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“Un esercito di lavoratori beffati senz´assegno o senza contributi e ora il governo studia un sussidio”, di Luisa Grion

Il ricongiungimento all´Inps non è più gratuito E c´è chi dovrebbe pagare centinaia di migliaia di euro per realizzarlo. Palazzo Chigi lavora a un assegno sul modello dell´Aspi. Ma ci sono dei dubbi sui tempi ed anche sulla copertura economica. Da una parte ci sono i “beffati” dalla regole sulle nuove pensioni, dall´altra i “dannati” dei contributi. E su queste due categorie che si concentrerà la manifestazione unitaria fissata dai sindacati per il 13 aprile: i cosiddetti “esodati” da una parte e i “ricongiungimenti onerosi”, dall´altra. I primi rischiano di restare per anni senza ammortizzatori e senza pensione; i secondi di percepire assegni dimezzati rispetto a quanto avevano calcolato in base ai contributi versati. A meno che non si preparino a sborsare all´Inps centinaia di migliaia di euro. La questione degli “esodati” riguarda – stima non ufficiale, ma plausibile – circa 350 mila lavoratori. Si tratta di quei dipendenti che sono stati incentivati ad uscire dall´azienda con la prospettiva di una copertura da mobilità e disoccupazione fino al raggiungimento dell´età pensionabile. I calcoli però erano stati effettuati sulle vecchie regole: il passaggio dell´età minima a 66-67 anni ha sconvolto ogni previsione. Come sopravvivere agli anni di “buco”? Il decreto Salva Italia, in realtà, si era posto il problema e aveva stanziato un fondo ad hoc. Il fatto è che il governo aveva sottostimato la platea limitandola a circa 60 mila casi, mentre un emendamento l´ha allargata a tutti gli aventi diritto: le risorse stanziate sono però rimaste le stesse. Il ministro del Lavoro ha promesso che se ne occuperà per decreto entro la fine di giugno, dopo averne discusso con i sindacati. La soluzione potrebbe essere un assegno tipo Aspi. Ma i soldi (e i tempi di copertura) basteranno? Quanto ai “ricongiungimenti onerosi”, il caso riguarda chi – nel corso della sua vita lavorativa – ha cambiato azienda e ha versato i contributi in due diverse casse previdenziali. Per esempio prima l´Inpdap, poi l´Inps. La legge che prevedeva il ricongiungimento gratuito all´Inps è stata abolita nel 2010 (perché aumentando l´età pensionabile delle sole statali si temeva un loro esodo di massa verso le più “convenienti” braccia dell´Inps). Ora il ricongiungimento è diventato oneroso ed è carissimo: chi vuole l´intera pensione deve pagare fino a 300 mila euro. Altrimenti può scegliere di rinunciare alla quota maturata con il retributivo, ma l´assegno risulterà quasi dimezzato.

La Repubblica 29.03.12

"Torna il collegio. Via le coalizioni. La nuova legge stile Berlino", di Andrea Carugati

Intesa più solida sulle riforme costituzionali, pronte a partire in Senato tra due settimane. Complicazioni sulla legge elettorale alla tedesca, ma il mini premio al partito più votato è favorito sul correttivo spagnolo. Passi in avanti più decisi sulla riforma costituzionale, ancora qualche incertezza sul nuovo sistema elettorale tedesco corretto.
Dopo il vertice dei tre segretari Pd-Pdl-Udc, che ha dato il via libera allo schema di intesa sulle riforme, procede il lavoro degli esperti che stanno mettendo a punto il testo delle nuove norme che modificheranno il funzionamento del sistema politico. Il primo pacchetto di riforme costituzionali dovrebbe iniziare il suo percorso in Senato già tra 15 giorni, sotto forma di emendamenti ai testi di riforma già incardinati.
LA RIFORMA COSTITUZIONALE
I deputati passano da 630 a 500 (più 8 eletti nelle circoscrizioni Estero) e i senatori da 315 a 250 (più 4 eletti all’estero). Si riduce l’età per l’elettorato attivo e passivo: sarà eleggibile alla Camera chi ha compiuto 21 anni e al Senato chi ha almeno 35 anni. La riforma introduce anche il cosiddetto “bicameralismo eventuale”: sarà la Camera ad occuparsi delle materie di «esclusiva competenza dello Stato», mentre palazzo Madama sarà competente per le materie di «potestà legislativa concorrente» tra Stato e Regioni. Dunque, le leggi saranno approvata da una sola Camera,
salvo che l’altra, entro 15 giorni (e attraverso il voto del 30% dei suoi componenti) non richiami a sè la legge in questione.
La bozza prevede anche un rafforzamento del ruolo dell’esecutivo. Il presidente del Consiglio potrà proporre al Presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri e chiedere al capo dello Stato lo scioglimento delle Camere a meno che le Camere, entro 15 giorni, non approvino la mozione di sfiducia costruttiva che deve essere sottoscritta da almeno un terzo dei componenti di ciascuna Camera e contenere l’indicazione del nuovo premier. Inoltre, il governo potrà chiedere che un disegno di legge sia inserito con priorità all’ordine del giorno della Camera che dovrà rispettare termini stabiliti per l’esame e per approvazione.
Resta aperta una questione: a concedere e revocare la fiducia al governo potrebbe essere la sola Camera dei deputati. La proposta è sostenuta con forza dall’Udc, ma finora non si è arrivati ad una intesa.
LA NUOVA LEGGE ELETTORALE
Qualche complicazione in più sul nuovo sistema elettorale, che necessità, come ha confermato Luciano Violante, di una ulteriore messa a punto. Lo schema però è abbastanza chiaro: metà dei deputati eletti in collegi uninominali e metà in liste bloccate, di piccole dimensioni, per favorire la riconoscibilità dei candidati. Nonostante la presenza dei collegi, che favorisce il rapporto eletto-elettore, l’impianto del sistema, come in Germania, è proporzionale: ogni partito prende un numero di seggi in rapporto ai voti ricevuti. Ci sarà poi una soglia di sbarramento al 4 o 5%, e un «diritto di tribuna» per le forze che non la supereranno. Il punto chiave è la fine delle coalizioni preventive che hanno caratterizzato la seconda Repubblica: questo sistema, eliminando il premio di maggioranza, non favorisce più le coalizioni. Ma non elimina la facoltà dei partiti di dichiarare prima del voto le proprie alleanze.
Sulla unica scheda, l’elettore troverà il nome dei candidati nel collegio uninominale con il simbolo dei rispettivi partiti. Non è ancora stabilito se le liste di ogni partito (con 3-4 nomi per la parte proporzionale) saranno stampate sulla scheda. Ci sono diversi punti aperti. Il primo è l’indicazione sulla scheda del nome del
candidato premier, fortemente voluta dal Pdl. Altro nodo irrisolto riguarda la correzione in senso bipolare del sistema. Il correttivo “spagnolo” lavora sulla dimensione delle circoscrizioni: se il numero di eletti per ogni circoscrizione non supera i 14, si ha “naturalmente” un meccanismo che favorisce i partiti maggiori e penalizza lievemente quelli più piccoli. Se invece, come pare più probabile, la scelta cadrà su un collegio unico nazionale, dunque perfettamente proporzionale, l’ipotesi allo studio è di assegnare un mini premio di maggioranza (36 seggi) al partito più votato, o in aggiunta un ulteriore mini premio al secondo classificato.

L’Unità 29.03.12

“Torna il collegio. Via le coalizioni. La nuova legge stile Berlino”, di Andrea Carugati

Intesa più solida sulle riforme costituzionali, pronte a partire in Senato tra due settimane. Complicazioni sulla legge elettorale alla tedesca, ma il mini premio al partito più votato è favorito sul correttivo spagnolo. Passi in avanti più decisi sulla riforma costituzionale, ancora qualche incertezza sul nuovo sistema elettorale tedesco corretto.
Dopo il vertice dei tre segretari Pd-Pdl-Udc, che ha dato il via libera allo schema di intesa sulle riforme, procede il lavoro degli esperti che stanno mettendo a punto il testo delle nuove norme che modificheranno il funzionamento del sistema politico. Il primo pacchetto di riforme costituzionali dovrebbe iniziare il suo percorso in Senato già tra 15 giorni, sotto forma di emendamenti ai testi di riforma già incardinati.
LA RIFORMA COSTITUZIONALE
I deputati passano da 630 a 500 (più 8 eletti nelle circoscrizioni Estero) e i senatori da 315 a 250 (più 4 eletti all’estero). Si riduce l’età per l’elettorato attivo e passivo: sarà eleggibile alla Camera chi ha compiuto 21 anni e al Senato chi ha almeno 35 anni. La riforma introduce anche il cosiddetto “bicameralismo eventuale”: sarà la Camera ad occuparsi delle materie di «esclusiva competenza dello Stato», mentre palazzo Madama sarà competente per le materie di «potestà legislativa concorrente» tra Stato e Regioni. Dunque, le leggi saranno approvata da una sola Camera,
salvo che l’altra, entro 15 giorni (e attraverso il voto del 30% dei suoi componenti) non richiami a sè la legge in questione.
La bozza prevede anche un rafforzamento del ruolo dell’esecutivo. Il presidente del Consiglio potrà proporre al Presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri e chiedere al capo dello Stato lo scioglimento delle Camere a meno che le Camere, entro 15 giorni, non approvino la mozione di sfiducia costruttiva che deve essere sottoscritta da almeno un terzo dei componenti di ciascuna Camera e contenere l’indicazione del nuovo premier. Inoltre, il governo potrà chiedere che un disegno di legge sia inserito con priorità all’ordine del giorno della Camera che dovrà rispettare termini stabiliti per l’esame e per approvazione.
Resta aperta una questione: a concedere e revocare la fiducia al governo potrebbe essere la sola Camera dei deputati. La proposta è sostenuta con forza dall’Udc, ma finora non si è arrivati ad una intesa.
LA NUOVA LEGGE ELETTORALE
Qualche complicazione in più sul nuovo sistema elettorale, che necessità, come ha confermato Luciano Violante, di una ulteriore messa a punto. Lo schema però è abbastanza chiaro: metà dei deputati eletti in collegi uninominali e metà in liste bloccate, di piccole dimensioni, per favorire la riconoscibilità dei candidati. Nonostante la presenza dei collegi, che favorisce il rapporto eletto-elettore, l’impianto del sistema, come in Germania, è proporzionale: ogni partito prende un numero di seggi in rapporto ai voti ricevuti. Ci sarà poi una soglia di sbarramento al 4 o 5%, e un «diritto di tribuna» per le forze che non la supereranno. Il punto chiave è la fine delle coalizioni preventive che hanno caratterizzato la seconda Repubblica: questo sistema, eliminando il premio di maggioranza, non favorisce più le coalizioni. Ma non elimina la facoltà dei partiti di dichiarare prima del voto le proprie alleanze.
Sulla unica scheda, l’elettore troverà il nome dei candidati nel collegio uninominale con il simbolo dei rispettivi partiti. Non è ancora stabilito se le liste di ogni partito (con 3-4 nomi per la parte proporzionale) saranno stampate sulla scheda. Ci sono diversi punti aperti. Il primo è l’indicazione sulla scheda del nome del
candidato premier, fortemente voluta dal Pdl. Altro nodo irrisolto riguarda la correzione in senso bipolare del sistema. Il correttivo “spagnolo” lavora sulla dimensione delle circoscrizioni: se il numero di eletti per ogni circoscrizione non supera i 14, si ha “naturalmente” un meccanismo che favorisce i partiti maggiori e penalizza lievemente quelli più piccoli. Se invece, come pare più probabile, la scelta cadrà su un collegio unico nazionale, dunque perfettamente proporzionale, l’ipotesi allo studio è di assegnare un mini premio di maggioranza (36 seggi) al partito più votato, o in aggiunta un ulteriore mini premio al secondo classificato.

L’Unità 29.03.12

“Torna il collegio. Via le coalizioni. La nuova legge stile Berlino”, di Andrea Carugati

Intesa più solida sulle riforme costituzionali, pronte a partire in Senato tra due settimane. Complicazioni sulla legge elettorale alla tedesca, ma il mini premio al partito più votato è favorito sul correttivo spagnolo. Passi in avanti più decisi sulla riforma costituzionale, ancora qualche incertezza sul nuovo sistema elettorale tedesco corretto.
Dopo il vertice dei tre segretari Pd-Pdl-Udc, che ha dato il via libera allo schema di intesa sulle riforme, procede il lavoro degli esperti che stanno mettendo a punto il testo delle nuove norme che modificheranno il funzionamento del sistema politico. Il primo pacchetto di riforme costituzionali dovrebbe iniziare il suo percorso in Senato già tra 15 giorni, sotto forma di emendamenti ai testi di riforma già incardinati.
LA RIFORMA COSTITUZIONALE
I deputati passano da 630 a 500 (più 8 eletti nelle circoscrizioni Estero) e i senatori da 315 a 250 (più 4 eletti all’estero). Si riduce l’età per l’elettorato attivo e passivo: sarà eleggibile alla Camera chi ha compiuto 21 anni e al Senato chi ha almeno 35 anni. La riforma introduce anche il cosiddetto “bicameralismo eventuale”: sarà la Camera ad occuparsi delle materie di «esclusiva competenza dello Stato», mentre palazzo Madama sarà competente per le materie di «potestà legislativa concorrente» tra Stato e Regioni. Dunque, le leggi saranno approvata da una sola Camera,
salvo che l’altra, entro 15 giorni (e attraverso il voto del 30% dei suoi componenti) non richiami a sè la legge in questione.
La bozza prevede anche un rafforzamento del ruolo dell’esecutivo. Il presidente del Consiglio potrà proporre al Presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri e chiedere al capo dello Stato lo scioglimento delle Camere a meno che le Camere, entro 15 giorni, non approvino la mozione di sfiducia costruttiva che deve essere sottoscritta da almeno un terzo dei componenti di ciascuna Camera e contenere l’indicazione del nuovo premier. Inoltre, il governo potrà chiedere che un disegno di legge sia inserito con priorità all’ordine del giorno della Camera che dovrà rispettare termini stabiliti per l’esame e per approvazione.
Resta aperta una questione: a concedere e revocare la fiducia al governo potrebbe essere la sola Camera dei deputati. La proposta è sostenuta con forza dall’Udc, ma finora non si è arrivati ad una intesa.
LA NUOVA LEGGE ELETTORALE
Qualche complicazione in più sul nuovo sistema elettorale, che necessità, come ha confermato Luciano Violante, di una ulteriore messa a punto. Lo schema però è abbastanza chiaro: metà dei deputati eletti in collegi uninominali e metà in liste bloccate, di piccole dimensioni, per favorire la riconoscibilità dei candidati. Nonostante la presenza dei collegi, che favorisce il rapporto eletto-elettore, l’impianto del sistema, come in Germania, è proporzionale: ogni partito prende un numero di seggi in rapporto ai voti ricevuti. Ci sarà poi una soglia di sbarramento al 4 o 5%, e un «diritto di tribuna» per le forze che non la supereranno. Il punto chiave è la fine delle coalizioni preventive che hanno caratterizzato la seconda Repubblica: questo sistema, eliminando il premio di maggioranza, non favorisce più le coalizioni. Ma non elimina la facoltà dei partiti di dichiarare prima del voto le proprie alleanze.
Sulla unica scheda, l’elettore troverà il nome dei candidati nel collegio uninominale con il simbolo dei rispettivi partiti. Non è ancora stabilito se le liste di ogni partito (con 3-4 nomi per la parte proporzionale) saranno stampate sulla scheda. Ci sono diversi punti aperti. Il primo è l’indicazione sulla scheda del nome del
candidato premier, fortemente voluta dal Pdl. Altro nodo irrisolto riguarda la correzione in senso bipolare del sistema. Il correttivo “spagnolo” lavora sulla dimensione delle circoscrizioni: se il numero di eletti per ogni circoscrizione non supera i 14, si ha “naturalmente” un meccanismo che favorisce i partiti maggiori e penalizza lievemente quelli più piccoli. Se invece, come pare più probabile, la scelta cadrà su un collegio unico nazionale, dunque perfettamente proporzionale, l’ipotesi allo studio è di assegnare un mini premio di maggioranza (36 seggi) al partito più votato, o in aggiunta un ulteriore mini premio al secondo classificato.

L’Unità 29.03.12

De Mauro: "L'istruzione verso la distruzione", di Matteo Nucci

Il grande linguista, scrittore ed ex ministro festeggia sabato 80 anni e parla della situazione della scuola, della cultura e della ricerca in Italia. «A inizio Novecento, Giolitti capì che il Paese aveva bisogno di istruzione. Da Presidente del Consiglio, scelse un ministro forte, Vittorio Emanuele Orlando, e nacque la scuola elementare italiana. Oggi, avremmo bisogno di un capo del governo del genere, uno che in prima persona voglia reimpostare la politica scolastica e culturale del Paese. Per puntare davvero sulla produttività. Mi pare però che ne siamo ben lontani». Tullio De Mauro compie sabato 80 anni (domani la Sapienza gli dedica una giornata di studio dalle 9 alle ex vetrerie Sciarra di via dei Volsci 122) e festeggia facendo quel che ha sempre fatto. Massimo linguista italiano, Ministro dell’istruzione per tredici mesi, non ha mai smesso di riflettere sullo stato di salute del sistema scolastico e universitario italiano. E oggi dice: «La scuola può salvarsi. L’Università l’hanno fatta a pezzi. Della ricerca è quasi inutile parlare. È evidente a moltissimi esperti di economia che stiamo già pagando, in termini di produttività, un deficit di ricerca. Ma nessun politico ne parla. Eppure all’estero, Sarkozy e Hollande si sfidano sull’istruzione; Obama per vincere punta sull’istruzione; la Merkel taglia i fondi su tutti i settori e quel che risparmia lo redistribuisce all’Istruzione. Qui invece si demanda a un ministro come se fosse materia di un solo ministero. Da Monti non ho sentito una parola. E, per la verità, non ne ho sentita una da nessun altro politico, con l’eccezione, davvero solo verbale, di Vendola».
Ma cominciamo dall’inizio, Professore. Il suo ultimo libro, Parole di giorni un po’ meno lontani edito da il Mulino è un intreccio di ricordi linguistici dominato da maestri, insegnanti, professori, scuole, licei, università. Partiamo dalla scuola, allora.
«La scuola è un corpaccio così grosso e forte che può prendere colpi e cazzotti, può subire tagli e riduzioni, ma resiste. Non che siano stati poco gravi i colpi inferti. Ma la scuola si assesta e va avanti. Porta risultati e profitti. Anche se i genitori a metà anno devono procurare la carta igienica».
E l’Università?
«È stata fatta a pezzi. Oltre ai tagli dei finanziamenti, sono due le mosse che sembrano studiate per distruggerla. La prima è una norma: ogni cinque professori che vanno in pensione se ne chiama solo uno. Questo significa che si stronca il funzionamento delle facoltà. Se vanno in pensione un archeologo, uno storico medievale e uno moderno, un glottologo e un italianista, io chi chiamo? Cinque lavori molto diversi. Quattro li elimino. Quali? E perché? Ma vede, c’è un altro problema enorme. I professori oggi passano il loro tempo a studiare normative che richiedono continui adempimenti. Da tre anni sono letteralmente sommersi da regolamenti complicati, di incerta interpretazione e che si accavallano gli uni sugli altri costringendoli a un lavoro del tutto estraneo al loro mestiere. Walter Tocci, uno dei rarissimi parlamentari che si occupano della questione, ha calcolato che la cosiddetta riforma Gelmini richiederà diecimila norme tra regolamenti attuativi del Ministero e dell’Università. Insomma, si è scatenata, a ragion veduta, una tempesta burocratica. Il risultato è il coma dell’Università pubblica. Un giorno qualcuno se ne accorgerà. Forse la mitica Europa? Comunque, la ricostruzione sarà durissima».
I centri di ricerca invece in che condizioni sono?
«Si salvano i fisici che hanno creato un’oasi. Per il resto l’atrofizzazione dei centri ha portato alla dispersione o all’ammazzamento di ricercatori giovani. E qui i danni non si riparano facilmente. Rispetto al corpaccio della scuola, per la ricerca parliamo di corteccia cerebrale. Lesioni irreparabili dunque. C’è poco da essere ottimisti».
Il nuovo governo non lascia sperare?
«Si deve puntare sulla produttività, questo è evidente a tutti. Perché, diversamente, gli sforzi compiuti ora saranno inutili. Sono sorpreso che non si stia lavorando a un progetto a lungo termine. Esistono analisi dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia che, assieme al parere di molti economisti come Tito Boeri o Luigi Spaventa, ci dicono chiaramente il motivo del ristagno della produttività: l’insufficiente grado di formazione. Per tenere il passo con le grandi trasformazioni si deve investire su Università e Ricerca. Mi pare che il governo dei tecnici non stia facendo nulla e che nessuno dei politici ne sia consapevole. Soltanto Prodi ne fece una bandiera. Una parentesi brevissima»
Veniamo allo stato di salute della lingua italiana.
«La lingua sta bene. Stanno male quelli che la usano. Mi spiego. Siamo riusciti a conquistare la capacità di parlare italiano per il 95 per cento. Non siamo riusciti invece a conquistare la capacità di leggere. Leggiamo poco. Pochi giornali e pochissimi libri. I lettori sono circa un terzo della popolazione. I restanti due terzi non hanno quel retroterra di letture e formazione scolastica che garantiscono un possesso saldo della lingua. Parliamo molto e leggiamo poco. Questo incide sul modo di usare l’italiano. Si va troppo a orecchio. Però la lingua, per conto suo, sta bene».
Il prossimo anno si festeggerà un’altra ricorrenza. I cinquant’anni della Storia linguistica dell’Italia unita. Di passi se ne sono fatti.
«Il progresso è stato enorme. E ora chi parla bene italiano parla con sicurezza molto maggiore. La lingua gira a tutto regime e ne siamo più padroni rispetto alla generazione colta degli anni Quaranta. Questo si vede anche nella scrittura. Chi scrive bene scrive molto meglio. Si è persa quella rigidità, quella pomposità. L’oratoria dei pubblici ministeri, per esempio, era da caricatura».
Quanto alla semplificazione della lingua per cui lei si è molto battuto, la sfida è vinta?
«Nel parlare e nello scrivere comuni sì. Purtroppo nella comunicazione amministrativa si annidano sacche di oscurità. Le banche innanzitutto. Arrivano malloppi di pagine già materialmente illeggibili perché scritte in caratteri minuscoli. E anche se uno prende una lente, ci vogliono ore per capire. Lì forse un po’ di volontà di lasciare il cliente all’oscuro c’è».
E ci si rassegna.
«Qui viene fuori il nostro carattere. Sa, negli Stati Uniti, c’è una normativa sulla chiarezza degli atti rivolti al pubblico di Assicurazioni e Banche. Frutto del coraggio di un cittadino della Virginia che nel ‘70 portò in tribunale un’Assicurazione. Sostenne che era impossibile, al momento della firma, avere comprensione del cavillo a cui si erano appellati per non rimborsarlo. Sconfitto inizialmente, l’uomo s’impuntò e vinse. Una sentenza che ha fatto epoca. Dovuta all’etica tutta protestante di quel cittadino. Noi siamo diversi. Non sappiamo dire Io non ci sto. È lontano dalla nostra cultura antropologica».
In che senso?
«Dinanzi a una Banca, un Comune, un pezzo di Stato, ci manca il coraggio. È qualcosa che è dentro di noi. Ossia la preoccupazione che vengano a vedere se il balconcino ha troppe piante o se abbiamo le persiane non conformi a qualche regolamento comunale tra i mille. L’idea che un’Autorità pubblica possa, se còlta in fallo, ritorcersi contro di noi è qualcosa che ci portiamo dentro. Ci manca il coraggio protestante del cittadino della Virginia. Preferiamo andare dal potente e chiedere se per favore ci aiuta. È un difetto nazionale. Dovremmo tutti imparare a essere più rigorosi. Verso noi stessi, innanzitutto. Ma anche verso le persone che scegliamo e che paghiamo perché ci amministrino e ci governino».

Il Messaggero 29.03.12

De Mauro: “L’istruzione verso la distruzione”, di Matteo Nucci

Il grande linguista, scrittore ed ex ministro festeggia sabato 80 anni e parla della situazione della scuola, della cultura e della ricerca in Italia. «A inizio Novecento, Giolitti capì che il Paese aveva bisogno di istruzione. Da Presidente del Consiglio, scelse un ministro forte, Vittorio Emanuele Orlando, e nacque la scuola elementare italiana. Oggi, avremmo bisogno di un capo del governo del genere, uno che in prima persona voglia reimpostare la politica scolastica e culturale del Paese. Per puntare davvero sulla produttività. Mi pare però che ne siamo ben lontani». Tullio De Mauro compie sabato 80 anni (domani la Sapienza gli dedica una giornata di studio dalle 9 alle ex vetrerie Sciarra di via dei Volsci 122) e festeggia facendo quel che ha sempre fatto. Massimo linguista italiano, Ministro dell’istruzione per tredici mesi, non ha mai smesso di riflettere sullo stato di salute del sistema scolastico e universitario italiano. E oggi dice: «La scuola può salvarsi. L’Università l’hanno fatta a pezzi. Della ricerca è quasi inutile parlare. È evidente a moltissimi esperti di economia che stiamo già pagando, in termini di produttività, un deficit di ricerca. Ma nessun politico ne parla. Eppure all’estero, Sarkozy e Hollande si sfidano sull’istruzione; Obama per vincere punta sull’istruzione; la Merkel taglia i fondi su tutti i settori e quel che risparmia lo redistribuisce all’Istruzione. Qui invece si demanda a un ministro come se fosse materia di un solo ministero. Da Monti non ho sentito una parola. E, per la verità, non ne ho sentita una da nessun altro politico, con l’eccezione, davvero solo verbale, di Vendola».
Ma cominciamo dall’inizio, Professore. Il suo ultimo libro, Parole di giorni un po’ meno lontani edito da il Mulino è un intreccio di ricordi linguistici dominato da maestri, insegnanti, professori, scuole, licei, università. Partiamo dalla scuola, allora.
«La scuola è un corpaccio così grosso e forte che può prendere colpi e cazzotti, può subire tagli e riduzioni, ma resiste. Non che siano stati poco gravi i colpi inferti. Ma la scuola si assesta e va avanti. Porta risultati e profitti. Anche se i genitori a metà anno devono procurare la carta igienica».
E l’Università?
«È stata fatta a pezzi. Oltre ai tagli dei finanziamenti, sono due le mosse che sembrano studiate per distruggerla. La prima è una norma: ogni cinque professori che vanno in pensione se ne chiama solo uno. Questo significa che si stronca il funzionamento delle facoltà. Se vanno in pensione un archeologo, uno storico medievale e uno moderno, un glottologo e un italianista, io chi chiamo? Cinque lavori molto diversi. Quattro li elimino. Quali? E perché? Ma vede, c’è un altro problema enorme. I professori oggi passano il loro tempo a studiare normative che richiedono continui adempimenti. Da tre anni sono letteralmente sommersi da regolamenti complicati, di incerta interpretazione e che si accavallano gli uni sugli altri costringendoli a un lavoro del tutto estraneo al loro mestiere. Walter Tocci, uno dei rarissimi parlamentari che si occupano della questione, ha calcolato che la cosiddetta riforma Gelmini richiederà diecimila norme tra regolamenti attuativi del Ministero e dell’Università. Insomma, si è scatenata, a ragion veduta, una tempesta burocratica. Il risultato è il coma dell’Università pubblica. Un giorno qualcuno se ne accorgerà. Forse la mitica Europa? Comunque, la ricostruzione sarà durissima».
I centri di ricerca invece in che condizioni sono?
«Si salvano i fisici che hanno creato un’oasi. Per il resto l’atrofizzazione dei centri ha portato alla dispersione o all’ammazzamento di ricercatori giovani. E qui i danni non si riparano facilmente. Rispetto al corpaccio della scuola, per la ricerca parliamo di corteccia cerebrale. Lesioni irreparabili dunque. C’è poco da essere ottimisti».
Il nuovo governo non lascia sperare?
«Si deve puntare sulla produttività, questo è evidente a tutti. Perché, diversamente, gli sforzi compiuti ora saranno inutili. Sono sorpreso che non si stia lavorando a un progetto a lungo termine. Esistono analisi dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia che, assieme al parere di molti economisti come Tito Boeri o Luigi Spaventa, ci dicono chiaramente il motivo del ristagno della produttività: l’insufficiente grado di formazione. Per tenere il passo con le grandi trasformazioni si deve investire su Università e Ricerca. Mi pare che il governo dei tecnici non stia facendo nulla e che nessuno dei politici ne sia consapevole. Soltanto Prodi ne fece una bandiera. Una parentesi brevissima»
Veniamo allo stato di salute della lingua italiana.
«La lingua sta bene. Stanno male quelli che la usano. Mi spiego. Siamo riusciti a conquistare la capacità di parlare italiano per il 95 per cento. Non siamo riusciti invece a conquistare la capacità di leggere. Leggiamo poco. Pochi giornali e pochissimi libri. I lettori sono circa un terzo della popolazione. I restanti due terzi non hanno quel retroterra di letture e formazione scolastica che garantiscono un possesso saldo della lingua. Parliamo molto e leggiamo poco. Questo incide sul modo di usare l’italiano. Si va troppo a orecchio. Però la lingua, per conto suo, sta bene».
Il prossimo anno si festeggerà un’altra ricorrenza. I cinquant’anni della Storia linguistica dell’Italia unita. Di passi se ne sono fatti.
«Il progresso è stato enorme. E ora chi parla bene italiano parla con sicurezza molto maggiore. La lingua gira a tutto regime e ne siamo più padroni rispetto alla generazione colta degli anni Quaranta. Questo si vede anche nella scrittura. Chi scrive bene scrive molto meglio. Si è persa quella rigidità, quella pomposità. L’oratoria dei pubblici ministeri, per esempio, era da caricatura».
Quanto alla semplificazione della lingua per cui lei si è molto battuto, la sfida è vinta?
«Nel parlare e nello scrivere comuni sì. Purtroppo nella comunicazione amministrativa si annidano sacche di oscurità. Le banche innanzitutto. Arrivano malloppi di pagine già materialmente illeggibili perché scritte in caratteri minuscoli. E anche se uno prende una lente, ci vogliono ore per capire. Lì forse un po’ di volontà di lasciare il cliente all’oscuro c’è».
E ci si rassegna.
«Qui viene fuori il nostro carattere. Sa, negli Stati Uniti, c’è una normativa sulla chiarezza degli atti rivolti al pubblico di Assicurazioni e Banche. Frutto del coraggio di un cittadino della Virginia che nel ‘70 portò in tribunale un’Assicurazione. Sostenne che era impossibile, al momento della firma, avere comprensione del cavillo a cui si erano appellati per non rimborsarlo. Sconfitto inizialmente, l’uomo s’impuntò e vinse. Una sentenza che ha fatto epoca. Dovuta all’etica tutta protestante di quel cittadino. Noi siamo diversi. Non sappiamo dire Io non ci sto. È lontano dalla nostra cultura antropologica».
In che senso?
«Dinanzi a una Banca, un Comune, un pezzo di Stato, ci manca il coraggio. È qualcosa che è dentro di noi. Ossia la preoccupazione che vengano a vedere se il balconcino ha troppe piante o se abbiamo le persiane non conformi a qualche regolamento comunale tra i mille. L’idea che un’Autorità pubblica possa, se còlta in fallo, ritorcersi contro di noi è qualcosa che ci portiamo dentro. Ci manca il coraggio protestante del cittadino della Virginia. Preferiamo andare dal potente e chiedere se per favore ci aiuta. È un difetto nazionale. Dovremmo tutti imparare a essere più rigorosi. Verso noi stessi, innanzitutto. Ma anche verso le persone che scegliamo e che paghiamo perché ci amministrino e ci governino».

Il Messaggero 29.03.12

De Mauro: “L’istruzione verso la distruzione”, di Matteo Nucci

Il grande linguista, scrittore ed ex ministro festeggia sabato 80 anni e parla della situazione della scuola, della cultura e della ricerca in Italia. «A inizio Novecento, Giolitti capì che il Paese aveva bisogno di istruzione. Da Presidente del Consiglio, scelse un ministro forte, Vittorio Emanuele Orlando, e nacque la scuola elementare italiana. Oggi, avremmo bisogno di un capo del governo del genere, uno che in prima persona voglia reimpostare la politica scolastica e culturale del Paese. Per puntare davvero sulla produttività. Mi pare però che ne siamo ben lontani». Tullio De Mauro compie sabato 80 anni (domani la Sapienza gli dedica una giornata di studio dalle 9 alle ex vetrerie Sciarra di via dei Volsci 122) e festeggia facendo quel che ha sempre fatto. Massimo linguista italiano, Ministro dell’istruzione per tredici mesi, non ha mai smesso di riflettere sullo stato di salute del sistema scolastico e universitario italiano. E oggi dice: «La scuola può salvarsi. L’Università l’hanno fatta a pezzi. Della ricerca è quasi inutile parlare. È evidente a moltissimi esperti di economia che stiamo già pagando, in termini di produttività, un deficit di ricerca. Ma nessun politico ne parla. Eppure all’estero, Sarkozy e Hollande si sfidano sull’istruzione; Obama per vincere punta sull’istruzione; la Merkel taglia i fondi su tutti i settori e quel che risparmia lo redistribuisce all’Istruzione. Qui invece si demanda a un ministro come se fosse materia di un solo ministero. Da Monti non ho sentito una parola. E, per la verità, non ne ho sentita una da nessun altro politico, con l’eccezione, davvero solo verbale, di Vendola».
Ma cominciamo dall’inizio, Professore. Il suo ultimo libro, Parole di giorni un po’ meno lontani edito da il Mulino è un intreccio di ricordi linguistici dominato da maestri, insegnanti, professori, scuole, licei, università. Partiamo dalla scuola, allora.
«La scuola è un corpaccio così grosso e forte che può prendere colpi e cazzotti, può subire tagli e riduzioni, ma resiste. Non che siano stati poco gravi i colpi inferti. Ma la scuola si assesta e va avanti. Porta risultati e profitti. Anche se i genitori a metà anno devono procurare la carta igienica».
E l’Università?
«È stata fatta a pezzi. Oltre ai tagli dei finanziamenti, sono due le mosse che sembrano studiate per distruggerla. La prima è una norma: ogni cinque professori che vanno in pensione se ne chiama solo uno. Questo significa che si stronca il funzionamento delle facoltà. Se vanno in pensione un archeologo, uno storico medievale e uno moderno, un glottologo e un italianista, io chi chiamo? Cinque lavori molto diversi. Quattro li elimino. Quali? E perché? Ma vede, c’è un altro problema enorme. I professori oggi passano il loro tempo a studiare normative che richiedono continui adempimenti. Da tre anni sono letteralmente sommersi da regolamenti complicati, di incerta interpretazione e che si accavallano gli uni sugli altri costringendoli a un lavoro del tutto estraneo al loro mestiere. Walter Tocci, uno dei rarissimi parlamentari che si occupano della questione, ha calcolato che la cosiddetta riforma Gelmini richiederà diecimila norme tra regolamenti attuativi del Ministero e dell’Università. Insomma, si è scatenata, a ragion veduta, una tempesta burocratica. Il risultato è il coma dell’Università pubblica. Un giorno qualcuno se ne accorgerà. Forse la mitica Europa? Comunque, la ricostruzione sarà durissima».
I centri di ricerca invece in che condizioni sono?
«Si salvano i fisici che hanno creato un’oasi. Per il resto l’atrofizzazione dei centri ha portato alla dispersione o all’ammazzamento di ricercatori giovani. E qui i danni non si riparano facilmente. Rispetto al corpaccio della scuola, per la ricerca parliamo di corteccia cerebrale. Lesioni irreparabili dunque. C’è poco da essere ottimisti».
Il nuovo governo non lascia sperare?
«Si deve puntare sulla produttività, questo è evidente a tutti. Perché, diversamente, gli sforzi compiuti ora saranno inutili. Sono sorpreso che non si stia lavorando a un progetto a lungo termine. Esistono analisi dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia che, assieme al parere di molti economisti come Tito Boeri o Luigi Spaventa, ci dicono chiaramente il motivo del ristagno della produttività: l’insufficiente grado di formazione. Per tenere il passo con le grandi trasformazioni si deve investire su Università e Ricerca. Mi pare che il governo dei tecnici non stia facendo nulla e che nessuno dei politici ne sia consapevole. Soltanto Prodi ne fece una bandiera. Una parentesi brevissima»
Veniamo allo stato di salute della lingua italiana.
«La lingua sta bene. Stanno male quelli che la usano. Mi spiego. Siamo riusciti a conquistare la capacità di parlare italiano per il 95 per cento. Non siamo riusciti invece a conquistare la capacità di leggere. Leggiamo poco. Pochi giornali e pochissimi libri. I lettori sono circa un terzo della popolazione. I restanti due terzi non hanno quel retroterra di letture e formazione scolastica che garantiscono un possesso saldo della lingua. Parliamo molto e leggiamo poco. Questo incide sul modo di usare l’italiano. Si va troppo a orecchio. Però la lingua, per conto suo, sta bene».
Il prossimo anno si festeggerà un’altra ricorrenza. I cinquant’anni della Storia linguistica dell’Italia unita. Di passi se ne sono fatti.
«Il progresso è stato enorme. E ora chi parla bene italiano parla con sicurezza molto maggiore. La lingua gira a tutto regime e ne siamo più padroni rispetto alla generazione colta degli anni Quaranta. Questo si vede anche nella scrittura. Chi scrive bene scrive molto meglio. Si è persa quella rigidità, quella pomposità. L’oratoria dei pubblici ministeri, per esempio, era da caricatura».
Quanto alla semplificazione della lingua per cui lei si è molto battuto, la sfida è vinta?
«Nel parlare e nello scrivere comuni sì. Purtroppo nella comunicazione amministrativa si annidano sacche di oscurità. Le banche innanzitutto. Arrivano malloppi di pagine già materialmente illeggibili perché scritte in caratteri minuscoli. E anche se uno prende una lente, ci vogliono ore per capire. Lì forse un po’ di volontà di lasciare il cliente all’oscuro c’è».
E ci si rassegna.
«Qui viene fuori il nostro carattere. Sa, negli Stati Uniti, c’è una normativa sulla chiarezza degli atti rivolti al pubblico di Assicurazioni e Banche. Frutto del coraggio di un cittadino della Virginia che nel ‘70 portò in tribunale un’Assicurazione. Sostenne che era impossibile, al momento della firma, avere comprensione del cavillo a cui si erano appellati per non rimborsarlo. Sconfitto inizialmente, l’uomo s’impuntò e vinse. Una sentenza che ha fatto epoca. Dovuta all’etica tutta protestante di quel cittadino. Noi siamo diversi. Non sappiamo dire Io non ci sto. È lontano dalla nostra cultura antropologica».
In che senso?
«Dinanzi a una Banca, un Comune, un pezzo di Stato, ci manca il coraggio. È qualcosa che è dentro di noi. Ossia la preoccupazione che vengano a vedere se il balconcino ha troppe piante o se abbiamo le persiane non conformi a qualche regolamento comunale tra i mille. L’idea che un’Autorità pubblica possa, se còlta in fallo, ritorcersi contro di noi è qualcosa che ci portiamo dentro. Ci manca il coraggio protestante del cittadino della Virginia. Preferiamo andare dal potente e chiedere se per favore ci aiuta. È un difetto nazionale. Dovremmo tutti imparare a essere più rigorosi. Verso noi stessi, innanzitutto. Ma anche verso le persone che scegliamo e che paghiamo perché ci amministrino e ci governino».

Il Messaggero 29.03.12