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La riforma del lavoro andrà avanti e sarà rafforzata

Pier Luigi Bersani a margine della Conferenza nazionale del PD sulla Giustizia, dialoga con i cronisti della necessità di arginare la recessione, della riforma del mercato del lavoro e della lettera di Monti pubblicata dal Corriere della Sera: “È una lettera positiva, che chiarisce”. Crisi, lavoro e la lettera di Monti al Corriere della Sera. “Oggi la priorità è fare qualcosa per arginare la recessione. Siamo disponibili ad un confronto con il Governo per vedere se ci sono delle idee. La discussione tra tecnici e politici è stucchevole perché non coglie il vero problema del Paese”. Lo ha dichiarato il segretario del PD, Pierluigi Bersani a margine della Conferenza nazionale del PD sulla Giustizia.

Alla domanda se ci sarà un vertice di maggioranza con Monti prima del voto finale del Senato sul ddl costituzionale per il pareggio di bilancio, Bersani ha risposto: “Non lo so. Per ora non è previsto, potrebbe essere. Io penso che, se ci sarà un punto da fare, l’urgenza, nei limiti stretti della finanza pubblica, deve essere quella di trovare misure per dare un po’ di lavoro”.

Bersani ha giudicato positivamente la lettera di Monti pubblicata oggi sul Corriere della Sera: “È una lettera positiva, che chiarisce. Francamente sapevo che le cose non stavano così e continuo a pensare che il punto di fondo sia non allestire mai delle alternative, delle distinzioni, delle dialettiche tra i cosiddetti tecnici e i politici perché il Paese non ha bisogno di questo”.

“Credo che il ruolo del PD – ha aggiunto Bersani – sia quello di sostenere il governo collegandolo il più possibile alle emergenze e alle sensibilità del Paese e questo vale anche a proposito della riforma del mercato del lavoro”.

“Ora tornano le nubi, perché c’è un avvitamento fra politiche di risanamento e recessione. I mercati lo capiscono, valutano l’economia reale e vedono davanti mesi di recessione. Questo dato di fondo va risolto nella dimensione europea. Oggi bisogna fare qualcosina per arginare la recessione, questa è la priorità e noi discutiamo di altre cose. Siamo disponibili ad un confronto con il Governo per vedere se ci sono delle idee, mai miracolistiche ma in grado di limitare il problema”.

Bersani ha citato l’esempio del Portogallo “che per dirla con un eufemismo, è un Paese molto sorvegliato dalla Ue e dal Fondo monetario. Ieri ero in Portogallo ed ho avuto molti colloqui. È in corso una riforma del mercato del lavoro e si prendono varie misure. Sui licenziamenti si ridefinisce il perimetro della giusta causa. Ma nessuno pensa di togliere, in ultima istanza, la possibilità di reintegro da parte del giudice”.

Articolo 18. “C’è modo e modo” di modificare l’articolo 18. “Noi siamo gente flessibile che però non ama spezzarsi su un punto basico che sono i diritti dei lavoratori”.

L’invito di Bersani è dunque quello a “non drammatizzare una questione che non mi sembra risolutiva e se affrontata nel modo sbagliato crea problemi”. E a chi gli chiede , dunque, se non sia il caso di mettere la fiducia sulla riforma del lavoro Bersani replica: “”La riforma del lavoro andrà avanti e sarà rafforzata. C’è stato il salva-Italia, le liberalizzazioni, il decreto fiscale e si è discusso su tutto: anche su questo ci sarà una serena discussione parlamentare”.

Quindi, replicando a chi gli chiedeva delle indiscrezioni de la Repubblica su una modifica della riforma del lavoro sui licenziamenti economici, in riferimento all’articolo 18, che sarebbe allo studio dei ministri Fornero e Severino, Bersani ha concluso: “Basta discutere di ipotesi anche perché dobbiamo ancora vedere la norma del governo. Noi abbiamo detto la nostra posizione ora vediamo i testi. Non e’ che si possa sempre discutere di ipotesi”.

www.partitodemocratico.it

"Foto di gruppo con evasore", di Michele Serra

Ogni volta che vengono resi pubblici i redditi degli italiani, si sussulta. È la fotografia, se non di un Paese povero, di un Paese con moltitudini di poveri, una piccola minoranza di benestanti e pochissimi ricchi. Solo 30mila italiani (lo 0,07 per cento) dichiara di guadagnare più di 300mila euro all´anno. Per quanto sfocata (nessuna statistica riesce davvero a mettere a fuoco la realtà delle cose), è l´immagine di un popolo economicamente depresso, dove il benessere di massa, a differenza che in altri paesi occidentali, non ha mai fatto davvero breccia: oltre metà dei contribuenti dichiara un´imponibile inferiore ai 15mila euro all´anno. La recente catena di suicidi di nostri concittadini sopraffatti dalle ristrettezze economiche – quasi tutti piccolissimi imprenditori – suggerisce cautela nei giudizi: non c´è dubbio che i morsi della crisi abbiano roso fino all´osso alcuni redditi e alcune vite. Ma il macro-dato, così come viene offerto dall´autoscatto che i contribuenti hanno fatto dell´Italia lascia intendere, senza possibilità di dubbio, che una ricchezza smisurata (letteralmente: non misurata e forse non misurabile) non compare nella foto di gruppo chiamata “redditi 2010”. E´ fuori inquadratura, da qualche parte. Sotto il materasso, all´estero, già reinvestita in beni immobili e mobili, bruciata allegramente in bagordi, scomparsa nelle scatole cinesi della finanza creativa, intestata a prestanome, ditte fittizie e altri fantasmi…. Non si sa.
Ma si sa che c´è, o per dirla meglio: si sa che non può non esserci. Non esiste, infatti, corrispondenza alcuna tra l´evidenza del tenore di vita medio del paese e dichiarazioni dei redditi che, se vere, non consentirebbero al novanta per cento della popolazione non dico auto di lusso o barche o vacanze esotiche, ma le normali automobili, le normali vacanze, le normali seconde case e i normali guardaroba che siamo abituati a considerare gli ingredienti della vita media degli italiani medi e delle italiane medie.
Men che meno, a giudicare da questa fotografia, l´Italia parrebbe soggetta a quella rivoluzione economica e sociale (il secondo boom degli anni Ottanta e Novanta) che, con la crisi dell´industria, ha convinto miriadi di ex dipendenti a farsi imprenditori, moltiplicando le partite Iva e con esse il dinamismo, lo spirito di iniziativa, il reddito medio e i consumi. Risulta infatti che nel 2010 i lavoratori autonomi, i professionisti e gli imprenditori, che sono il motore formidabile dell´economia post-industriale (il famoso “popolo delle partite Iva” al quale mi onoro di appartenere) hanno guadagnato, in media, meno dei lavoratori dipendenti. Perché mai, dunque, milioni di italiani avrebbero fatto quel salto, abbandonando il lavoro salariato e aprendo bottega in proprio, se oggi dichiarano di guadagnare meno dei loro operai e impiegati? Ecco un appassionante mistero per gli economisti.
Comunque sia, passato lo sconcerto di fronte alle crude cifre, la domanda che riassume tutte le altre è questa: quanto incide, nel miserabile computo della nostra indigenza nazionale, la penuria reale, l´incrocio tra povertà antiche e nuove, l´avanzare della crisi? E quanto incide l´opera indefessa di occultamento della ricchezza che molti, moltissimi italiani perpetuano di anno in anno, nella convinzione (antica) di esercitare legittima difesa nei confronti di un esattore, lo Stato, al quale da secoli non riconoscono legittimità, e senza avere idea alcuna del furto che commettono non ai danni dello Stato, ma dei loro connazionali onesti che pagano i servizi (scuole, strade, ospedali) anche per conto loro? A quanto ammonta il furto perpetrato da una crisi economica creata dalla grande finanza ma pagata da chi lavora; e a quanto ammonta il furto che più o meno mezza Italia compie ai danni dell´altra mezza?
Chissà se nella sterminata e indeterminata folla di persone che forma l´affresco statistico, il Fisco sarà mai in grado di distinguere il vero povero e il finto povero, due parti in commedia che la crisi rende sempre meno compatibili, sempre più nemiche.

La Repubblica 31.03.12

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Vergogna fiscale: un italiano su due ha un reddito Irpef sotto i 15mila euro

Nell’Italia dei paradossi metà dei contribuenti denuncia un reddito inferiore ai 15mila euro lordi l’anno, un contribuente su tre ha un reddito sotto i 10mila euro lordi l’anno, gli imprenditori guadagnano meno dei lavoratori dipendenti, mentre i “ricchi” oltre i 100mila euro lordi l’anno sono appena l’1% degli italiani. A comunicarlo è il dipartimento delle Finanze del ministero dell’economia che ha pubblicato le statistiche sulle dichiarazioni delle persone fisiche (Irpef) relative all’anno d’imposta 2010. Il reddito medio degli italiani è stato pari a 19.250 euro ed è cresciuto dell’1,2% rispetto al 2009. Ed ancora appena lo 0,07% dei contribuenti ha dichiarato oltre i 300mila euro e solo a loro sarà applicato il contributo di solidarietà del 3% stabilito per gli anni d’imposta 2011-2013. Nel giorno in cui il presidente della repubblica Giorgio Napolitano ha parlato di necessaria severità fiscale, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani sottolinea come questi dati «siano l’eterna raffigurazione della vergogna dell’evasione fiscale».

da Europa Quotidiano 31.03.12

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“Gli imprenditori dichiarano meno dei loro dipendenti. E un contribuente su due dice di guadagnare una cifra sotto i 15 mila euro”
di Tonia Mastrobuoni

È urgente spostare il carico fiscale dai dipendenti e dalle imprese alle rendite e ai patrimoni Luca Montezemolo Presidente Ntv I dati resi noti oggi dal ministero delle Finanze sono l’eterna raffigurazione della vergogna dell’evasione fiscale Pier Luigi Bersani Segretario nazionale del Pd
Nel 2010 un contribuente italiano su due ha dichiarato al fisco meno di 15 mila euro. Si tratta di 20,2 milioni di persone, delle quali 14 milioni un terzo del totale si mettono in tasca ogni anno addirittura meno di 10 mila euro. Un altro 30 per cento dice di guadagnare tra 15 e 26 mila euro e il 20 per cento arriva a 100 mila. Soltanto lo 0,07 per cento degli italiani che arriva a compilare la dichiarazione dei redditi incassa più di 300 mila euro: si tratta di appena 30 mila persone Ma tra i dati forniti ieri dal ministero dell’Economia, non sono questi a far cascare la mascella, simili peraltro a quelli degli anni precedenti, ma quelli che riguardano le singole categorie di lavoratori.
Anzitutto, desta un lieve sospetto anche il livello medio di stipendio degli italiani: 19.250 euro. Ma se si va poi nel dettaglio delle tipologie di reddito, i paradossi diventano lampanti: i lavoratori dipendenti guadagnano più degli imprenditori. Mentre gli autonomi guadagnano in media 41.320 euro e sulla carta sono i più «ricchi», i dipendenti possono contare su neanche metà di quella cifra, 19.810 euro e dichiarano più dei loro «padroni», degli imprenditori, che si fermano a 18.170 euro. I pensionati hanno un assegno che annualmente totalizza 14.980 euro mentre il reddito medio da partecipazione è di 16.500 euro.
C’è di più. Quasi 11 milioni di italiani, il 10,7 per cento del totale dei contribuenti, dichiara zero, non paga un centesimo di Irpef. Si tratta di contribuenti a basso reddito che possono contare sulle soglie di esenzione o la cui imposta lorda si azzera con le numerose detrazioni del Fisco.
Quanto alla distribuzione territoriale, è la Lombardia la regione con reddito medio complessivo più elevato (22.710 euro), seguita dal Lazio (21.720 euro), mentre la Calabria ha il reddito medio più basso con 13.970 euro.
Un aspetto positivo è che la crisi non ha impedito a 915 mila italiani di fare donazioni alle onlus, alle organizzazioni senza scopo di lucro. Ed è altrettanto importante notare, come emerge da un dossier preparato dal ministero che c’è stato un «aumento del numero dei contribuenti (+18 mila circa) che ha sostenuto spese per addetti all’assistenza personale (badanti), con un incremento del 21,8% dell’ammontare totale di tali spese». Un altro dettaglio interessante è che gli sconti Irpef hanno consentito di dedurre o detrarre dalle tasse ben 50 miliardi di euro. Gli oneri deducibili quelli che vengono tagliati dall’imponibile complessivo sono stati pari a 22 miliardi di euro, mentre gli oneri detraibili quelli cancellabili una volta ottenuta l’imposta hanno pesato per 28 miliardi. Infine, il fisco rende noto che c’è stato un «forte aumento» delle spese per la riqualificazione energetica detraibili al 55% (+23%) e delle spese per il recupero edilizio detraibili al 36% (+12%) ».
Numerose le reazioni dal mondo politico e sindacale. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha osservato che è indispensabile mettere in campo «nuove politiche per la crescita e lo sviluppo» e favorire così «l’occupazione». Ma soprattutto «non si deve esitare a proseguire nel cammino delle riforme», ma sempre con «la necessaria severità fiscale».
Molto dura la reazione di Pier Luigi Bersani, che ha parlato dell’«eterna raffigurazione della vergogna dell’evasione fiscale». Secondo il segretario del Partito democratico «resta il punto principale per riprendere la strada della crescita». Cisl e Uil hanno chiesto un provvedimento per abbassare le tasse ai lavoratori e ai pensionati mentre Luca Montezemolo ha chiesto di spostare il carico fiscale «dal lavoro e dalla produzione alle rendite e ai patrimoni».

La Stampa 31.03.12

“Foto di gruppo con evasore”, di Michele Serra

Ogni volta che vengono resi pubblici i redditi degli italiani, si sussulta. È la fotografia, se non di un Paese povero, di un Paese con moltitudini di poveri, una piccola minoranza di benestanti e pochissimi ricchi. Solo 30mila italiani (lo 0,07 per cento) dichiara di guadagnare più di 300mila euro all´anno. Per quanto sfocata (nessuna statistica riesce davvero a mettere a fuoco la realtà delle cose), è l´immagine di un popolo economicamente depresso, dove il benessere di massa, a differenza che in altri paesi occidentali, non ha mai fatto davvero breccia: oltre metà dei contribuenti dichiara un´imponibile inferiore ai 15mila euro all´anno. La recente catena di suicidi di nostri concittadini sopraffatti dalle ristrettezze economiche – quasi tutti piccolissimi imprenditori – suggerisce cautela nei giudizi: non c´è dubbio che i morsi della crisi abbiano roso fino all´osso alcuni redditi e alcune vite. Ma il macro-dato, così come viene offerto dall´autoscatto che i contribuenti hanno fatto dell´Italia lascia intendere, senza possibilità di dubbio, che una ricchezza smisurata (letteralmente: non misurata e forse non misurabile) non compare nella foto di gruppo chiamata “redditi 2010”. E´ fuori inquadratura, da qualche parte. Sotto il materasso, all´estero, già reinvestita in beni immobili e mobili, bruciata allegramente in bagordi, scomparsa nelle scatole cinesi della finanza creativa, intestata a prestanome, ditte fittizie e altri fantasmi…. Non si sa.
Ma si sa che c´è, o per dirla meglio: si sa che non può non esserci. Non esiste, infatti, corrispondenza alcuna tra l´evidenza del tenore di vita medio del paese e dichiarazioni dei redditi che, se vere, non consentirebbero al novanta per cento della popolazione non dico auto di lusso o barche o vacanze esotiche, ma le normali automobili, le normali vacanze, le normali seconde case e i normali guardaroba che siamo abituati a considerare gli ingredienti della vita media degli italiani medi e delle italiane medie.
Men che meno, a giudicare da questa fotografia, l´Italia parrebbe soggetta a quella rivoluzione economica e sociale (il secondo boom degli anni Ottanta e Novanta) che, con la crisi dell´industria, ha convinto miriadi di ex dipendenti a farsi imprenditori, moltiplicando le partite Iva e con esse il dinamismo, lo spirito di iniziativa, il reddito medio e i consumi. Risulta infatti che nel 2010 i lavoratori autonomi, i professionisti e gli imprenditori, che sono il motore formidabile dell´economia post-industriale (il famoso “popolo delle partite Iva” al quale mi onoro di appartenere) hanno guadagnato, in media, meno dei lavoratori dipendenti. Perché mai, dunque, milioni di italiani avrebbero fatto quel salto, abbandonando il lavoro salariato e aprendo bottega in proprio, se oggi dichiarano di guadagnare meno dei loro operai e impiegati? Ecco un appassionante mistero per gli economisti.
Comunque sia, passato lo sconcerto di fronte alle crude cifre, la domanda che riassume tutte le altre è questa: quanto incide, nel miserabile computo della nostra indigenza nazionale, la penuria reale, l´incrocio tra povertà antiche e nuove, l´avanzare della crisi? E quanto incide l´opera indefessa di occultamento della ricchezza che molti, moltissimi italiani perpetuano di anno in anno, nella convinzione (antica) di esercitare legittima difesa nei confronti di un esattore, lo Stato, al quale da secoli non riconoscono legittimità, e senza avere idea alcuna del furto che commettono non ai danni dello Stato, ma dei loro connazionali onesti che pagano i servizi (scuole, strade, ospedali) anche per conto loro? A quanto ammonta il furto perpetrato da una crisi economica creata dalla grande finanza ma pagata da chi lavora; e a quanto ammonta il furto che più o meno mezza Italia compie ai danni dell´altra mezza?
Chissà se nella sterminata e indeterminata folla di persone che forma l´affresco statistico, il Fisco sarà mai in grado di distinguere il vero povero e il finto povero, due parti in commedia che la crisi rende sempre meno compatibili, sempre più nemiche.

La Repubblica 31.03.12

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Vergogna fiscale: un italiano su due ha un reddito Irpef sotto i 15mila euro

Nell’Italia dei paradossi metà dei contribuenti denuncia un reddito inferiore ai 15mila euro lordi l’anno, un contribuente su tre ha un reddito sotto i 10mila euro lordi l’anno, gli imprenditori guadagnano meno dei lavoratori dipendenti, mentre i “ricchi” oltre i 100mila euro lordi l’anno sono appena l’1% degli italiani. A comunicarlo è il dipartimento delle Finanze del ministero dell’economia che ha pubblicato le statistiche sulle dichiarazioni delle persone fisiche (Irpef) relative all’anno d’imposta 2010. Il reddito medio degli italiani è stato pari a 19.250 euro ed è cresciuto dell’1,2% rispetto al 2009. Ed ancora appena lo 0,07% dei contribuenti ha dichiarato oltre i 300mila euro e solo a loro sarà applicato il contributo di solidarietà del 3% stabilito per gli anni d’imposta 2011-2013. Nel giorno in cui il presidente della repubblica Giorgio Napolitano ha parlato di necessaria severità fiscale, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani sottolinea come questi dati «siano l’eterna raffigurazione della vergogna dell’evasione fiscale».

da Europa Quotidiano 31.03.12

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“Gli imprenditori dichiarano meno dei loro dipendenti. E un contribuente su due dice di guadagnare una cifra sotto i 15 mila euro”
di Tonia Mastrobuoni

È urgente spostare il carico fiscale dai dipendenti e dalle imprese alle rendite e ai patrimoni Luca Montezemolo Presidente Ntv I dati resi noti oggi dal ministero delle Finanze sono l’eterna raffigurazione della vergogna dell’evasione fiscale Pier Luigi Bersani Segretario nazionale del Pd
Nel 2010 un contribuente italiano su due ha dichiarato al fisco meno di 15 mila euro. Si tratta di 20,2 milioni di persone, delle quali 14 milioni un terzo del totale si mettono in tasca ogni anno addirittura meno di 10 mila euro. Un altro 30 per cento dice di guadagnare tra 15 e 26 mila euro e il 20 per cento arriva a 100 mila. Soltanto lo 0,07 per cento degli italiani che arriva a compilare la dichiarazione dei redditi incassa più di 300 mila euro: si tratta di appena 30 mila persone Ma tra i dati forniti ieri dal ministero dell’Economia, non sono questi a far cascare la mascella, simili peraltro a quelli degli anni precedenti, ma quelli che riguardano le singole categorie di lavoratori.
Anzitutto, desta un lieve sospetto anche il livello medio di stipendio degli italiani: 19.250 euro. Ma se si va poi nel dettaglio delle tipologie di reddito, i paradossi diventano lampanti: i lavoratori dipendenti guadagnano più degli imprenditori. Mentre gli autonomi guadagnano in media 41.320 euro e sulla carta sono i più «ricchi», i dipendenti possono contare su neanche metà di quella cifra, 19.810 euro e dichiarano più dei loro «padroni», degli imprenditori, che si fermano a 18.170 euro. I pensionati hanno un assegno che annualmente totalizza 14.980 euro mentre il reddito medio da partecipazione è di 16.500 euro.
C’è di più. Quasi 11 milioni di italiani, il 10,7 per cento del totale dei contribuenti, dichiara zero, non paga un centesimo di Irpef. Si tratta di contribuenti a basso reddito che possono contare sulle soglie di esenzione o la cui imposta lorda si azzera con le numerose detrazioni del Fisco.
Quanto alla distribuzione territoriale, è la Lombardia la regione con reddito medio complessivo più elevato (22.710 euro), seguita dal Lazio (21.720 euro), mentre la Calabria ha il reddito medio più basso con 13.970 euro.
Un aspetto positivo è che la crisi non ha impedito a 915 mila italiani di fare donazioni alle onlus, alle organizzazioni senza scopo di lucro. Ed è altrettanto importante notare, come emerge da un dossier preparato dal ministero che c’è stato un «aumento del numero dei contribuenti (+18 mila circa) che ha sostenuto spese per addetti all’assistenza personale (badanti), con un incremento del 21,8% dell’ammontare totale di tali spese». Un altro dettaglio interessante è che gli sconti Irpef hanno consentito di dedurre o detrarre dalle tasse ben 50 miliardi di euro. Gli oneri deducibili quelli che vengono tagliati dall’imponibile complessivo sono stati pari a 22 miliardi di euro, mentre gli oneri detraibili quelli cancellabili una volta ottenuta l’imposta hanno pesato per 28 miliardi. Infine, il fisco rende noto che c’è stato un «forte aumento» delle spese per la riqualificazione energetica detraibili al 55% (+23%) e delle spese per il recupero edilizio detraibili al 36% (+12%) ».
Numerose le reazioni dal mondo politico e sindacale. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha osservato che è indispensabile mettere in campo «nuove politiche per la crescita e lo sviluppo» e favorire così «l’occupazione». Ma soprattutto «non si deve esitare a proseguire nel cammino delle riforme», ma sempre con «la necessaria severità fiscale».
Molto dura la reazione di Pier Luigi Bersani, che ha parlato dell’«eterna raffigurazione della vergogna dell’evasione fiscale». Secondo il segretario del Partito democratico «resta il punto principale per riprendere la strada della crescita». Cisl e Uil hanno chiesto un provvedimento per abbassare le tasse ai lavoratori e ai pensionati mentre Luca Montezemolo ha chiesto di spostare il carico fiscale «dal lavoro e dalla produzione alle rendite e ai patrimoni».

La Stampa 31.03.12

“Foto di gruppo con evasore”, di Michele Serra

Ogni volta che vengono resi pubblici i redditi degli italiani, si sussulta. È la fotografia, se non di un Paese povero, di un Paese con moltitudini di poveri, una piccola minoranza di benestanti e pochissimi ricchi. Solo 30mila italiani (lo 0,07 per cento) dichiara di guadagnare più di 300mila euro all´anno. Per quanto sfocata (nessuna statistica riesce davvero a mettere a fuoco la realtà delle cose), è l´immagine di un popolo economicamente depresso, dove il benessere di massa, a differenza che in altri paesi occidentali, non ha mai fatto davvero breccia: oltre metà dei contribuenti dichiara un´imponibile inferiore ai 15mila euro all´anno. La recente catena di suicidi di nostri concittadini sopraffatti dalle ristrettezze economiche – quasi tutti piccolissimi imprenditori – suggerisce cautela nei giudizi: non c´è dubbio che i morsi della crisi abbiano roso fino all´osso alcuni redditi e alcune vite. Ma il macro-dato, così come viene offerto dall´autoscatto che i contribuenti hanno fatto dell´Italia lascia intendere, senza possibilità di dubbio, che una ricchezza smisurata (letteralmente: non misurata e forse non misurabile) non compare nella foto di gruppo chiamata “redditi 2010”. E´ fuori inquadratura, da qualche parte. Sotto il materasso, all´estero, già reinvestita in beni immobili e mobili, bruciata allegramente in bagordi, scomparsa nelle scatole cinesi della finanza creativa, intestata a prestanome, ditte fittizie e altri fantasmi…. Non si sa.
Ma si sa che c´è, o per dirla meglio: si sa che non può non esserci. Non esiste, infatti, corrispondenza alcuna tra l´evidenza del tenore di vita medio del paese e dichiarazioni dei redditi che, se vere, non consentirebbero al novanta per cento della popolazione non dico auto di lusso o barche o vacanze esotiche, ma le normali automobili, le normali vacanze, le normali seconde case e i normali guardaroba che siamo abituati a considerare gli ingredienti della vita media degli italiani medi e delle italiane medie.
Men che meno, a giudicare da questa fotografia, l´Italia parrebbe soggetta a quella rivoluzione economica e sociale (il secondo boom degli anni Ottanta e Novanta) che, con la crisi dell´industria, ha convinto miriadi di ex dipendenti a farsi imprenditori, moltiplicando le partite Iva e con esse il dinamismo, lo spirito di iniziativa, il reddito medio e i consumi. Risulta infatti che nel 2010 i lavoratori autonomi, i professionisti e gli imprenditori, che sono il motore formidabile dell´economia post-industriale (il famoso “popolo delle partite Iva” al quale mi onoro di appartenere) hanno guadagnato, in media, meno dei lavoratori dipendenti. Perché mai, dunque, milioni di italiani avrebbero fatto quel salto, abbandonando il lavoro salariato e aprendo bottega in proprio, se oggi dichiarano di guadagnare meno dei loro operai e impiegati? Ecco un appassionante mistero per gli economisti.
Comunque sia, passato lo sconcerto di fronte alle crude cifre, la domanda che riassume tutte le altre è questa: quanto incide, nel miserabile computo della nostra indigenza nazionale, la penuria reale, l´incrocio tra povertà antiche e nuove, l´avanzare della crisi? E quanto incide l´opera indefessa di occultamento della ricchezza che molti, moltissimi italiani perpetuano di anno in anno, nella convinzione (antica) di esercitare legittima difesa nei confronti di un esattore, lo Stato, al quale da secoli non riconoscono legittimità, e senza avere idea alcuna del furto che commettono non ai danni dello Stato, ma dei loro connazionali onesti che pagano i servizi (scuole, strade, ospedali) anche per conto loro? A quanto ammonta il furto perpetrato da una crisi economica creata dalla grande finanza ma pagata da chi lavora; e a quanto ammonta il furto che più o meno mezza Italia compie ai danni dell´altra mezza?
Chissà se nella sterminata e indeterminata folla di persone che forma l´affresco statistico, il Fisco sarà mai in grado di distinguere il vero povero e il finto povero, due parti in commedia che la crisi rende sempre meno compatibili, sempre più nemiche.

La Repubblica 31.03.12

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Vergogna fiscale: un italiano su due ha un reddito Irpef sotto i 15mila euro

Nell’Italia dei paradossi metà dei contribuenti denuncia un reddito inferiore ai 15mila euro lordi l’anno, un contribuente su tre ha un reddito sotto i 10mila euro lordi l’anno, gli imprenditori guadagnano meno dei lavoratori dipendenti, mentre i “ricchi” oltre i 100mila euro lordi l’anno sono appena l’1% degli italiani. A comunicarlo è il dipartimento delle Finanze del ministero dell’economia che ha pubblicato le statistiche sulle dichiarazioni delle persone fisiche (Irpef) relative all’anno d’imposta 2010. Il reddito medio degli italiani è stato pari a 19.250 euro ed è cresciuto dell’1,2% rispetto al 2009. Ed ancora appena lo 0,07% dei contribuenti ha dichiarato oltre i 300mila euro e solo a loro sarà applicato il contributo di solidarietà del 3% stabilito per gli anni d’imposta 2011-2013. Nel giorno in cui il presidente della repubblica Giorgio Napolitano ha parlato di necessaria severità fiscale, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani sottolinea come questi dati «siano l’eterna raffigurazione della vergogna dell’evasione fiscale».

da Europa Quotidiano 31.03.12

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“Gli imprenditori dichiarano meno dei loro dipendenti. E un contribuente su due dice di guadagnare una cifra sotto i 15 mila euro”
di Tonia Mastrobuoni

È urgente spostare il carico fiscale dai dipendenti e dalle imprese alle rendite e ai patrimoni Luca Montezemolo Presidente Ntv I dati resi noti oggi dal ministero delle Finanze sono l’eterna raffigurazione della vergogna dell’evasione fiscale Pier Luigi Bersani Segretario nazionale del Pd
Nel 2010 un contribuente italiano su due ha dichiarato al fisco meno di 15 mila euro. Si tratta di 20,2 milioni di persone, delle quali 14 milioni un terzo del totale si mettono in tasca ogni anno addirittura meno di 10 mila euro. Un altro 30 per cento dice di guadagnare tra 15 e 26 mila euro e il 20 per cento arriva a 100 mila. Soltanto lo 0,07 per cento degli italiani che arriva a compilare la dichiarazione dei redditi incassa più di 300 mila euro: si tratta di appena 30 mila persone Ma tra i dati forniti ieri dal ministero dell’Economia, non sono questi a far cascare la mascella, simili peraltro a quelli degli anni precedenti, ma quelli che riguardano le singole categorie di lavoratori.
Anzitutto, desta un lieve sospetto anche il livello medio di stipendio degli italiani: 19.250 euro. Ma se si va poi nel dettaglio delle tipologie di reddito, i paradossi diventano lampanti: i lavoratori dipendenti guadagnano più degli imprenditori. Mentre gli autonomi guadagnano in media 41.320 euro e sulla carta sono i più «ricchi», i dipendenti possono contare su neanche metà di quella cifra, 19.810 euro e dichiarano più dei loro «padroni», degli imprenditori, che si fermano a 18.170 euro. I pensionati hanno un assegno che annualmente totalizza 14.980 euro mentre il reddito medio da partecipazione è di 16.500 euro.
C’è di più. Quasi 11 milioni di italiani, il 10,7 per cento del totale dei contribuenti, dichiara zero, non paga un centesimo di Irpef. Si tratta di contribuenti a basso reddito che possono contare sulle soglie di esenzione o la cui imposta lorda si azzera con le numerose detrazioni del Fisco.
Quanto alla distribuzione territoriale, è la Lombardia la regione con reddito medio complessivo più elevato (22.710 euro), seguita dal Lazio (21.720 euro), mentre la Calabria ha il reddito medio più basso con 13.970 euro.
Un aspetto positivo è che la crisi non ha impedito a 915 mila italiani di fare donazioni alle onlus, alle organizzazioni senza scopo di lucro. Ed è altrettanto importante notare, come emerge da un dossier preparato dal ministero che c’è stato un «aumento del numero dei contribuenti (+18 mila circa) che ha sostenuto spese per addetti all’assistenza personale (badanti), con un incremento del 21,8% dell’ammontare totale di tali spese». Un altro dettaglio interessante è che gli sconti Irpef hanno consentito di dedurre o detrarre dalle tasse ben 50 miliardi di euro. Gli oneri deducibili quelli che vengono tagliati dall’imponibile complessivo sono stati pari a 22 miliardi di euro, mentre gli oneri detraibili quelli cancellabili una volta ottenuta l’imposta hanno pesato per 28 miliardi. Infine, il fisco rende noto che c’è stato un «forte aumento» delle spese per la riqualificazione energetica detraibili al 55% (+23%) e delle spese per il recupero edilizio detraibili al 36% (+12%) ».
Numerose le reazioni dal mondo politico e sindacale. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha osservato che è indispensabile mettere in campo «nuove politiche per la crescita e lo sviluppo» e favorire così «l’occupazione». Ma soprattutto «non si deve esitare a proseguire nel cammino delle riforme», ma sempre con «la necessaria severità fiscale».
Molto dura la reazione di Pier Luigi Bersani, che ha parlato dell’«eterna raffigurazione della vergogna dell’evasione fiscale». Secondo il segretario del Partito democratico «resta il punto principale per riprendere la strada della crescita». Cisl e Uil hanno chiesto un provvedimento per abbassare le tasse ai lavoratori e ai pensionati mentre Luca Montezemolo ha chiesto di spostare il carico fiscale «dal lavoro e dalla produzione alle rendite e ai patrimoni».

La Stampa 31.03.12

"Ma l'Italia resta in balia dello spread", di Franco Bruni

Le decisioni dell’Eurogruppo di ieri avvicinano la creazione del fondo permanente per il contrasto delle crisi dei debiti pubblici dell’area dell’euro: il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), finanziato dai governi. E’ ora più chiara la relazione fra il Mes e i fondi provvisori già utilizzati per aiutare l’Irlanda, il Portogallo e la Grecia. Nell’insieme raggiungeranno una capacità di intervento di 800 miliardi di euro. I governi hanno anche deciso di accelerare il versamento al Mes del capitale sulla base del quale potrà indebitarsi sui mercati globali e intervenire a favore dei Paesi in difficoltà; vi è poi l’impegno dell’Eurogruppo a ulteriori contributi a favore degli interventi anti-crisi del Fmi, che collaborerà col fondo europeo.
È opinione diffusa che il Mes non aggiunga abbastanza alla dimensione potenziale degli interventi anti-crisi. Speriamo che i mercati si convincano invece che la dimensione è sufficiente a rafforzare la stabilità dell’area dell’euro nel medio termine.

Solo allora la speculazione sarà scoraggiata e gli interventi effettivamente necessari saranno minori di quelli possibili. Ma l’attenzione dei politici, degli operatori e dell’opinione pubblica si è finora concentrata troppo sulla questione del volume di fondi a disposizione, trascurando altri importanti aspetti del Mes. Guardiamone due, uno positivo, l’altro negativo.

In positivo va detto che il Mes concretizza un vero e proprio meccanismo di solidarietà fra i governi dell’area dell’euro. Essi mettono a rischio i soldi dei loro contribuenti per acquistare quote di capitale di un singolo, grande intermediario, che aiuterà gli stessi governi quando avranno difficoltà nel rifinanziamento dei loro debiti. E’ un rischio che i governi corrono congiuntamente e senza che siano predeterminati i futuri beneficiari degli aiuti. Chi è più grande rischia di più: la Germania verserà più di un quarto del capitale del fondo, la Francia un quinto, l’Italia il 18%. Non solo: se un governo avrà difficoltà a versare la sua quota, gli altri subentreranno temporaneamente al suo impegno.

Il principio di solidarietà, indispensabile per la stabilità finanziaria europea, non si è mai concretizzato in modo così esplicito. Occorrerà prima o poi andare oltre, fino a organizzare un grado di accentramento delle decisioni di finanza pubblica che consenta l’emissione di veri eurobond. Ma la costituzione del Mes è un passo politicamente cruciale. Ancor meglio sarebbe se almeno parte dei prestiti del fondo non godessero del privilegio di essere rimborsati prima dei creditori privati nel caso di default dei governi: infatti il privilegio attenua la solidarietà e aumenta il rischio dei titoli pubblici in mani private.

Fra gli aspetti negativi del Mes viene troppo poco discusso il fatto che il fondo potrà intervenire solo in supporto di singoli governi le cui crisi debitorie mostrino specifiche debolezze e che prendano l’impegno di correggerle. Non potrà invece decidere interventi di sua iniziativa a sostegno di titoli di Stato di Paesi le cui difficoltà non derivino tanto da loro manchevolezze quanto da turbolenze speculative che colpiscano i mercati internazionali nel loro insieme, cioè un sistema molto interconnesso dove la stabilità di tutti dipende da quella di tutti gli altri.

Questo aspetto è particolarmente importante per l’Italia. Supponiamo di riuscire ad annullare presto il nostro deficit e a mantenere disciplina di bilancio: ciononostante l’ammontare di debito pubblico italiano rimarrà ingente per più di un decennio. I nostri titoli restano perciò fra quelli acquistati meno volentieri quando nel mondo succede qualcosa che fa diminuire la propensione al rischio degli investitori. Gli speculatori possono allora esasperare l’aumento del nostro «spread». Anche senza alcuna nostra colpa: per esempio, se il Portogallo si avvicina al default, se la Francia litiga con la Germania sui Trattati dell’euro, se ci sono violente uscite di capitali dall’Est Europa, se fallisce una banca inglese, se la politica Usa mette in crisi il dollaro, se precipita la congiuntura cinese, e così via.

All’Italia servirebbe un fondo autorizzato, sulla base di una sua analisi dell’intrecciarsi dei rischi internazionali, a intervenire a sostegno dei nostri titoli pubblici, senza che il nostro governo, per ipotesi virtuoso e coi conti in ordine, debba far la figura del debole indisciplinato chiedendo aiuto al Mes promettendo chissà quale maggior virtù. Invece il Mes potrà concedere linee di credito preventive, ma in forme inadeguate ad affrontare tempestivamente le turbolenze sistemiche.

Contro le quali rimane dunque solo la Bce. Ma lo scopo del Mes è anche quello di sollevare la Bce dal compito improprio di pagare i conti dei governi. Il problema è che, per aver poteri di iniziativa autonoma, il fondo dovrebbe essere un organo sovrannazionale con un profilo di autonomia simile a quello della Bce. I politici degli Stati membri non sono ancora pronti a questo genere di delega, che implicherebbe l’amministrazione di capitale versato con soldi dei contribuenti. Speriamo che ciò non significhi sacrificare anche l’autonomia della Bce obbligandola a mettere i problemi sotto il tappeto col trucco della creazione di moneta.

La Stampa 31.03.12

“Ma l’Italia resta in balia dello spread”, di Franco Bruni

Le decisioni dell’Eurogruppo di ieri avvicinano la creazione del fondo permanente per il contrasto delle crisi dei debiti pubblici dell’area dell’euro: il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), finanziato dai governi. E’ ora più chiara la relazione fra il Mes e i fondi provvisori già utilizzati per aiutare l’Irlanda, il Portogallo e la Grecia. Nell’insieme raggiungeranno una capacità di intervento di 800 miliardi di euro. I governi hanno anche deciso di accelerare il versamento al Mes del capitale sulla base del quale potrà indebitarsi sui mercati globali e intervenire a favore dei Paesi in difficoltà; vi è poi l’impegno dell’Eurogruppo a ulteriori contributi a favore degli interventi anti-crisi del Fmi, che collaborerà col fondo europeo.
È opinione diffusa che il Mes non aggiunga abbastanza alla dimensione potenziale degli interventi anti-crisi. Speriamo che i mercati si convincano invece che la dimensione è sufficiente a rafforzare la stabilità dell’area dell’euro nel medio termine.

Solo allora la speculazione sarà scoraggiata e gli interventi effettivamente necessari saranno minori di quelli possibili. Ma l’attenzione dei politici, degli operatori e dell’opinione pubblica si è finora concentrata troppo sulla questione del volume di fondi a disposizione, trascurando altri importanti aspetti del Mes. Guardiamone due, uno positivo, l’altro negativo.

In positivo va detto che il Mes concretizza un vero e proprio meccanismo di solidarietà fra i governi dell’area dell’euro. Essi mettono a rischio i soldi dei loro contribuenti per acquistare quote di capitale di un singolo, grande intermediario, che aiuterà gli stessi governi quando avranno difficoltà nel rifinanziamento dei loro debiti. E’ un rischio che i governi corrono congiuntamente e senza che siano predeterminati i futuri beneficiari degli aiuti. Chi è più grande rischia di più: la Germania verserà più di un quarto del capitale del fondo, la Francia un quinto, l’Italia il 18%. Non solo: se un governo avrà difficoltà a versare la sua quota, gli altri subentreranno temporaneamente al suo impegno.

Il principio di solidarietà, indispensabile per la stabilità finanziaria europea, non si è mai concretizzato in modo così esplicito. Occorrerà prima o poi andare oltre, fino a organizzare un grado di accentramento delle decisioni di finanza pubblica che consenta l’emissione di veri eurobond. Ma la costituzione del Mes è un passo politicamente cruciale. Ancor meglio sarebbe se almeno parte dei prestiti del fondo non godessero del privilegio di essere rimborsati prima dei creditori privati nel caso di default dei governi: infatti il privilegio attenua la solidarietà e aumenta il rischio dei titoli pubblici in mani private.

Fra gli aspetti negativi del Mes viene troppo poco discusso il fatto che il fondo potrà intervenire solo in supporto di singoli governi le cui crisi debitorie mostrino specifiche debolezze e che prendano l’impegno di correggerle. Non potrà invece decidere interventi di sua iniziativa a sostegno di titoli di Stato di Paesi le cui difficoltà non derivino tanto da loro manchevolezze quanto da turbolenze speculative che colpiscano i mercati internazionali nel loro insieme, cioè un sistema molto interconnesso dove la stabilità di tutti dipende da quella di tutti gli altri.

Questo aspetto è particolarmente importante per l’Italia. Supponiamo di riuscire ad annullare presto il nostro deficit e a mantenere disciplina di bilancio: ciononostante l’ammontare di debito pubblico italiano rimarrà ingente per più di un decennio. I nostri titoli restano perciò fra quelli acquistati meno volentieri quando nel mondo succede qualcosa che fa diminuire la propensione al rischio degli investitori. Gli speculatori possono allora esasperare l’aumento del nostro «spread». Anche senza alcuna nostra colpa: per esempio, se il Portogallo si avvicina al default, se la Francia litiga con la Germania sui Trattati dell’euro, se ci sono violente uscite di capitali dall’Est Europa, se fallisce una banca inglese, se la politica Usa mette in crisi il dollaro, se precipita la congiuntura cinese, e così via.

All’Italia servirebbe un fondo autorizzato, sulla base di una sua analisi dell’intrecciarsi dei rischi internazionali, a intervenire a sostegno dei nostri titoli pubblici, senza che il nostro governo, per ipotesi virtuoso e coi conti in ordine, debba far la figura del debole indisciplinato chiedendo aiuto al Mes promettendo chissà quale maggior virtù. Invece il Mes potrà concedere linee di credito preventive, ma in forme inadeguate ad affrontare tempestivamente le turbolenze sistemiche.

Contro le quali rimane dunque solo la Bce. Ma lo scopo del Mes è anche quello di sollevare la Bce dal compito improprio di pagare i conti dei governi. Il problema è che, per aver poteri di iniziativa autonoma, il fondo dovrebbe essere un organo sovrannazionale con un profilo di autonomia simile a quello della Bce. I politici degli Stati membri non sono ancora pronti a questo genere di delega, che implicherebbe l’amministrazione di capitale versato con soldi dei contribuenti. Speriamo che ciò non significhi sacrificare anche l’autonomia della Bce obbligandola a mettere i problemi sotto il tappeto col trucco della creazione di moneta.

La Stampa 31.03.12

“Ma l’Italia resta in balia dello spread”, di Franco Bruni

Le decisioni dell’Eurogruppo di ieri avvicinano la creazione del fondo permanente per il contrasto delle crisi dei debiti pubblici dell’area dell’euro: il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), finanziato dai governi. E’ ora più chiara la relazione fra il Mes e i fondi provvisori già utilizzati per aiutare l’Irlanda, il Portogallo e la Grecia. Nell’insieme raggiungeranno una capacità di intervento di 800 miliardi di euro. I governi hanno anche deciso di accelerare il versamento al Mes del capitale sulla base del quale potrà indebitarsi sui mercati globali e intervenire a favore dei Paesi in difficoltà; vi è poi l’impegno dell’Eurogruppo a ulteriori contributi a favore degli interventi anti-crisi del Fmi, che collaborerà col fondo europeo.
È opinione diffusa che il Mes non aggiunga abbastanza alla dimensione potenziale degli interventi anti-crisi. Speriamo che i mercati si convincano invece che la dimensione è sufficiente a rafforzare la stabilità dell’area dell’euro nel medio termine.

Solo allora la speculazione sarà scoraggiata e gli interventi effettivamente necessari saranno minori di quelli possibili. Ma l’attenzione dei politici, degli operatori e dell’opinione pubblica si è finora concentrata troppo sulla questione del volume di fondi a disposizione, trascurando altri importanti aspetti del Mes. Guardiamone due, uno positivo, l’altro negativo.

In positivo va detto che il Mes concretizza un vero e proprio meccanismo di solidarietà fra i governi dell’area dell’euro. Essi mettono a rischio i soldi dei loro contribuenti per acquistare quote di capitale di un singolo, grande intermediario, che aiuterà gli stessi governi quando avranno difficoltà nel rifinanziamento dei loro debiti. E’ un rischio che i governi corrono congiuntamente e senza che siano predeterminati i futuri beneficiari degli aiuti. Chi è più grande rischia di più: la Germania verserà più di un quarto del capitale del fondo, la Francia un quinto, l’Italia il 18%. Non solo: se un governo avrà difficoltà a versare la sua quota, gli altri subentreranno temporaneamente al suo impegno.

Il principio di solidarietà, indispensabile per la stabilità finanziaria europea, non si è mai concretizzato in modo così esplicito. Occorrerà prima o poi andare oltre, fino a organizzare un grado di accentramento delle decisioni di finanza pubblica che consenta l’emissione di veri eurobond. Ma la costituzione del Mes è un passo politicamente cruciale. Ancor meglio sarebbe se almeno parte dei prestiti del fondo non godessero del privilegio di essere rimborsati prima dei creditori privati nel caso di default dei governi: infatti il privilegio attenua la solidarietà e aumenta il rischio dei titoli pubblici in mani private.

Fra gli aspetti negativi del Mes viene troppo poco discusso il fatto che il fondo potrà intervenire solo in supporto di singoli governi le cui crisi debitorie mostrino specifiche debolezze e che prendano l’impegno di correggerle. Non potrà invece decidere interventi di sua iniziativa a sostegno di titoli di Stato di Paesi le cui difficoltà non derivino tanto da loro manchevolezze quanto da turbolenze speculative che colpiscano i mercati internazionali nel loro insieme, cioè un sistema molto interconnesso dove la stabilità di tutti dipende da quella di tutti gli altri.

Questo aspetto è particolarmente importante per l’Italia. Supponiamo di riuscire ad annullare presto il nostro deficit e a mantenere disciplina di bilancio: ciononostante l’ammontare di debito pubblico italiano rimarrà ingente per più di un decennio. I nostri titoli restano perciò fra quelli acquistati meno volentieri quando nel mondo succede qualcosa che fa diminuire la propensione al rischio degli investitori. Gli speculatori possono allora esasperare l’aumento del nostro «spread». Anche senza alcuna nostra colpa: per esempio, se il Portogallo si avvicina al default, se la Francia litiga con la Germania sui Trattati dell’euro, se ci sono violente uscite di capitali dall’Est Europa, se fallisce una banca inglese, se la politica Usa mette in crisi il dollaro, se precipita la congiuntura cinese, e così via.

All’Italia servirebbe un fondo autorizzato, sulla base di una sua analisi dell’intrecciarsi dei rischi internazionali, a intervenire a sostegno dei nostri titoli pubblici, senza che il nostro governo, per ipotesi virtuoso e coi conti in ordine, debba far la figura del debole indisciplinato chiedendo aiuto al Mes promettendo chissà quale maggior virtù. Invece il Mes potrà concedere linee di credito preventive, ma in forme inadeguate ad affrontare tempestivamente le turbolenze sistemiche.

Contro le quali rimane dunque solo la Bce. Ma lo scopo del Mes è anche quello di sollevare la Bce dal compito improprio di pagare i conti dei governi. Il problema è che, per aver poteri di iniziativa autonoma, il fondo dovrebbe essere un organo sovrannazionale con un profilo di autonomia simile a quello della Bce. I politici degli Stati membri non sono ancora pronti a questo genere di delega, che implicherebbe l’amministrazione di capitale versato con soldi dei contribuenti. Speriamo che ciò non significhi sacrificare anche l’autonomia della Bce obbligandola a mettere i problemi sotto il tappeto col trucco della creazione di moneta.

La Stampa 31.03.12