva messo in piedi un impero, cade per mano di mediocri cortigiani. Bossi «muore» politicamente meglio di quanto abbia vissuto anche e soprattutto perché non fugge di fronte alle proprie responsabilità, anzi se ne fa carico e arriva a pronunciare parole inaudite nel mondo della politica: «Chi sbaglia paga, qualunque cognome porti».

Altre, e ben più gravi, sono le sue colpe. Prima ancora che per i colpi della malattia e del cosiddetto cerchio magico, Bossi deve lasciare la scena per un fallimento politico. È stato grande nel trasformare l’aria del Nord in un partito da dieci per cento. Ma altrettanto grande nello sfasciare tutto: prima mettendo in un angolo le intelligenze che avrebbe potuto arruolare (la migliore, Miglio, fu messa alla porta con la sprezzante etichetta di «una scoreggia nello spazio»), poi dissipando anni e anni di governo senza mai realizzare una sola delle riforme annunciate. Se la Lega non gli sopravviverà, non sarà perché non vi può essere un altro leader dopo di lui, ma per i vent’anni di promesse non mantenute.

Anche qui, sarà la storia a rispondere. Per ora possiamo leggere gli avvenimenti solo con lo sguardo della cronaca, che ci fa immaginare per le elezioni del 2013 una destra e un quadro politico generali completamente diversi – e speriamo migliori – rispetto agli ultimi vent’anni.

La Stampa 06.04.12