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"Tramonti padani", di Rinaldo Gianola

Ora che la tela è stata strappata, che il mito della diversità, dell’alterità, è svanito nell’uso personale, familistico, di soldi pubblici, cosa resta della Lega di lotta e di governo? Dov’è finita l’innocenza movimentista celebrata con le feste nella piscina dell’Hotel Mirella di Ponte di Legno, con Umberto Bossi e i suoi sodali a bagno?
E che fine fanno le innocenti crociere sul Po travestiti da Asterix col fiasco in mano, adesso che un amministratore di nome Francesco Belsito ha dirottato i fondi del partito in Tanzania, con il sospetto di riciclaggio, truffa e appropriazione indebita e sarebbe quasi la “novità” meno negativa se confrontata con i legami inquietanti con ambienti criminali, la ’ndrangheta, come ipotizzano le indagini di tre procure?
In molti scrivono che la Lega finisce perchè il suo fondatore e capo indiscusso, creatore di un autentico, forse l’ultimo partito leninista, Umberto Bossi, non regge più lo scettro del potere, indebolito dalla fatica e dalla malattia, e ormai ostaggio di un gruppetto di sodali, guidato dalla moglie Manu pensionata-baby a 39 anni che vorrebbe trasferire ai figli l’eredità e la leadership politica del marito. È possibile che la Lega soffra di questo scandalo, che patisca un rovescio elettorale alle prossime elezioni amministrative, anche se le tangenti Enimont, gli intrecci con la Popolare di Lodi di Fiorani, gli strani investimenti in Croazia e il crac della banca Credieuronord non hanno prodotto a ben vedere sconfitte o arretramenti politici.
Finora, è bene ricordarlo per non farsi illusioni, gli scandali leghisti, e ce ne sono stati, sono passati senza lasciare tracce e conseguenze, come se la credibilità del suo leader e la missione politica del movimento fossero stati più forti, prevalenti sulle inchieste della magistratura e sui comportamenti poco ortodossi di militanti e dirigenti del Carroccio. Bossi e i suoi hanno sempre beneficiato dell’adesione totale, quasi acritica, fedele, dei militanti, dei tanti elettori leghisti convinti per lungo tempo della presunta moralità cristallina del movimento e dei suoi dirigenti.
Il sociologo Aldo Bonomi, attento alle dinamiche sociali ed economiche del Nord, invita a riflettere sulla politica e a non concentrarsi «sul dito, ma sulla luna: cioè la Lega può anche entrare in crisi perché c’è qualcuno che ruba, perché il suo capo è in difficoltà, non è più in grado di governare e di controllare le fazioni perché una volta c’era Gipo Farassino coi suoi piemontesi che non voleva farsi guidare dai lombardi, ora tornano le spinte autonomiste dei veneti e di altri. Ma gli interessi, le paure, i problemi che sono stati rappresentati dalla Lega restano tutti e anzi si aggravano, questo potrebbe essere un segnale importante per la sinistra se riuscisse a intercettare gli umori profondi che si muovono nelle aree più produttive del Paese». Quali tensioni, quali problemi? «È il Nord della produzione, delle piccole imprese, degli artigiani, degli operai che oggi patisce ancora di più la crisi, gli effetti della globalizzazione dell’economia, della competizione internazionale. È un bel pezzo d’Italia che si era fidata di Berlusconi e di Bossi, che aspetta ancora la modernizzazione delle infrastrutture, magari l’autostrada Cuneo-Asti o la Pedemontana, e oggi si ritrova deluso, affaticato, con poche risorse da impiegare».
Dal Piemonte al Friuli, in tutto il Nord, la Lega occupa posizioni di potere enorme, ha governatori come Cota e Zaia, sindaci di grandi città, centinaia di amministratori radicati sul territorio e consiglieri di amministrazione, manager di aziende municipalizzate o partecipate da interessi pubblici. È diventata una rete di potere diffuso nelle regioni più ricche del Paese, e in questa crescita la Lega si è ovviamente contaminata con interessi particolari, economici, finanziari e forse anche altri poco presentabili.
L’inchiesta emersa poco più di un mese fa che ha coinvolto il presidente dell’assemblea regionale lombarda, il leghista Davide Boni, ha rappresentato un salto di qualità, la magistratura è arrivata ai piani alti, ai dirigenti di punta della Lega. E oggi le inchieste sono in casa Bossi, il santuario del partito, toccano i lavori di ristruttirazione di Gemonio, le auto del Trota, e aprono una resa dei conti finale tra le varie anime e correnti, quasi che il tramonto del berlusconismo segnasse anche la crisi della Lega, dopo una lunga stagione di convivenza e di commistione nel potere del Paese. Nata e cresciuta per emancipare il Nord e dare una risposta moderna alla produzione e al lavoro, la Lega si trova ostaggio dei difetti del governo centralista e di Roma, ha analizzato il vecchio saggio lombardo Piero Bassetti.
Ma quale sarà il prossimo atto? Ci saranno altre sorprese nelle inchieste giudiziarie che velocizzeranno il ricambio? Chi prenderà la guida di un movimento che al Nord mantiene la capacità di mobilitare milioni di elettori? Daniele Marantelli, deputato del Pd di Varese e conoscitore dell’evoluzione dello stato maggiore leghista, spiega: «Quello che sta accadendo alla Lega non è solo un incidente indotto dalla convivenza col potere e con i soldi, ma rappresenta un segnale della crisi politica, di leadership del movimento, la gestione oligarchica non regge più». Successori? «Il candidato perenne è sempre Maroni, ma già in passato ha sbagliato la bracciata e ha dovuto ripiegare, rientrare nella truppa. Adesso sembra deciso a dare battaglia e gode di un certo consenso tra la base, ma Bobo deve mostrare di avere coraggio, deve rischiare lo scontro, e non sempre ha dato prova di esser un cavaliere senza macchia e senza paura. Maroni ha cavalcato in questi mesi le note dell’opposizione totale al governo Monti e ai partiti che lo sostengono, usando parole e toni della Lega delle origini per monetizzare in termini di voti questa svolta solitaria. Ma un ritorno al passato, questa volta, non è possibile nemmeno per i leghisti, devono pagare dazio pure loro perchè l’antica purezza è andata smarrita nelle frequentazioni inquinate del potere».
I raggiri e le truffe di Belsito e compagnia, la Tanzania e le case ristrutturate coi soldi dello Stato, possono mettere in circolazione milioni di voti che cercano una nuova casa affidabile, credibile. È una buona occasione per la sinistra per rompere definitivamente la cappa della destra al Nord.

L’Unità 05.04.12

"Bersani conquista il centro del ring", di Rudy Francesco Calvo

Una linea salda e un buon metodo hanno reso più forte il segretario
Un po’ di nervosismo nei momenti più delicati c’è stato. Ma la concertazione e il ruolo preminente dei partiti per il segretario del Pd sono due tasti molto delicati. Episodi che, comunque, non hanno distolto Pier Luigi Bersani dalla linea chiara, ferma e unitaria tra i dem che si è rivelata vincente. «Quell’articolo non sarà scritto con la mia penna – ha spiegato ieri sera Bersani – ma c’è un passo avanti importantissimo». Soprattutto per quanto riguarda il fatto che l’onere della prova in caso di un licenziamento per motivi economici ritenuto illegittimo non sarà a carico del lavoratore, ma dell’impresa. «Ora cominciamo a far lavorare il parlamento, noi siamo pronti a dare una mano seria per migliorare queste norme in maniera rapida. Ma – avverte Bersani – io non metterei davanti la questione di fiducia».
Il segretario del Pd ha lasciato la palla ai sindacati, limitandosi a un ruolo di mediazione tra questi e il governo, finché i contatti tra loro sono andati avanti.
All’indomani della chiusura infruttuosa della trattativa, Bersani ha preso in mano la situazione, nel momento che sembrava più difficile. Il 21 marzo, in prima serata davanti alle telecamere di Porta a porta, il leader dem ha piantato quei paletti che accompagneranno la posizione sua e del Pd fino al megavertice notturno di martedì a palazzo Chigi. L’esecutivo presenterà la riforma sotto forma di un decreto? «Credo che non possa esistere in natura». E il decreto non c’è stato, avendo preferito il governo la strada del disegno di legge “salvo intese”. Il premier considera il testo blindato? «Non penso che Monti possa dire al Pd prendere o lasciare. Non mi aspetto che lo faccia, è chiaro che noi votiamo quando convinti, bisogna ragionare con noi». Il presidente del consiglio, effettivamente, non ha mai dimostrato di voler presentare un pacchetto chiuso alla sua maggioranza, mantenendo un atteggiamento ben diverso da quella semplice «consultazione» concessa alle forze sociali.
Nei giorni successivi, Bersani mette a tacere anche le voci riguardo al rischio di una crisi di governo («Cerchiamo di stare belli calmi») e alle spaccature interne al Pd: «Lasciate perdere le spaccature del Pd – è l’invito del segretario ai giornalisti – che poi siete smentiti tutte le volte». Appunto: in direzione la parola d’ordine, col copyright dalemiano, è stata “libro Cuore”.
Non che tra i dem non si fossero registrate effettivamente posizioni divergenti, tra i nyet soprattutto di Giovani turchi, Damiano e D’Antoni, da una parte, ed Enrico Letta che, dall’altra, garantiva un «ovvio sì» dei dem alla riforma in parlamento.
Come si è arrivati dunque al clima unitario (almeno stavolta, sinceramente unitario) registrato in direzione? Lo spiega Giorgio Tonini: «Un partito maturo accetta la discussione, riconoscendo la cittadinanza anche alle idee della minoranza, che possono essere anche buone idee. In passato non è stato sempre così, ma stavolta questo si è verificato. Poi Bersani è stato bravo ad aver tenuto la linea decisa da tutto il partito».
L’augurio dell’esponente di MoDem è che «questo metodo, più tolleranti nella discussione per essere più unitari nella decisione, possa ripetersi anche nel futuro, aiutando il Pd a fare un importante salto di qualità».

da Europa Quotidiano 05.04.12

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“Il riformismo della democrazia”, di Massimo Giannini

Quella del metodo concertativo, che può anche prescindere dall’assenso preventivo delle parti sociali, ma riconosce come valore la coesione nazionale. Monti ha avuto il merito di non farsi imprigionare dall’algida camicia di forza del tecnico, che vive e opera nel vuoto della statica professorale e della meccanica mercatista, senza curarsi della dinamica sociale e della logica politica. Ha avuto l’intelligenza di ascoltare e il coraggio di correggere la sua impostazione iniziale, su un tema cruciale e non solo simbolico come l’articolo 18 che, piaccia o no ai liberisti un tanto al chilo, chiama in causa i diritti del lavoro grazie ai quali un individuo diventa un cittadino. L’esito non era affatto scontato. La zavorra ideologica con la quale era stata caricata la questione dei licenziamenti rischiava di trascinare nel gorgo l’intera riforma. Azzerando e annullando anche tutto quello che c’era di buono. L’avvio di una lotta al drammatico dualismo occupazionale, che vede padri protetti e figli senza tutele. L’inizio di una guerra senza quartiere all’apartheid del precariato, con l’incentivo a recuperare la centralità del contratti a tempo indeterminato e il disincentivo ad abusare dei co. co. pro e delle finte partite Iva.
La riscrittura dell’articolo 18, nella prima versione annunciata dal governo il 21 marzo scorso, era inaccettabile perché ingiusta. Introduceva una disparità clamorosa tra il diritto dell’azienda a licenziare e quello del lavoratore a non essere licenziato. Declinava in modo del tutto arbitrario le forme di tutela, escludendo a
priori quella «reale» del reintegro nei licenziamenti illegittimi per motivi economici. Impuntarsi su questa ingiustizia sociale, e impiccarsi a questa antinomia giuridica, avrebbe rischiato di mettere a repentaglio l’esistenza dell’intero provvedimento (oltre che la vita dello stesso governo). Monti l’ha capito, e ha modificato la norma prima ancora di trasmettere il disegno di legge al presidente della Repubblica. Un atto di responsabilità, oltre che di equità. Il compromesso finale è accettabile, anche se per una valutazione oggettiva occorrerà leggere il testo del provvedimento per chiarirne i punti ancora sospesi, a partire dall’onere della prova nel «nuovo» processo del lavoro.
Bersani ha avuto il merito di dar voce a questo bisogno di giustizia sociale, intestandoselo fino in fondo e a prescindere dalla battaglia di Susanna Camusso. È riuscito a convincere il premier a reintrodurre l’istituto del reintegro e a dare più poteri al giudice nell’accertamento della manifesta insussistenza o infondatezza del licenziamento economico. Soprattutto, è riuscito a tenere unito il Pd, su una posizione critica ma costruttiva perché propositiva. Non si è lasciato attraversare dalla faglia socialdemocratica interna al partito né stritolare nella cinghia di trasmissione al contrario rispetto alla Cgil. Anche questo esito non era affatto scontato. La prospettiva di un’implosione del Pd, dilaniato tra le due anime del socialismo europeo e del cattolicesimo democratico, era tutt’altro che irrealistica. Il segretario, questa volta, è riuscito a scongiurarla, proprio sulla frontiera più calda per l’intera sinistra. Il partito ha retto, su una linea progressista e riformista. E proprio questa è stata la chiave per convincere Monti a cedere e costringere Alfano e Casini a negoziare, senza contropartite di altra natura sul piano economico (come la flessibilità totale in entrata) e «contro-natura» sul piano politico (come la giustizia e la Rai).
Chi sicuramente ha perso, in questa partita ad alto rischio, è la nutrita schiera degli schumpeteriani d’accatto che, attraverso la mistica della «distruzione creatrice» del capitale, puntavano a consumare la loro vendetta ideologica e postnovecentesca contro il lavoro, e quindi contro la sinistra e il sindacato. Lo stormo dei falchi pidiellini che puntavano ad annettere Monti alla destra berlusconiana, che cita-
vano a sproposito Giacomo Brodolini e Marco Biagi, che evocavano il decreto di San Valentino dell’84 e il titolo dell’Avanti nel primo centrosinistra del ‘63: «Da oggi ognuno è più libero». Purtroppo non fu vero allora. Per fortuna non è vero oggi, almeno sul versante della libertà di licenziare. L’operazione revanchista non è riuscita. Cgil, Cisl e Uil, recuperando un accettabile livello di unità sindacale, hanno respinto l’attacco, dimostrando che la loro «resistenza» era mirata alla collaborazione e non alla conservazione.
Ora la riforma può attraversare in fretta e senza danni l’iter parlamentare. Anche questo è un valore aggiunto, come ha spiegato il premier: dopo la manovra antideficit, la stretta sulle pensioni e le liberalizzazioni, il fattore tempo nell’approvazione della legge sul lavoro conta quasi quanto il suo contenuto. Tuttavia, incassato il dividendo politico della riforma, quello che manca è ancora e sempre il dividendo economico. Affermare che questa legge servirà «a creare posti di lavoro e a rilanciare la crescita», come hanno sostenuto il presidente del Consiglio e il ministro Fornero, è purtroppo velleitario, per non dire illusorio. In un ciclo di recessione acuta, questa riforma non basterà a sostenere l’occupazione e a rilanciare il Pil. Tra l’altro, con un sistema di ammortizzatori sociali e di politiche attive per il lavoro finanziati con poco più di 1,7 miliardi non si va lontano.
Lo sviluppo economico è altrove. E questa è la missione che tocca al governo, ora che l’»alibi» dell’articolo 18 è stato rimosso, portandosi via il grumo di polemiche e di risentimenti che da sempre lo accompagnavano. Aspettiamo (con pochissima fiducia) l’invasione delle multinazionali straniere, finalmente pronte a investire in un’Italia più «flessibile». Proprio nel giorno della riforma «di rilievo storico», colpisce un’altra notizia: la Danieli, colosso della siderurgia italiana, annuncia un gigantesco piano di investimenti in Serbia. Ed elenca i motivi che la inducono a non scommettere sull’Italia: nell’ordine, «costo delle materie prime, costo della manodopera, scarsità di tecnici e ingegneri, cuneo fiscale e scarsa competitività del Sistema- Paese». La rigidità del mercato del lavoro «in uscita» non figura nell’elenco. Come sostiene il ministro Fornero, «l’articolo 18 è stata una grande conquista, ma il mondo è cambiato». Come dimostra il caso Danieli, il vero tabù italiano non è l’articolo 18 che c’era, ma la crescita che non c’è.

La Repubblica 05.04.12

"Crolla il reddito, famiglie sempre più povere", di Luisa Grion

Per Via Nazionale, la casa paterna ha funzionato da vero ammortizzatore sociale. Ha mantenuto figli ormai grandi, ha dato fondo ai risparmi pur di rendere meno duro l´impatto con la crisi, ha assicurato un sostegno al reddito a chi non ne aveva alcuno. La crisi economica l´ha colpita, ma non piegata. Anzi se c´è una istituzione che ne è uscita rafforzata, questa è la famiglia. Nulla è più inossidabile dell´aiuto di mamma e papà, che stanno dalla tua parte anche quando lo Stato non c´è e il lavoro ti ha tradito. Questo dicono i dati che Anna Maria Tarantola, vice direttore generale della Banca d´Italia, ha presentato ieri intervenendo ad in convegno dal titolo che suona come una sentenza: «La famiglia, un pilastro per l´economia del Paese».

“BAMBOCCIONI” PER FORZA
E´ così: lo è sempre stato, ma ora perfino di più. I “tuoi” sono l´ammortizzatore sociale più importante del Paese, quello che arriva dove gli altri – cassa integrazione, mobilità, disoccupazione – si fermano. E´ il caso di molti precari, ma non solo. Nel «tarda primavera del 2009», in piena crisi, Bankitalia stima che «circa 480 mila famiglie abbiano sostenuto almeno un figlio convivente che aveva perso il lavoro nei dodici mesi precedenti». Un figlio che non se n´è mai andato, o che forse è ritornato: un “bamboccione” che senza lo stipendio o la pensione dei genitori non avrebbe avuto di che vivere. Nel 2010 il 42 per cento dei giovani di età compresa fra i 25 e i 34 anni viveva con i genitori. Quindici anni prima eravamo fermi al 36 per cento. Meno sicurezza, meno autonomia: nel 2011 la quota di contratti a tempo indeterminato, in quella fascia d´età, è scesa sotto al 30 per cento, 5 punti in meno rispetto al 2008, 10 in meno rispetto al 1995.

LA CRISI DEGLI ALTRI
Meno lavoro e meno redditi: nel terzo trimestre del 2011, rispetto alla primavera pre-crisi del 2008, il reddito disponibile reale è diminuito del 6 per cento (7,5 se si considera quello pro-capite). Fra il 2008 e il 2009 i redditi delle famiglie sono calati del 4 per cento, il Pil del 6. Sono stati anni difficili per tutti, ma negli altri Paesi la ricchezza delle famiglie non è stata così penalizzata come in Italia. In Francia, per esempio, a fronte di un calo del Pil del 3 per cento, le entrate familiari sono aumentate quasi del 2. In Germania e Usa il Pil è sceso del 4 per cento, ma i redditi familiari sono saliti di mezzo punto. Nel Regno Unito, meno 5 per cento il Pil, più 2 i redditi. Là l´aumento dei trasferimenti sociali ha tamponato le emergenze, qui «il sostegno pubblico è stato più contenuto, limitato dalla necessità di impedire un drastico peggioramento della finanza pubblica».
DEBITI, RICCHEZZE
La crisi ha asciugato la propensione al risparmio delle famiglie che è scesa al 12 per cento (era il 16 nel 2008), ma nei nuclei giovani (capofamiglia under 35) e in quelle più povere non si mette da parte quasi nulla. Rispetto ad altri Paesi la ricchezza netta delle famiglie regge ancora il confronto, ma la distribuzione non è omogenea: la metà sta nelle mani del decimo di famiglie più ricche e la metà delle famiglie più povere possiede poco più di un decimo della ricchezza totale. Il quadro, commenta Bankitalia, «non è sostenibile». Le risorse a disposizione per il welfare sono scarse, ma qualcosa si può fare: per esempio, smuovere il tragico problema della disoccupazione femminile, trasformando le detrazioni per carichi familiari in crediti d´imposta sulle basse retribuzioni.

La Repubblica 05.04.12

"E' stato riparato l'errore più grave", di Luigi Mariucci

Sulla modifica dell’articolo 18 è stato evitato il peggio, visto che la vicenda era iniziata in nome della bizzarra idea di ostentare ai mercati finanziari e agli investitori esteri lo «scalpo» della liberalizzazione dei licenziamenti. Il governo ha finalmente accolto i buoni consigli che gli sono stati dati, anche da queste pagine. Sui licenziamenti economici è scomparsa la formula aberrante inizialmente proposta: quella che vincolava il giudice a disporre solo la monetizzazione ove il motivo economico risultasse «inesistente». Si può dire che sul punto ha vinto la ragione. Ora infatti la disposizione è radicalmente cambiata. Oltre a prevedere un filtro sindacale, con il ricorso preventivo all’ufficio del lavoro, si reintroduce la possibilità della reintegrazione, e non solo dell’indennizzo, da parte del giudice ove risulti che il motivo economico è «manifestamente infondato», espressione da ritenersi inclusiva dell’ipotesi per cui tra il motivo economico e la scelta di quel lavoratore o lavoratrice non sussiste un nesso causale. In questo modo resta salvo il principio della reintegrazione e si mantiene la sua essenziale funzione deterrente sul piano della garanzia complessiva dei diritti in corso di svolgimento dei rapporti di lavoro, come il Pd e il suo segretario non si sono stancati di ripetere nelle scorse settimane. Logica avrebbe voluto che attribuendo al giudice la scelta tra indennizzo o reintegrazione si fosse anche abbassata la soglia dei 15 dipendenti, ormai priva di ogni vero carattere selettivo. Questo comunque è già più accettabile, per quanto nulla tolga ai due errori commessi dal governo nel corso di questa vicenda. Il primo consiste nell’aver diffuso il messaggio per cui la portata innovativa della riforma andava misurata sul grado di liberalizzazione dei licenziamenti e su uno scambio tra minore flessibilità in entrata e maggiore «flessibilità in uscita» (formula del gergo economicista che in italiano si traduce in «licenziamenti più facili»). Quando il problema principale del Paese, di fronte alla dura recessione in corso, consiste nel fatto che il lavoro scarseggia, per chi ce l’ha e rischia di perderlo e per chi lo cerca, soprattutto giovani e donne, e non lo trova, o lo trova solo precario, di cattiva qualità. L’accento andava quindi posto, al contrario, fin dall’inizio, sulle misure necessarie a riavviare la crescita, lo sviluppo compatibile. L’altro errore consiste nel non avere perseguito l’accordo con le parti sociali, anzi nell’averlo in sostanza evitato. Si dice che la concertazione è finita e che ora si pratica solo la consultazione. Non so se sia un bene. Certo è che è preferibile, specie nei momenti di maggiore difficoltà e sofferenza sociale, il consenso delle forze sociali, come accadde nel 1992-93 quando il segretario della Cgil era Bruno Trentin e il presidente del Consiglio Ciampi, piuttosto che alimentare conflitti e dissensi che, all’esito, riguardano tutti i sindacati e non solo la Cgil. Può essere che questa contrastata vicenda produca, paradossalmente, un effetto positivo: la riscoperta del valore strategico dell’unità tra i sindacati confederali. Nei prossimi giorni si potrà dare una valutazione più analitica. Al momento si può dire così: si è vinta una prima battaglia, si apre ora lo spazio per migliorare altre parti del provvedimento. Meglio questo, piuttosto che piangere poi sul latte versato.

L’Unità 05.04.12

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“Accolta l’idea del Pd”, di MARCELLO SORGI

Quando si dice che la politica è l’arte del possibile: Mario Monti ed Elsa Fornero hanno confermato ieri il compromesso raggiunto dal presidente del consiglio nel vertice con Alfano, Bersani e Casini. Il reintegro ad opera del magistrato dei lavoratori licenziati ingiustamente torna ad essere possibile in tutti e tre i casi previsti dalla riforma dell’articolo 18, compresi dunque i licenziamenti economici, e non solo, com’era stato deciso in un primo momento, per quelli discriminatori e disciplinari. Alla fine, con il placet anche del segretario del Pdl inizialmente contrario, è stata accolta la richiesta di Bersani, e adesso il disegno di legge potrà marciare spedito verso l’approvazione.

Motivi di opportunità e ragioni politiche hanno spinto Monti a un sensibile aggiustamento. Nel giro di dieci giorni, come ha ammesso Fornero, non solo la Cgil e il Pd, ma anche tutte le organizzazioni sindacali, anche quelle che inizialmente avevano dato la loro adesione, avevano fatto marcia indietro. La tensione tra governo e maggioranza si era acuita ed era giunta al livello di guardia durante l’assenza di Monti per la missione in Asia. Di qui la necessità di svelenire e rimettere il governo in carreggiata.

Se Bersani incassa quel che chiedeva, anche il governo porta all’attivo il principio che adesso, in caso di serie e riconosciute difficoltà economiche, le imprese potranno ristrutturarsi senza temere che i loro piani siano sistematicamente contraddetti dall’intervento della magistratura. Migliorano inoltre le condizioni dell’accesso al lavoro per i giovani. E tutto questo dovrebbe, secondo le previsioni del governo, sollecitare investimenti stranieri nel nostro Paese o almeno rallentare il trasferimento di risorse all’estero.

Le ragioni politiche sono maturate negli ultimi giorni anche per altre ragioni. Non c’è dubbio che lo scandalo che ha investito la Lega, da una parte, e dall’altra la svolta di Di Pietro verso una linea di rottura oltre ogni limite con Monti (ieri in Parlamento il leader di Idv è arrivato a dargli la responsabilità dei suicidi di imprenditori e pensionati), spingono Pd e Pdl ad accantonare la nostalgia delle vecchie alleanze per fare i conti fino in fondo con la realtà attuale del governo e della larga (e scomoda, per certi versi) maggioranza a tre che lo sostiene adesso. E dovrà verosimilmente sostenerlo ancora a lungo.

La Stampa 05.04.12

Il Pd incassa il successo «Altri miglioramenti in Parlamento», di Maria Zegarelli

«Passo avanti importantissimo» quello compiuto sull’articolo 18 per il segretario Pd. Ma sulla riforma, aggiunge, ci sono ancora dei miglioramenti da fare in Parlamento. E sugli esodati: «Trovare una soluzione». Ha seguito la conferenza stampa fiume dal soggiorno di casa sua, poi si è collegato con il Tg3 delle 19 chiamato a dare il suo giudizio sulla riforma del Lavoro presentata dal premier Mario Monti e il ministro Elsa Fornero. Pier Luigi Bersani ha vinto una battaglia politica sulla quale il Pd si giocava la partita delle partite decisa l’altra sera dopo sette ore e mezzo di vertice prima il faccia a faccia con Monti, poi con gli altri leader di Udc e Pdl ma alla fine quell’articolo 18 che solo qualche giorno fa sembrava blindatissimo è stato modificato. Sarà il giudice a decidere il reintegro in caso di licenziamento per motivi economici per manifesta infondatezza e/o insussistenza. Era quello che chiedevano Pd e Cgil.
IL REINTEGRO
«Il concetto che è emerso è quello che ci stava a cuore, cioè di prevedere comunque che qualsiasi tipo di licenziamento non possa essere semplicemente monetizzato», commenta a caldo. «Quell’articolo non sarà scritto con la mia penna aggiunge -, tuttavia si è fatto un passo avanti importantissimo e l’onere della prova non sarà a carico del lavoratore e credo che questo possa rispondere all’ansia che si stava diffondendo in milioni di lavoratori. Quindi mi pare un risultato certamente importante». Dunque, un giudizio positivo anche se il segretario mostra una certa cautela per-
ché, spiega, «stiamo parlando di 60 articoli, bisognerà leggere le norme, ma qualcosa da migliorare c’è». E sarà il Parlamento, assicura, a lavorare alle modifiche, «c’è gente in grado di dare una mano seria per migliorare alcune norme in tempi celeri» dice sottolineando più volte la necessità di un dibattito in Aula, nei tempi richiesti dall’emergenza e nel rispetto dell’impianto generale del disegno di legge. Per questo il segretario ritiene che non sia il momento di parlare di fiducia sul provvedimento, soprattutto dopo il vertice dell’altra sera e l’impegno che insieme a Casini e Alfano è stato preso per garantire un percorso «breve». «Il Parlamento è lì apposta per dare un contributo in un percorso che credo sarà celere, impegnativo e impegnato. Tuttavia ci sarà occasione anche di perfezionare quelle norme», ribadisce al Tg3. Quanto alla posizione della Cgil, che ieri non si è espressa, Bersani sembra ottimista: «Io voglio credere che chiunque osserverà le nuove norme dovrà registrare un cambiamento, certamente un passo avanti e quindi credo che il mio partito e la nostra gente, i cittadini, siano soddisfatti di questo cambiamento. Mi auguro che lo siano tutti. Dopodiché, ripeto, ci sono tanti altri aspetti da vedere. A fianco delle norme sul lavoro per esempio c’è il tema degli esodati, cioè di un buco che abbiamo, che va risolto. Quindi non è che tutto sta intorno al pur importantissimo art.18». E proprio sugli esodati l’altra sera Monti ha ribadito ai leader di partito l’impegno a presentare novità entro i prossimi giorni.
LE MODIFICHE
A spiegare quali sono i punti su cui ancora si può lavorare con pochi e condivisi emendamenti è il responsabile Lavoro del Nazareno, Stefano Fassina: «In Parlamento si dovrà lavorare per intervenire sull’aumento del 6% per i contributi sociali dei lavoratori parasubordinati e di una parte delle partite Iva». Altre questioni: l’ampliamento degli ammortizzatori sociali per i parasubordinati e i contratti a tempo determinato di natura stagionale per i quali la riforma prevede un onere aggiuntivo. Ma per il Pd è necessaria anche un’accelerazione dei tempi per la definizione delle politiche attive per il lavoro per le quali il testo presentato ieri rinvia ad un provvedimento successivo.
Al netto dei miglioramenti che potranno essere apportati dal Parlamento al Nazareno ieri si respirava una «moderata soddisfazione» in attesa di studiare con attenzione i sessanta articoli che compongono la riforma destinata a cambiare il mercato del lavoro. «Non è stato facile arrivare a questo risultato raccontano dal Pd soprattutto perché all’interno del governo c’era chi opponeva resistenza alla modifica dell’articolo 18 così come è stato formulato». Un lavoro di confronto e ascolto con il ministro Passera a mediare che non sempre è stato fluido, a tratti anche aspro, ma che alla fine non ha potuto non tener conto delle istanze presentate dai partiti e dalle parti sociali.
«Vedrò il testo, ma da quanto ho ascoltato e da quello che so, la modifica all’articolo 18 va nella giusta direzione», commenta Cesare Damiano, citato durante la conferenza stampa dal ministro Fornero, a pro-
posito della norma contro le dimissioni in bianco per le donne. «Una norma a cui lei teneva molto», gli dice il ministro vedendolo in platea. Il capogruppo alla Camera, Dario Franceschini, scrive su twitter: «Torna il reintegro per i licenziamenti economici. Hanno vinto il buonsenso e la determinazione». Giudizio positivo anche da Anna Finocchiaro: «Ci sono tante parti che ci sembrano davvero soddisfare le necessità che abbiamo di fronte: superare innanzitutto lo squilibrio tra i precari e i lavoratori a tempo indeterminato, prevedere strumenti per gli di ammortizzatori sociali che siano adeguati alla difficoltà del momento, agevolare l’accesso al mercato del lavoro. Ci sono anche misure che riguardano l’occupazione femminile che ci sembrano primi segnali nella giusta direzione».

L’Unità 05.04.12

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“Il passo indietro del governo. Articolo 18, torna il reintegro”, di Massimo Franchi

L’attesa di Cgil, Cisl, Uil: è un passo in avanti ma aspettiamo il testo. In attesa di valutare il testo definitivo, i sindacati incassano la retromarcia del governo sui licenziamenti economici. Camusso: «No comment, in passato abbiamo avuto sorprese». L’Ugl invece critica: un No convinto.
Il ritorno della possibilità di reintegro nel caso di licenziamenti di tipo economico come un «primo passo positivo». L’attesa (quasi spasmodica, fino alla pubblicazione verso le 21) per il testo reale del provvedimento, per poterne studiare ogni singola parola e conseguenza rispetto alla legislazione attuale. Memori di esperienze negative precedenti, in cui gli annunci non sono stati seguiti dai testi: «Non vorremmo ritrovarci le sorprese che abbiamo trovato in altre occasioni», sintetizza Susanna Camusso.
I sindacati, divisi davanti alla prima stesura del testo, si ricompattano incassando la modifica richiesta a gran voce. Bonanni e Angeletti parlano subito, Susanna Camusso invece (in trasferta in Emilia) aspetta il testo definitivo e con ogni probabilità oggi lo valuterà con la segreteria prima di esprimere un giudizio esplicito. L’unica concessione ai giornalisti è la battuta sull’appello di Monti ad avere «senso della misura»: «Noi spiega Camusso abbiamo sempre avuto senso della misura, l’appello non lo riteniamo rivolto a noi». Sul l’articolo 18 invece nessuna concessione, solo precisazioni. Il ritorno del reintegro, in particolare, riguarda «questioni giuridiche precise sottolinea il segretario generale Cgil e come sono scritti i testi diventa importante».
BONANNI E ANGELETTI: BENE COSÌ
A commentare invece subito gli annunci di Monti e Fornero è Raffaele Bonanni: «Mi pare che la questione che ci preoccupava di più è stata definita in modo ragionevole. La raccomandazione fatta da noi al presidente del Consiglio e che lui raccolse di non far coincidere i licenziamenti economici con eventuali situazioni fraudolente delle aziende è stata chiarita: ci sarà il reintegro nel caso le aziende tenteranno di portare avanti situazioni fraudolente», ha sottolineato il leader della Cisl. «Ora è arrivato il momento di rasserenare il Paese come ci chiede il presidente della Repubblica, ma soprattutto di risolvere i problemi dell’Italia che sono la mancanza di crescita e l’eccessivo peso fiscale. Per questo noi ci mobiliteremo nei prossimi giorni», chiude Bonanni.
Sulla stessa linea il leader Uil Luigi Angeletti, che dopo la battuta sul «licenziamento per giusta causa» per la Fornero, torna serio. «Il pericolo di licenziamenti illegittimi pare sia stato scongiurato, abbiamo pareggiato fuori casa». Poi la specifica, molto simile a quella di Susanna Camusso: «Nel merito bisogna leggere i testi, perché anche un aggettivo può modificare nella sostanza una norma. Per noi ha sottolineato era necessario che si modificassero le norme relative ai licenziamenti economici perché così come era poteva prestarsi a un uso fraudolento delle imprese». Angeletti ha aggiunto che «senza un accordo della maggioranza non si farebbe in Parlamento nessuna riforma» e che «non ci sono leggi su mercato del lavoro in grado di far aumentare l’occupazione».
A sparigliare (in parte) l’unità sindacale arriva in Giovanni Centrella. L’appena riconfermato segretario generale dell’Ugl a SkyTg24 è molto netto: «Purtroppo le parole del ministro Fornero ci convincono ancora di più a dire di no a questa riforma». E spiega il perché: «Persino le parti buone sono state intaccate da quelle cattive: sono state ridotte le mensilità dell’indennizzo per i licenziamenti economici, non è stato aggiunto il reintegro per gli stessi, infine sull`onere della prova a carico del lavoratore non abbiamo ascoltato risposte chiare. Ovviamente per un giudizio più approfondito dobbiamo leggere tutto l’articolato». Poi però arriva un aggiustamento: «Su alcuni punti non possiamo negare il nostro apprezzamento, in particolare sulla prevalenza data al contratto a tempo indeterminato, sull’apprendistato e sulla chiarezza introdotta nelle fattispecie atipiche». Parole che sembrano un riallinearsi al resto delle confederazioni.
Oggi dunque sarà il giorno dei giudizi ponderati. E non si escludono sorprese.

L’Unità 05.04.12

Un passo avanti importante

Soddisfazione di Bersani per il recepimento del principio del reintegro in relazione all’Articolo 18 da parte del governo. “Quell’articolo non sarà scritto con la mia penna, tuttavia credo che sia un passo avanti importantissimo”. Così il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha definito il testo della riforma del mercato del lavoro presentato oggi dal premier Monti e dal ministro Fornero. Bersani, durante l’intervista con il Tg3, si è detto soddisfatto che sia stato recepito il principio del reintegro in relazione all’art.18, ma soprattutto che si sia evitata l’idea di una monetizzazione del lavoro. “L’onore della prova – ha dichiarato Bersani – non sarà a carico del lavoratore. Il principio del reintegro c’è e c’è anche l’onere della prova non a carico del lavoratore. Questo risponde all’ansia che si stava diffondendo tra milioni di lavoratori. È un risultato importante”.

Bersani non ha escluso che si possa raggiungere ulteriori miglioramenti in Parlamento e si augurato che l’iter di approvazione della riforma del mercato del Lavoro possa essere ragionevolmente veloce. “Si tenga conto che stiamo parlando di una sessantina di articoli. Ci sono tantissime cose. Cose positive intorno alla precarietà e agli ammortizzatori. Ma anche in quei campi c’è qualcosa da discutere e da migliorare. Il Parlamento è lì apposta per dare un contributo in un percorso che credo sarà celere, impegnativo e impegnato”.

Il leader democratico ha espresso l’auspicio che il prossimo vertice di maggioranza sia dedicato a trovare un po’ di lavoro. “”Non c’è solo il tema dell’articolo 18. C’è il tema degli esodati che va risolto. Non è che tutto sta intorno al pur importantissimo articolo 18. Io mi auguro che il prossimo vertice di 7 ore e mezzo, perché tanto è durato per me, sia dedicato all’agenda per creare occupazione. Ogni passo in più per la crescita – ha detto Bersani – va benissimo, parliamo di regole ma anche di dare un po’ di lavoro”.
Quanto alle accuse di Di Pietro sulla responsabilità di Monti in relazione ai suicidi per la crisi. Bersani ha invitato a misurare le parole. “Io credo che bisognerebbe misurare le parole e magari cercare di fare insieme qualche fatto in più per la crescita”.

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“Torna il reintegro per i licenziamenti economici. Hanno vinto il buonsenso e la determinazione”. Così il capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini a proposito della riforma del lavoro illustrata oggi da Mario Monti ed Elsa Fornero.

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"L’autogoverno delle scuole: finalmente una buona proposta" di Antonio Valentino

La Commissione Cultura della Camera ha approvato, dopo anni di discussione, il testo di un DdL sulle “Norme per l’autogoverno delle Istituzioni Scolastiche” (IS), che porta a sintesi una serie di proposte, elaborate sul tema da quasi tutte le forze politiche (apripista: l’On. Aprea, 2009).
L’accelerazione c’è stata a partire dal gennaio scorso, quando, archiviato il Governo Berlusconi e con esso il Ministro Gelmini, si sono create le condizioni per una intesa sulla riforma degli organi collegiali che vede protagonisti esponenti di tutta l’attuale “strana” maggioranza.
Non è facile capire come si sia passati dalle posizioni distantissime degli anni precedenti all’intesa dei giorni scorsi. Che costituisce, “stranamente”, un buon passo in avanti in tema di riforma degli organi collegiali e più in generale di “autogoverno” delle IS. Le norme proposte recuperano, infatti, sull’autonomia scolastica, orientamenti e principi importanti che nel decennio precedente non sono rusciti mai a decollare, con conseguenze di cui si soffre tuttora.
Il riferimento non è tanto alla possibilità di ciascuna IS di definire, con un proprio Statuto, regole e norme di autogoverno (aspetto certamente importante, ma non dirimente), quanto piuttosto a novità che potrebbero ridisegnare in meglio l’intero profilo del sistema scuola.

Le novità
Metterei al primo posto la distinzione chiara tra i diversi livelli di “competenze” dei tre organi principali: il Consiglio dell’Autonomia – CdA – (l’attuale CdI) che ha funzioni di indirizzo; il Consiglio dei Docenti (oggi, Collegio Docenti), con funzioni tecniche, e il Dirigente Scolastico (DS), responsabile della gestione. Distinzione volta a superare confusioni di ruolo e sovrapposizioni tra gli attuali organi collegiali.

L’altra novità riguarda il modello di istituzione, tendenzialmente aperta e responsabile, che si prefigura attraverso opportuni strumenti. Ne emerge un’idea di scuola
a. che si interroga statutariamente in proprio sull’efficienza, efficacia e qualità del proprio servizio, attraverso una apposito Nucleo di autovalutazione,
b. che dà conto annualmente di quello che fa in una apposita Conferenza, detta appunto di rendicontazione, aperta a tutte le componenti scolastiche ed ai rappresentanti degli enti locali e delle realtà sociali, economiche e culturali del territorio,
c. che opera non più secondo logiche interne e autoreferenziali, essendo prevista, nei vari organismi, la presenza di soggetti esterni (un esperto e un genitore, nel nucleo di autovalutazione; membri esterni, rappresentativi di enti locali, mondo della cultura e del lavoro …, nel Consiglio dell’Autonomia),
d. che è strutturalmente inserita in una rete di relazioni con le altre autonomie scolastiche e amministrative, i cui strumenti (Conferenza Regionale e Conferenze di ambito territoriale) – ma anche le modalità di rappresentanza e gli ambiti – sono definiti dall’Ente Regione.
Va sottolineato quanto le norme prevedono al riguardo: e cioè che le scuole autonome, opportunamente rappresentate, costituiscono – nella Conferenza regionale – “soggetti imprescindibili nell’organizzazione e nella gestione dell’offerta formativa e sono chiamate ad un ruolo consultivo e di supporto nelle materie di competenza; mentre le conferenze di ambito territoriale “sono il luogo del coordinamento tra le istituzioni scolastiche, gli Enti locali, i rappresentanti del mondo della cultura, del lavoro e dell’impresa di un determinato territorio”.
E’ evidente la logica di sistema che informa queste norme – che diventeranno operative a seguito di specifici provvedimento del MIUR (per quanto riguarda la Conferenza nazionale) e delle Regioni (per la Conferenza regionale e per quelle di ambito territoriale) -.
Come evidenti appaiono le possibilità che si aprono alle scuole autonome (“da sole o in rete”) per superare la propria separatezza e autoreferenzialità, che sono tra le cause della crisi dell’intera sistema.

La terza novità riguarda la riconsiderazione degli organismi collegiali dei docenti e del loro lavoro. Rispetto ai quali si acquisisce definitivamente – e per tutti gli ordini e gradi di scuola – che Il Consiglio dei docenti “opera anche per commissioni e dipartimenti” (oltre che per consigli di classe) e si afferma che, rispetto all’attività didattica di ogni classe, i docenti sono “responsabili” della loro programmazione e attuazione e che, “nel quadro delle linee educative e culturali della scuola e delle indicazioni e standard nazionali per il curricolo”, operano “nella piena responsabilità e libertà di docenza”.
Evidenzierei, oltre al richiamo insistito sulle responsabilità, anche il riferimento non tanto alle indicazioni nazionali, quanto agli standard nazionali (che però sono ancora tutti da costruire), come vincolo nelle attività di programmazione / progettazione e di valutazione.
Si tende, penso, attraverso di essi, a dare risalto ad una funzione fondamentale della scuola: garantire a tutti i giovani livelli essenziali di prestazioni e risultati tendenzialemnte omogenei sul piano nazionale.
Ovviamente tutto questo, che non è certamente una novità (ma ribadirlo è impportante) rinvia a opportune condizioni di fattibilità: ma, di queste, in successive considerazioni .

Sul Dirigente scolastico
Annotazioni infine sul DS, le cui funzioni – che attengono, come è noto, alle responsabilità gestionali – sono richiamate in uno specifico articolo.
Niente di nuovo su questo fronte: il DS “risponde dei risultati del servizio agli organismi istituzionalmente e statutariamente competenti”.
L’ affermazione, ovvia, fa però intravedere poco la pesantezza deicarichi aggiuntivi che ne deriveranno al DS, stante il permanere di un modello organizzativo a cui è ancora sostanzialmente estranea ogni idea di leadership plurale e istituzionalmente partecipata (e contrattualmente riconosciuta).
Questione, come è noto, drammaticamente aperta, destinata a pesare negativamente anche nella realizzazione del pur innovativo modello che queste norme di autogoverno prevedono.
Una sola sottolineatura al riguardo. La si ricava dall’articolo 3, sul Consiglio dell’Autonomia, dove si precisa che, relativamente all’’adozione del POF e alla designazione dei membri del Nucleo di autovalutazione da parte del Consiglio, “è necessaria la proposta del dirigente scolastico”. Che va letta, penso, come attestazione del ruolo centrale del DS nel governo complessivo dell’Istituto.

Le questioni aperte
Riprendiamo conclusivamente il discorso delle condizioni.
Una delle prime riguarda l’ adeguatezza (ai vari livelli: natura, compiti, risorse) del sistema nazionale di valutazione e delle sue articolazioni (e dell’INVALSI in particolare), che, allo stato attuale, presenta non poche difficoltà di funzionamento e criticità. Le ragioni le ho richiamate quando ho accennato alla riconsiderazione del lavoro docente nella configurazione del modello di scuola che emerge dal testo.
Ma non va neanche sottovalutata la necessità di una formazione ad hoc del personale in generale e dei docenti in particolare: nelle norme, come già detto, si prefigura una visione del lavoro docente e delle sue responsabilità e competenze che non possono essere date per scontate.
L’organico funzionale – che è altra cosa rispetto all’organico dell’autonomia di cui alla legge sulle Semplificazioni – è un’altra importante condizione. Ma è inutile parlarne nella situazione data.
Invece non va sottaciuta la necessità di sviluppare motivazione e voglia di mettersi alla prova dei tanti docenti che si aspettano messaggi di attenzione e riconoscimenti in termini econonici e di carriera del proprio lavoro.
Se mancano messaggi credibili, almeno di prospettiva, su questi terreni è difficile che si possano scrivere capitoli migliori della storia della nostra scuola.
Continuare a parlare di tagli – come si continua a fare – non è, per esempio, un buon segnale.
E neanche leggere l’ultimo articolo delle Norme che richiama come all’attuazione della presente legge si provvede, da parte delle amministrazioni competenti, “nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”. Amen.

Comunque, una svolta. Con qualche ambiguità (da correggere)
Nonostante questi ultimi richiami e considerazioni, credo che portare comunque a conclusione in tempi utili l’iter parlamentare del DdL è in sé cosa buona e giusta. Perciò occorre che i prossimi passaggi nelle altre commissioni parlamentari permettano di arrivare all’approvazione definitiva del testo prima che comincino le fibrillazioni dei partiti per le elezioni politiche.
Rispetto al DdL licenziato, rivedrei comunque almeno due passaggi, entrambi nell’art. 6: il primo dove si afferma che competenza del CdD è la “Programmazione dell’attività didattica”, senza ulteriori precisazioni (non si capisce infatti qual è il risultato atteso); il secondo dove si afferma che lo statuto “disciplina l’attività del Consiglio dei docenti e le sue articolazioni” (che mi sembra un po’ contradditorio rispetto allo spirito delle Norme). E inserirei nella composizione del CdA un rappresentante del personale ATA.
Per il resto, con le necessarie iniziative di riflessione e pressione, soprattutto speranze … oltre ogni ragionevole dubbio.

da ScuolaOggi 04.04.12