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" Marciare insieme è un bene per tutto il Paese", di Bruno Ugolini

L’appuntamento del 13 aprile potrebbe rappresentare una data decisiva. Tornano in campo, questa volta insieme, i sindacati, dopo tanti distinguo e tante polemiche spesso poco chiare alla moltitudine del mondo del lavoro. Non solo Cgil, Cisl e Uil, stavolta, ma anche l’Ugl. Non è la prova di un superamento delle difficoltà. un nuovo cammino, la consapevolezza che solo stando insieme si può realmente incidere negli equilibri politici e aiutare a trovare soluzioni che garantiscano i diritti dei lavoratori. La motivazione dello sciopero riguarda i cosiddetti «esodati», nonché i lavori usuranti. Il linguaggio burocratico nasconde una drammatica realtà che grida vendetta al cielo. Si tratta, infatti, di donne e di uomini (centinaia di migliaia), non più in tenera età, che avevano accettato di lasciare l’azienda dove avevano trascorso gran parte della propria vita per incamminarsi verso la pensione. Persone che nel ciclone della crisi non possono certo confidare in nuovi lavori. Sono stati condannati dall’ennesima riforma previdenziale. Sono rimasti imprigionati in una tagliola disperante. Non avranno più né lavoro né salario né pensione. Fermi in mezzo al guado, privati di un reddito qualsiasi. Un inganno atroce. Simile a quello che ha colpito altri lavoratori chiamati a sborsare cifre esorbitanti per poter ricongiungere contributi pensionistici versati in gestioni diverse. Cioè gente colpevole di non aver inseguito il posto fisso a vita. Un intervento risanatore è inderogabile e bisognerà certo, trovare risorse aggiuntive, oltre quelle derivanti da tutti gli interventi sull’aumento dell’età pensionabile. Un significativo appuntamento unitario, dunque, quello del 13 aprile. Lo si può in qualche modo collegare a tante manifestazioni, specie nel settore metalmeccanico, che in questi giorni si stanno svolgendo nel Paese. Si tratta di un movimento che in molte occasioni ritrova, appunto, adesioni unitarie e non della sola Fiom-Cgil. Un movimento che può accompagnare positivamente il dibattito in sede parlamentare su altre scelte, come quelle che interessano la riforma del lavoro. Sul tema stesso dell’articolo 18 è significativo notare come negli ultimi giorni ci sia stato un avvicinamento di posizioni tra Cgil, Cisl e Uil per impedire che i licenziamenti per discriminazione possano nascondersi anche sotto le sembianze dei licenziamenti economici. Una formale proposta unitaria potrebbe incidere, proprio per questa sua caratteristica, anche sulle posizioni di forze politiche, come il Pdl, meno disponibili a una correzione. Ed è un peccato che tale impostazione convergente non abbia potuto mostrarsi, con tutta la sua forza convincente, nel corso delle pur strane e confuse trattative a Palazzo Chigi. Dove semmai è emerso qualche patriottismo di organizzazione in più. Ritrovare ora un percorso unitario sarebbe un modo per far risorgere dalle ceneri, in altri modi, quella «concertazione» data per spacciata. Dato per spacciato, in realtà, è con questa impostazione il ruolo stesso del movimento sindacale e il mondo che rappresenta. C’è la convinzione, anche in una cerchia o cenacolo d’intellettuali accademici, pure di centrosinistra, che solo così, solo offrendo un qualche «scalpo» vistoso, solo colpendo davvero le condizioni dei salariati, si opera per il bene dei salariati stessi e dei mercati ansiosi di prove. Non credo affatto sia un complotto, ma un disegno miope oltre che ingiusto. Solo un Paese coeso che sa rispettare il ruolo di soggetti intermedi e non trattarli come «consulenti sociali», può accompagnare una fase di sacrifici equamente distribuiti. La boria intellettuale non serve. I sindacati tanto vilipesi sono gli stessi che hanno accompagnato le grandi ristrutturazioni industriali, i grandi accordi per entrare nell’euro. Possono essere decisivi anche oggi in una fase in cui è in gioco ben di più di quanto era in gioco, per fare un esempio, negli anni novanta. Ma se la casa brucia non si può confidare solo in un manipolo di provetti vigili del fuoco. Occorre uno sforzo collettivo e consapevole, da raggiungere non a colpi di ultimatum

L’Unità 29.03.12

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“Quei cinquantenni scivolati nel limbo senza la pensione”, di Sandro Riccio

Un lavoro ce l’avevano, ma l’hanno lasciato, invogliati dagli incentivi per andarsene e dalla prospettiva di una pensione a portata di mano, nel 2012 o magari un po’ più tardi, nel 2013. E invece dopo la riforma MontiFornero si ritrovano senza reddito e con tempi di attesa per la pensione che, di colpo, si sono allargati ai cinque o sei anni con picchi che arrivano ai nove.

Sono i così detti lavoratori esodati su cui è intervenuto ieri il Presidente della Repubblica. «C’è una questione aperta che i sindacati rivendicano e di cui credo il governo stia studiando la soluzione» ha detto Giorgio Napolitano.

Il problema è che non si tratta di pochi casi ma di diverse centinaia di migliaia di persone. Le cifre esatte sui cosiddetti esodati sono ancora indefinite. «Non c’è ancora il dato definitivo» ha detto ieri il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua. Le stime iniziali del governo parlavano di 50 mila casi, ma la quota è stata rivista al rialzo dalla Cgil che ne ha contati 200 mila. Secondo stime circolate in questi giorni arriverebbero addirittura a quota 350 mila, sette volte tanto le valutazioni iniziali fatte dai tecnici.

Un vero e proprio popolo che sta affiorando con forza dalle pieghe della riforma. Tutti quanti prima di fare il grande passo avevano valutato bene ogni aspetto della nuova strada che stavano per prendere. Hanno fatto bene i conti con i risparmi che avevano in banca e con le spese in arrivo. Si credevano tranquilli e tutelati, anche perché avevano firmato accordi – magari collettivi – ben precisi, che li ponevano al riparo da sorprese.

Certo è che il governo ora dovrà individuare la strada migliore da percorrere per tutelare questi lavoratori. Ma allo stesso tempo dovrà riuscire anche a salvaguardare le risorse dell’Inps e quindi il bilancio pubblico. L’esecutivo sta cercando una soluzione e ha assicurato che entro il 30 giugno del 2012 verrà varato un decreto ad hoc. Sul tema nei giorni scorsi è intervenuta la stessa Elsa Fornero che il 19 marzo ha detto che «sono molti più del previsto», per cui «occorre trovare criteri equi per tutelare prima di tutto i più deboli».

Intanto cresce il numero di segnalazioni alle redazioni dei giornali. Come quella di Maurizio 57enne di Gessate, in mobilità dal dicembre 2008. «Dal mese di luglio sono senza un reddito. Ho maturato il diritto alla pensione, i 40 anni li ho fatti nel marzo 2011, la mia data di pensione (indicata come certa sugli accordi presi all’atto del mio licenziamento) era 1/7/2011. La legge 122 ha spostato le finestre di uscita di un anno. Ed io sono entrato in un limbo in un vuoto incredibile, non ero più mobilitato e neppure pensionato. Fatto sta che hanno smesso di pagarmi le indennità di mobilità, ma non mi pagano la pensione».

Ma quello degli esodati non è il solo problema sul tavolo del governo. Tra i nodi che stanno venendo al pettine c’è anche la questione delle ricongiunzioni onerose, previste dalla legge 122 del luglio scorso. Tanti i casi, come quello di Claudio: «Ho 55 anni e tra cinque o sei anni sarei andato in pensione per anzianità con più di 40 anni di contributi versati, più o meno per periodi uguali, all’Inps e all’Inpdap. Ora ho saputo che la mia ricongiunzione di tutto all’Inps avrà un costo di 135.000 euro». Cifre stellari come quella chiesta a Bruno: «per ricongiungere 32 anni di contributi versati nelle casse Inpdap agli otto dell’Inps mi sono stati chiesti dall’Inps 299.605 euro. Da pagare in «comode» 190 rate mensili da 1.576,87 euro l’una, per 15 anni. Vicenda analoga anche quella di «nicsummo», un ex dipendente della società Postel SpA del gruppo Poste Italiane che dopo aver versato per 30 anni i contributi all’Inps e per altri 12 a Ipost, ora si ritrova con un conto ulteriore di 70 mila euro da pagare per avere il diritto alla pensione.

La Stampa 29.03.12

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“In piazza torna l’unità sindacale”, di Massimo Franchi

A otto giorni di distanza dal martedì in cui si sono divisi (davanti a Mario Monti) sull’articolo 18 e la riforma del lavoro, Cgil, Cisl, Uil e Ugl si ritrovano uniti. L’annuncio è arrivato ieri: venerdì 13 aprile Susanna Camusso, Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti e Giovanni Centrella parleranno dal palco della stessa manifestazione contro la riforma delle pensioni e per risolvere il drammatico problema degli esodati e delle ricongiunzioni milionarie. Si tratta delle migliaia e migliaia di persone (che l’Inps non riesce ancora a quantificare) che hanno firmato un accordo per lasciare le aziende in prossimità della pensione e poi si sono ritrovate senza lavoro e con l’età pensionabile allungata dai 5anni in su. Accanto a loro, ci sono poi altre migliaia di persone che dovranno pagare, grazie ad un decreto di Giulio Tremonti dell’agosto 2010, centinaia di migliaia di euro per poter ricongiungere gli anni di contributi versati a diversi enti previdenziali. Le loro storie le abbiamo raccontate il 22 febbraio su queste pagine. CAMBIARE LA RIFORMA «Quella del 13 aprile – ha spiegato il segretario generale della Cgil Susanna Camusso – è una manifestazione di tutti i lavoratori, perché tali li consideriamo, che con la cosiddetta riforma delle pensioni sono diventati esodati: dovevano accedere alla pensione invece non hanno né lavoro né ammortizzatori e sono alla ricerca di una soluzione ».Maanche «di tutti quei lavoratori che per effetto delle norme delle finanziarie del governo precedente si trovano a dover affrontare ricongiunzioni molto onerose per poter ricostruire le loro carriere pensionistiche. Tutti quei soggetti che pagano un prezzo altissimo a una riforma che è stata fatta senza tener conto di una realtà presente e dei diritti in essere dei lavoratori ». Dello stesso avviso anche Raffaele Bonanni. «Il governo e il Parlamento -ha detto il leader Cisl – devono risolvere il problema di centinaia di migliaia di persone rimaste già senza stipendio e senza pensione», i cosiddetti esodati, per effetto della riforma delle pensioni. Deve essere chiaro che su questo problema delle pensioni non faremo sconti a nessuno ». Molto duro il leader Uil Luigi Angeletti: «I lavoratori esodati hanno fatto una scelta fidandosi delle regole esistenti. Un qualunque governo decente deve garantire la validità di patti precedentemente sottoscritti. Si pone un problema di credibilità. Noi lo sollecitiamo ad onorare impegni che lo Stato si è assunto nei confronti di tanti suoi cittadini». L’argomento “esodati” sarà poi al centro della relazione con cui oggi Giovanni Centrella a Roma darà il via al terzo congresso confederale dell’Ugl, che lo vede unico candidato alla rielezione. «Anche l’Ugl parteciperà alla manifestazione nazionale con Cgil, Cisl e Uil contro la riforma delle pensioni del 13 aprile a Roma- annuncia Centrella – . Resta fermo il nostro “No” ad un provvedimentoiniquo, che ha colpito categorie già deboli, dai lavoratori interessati da accordi di mobilità lunga, i cosiddetti “esodati”, a coloro che erano ormai vicini alla pensione. Le modifiche attuate successivamente – prosegue Centrella -nonsono sufficienti a colmare l’ingiustizia di una riforma che non tiene conto dei sacrifici già affrontati da chi è già stato colpito dalla crisi». ESODATI: MISTERO SUL NUMERO Sull’argomento ieri è stato ascoltato in commissione Lavoro alla Camera il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua. A chi gli chiedeva conferma del numero (350mila), Mastrapasqua ha risposto che la cifra «non è ancora definita», ma al ministero del Lavoro è al lavoro un tavolo a cui partecipa anche l’Inps. «Confermo che il ministero ha l’impegno di emanare un decreto al 30 giugno per risolvere il problema e che sta lavorando per rispettare la scadenza temporale del Parlamento», ha spiegato Mastrapasqua. Il problema principale è quello di, dopo aver accertato ilnumero delle persone coinvolte, individuare la copertura finanziaria sufficiente. Nei giorni scorsi la ministra Elsa Fornero aveva annunciato un tavolo con i sindacati proprio su questi temi. Ma la convocazione non è ancora arrivata.❖

L’Unità 29.03.12

” Marciare insieme è un bene per tutto il Paese”, di Bruno Ugolini

L’appuntamento del 13 aprile potrebbe rappresentare una data decisiva. Tornano in campo, questa volta insieme, i sindacati, dopo tanti distinguo e tante polemiche spesso poco chiare alla moltitudine del mondo del lavoro. Non solo Cgil, Cisl e Uil, stavolta, ma anche l’Ugl. Non è la prova di un superamento delle difficoltà. un nuovo cammino, la consapevolezza che solo stando insieme si può realmente incidere negli equilibri politici e aiutare a trovare soluzioni che garantiscano i diritti dei lavoratori. La motivazione dello sciopero riguarda i cosiddetti «esodati», nonché i lavori usuranti. Il linguaggio burocratico nasconde una drammatica realtà che grida vendetta al cielo. Si tratta, infatti, di donne e di uomini (centinaia di migliaia), non più in tenera età, che avevano accettato di lasciare l’azienda dove avevano trascorso gran parte della propria vita per incamminarsi verso la pensione. Persone che nel ciclone della crisi non possono certo confidare in nuovi lavori. Sono stati condannati dall’ennesima riforma previdenziale. Sono rimasti imprigionati in una tagliola disperante. Non avranno più né lavoro né salario né pensione. Fermi in mezzo al guado, privati di un reddito qualsiasi. Un inganno atroce. Simile a quello che ha colpito altri lavoratori chiamati a sborsare cifre esorbitanti per poter ricongiungere contributi pensionistici versati in gestioni diverse. Cioè gente colpevole di non aver inseguito il posto fisso a vita. Un intervento risanatore è inderogabile e bisognerà certo, trovare risorse aggiuntive, oltre quelle derivanti da tutti gli interventi sull’aumento dell’età pensionabile. Un significativo appuntamento unitario, dunque, quello del 13 aprile. Lo si può in qualche modo collegare a tante manifestazioni, specie nel settore metalmeccanico, che in questi giorni si stanno svolgendo nel Paese. Si tratta di un movimento che in molte occasioni ritrova, appunto, adesioni unitarie e non della sola Fiom-Cgil. Un movimento che può accompagnare positivamente il dibattito in sede parlamentare su altre scelte, come quelle che interessano la riforma del lavoro. Sul tema stesso dell’articolo 18 è significativo notare come negli ultimi giorni ci sia stato un avvicinamento di posizioni tra Cgil, Cisl e Uil per impedire che i licenziamenti per discriminazione possano nascondersi anche sotto le sembianze dei licenziamenti economici. Una formale proposta unitaria potrebbe incidere, proprio per questa sua caratteristica, anche sulle posizioni di forze politiche, come il Pdl, meno disponibili a una correzione. Ed è un peccato che tale impostazione convergente non abbia potuto mostrarsi, con tutta la sua forza convincente, nel corso delle pur strane e confuse trattative a Palazzo Chigi. Dove semmai è emerso qualche patriottismo di organizzazione in più. Ritrovare ora un percorso unitario sarebbe un modo per far risorgere dalle ceneri, in altri modi, quella «concertazione» data per spacciata. Dato per spacciato, in realtà, è con questa impostazione il ruolo stesso del movimento sindacale e il mondo che rappresenta. C’è la convinzione, anche in una cerchia o cenacolo d’intellettuali accademici, pure di centrosinistra, che solo così, solo offrendo un qualche «scalpo» vistoso, solo colpendo davvero le condizioni dei salariati, si opera per il bene dei salariati stessi e dei mercati ansiosi di prove. Non credo affatto sia un complotto, ma un disegno miope oltre che ingiusto. Solo un Paese coeso che sa rispettare il ruolo di soggetti intermedi e non trattarli come «consulenti sociali», può accompagnare una fase di sacrifici equamente distribuiti. La boria intellettuale non serve. I sindacati tanto vilipesi sono gli stessi che hanno accompagnato le grandi ristrutturazioni industriali, i grandi accordi per entrare nell’euro. Possono essere decisivi anche oggi in una fase in cui è in gioco ben di più di quanto era in gioco, per fare un esempio, negli anni novanta. Ma se la casa brucia non si può confidare solo in un manipolo di provetti vigili del fuoco. Occorre uno sforzo collettivo e consapevole, da raggiungere non a colpi di ultimatum

L’Unità 29.03.12

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“Quei cinquantenni scivolati nel limbo senza la pensione”, di Sandro Riccio

Un lavoro ce l’avevano, ma l’hanno lasciato, invogliati dagli incentivi per andarsene e dalla prospettiva di una pensione a portata di mano, nel 2012 o magari un po’ più tardi, nel 2013. E invece dopo la riforma MontiFornero si ritrovano senza reddito e con tempi di attesa per la pensione che, di colpo, si sono allargati ai cinque o sei anni con picchi che arrivano ai nove.

Sono i così detti lavoratori esodati su cui è intervenuto ieri il Presidente della Repubblica. «C’è una questione aperta che i sindacati rivendicano e di cui credo il governo stia studiando la soluzione» ha detto Giorgio Napolitano.

Il problema è che non si tratta di pochi casi ma di diverse centinaia di migliaia di persone. Le cifre esatte sui cosiddetti esodati sono ancora indefinite. «Non c’è ancora il dato definitivo» ha detto ieri il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua. Le stime iniziali del governo parlavano di 50 mila casi, ma la quota è stata rivista al rialzo dalla Cgil che ne ha contati 200 mila. Secondo stime circolate in questi giorni arriverebbero addirittura a quota 350 mila, sette volte tanto le valutazioni iniziali fatte dai tecnici.

Un vero e proprio popolo che sta affiorando con forza dalle pieghe della riforma. Tutti quanti prima di fare il grande passo avevano valutato bene ogni aspetto della nuova strada che stavano per prendere. Hanno fatto bene i conti con i risparmi che avevano in banca e con le spese in arrivo. Si credevano tranquilli e tutelati, anche perché avevano firmato accordi – magari collettivi – ben precisi, che li ponevano al riparo da sorprese.

Certo è che il governo ora dovrà individuare la strada migliore da percorrere per tutelare questi lavoratori. Ma allo stesso tempo dovrà riuscire anche a salvaguardare le risorse dell’Inps e quindi il bilancio pubblico. L’esecutivo sta cercando una soluzione e ha assicurato che entro il 30 giugno del 2012 verrà varato un decreto ad hoc. Sul tema nei giorni scorsi è intervenuta la stessa Elsa Fornero che il 19 marzo ha detto che «sono molti più del previsto», per cui «occorre trovare criteri equi per tutelare prima di tutto i più deboli».

Intanto cresce il numero di segnalazioni alle redazioni dei giornali. Come quella di Maurizio 57enne di Gessate, in mobilità dal dicembre 2008. «Dal mese di luglio sono senza un reddito. Ho maturato il diritto alla pensione, i 40 anni li ho fatti nel marzo 2011, la mia data di pensione (indicata come certa sugli accordi presi all’atto del mio licenziamento) era 1/7/2011. La legge 122 ha spostato le finestre di uscita di un anno. Ed io sono entrato in un limbo in un vuoto incredibile, non ero più mobilitato e neppure pensionato. Fatto sta che hanno smesso di pagarmi le indennità di mobilità, ma non mi pagano la pensione».

Ma quello degli esodati non è il solo problema sul tavolo del governo. Tra i nodi che stanno venendo al pettine c’è anche la questione delle ricongiunzioni onerose, previste dalla legge 122 del luglio scorso. Tanti i casi, come quello di Claudio: «Ho 55 anni e tra cinque o sei anni sarei andato in pensione per anzianità con più di 40 anni di contributi versati, più o meno per periodi uguali, all’Inps e all’Inpdap. Ora ho saputo che la mia ricongiunzione di tutto all’Inps avrà un costo di 135.000 euro». Cifre stellari come quella chiesta a Bruno: «per ricongiungere 32 anni di contributi versati nelle casse Inpdap agli otto dell’Inps mi sono stati chiesti dall’Inps 299.605 euro. Da pagare in «comode» 190 rate mensili da 1.576,87 euro l’una, per 15 anni. Vicenda analoga anche quella di «nicsummo», un ex dipendente della società Postel SpA del gruppo Poste Italiane che dopo aver versato per 30 anni i contributi all’Inps e per altri 12 a Ipost, ora si ritrova con un conto ulteriore di 70 mila euro da pagare per avere il diritto alla pensione.

La Stampa 29.03.12

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“In piazza torna l’unità sindacale”, di Massimo Franchi

A otto giorni di distanza dal martedì in cui si sono divisi (davanti a Mario Monti) sull’articolo 18 e la riforma del lavoro, Cgil, Cisl, Uil e Ugl si ritrovano uniti. L’annuncio è arrivato ieri: venerdì 13 aprile Susanna Camusso, Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti e Giovanni Centrella parleranno dal palco della stessa manifestazione contro la riforma delle pensioni e per risolvere il drammatico problema degli esodati e delle ricongiunzioni milionarie. Si tratta delle migliaia e migliaia di persone (che l’Inps non riesce ancora a quantificare) che hanno firmato un accordo per lasciare le aziende in prossimità della pensione e poi si sono ritrovate senza lavoro e con l’età pensionabile allungata dai 5anni in su. Accanto a loro, ci sono poi altre migliaia di persone che dovranno pagare, grazie ad un decreto di Giulio Tremonti dell’agosto 2010, centinaia di migliaia di euro per poter ricongiungere gli anni di contributi versati a diversi enti previdenziali. Le loro storie le abbiamo raccontate il 22 febbraio su queste pagine. CAMBIARE LA RIFORMA «Quella del 13 aprile – ha spiegato il segretario generale della Cgil Susanna Camusso – è una manifestazione di tutti i lavoratori, perché tali li consideriamo, che con la cosiddetta riforma delle pensioni sono diventati esodati: dovevano accedere alla pensione invece non hanno né lavoro né ammortizzatori e sono alla ricerca di una soluzione ».Maanche «di tutti quei lavoratori che per effetto delle norme delle finanziarie del governo precedente si trovano a dover affrontare ricongiunzioni molto onerose per poter ricostruire le loro carriere pensionistiche. Tutti quei soggetti che pagano un prezzo altissimo a una riforma che è stata fatta senza tener conto di una realtà presente e dei diritti in essere dei lavoratori ». Dello stesso avviso anche Raffaele Bonanni. «Il governo e il Parlamento -ha detto il leader Cisl – devono risolvere il problema di centinaia di migliaia di persone rimaste già senza stipendio e senza pensione», i cosiddetti esodati, per effetto della riforma delle pensioni. Deve essere chiaro che su questo problema delle pensioni non faremo sconti a nessuno ». Molto duro il leader Uil Luigi Angeletti: «I lavoratori esodati hanno fatto una scelta fidandosi delle regole esistenti. Un qualunque governo decente deve garantire la validità di patti precedentemente sottoscritti. Si pone un problema di credibilità. Noi lo sollecitiamo ad onorare impegni che lo Stato si è assunto nei confronti di tanti suoi cittadini». L’argomento “esodati” sarà poi al centro della relazione con cui oggi Giovanni Centrella a Roma darà il via al terzo congresso confederale dell’Ugl, che lo vede unico candidato alla rielezione. «Anche l’Ugl parteciperà alla manifestazione nazionale con Cgil, Cisl e Uil contro la riforma delle pensioni del 13 aprile a Roma- annuncia Centrella – . Resta fermo il nostro “No” ad un provvedimentoiniquo, che ha colpito categorie già deboli, dai lavoratori interessati da accordi di mobilità lunga, i cosiddetti “esodati”, a coloro che erano ormai vicini alla pensione. Le modifiche attuate successivamente – prosegue Centrella -nonsono sufficienti a colmare l’ingiustizia di una riforma che non tiene conto dei sacrifici già affrontati da chi è già stato colpito dalla crisi». ESODATI: MISTERO SUL NUMERO Sull’argomento ieri è stato ascoltato in commissione Lavoro alla Camera il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua. A chi gli chiedeva conferma del numero (350mila), Mastrapasqua ha risposto che la cifra «non è ancora definita», ma al ministero del Lavoro è al lavoro un tavolo a cui partecipa anche l’Inps. «Confermo che il ministero ha l’impegno di emanare un decreto al 30 giugno per risolvere il problema e che sta lavorando per rispettare la scadenza temporale del Parlamento», ha spiegato Mastrapasqua. Il problema principale è quello di, dopo aver accertato ilnumero delle persone coinvolte, individuare la copertura finanziaria sufficiente. Nei giorni scorsi la ministra Elsa Fornero aveva annunciato un tavolo con i sindacati proprio su questi temi. Ma la convocazione non è ancora arrivata.❖

L’Unità 29.03.12

” Marciare insieme è un bene per tutto il Paese”, di Bruno Ugolini

L’appuntamento del 13 aprile potrebbe rappresentare una data decisiva. Tornano in campo, questa volta insieme, i sindacati, dopo tanti distinguo e tante polemiche spesso poco chiare alla moltitudine del mondo del lavoro. Non solo Cgil, Cisl e Uil, stavolta, ma anche l’Ugl. Non è la prova di un superamento delle difficoltà. un nuovo cammino, la consapevolezza che solo stando insieme si può realmente incidere negli equilibri politici e aiutare a trovare soluzioni che garantiscano i diritti dei lavoratori. La motivazione dello sciopero riguarda i cosiddetti «esodati», nonché i lavori usuranti. Il linguaggio burocratico nasconde una drammatica realtà che grida vendetta al cielo. Si tratta, infatti, di donne e di uomini (centinaia di migliaia), non più in tenera età, che avevano accettato di lasciare l’azienda dove avevano trascorso gran parte della propria vita per incamminarsi verso la pensione. Persone che nel ciclone della crisi non possono certo confidare in nuovi lavori. Sono stati condannati dall’ennesima riforma previdenziale. Sono rimasti imprigionati in una tagliola disperante. Non avranno più né lavoro né salario né pensione. Fermi in mezzo al guado, privati di un reddito qualsiasi. Un inganno atroce. Simile a quello che ha colpito altri lavoratori chiamati a sborsare cifre esorbitanti per poter ricongiungere contributi pensionistici versati in gestioni diverse. Cioè gente colpevole di non aver inseguito il posto fisso a vita. Un intervento risanatore è inderogabile e bisognerà certo, trovare risorse aggiuntive, oltre quelle derivanti da tutti gli interventi sull’aumento dell’età pensionabile. Un significativo appuntamento unitario, dunque, quello del 13 aprile. Lo si può in qualche modo collegare a tante manifestazioni, specie nel settore metalmeccanico, che in questi giorni si stanno svolgendo nel Paese. Si tratta di un movimento che in molte occasioni ritrova, appunto, adesioni unitarie e non della sola Fiom-Cgil. Un movimento che può accompagnare positivamente il dibattito in sede parlamentare su altre scelte, come quelle che interessano la riforma del lavoro. Sul tema stesso dell’articolo 18 è significativo notare come negli ultimi giorni ci sia stato un avvicinamento di posizioni tra Cgil, Cisl e Uil per impedire che i licenziamenti per discriminazione possano nascondersi anche sotto le sembianze dei licenziamenti economici. Una formale proposta unitaria potrebbe incidere, proprio per questa sua caratteristica, anche sulle posizioni di forze politiche, come il Pdl, meno disponibili a una correzione. Ed è un peccato che tale impostazione convergente non abbia potuto mostrarsi, con tutta la sua forza convincente, nel corso delle pur strane e confuse trattative a Palazzo Chigi. Dove semmai è emerso qualche patriottismo di organizzazione in più. Ritrovare ora un percorso unitario sarebbe un modo per far risorgere dalle ceneri, in altri modi, quella «concertazione» data per spacciata. Dato per spacciato, in realtà, è con questa impostazione il ruolo stesso del movimento sindacale e il mondo che rappresenta. C’è la convinzione, anche in una cerchia o cenacolo d’intellettuali accademici, pure di centrosinistra, che solo così, solo offrendo un qualche «scalpo» vistoso, solo colpendo davvero le condizioni dei salariati, si opera per il bene dei salariati stessi e dei mercati ansiosi di prove. Non credo affatto sia un complotto, ma un disegno miope oltre che ingiusto. Solo un Paese coeso che sa rispettare il ruolo di soggetti intermedi e non trattarli come «consulenti sociali», può accompagnare una fase di sacrifici equamente distribuiti. La boria intellettuale non serve. I sindacati tanto vilipesi sono gli stessi che hanno accompagnato le grandi ristrutturazioni industriali, i grandi accordi per entrare nell’euro. Possono essere decisivi anche oggi in una fase in cui è in gioco ben di più di quanto era in gioco, per fare un esempio, negli anni novanta. Ma se la casa brucia non si può confidare solo in un manipolo di provetti vigili del fuoco. Occorre uno sforzo collettivo e consapevole, da raggiungere non a colpi di ultimatum

L’Unità 29.03.12

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“Quei cinquantenni scivolati nel limbo senza la pensione”, di Sandro Riccio

Un lavoro ce l’avevano, ma l’hanno lasciato, invogliati dagli incentivi per andarsene e dalla prospettiva di una pensione a portata di mano, nel 2012 o magari un po’ più tardi, nel 2013. E invece dopo la riforma MontiFornero si ritrovano senza reddito e con tempi di attesa per la pensione che, di colpo, si sono allargati ai cinque o sei anni con picchi che arrivano ai nove.

Sono i così detti lavoratori esodati su cui è intervenuto ieri il Presidente della Repubblica. «C’è una questione aperta che i sindacati rivendicano e di cui credo il governo stia studiando la soluzione» ha detto Giorgio Napolitano.

Il problema è che non si tratta di pochi casi ma di diverse centinaia di migliaia di persone. Le cifre esatte sui cosiddetti esodati sono ancora indefinite. «Non c’è ancora il dato definitivo» ha detto ieri il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua. Le stime iniziali del governo parlavano di 50 mila casi, ma la quota è stata rivista al rialzo dalla Cgil che ne ha contati 200 mila. Secondo stime circolate in questi giorni arriverebbero addirittura a quota 350 mila, sette volte tanto le valutazioni iniziali fatte dai tecnici.

Un vero e proprio popolo che sta affiorando con forza dalle pieghe della riforma. Tutti quanti prima di fare il grande passo avevano valutato bene ogni aspetto della nuova strada che stavano per prendere. Hanno fatto bene i conti con i risparmi che avevano in banca e con le spese in arrivo. Si credevano tranquilli e tutelati, anche perché avevano firmato accordi – magari collettivi – ben precisi, che li ponevano al riparo da sorprese.

Certo è che il governo ora dovrà individuare la strada migliore da percorrere per tutelare questi lavoratori. Ma allo stesso tempo dovrà riuscire anche a salvaguardare le risorse dell’Inps e quindi il bilancio pubblico. L’esecutivo sta cercando una soluzione e ha assicurato che entro il 30 giugno del 2012 verrà varato un decreto ad hoc. Sul tema nei giorni scorsi è intervenuta la stessa Elsa Fornero che il 19 marzo ha detto che «sono molti più del previsto», per cui «occorre trovare criteri equi per tutelare prima di tutto i più deboli».

Intanto cresce il numero di segnalazioni alle redazioni dei giornali. Come quella di Maurizio 57enne di Gessate, in mobilità dal dicembre 2008. «Dal mese di luglio sono senza un reddito. Ho maturato il diritto alla pensione, i 40 anni li ho fatti nel marzo 2011, la mia data di pensione (indicata come certa sugli accordi presi all’atto del mio licenziamento) era 1/7/2011. La legge 122 ha spostato le finestre di uscita di un anno. Ed io sono entrato in un limbo in un vuoto incredibile, non ero più mobilitato e neppure pensionato. Fatto sta che hanno smesso di pagarmi le indennità di mobilità, ma non mi pagano la pensione».

Ma quello degli esodati non è il solo problema sul tavolo del governo. Tra i nodi che stanno venendo al pettine c’è anche la questione delle ricongiunzioni onerose, previste dalla legge 122 del luglio scorso. Tanti i casi, come quello di Claudio: «Ho 55 anni e tra cinque o sei anni sarei andato in pensione per anzianità con più di 40 anni di contributi versati, più o meno per periodi uguali, all’Inps e all’Inpdap. Ora ho saputo che la mia ricongiunzione di tutto all’Inps avrà un costo di 135.000 euro». Cifre stellari come quella chiesta a Bruno: «per ricongiungere 32 anni di contributi versati nelle casse Inpdap agli otto dell’Inps mi sono stati chiesti dall’Inps 299.605 euro. Da pagare in «comode» 190 rate mensili da 1.576,87 euro l’una, per 15 anni. Vicenda analoga anche quella di «nicsummo», un ex dipendente della società Postel SpA del gruppo Poste Italiane che dopo aver versato per 30 anni i contributi all’Inps e per altri 12 a Ipost, ora si ritrova con un conto ulteriore di 70 mila euro da pagare per avere il diritto alla pensione.

La Stampa 29.03.12

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“In piazza torna l’unità sindacale”, di Massimo Franchi

A otto giorni di distanza dal martedì in cui si sono divisi (davanti a Mario Monti) sull’articolo 18 e la riforma del lavoro, Cgil, Cisl, Uil e Ugl si ritrovano uniti. L’annuncio è arrivato ieri: venerdì 13 aprile Susanna Camusso, Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti e Giovanni Centrella parleranno dal palco della stessa manifestazione contro la riforma delle pensioni e per risolvere il drammatico problema degli esodati e delle ricongiunzioni milionarie. Si tratta delle migliaia e migliaia di persone (che l’Inps non riesce ancora a quantificare) che hanno firmato un accordo per lasciare le aziende in prossimità della pensione e poi si sono ritrovate senza lavoro e con l’età pensionabile allungata dai 5anni in su. Accanto a loro, ci sono poi altre migliaia di persone che dovranno pagare, grazie ad un decreto di Giulio Tremonti dell’agosto 2010, centinaia di migliaia di euro per poter ricongiungere gli anni di contributi versati a diversi enti previdenziali. Le loro storie le abbiamo raccontate il 22 febbraio su queste pagine. CAMBIARE LA RIFORMA «Quella del 13 aprile – ha spiegato il segretario generale della Cgil Susanna Camusso – è una manifestazione di tutti i lavoratori, perché tali li consideriamo, che con la cosiddetta riforma delle pensioni sono diventati esodati: dovevano accedere alla pensione invece non hanno né lavoro né ammortizzatori e sono alla ricerca di una soluzione ».Maanche «di tutti quei lavoratori che per effetto delle norme delle finanziarie del governo precedente si trovano a dover affrontare ricongiunzioni molto onerose per poter ricostruire le loro carriere pensionistiche. Tutti quei soggetti che pagano un prezzo altissimo a una riforma che è stata fatta senza tener conto di una realtà presente e dei diritti in essere dei lavoratori ». Dello stesso avviso anche Raffaele Bonanni. «Il governo e il Parlamento -ha detto il leader Cisl – devono risolvere il problema di centinaia di migliaia di persone rimaste già senza stipendio e senza pensione», i cosiddetti esodati, per effetto della riforma delle pensioni. Deve essere chiaro che su questo problema delle pensioni non faremo sconti a nessuno ». Molto duro il leader Uil Luigi Angeletti: «I lavoratori esodati hanno fatto una scelta fidandosi delle regole esistenti. Un qualunque governo decente deve garantire la validità di patti precedentemente sottoscritti. Si pone un problema di credibilità. Noi lo sollecitiamo ad onorare impegni che lo Stato si è assunto nei confronti di tanti suoi cittadini». L’argomento “esodati” sarà poi al centro della relazione con cui oggi Giovanni Centrella a Roma darà il via al terzo congresso confederale dell’Ugl, che lo vede unico candidato alla rielezione. «Anche l’Ugl parteciperà alla manifestazione nazionale con Cgil, Cisl e Uil contro la riforma delle pensioni del 13 aprile a Roma- annuncia Centrella – . Resta fermo il nostro “No” ad un provvedimentoiniquo, che ha colpito categorie già deboli, dai lavoratori interessati da accordi di mobilità lunga, i cosiddetti “esodati”, a coloro che erano ormai vicini alla pensione. Le modifiche attuate successivamente – prosegue Centrella -nonsono sufficienti a colmare l’ingiustizia di una riforma che non tiene conto dei sacrifici già affrontati da chi è già stato colpito dalla crisi». ESODATI: MISTERO SUL NUMERO Sull’argomento ieri è stato ascoltato in commissione Lavoro alla Camera il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua. A chi gli chiedeva conferma del numero (350mila), Mastrapasqua ha risposto che la cifra «non è ancora definita», ma al ministero del Lavoro è al lavoro un tavolo a cui partecipa anche l’Inps. «Confermo che il ministero ha l’impegno di emanare un decreto al 30 giugno per risolvere il problema e che sta lavorando per rispettare la scadenza temporale del Parlamento», ha spiegato Mastrapasqua. Il problema principale è quello di, dopo aver accertato ilnumero delle persone coinvolte, individuare la copertura finanziaria sufficiente. Nei giorni scorsi la ministra Elsa Fornero aveva annunciato un tavolo con i sindacati proprio su questi temi. Ma la convocazione non è ancora arrivata.❖

L’Unità 29.03.12

"L´ideologia dei tecnici", di Gad Lerner

Il disincanto con cui Monti il tecnico si rivolge dall´estero al Paese malato che gli tocca governare – considerandolo impreparato a comprendere del tutto la terapia da lui somministrata, e però ben allertato contro la malapolitica dei partiti – ormai sta assumendo i tratti di una vera e propria ideologia. Poco importa se il premier la lasci trasparire per passione, per stanchezza o per calcolo: anche i tecnici hanno un cuore e, dunque, un credo. Resta da vedere se tale ideologia tecnica, niente affatto neutrale, risulti adeguata a corrispondere e guidare lo spirito dei tempi, in una società traumatizzata dalla crisi del suo modello di sviluppo. O se invece si riveli anch´essa retaggio di un´epoca travolta da una sequenza di avvenimenti nefasti che non aveva previsto e che ha contribuito a provocare.
Per prima cosa Monti insiste a comunicarci la sua provvisorietà, e non c´è motivo di dubitare che sia sincero. Che sia per modestia o al contrario per supponenza, poco importa, egli si compiace di descriversi quale commissario straordinario a termine: «Sarà fantastico, per me il dopo Monti», scherza. Né difatti ha alcuna intenzione di dimettersi da presidente dell´Università Bocconi, la vera casa cui intende fare ritorno. La forte motivazione implicita in questo annuncio ripetuto è il disinteresse.
Immune da ambizioni personali di carriera che non siano il prestigio “di scuola”, egli rivendica di stare al di sopra e al di fuori degli interessi di parte delle rappresentanze sociali e politiche. Sa bene che alla lunga non può esistere governo neutrale rispetto agli interessi in campo, e anche per questo allude continuamente alla sua provvisorietà. Ma non gli basta per essere creduto: anche lui ha una biografia, non viene dal nulla. Ha partecipato da indipendente ai consigli d´amministrazione di grandi aziende; manifesta una convinta lealtà alle istituzioni dell´Unione Europea in cui ha operato per un decennio; ha frequentato da protagonista i think thank del capitalismo finanziario sovranazionale. Un pedigree autorevolissimo che, unitamente al suo percorso accademico, lo connota quale figura cosmopolita organica a un establishment liberale conservatore, che in Italia è sempre rimasto minoritario. La cui pubblicistica da un ventennio raffigura (a torto o a ragione) le rappresentanze sociali e politiche del nostro Paese come cicale, se non addirittura come cavallette.
Qui s´impone il passaggio successivo dell´ideologia montiana o, se volete, l´idea di giustizia sociale di cui è portatore il tecnico di governo. Dovendo “scontentare tutti”, almeno in parte, con le sue ricette amare, non basterebbe certo a legittimare cotanta severità il fatto che ci venga richiesta dalla troika (Fmi, Bce, Commissione europea) e dai mercati finanziari. L´italiano Monti, per quanto provvisorio, non può presentarsi a noi come il “podestà forestiero” di cui nell´agosto scorso aveva paventato l´avvento.
Ecco allora l´autorappresentazione di sé come portatore di un interesse mai rappresentato al tavolo delle trattative con le parti sociali: i giovani, i nostri figli, i nostri nipoti, addirittura le generazioni future. Prima d´ora solo la cultura ambientalista si era concepita come portavoce lungimirante dei non ancora nati, dentro le controversie del presente. Declinata in prosa tecnica, tale ambiziosa pretesa di redistribuzione intergenerazionale cambia decisamente di segno; com´è apparso chiaro nelle motivazioni pubbliche che hanno accompagnato il varo della riforma delle pensioni, prima, e del mercato del lavoro, poi.
Retrocessa in subordine, o addirittura liquidata come obsoleta la contraddizione fra capitale e lavoro, negata ogni funzione progressiva alla lotta di classe, il tecnico di governo assume come impegno prioritario il superamento di una presunta contrapposizione fra adulti “iper-garantiti” (parole testuali di Monti) e giovani precari. Riecheggia uno slogan di vent´anni fa, “Meno ai padri, più ai figli”. Come se nel frattempo non avessimo verificato che, già ben prima della recessione, i padri hanno cominciato a perdere cospicue quote di reddito e posti di lavoro; mentre la flessibilità ha generalizzato la precarietà dei figli. Qui davvero l´ideologia offusca e mistifica il riconoscimento della vita reale, fino all´accusa rivolta ai sindacati di praticare niente meno che l´”apartheid” dei non garantiti. In una lettera aperta a sostegno della modifica dell´articolo 18, promossa da studenti della Bocconi e pubblicata con risalto dal Corriere della Sera il 21 febbraio scorso, leggiamo addirittura: “I nostri padri oggi vivono nella bambagia delle tutele grazie a un dispetto generazionale”. Bambagia? Davvero è questa la rappresentazione del lavoro dipendente in Italia che si studia nelle aule dell´ateneo del presidente del Consiglio? Corredata magari dal rimprovero ai giovani che aspirano alla monotonia del posto fisso?
Ben si comprende, in una tale visione culturale, che la negazione del reintegro per i licenziamenti economici (anche se immotivati) venga considerata un “principio-base” irrinunciabile dal capo del governo. Così come si capisce la sintonia con le scelte di Sergio Marchionne in materia di libertà d´investimenti e rifiuto della concertazione. La stessa “politica dei redditi” concordata fra le parti sociali, auspicata mezzo secolo fa da La Malfa e in seguito messa in atto da Ciampi, viene liquidata come un ferrovecchio.
Mario Monti non è paragonabile a Margaret Thatcher, come ci ha ben spiegato ieri John Lloyd. Ma l´afflato pedagogico con cui si propone di cambiare la mentalità degli italiani per sottrarli a un destino di declino e sottosviluppo, sconfina ben oltre la tecnica: che lo si voglia o no, è biopolitica. Ha certo la forza sufficiente per tenere a bada gli attuali partiti gravemente screditati; ma al cospetto del malessere sociale rischia di manifestarsi come ideologia a sua volta anacronistica. Non a caso il presidente Napolitano si prodiga nel tentativo di attutirne gli effetti di provocazione. Padri e figli potrebbero indispettirsi all´unisono.

La Repubblica 29.03.12

“L´ideologia dei tecnici”, di Gad Lerner

Il disincanto con cui Monti il tecnico si rivolge dall´estero al Paese malato che gli tocca governare – considerandolo impreparato a comprendere del tutto la terapia da lui somministrata, e però ben allertato contro la malapolitica dei partiti – ormai sta assumendo i tratti di una vera e propria ideologia. Poco importa se il premier la lasci trasparire per passione, per stanchezza o per calcolo: anche i tecnici hanno un cuore e, dunque, un credo. Resta da vedere se tale ideologia tecnica, niente affatto neutrale, risulti adeguata a corrispondere e guidare lo spirito dei tempi, in una società traumatizzata dalla crisi del suo modello di sviluppo. O se invece si riveli anch´essa retaggio di un´epoca travolta da una sequenza di avvenimenti nefasti che non aveva previsto e che ha contribuito a provocare.
Per prima cosa Monti insiste a comunicarci la sua provvisorietà, e non c´è motivo di dubitare che sia sincero. Che sia per modestia o al contrario per supponenza, poco importa, egli si compiace di descriversi quale commissario straordinario a termine: «Sarà fantastico, per me il dopo Monti», scherza. Né difatti ha alcuna intenzione di dimettersi da presidente dell´Università Bocconi, la vera casa cui intende fare ritorno. La forte motivazione implicita in questo annuncio ripetuto è il disinteresse.
Immune da ambizioni personali di carriera che non siano il prestigio “di scuola”, egli rivendica di stare al di sopra e al di fuori degli interessi di parte delle rappresentanze sociali e politiche. Sa bene che alla lunga non può esistere governo neutrale rispetto agli interessi in campo, e anche per questo allude continuamente alla sua provvisorietà. Ma non gli basta per essere creduto: anche lui ha una biografia, non viene dal nulla. Ha partecipato da indipendente ai consigli d´amministrazione di grandi aziende; manifesta una convinta lealtà alle istituzioni dell´Unione Europea in cui ha operato per un decennio; ha frequentato da protagonista i think thank del capitalismo finanziario sovranazionale. Un pedigree autorevolissimo che, unitamente al suo percorso accademico, lo connota quale figura cosmopolita organica a un establishment liberale conservatore, che in Italia è sempre rimasto minoritario. La cui pubblicistica da un ventennio raffigura (a torto o a ragione) le rappresentanze sociali e politiche del nostro Paese come cicale, se non addirittura come cavallette.
Qui s´impone il passaggio successivo dell´ideologia montiana o, se volete, l´idea di giustizia sociale di cui è portatore il tecnico di governo. Dovendo “scontentare tutti”, almeno in parte, con le sue ricette amare, non basterebbe certo a legittimare cotanta severità il fatto che ci venga richiesta dalla troika (Fmi, Bce, Commissione europea) e dai mercati finanziari. L´italiano Monti, per quanto provvisorio, non può presentarsi a noi come il “podestà forestiero” di cui nell´agosto scorso aveva paventato l´avvento.
Ecco allora l´autorappresentazione di sé come portatore di un interesse mai rappresentato al tavolo delle trattative con le parti sociali: i giovani, i nostri figli, i nostri nipoti, addirittura le generazioni future. Prima d´ora solo la cultura ambientalista si era concepita come portavoce lungimirante dei non ancora nati, dentro le controversie del presente. Declinata in prosa tecnica, tale ambiziosa pretesa di redistribuzione intergenerazionale cambia decisamente di segno; com´è apparso chiaro nelle motivazioni pubbliche che hanno accompagnato il varo della riforma delle pensioni, prima, e del mercato del lavoro, poi.
Retrocessa in subordine, o addirittura liquidata come obsoleta la contraddizione fra capitale e lavoro, negata ogni funzione progressiva alla lotta di classe, il tecnico di governo assume come impegno prioritario il superamento di una presunta contrapposizione fra adulti “iper-garantiti” (parole testuali di Monti) e giovani precari. Riecheggia uno slogan di vent´anni fa, “Meno ai padri, più ai figli”. Come se nel frattempo non avessimo verificato che, già ben prima della recessione, i padri hanno cominciato a perdere cospicue quote di reddito e posti di lavoro; mentre la flessibilità ha generalizzato la precarietà dei figli. Qui davvero l´ideologia offusca e mistifica il riconoscimento della vita reale, fino all´accusa rivolta ai sindacati di praticare niente meno che l´”apartheid” dei non garantiti. In una lettera aperta a sostegno della modifica dell´articolo 18, promossa da studenti della Bocconi e pubblicata con risalto dal Corriere della Sera il 21 febbraio scorso, leggiamo addirittura: “I nostri padri oggi vivono nella bambagia delle tutele grazie a un dispetto generazionale”. Bambagia? Davvero è questa la rappresentazione del lavoro dipendente in Italia che si studia nelle aule dell´ateneo del presidente del Consiglio? Corredata magari dal rimprovero ai giovani che aspirano alla monotonia del posto fisso?
Ben si comprende, in una tale visione culturale, che la negazione del reintegro per i licenziamenti economici (anche se immotivati) venga considerata un “principio-base” irrinunciabile dal capo del governo. Così come si capisce la sintonia con le scelte di Sergio Marchionne in materia di libertà d´investimenti e rifiuto della concertazione. La stessa “politica dei redditi” concordata fra le parti sociali, auspicata mezzo secolo fa da La Malfa e in seguito messa in atto da Ciampi, viene liquidata come un ferrovecchio.
Mario Monti non è paragonabile a Margaret Thatcher, come ci ha ben spiegato ieri John Lloyd. Ma l´afflato pedagogico con cui si propone di cambiare la mentalità degli italiani per sottrarli a un destino di declino e sottosviluppo, sconfina ben oltre la tecnica: che lo si voglia o no, è biopolitica. Ha certo la forza sufficiente per tenere a bada gli attuali partiti gravemente screditati; ma al cospetto del malessere sociale rischia di manifestarsi come ideologia a sua volta anacronistica. Non a caso il presidente Napolitano si prodiga nel tentativo di attutirne gli effetti di provocazione. Padri e figli potrebbero indispettirsi all´unisono.

La Repubblica 29.03.12

“L´ideologia dei tecnici”, di Gad Lerner

Il disincanto con cui Monti il tecnico si rivolge dall´estero al Paese malato che gli tocca governare – considerandolo impreparato a comprendere del tutto la terapia da lui somministrata, e però ben allertato contro la malapolitica dei partiti – ormai sta assumendo i tratti di una vera e propria ideologia. Poco importa se il premier la lasci trasparire per passione, per stanchezza o per calcolo: anche i tecnici hanno un cuore e, dunque, un credo. Resta da vedere se tale ideologia tecnica, niente affatto neutrale, risulti adeguata a corrispondere e guidare lo spirito dei tempi, in una società traumatizzata dalla crisi del suo modello di sviluppo. O se invece si riveli anch´essa retaggio di un´epoca travolta da una sequenza di avvenimenti nefasti che non aveva previsto e che ha contribuito a provocare.
Per prima cosa Monti insiste a comunicarci la sua provvisorietà, e non c´è motivo di dubitare che sia sincero. Che sia per modestia o al contrario per supponenza, poco importa, egli si compiace di descriversi quale commissario straordinario a termine: «Sarà fantastico, per me il dopo Monti», scherza. Né difatti ha alcuna intenzione di dimettersi da presidente dell´Università Bocconi, la vera casa cui intende fare ritorno. La forte motivazione implicita in questo annuncio ripetuto è il disinteresse.
Immune da ambizioni personali di carriera che non siano il prestigio “di scuola”, egli rivendica di stare al di sopra e al di fuori degli interessi di parte delle rappresentanze sociali e politiche. Sa bene che alla lunga non può esistere governo neutrale rispetto agli interessi in campo, e anche per questo allude continuamente alla sua provvisorietà. Ma non gli basta per essere creduto: anche lui ha una biografia, non viene dal nulla. Ha partecipato da indipendente ai consigli d´amministrazione di grandi aziende; manifesta una convinta lealtà alle istituzioni dell´Unione Europea in cui ha operato per un decennio; ha frequentato da protagonista i think thank del capitalismo finanziario sovranazionale. Un pedigree autorevolissimo che, unitamente al suo percorso accademico, lo connota quale figura cosmopolita organica a un establishment liberale conservatore, che in Italia è sempre rimasto minoritario. La cui pubblicistica da un ventennio raffigura (a torto o a ragione) le rappresentanze sociali e politiche del nostro Paese come cicale, se non addirittura come cavallette.
Qui s´impone il passaggio successivo dell´ideologia montiana o, se volete, l´idea di giustizia sociale di cui è portatore il tecnico di governo. Dovendo “scontentare tutti”, almeno in parte, con le sue ricette amare, non basterebbe certo a legittimare cotanta severità il fatto che ci venga richiesta dalla troika (Fmi, Bce, Commissione europea) e dai mercati finanziari. L´italiano Monti, per quanto provvisorio, non può presentarsi a noi come il “podestà forestiero” di cui nell´agosto scorso aveva paventato l´avvento.
Ecco allora l´autorappresentazione di sé come portatore di un interesse mai rappresentato al tavolo delle trattative con le parti sociali: i giovani, i nostri figli, i nostri nipoti, addirittura le generazioni future. Prima d´ora solo la cultura ambientalista si era concepita come portavoce lungimirante dei non ancora nati, dentro le controversie del presente. Declinata in prosa tecnica, tale ambiziosa pretesa di redistribuzione intergenerazionale cambia decisamente di segno; com´è apparso chiaro nelle motivazioni pubbliche che hanno accompagnato il varo della riforma delle pensioni, prima, e del mercato del lavoro, poi.
Retrocessa in subordine, o addirittura liquidata come obsoleta la contraddizione fra capitale e lavoro, negata ogni funzione progressiva alla lotta di classe, il tecnico di governo assume come impegno prioritario il superamento di una presunta contrapposizione fra adulti “iper-garantiti” (parole testuali di Monti) e giovani precari. Riecheggia uno slogan di vent´anni fa, “Meno ai padri, più ai figli”. Come se nel frattempo non avessimo verificato che, già ben prima della recessione, i padri hanno cominciato a perdere cospicue quote di reddito e posti di lavoro; mentre la flessibilità ha generalizzato la precarietà dei figli. Qui davvero l´ideologia offusca e mistifica il riconoscimento della vita reale, fino all´accusa rivolta ai sindacati di praticare niente meno che l´”apartheid” dei non garantiti. In una lettera aperta a sostegno della modifica dell´articolo 18, promossa da studenti della Bocconi e pubblicata con risalto dal Corriere della Sera il 21 febbraio scorso, leggiamo addirittura: “I nostri padri oggi vivono nella bambagia delle tutele grazie a un dispetto generazionale”. Bambagia? Davvero è questa la rappresentazione del lavoro dipendente in Italia che si studia nelle aule dell´ateneo del presidente del Consiglio? Corredata magari dal rimprovero ai giovani che aspirano alla monotonia del posto fisso?
Ben si comprende, in una tale visione culturale, che la negazione del reintegro per i licenziamenti economici (anche se immotivati) venga considerata un “principio-base” irrinunciabile dal capo del governo. Così come si capisce la sintonia con le scelte di Sergio Marchionne in materia di libertà d´investimenti e rifiuto della concertazione. La stessa “politica dei redditi” concordata fra le parti sociali, auspicata mezzo secolo fa da La Malfa e in seguito messa in atto da Ciampi, viene liquidata come un ferrovecchio.
Mario Monti non è paragonabile a Margaret Thatcher, come ci ha ben spiegato ieri John Lloyd. Ma l´afflato pedagogico con cui si propone di cambiare la mentalità degli italiani per sottrarli a un destino di declino e sottosviluppo, sconfina ben oltre la tecnica: che lo si voglia o no, è biopolitica. Ha certo la forza sufficiente per tenere a bada gli attuali partiti gravemente screditati; ma al cospetto del malessere sociale rischia di manifestarsi come ideologia a sua volta anacronistica. Non a caso il presidente Napolitano si prodiga nel tentativo di attutirne gli effetti di provocazione. Padri e figli potrebbero indispettirsi all´unisono.

La Repubblica 29.03.12

"La nostalgia globale in un mondo di emigranti", di Federico Rampini

Mai prima d´ora l´umanità aveva avuto tanta facilità a spostarsi e a comunicare. I costi psicologici del nomadismo planetario sono però in aumento. La nostalgia è diventata la nuova patologia della globalizzazione. Sono molti gli espatriati che soffrono di depressione. Ma pochi ne parlano. In totale sono 215 milioni le persone che si sono trasferite all´estero. Ci sentiamo cosmopoliti, eppure non siamo così facilmente sradicabili Skype, Facebook e email danno l´illusione che basti poco per annullare le distanze. In tanti invece stanno peggio proprio dopo una videochiamata con i propri familiari.

È il vero male del secolo, la nuova patologia diffusa dalla globalizzazione? Ha un nome antico: “Nostalgia di casa”. Nell´Ottocento, all´alba delle migrazioni mondiali legate alla prima rivoluzione industriale, era un termine medico, usato nelle riviste scientifiche come descrizione di una vera malattia. Oggi viviamo nell´epoca delle migrazioni “2.0”, un salto di civiltà ci ha trasportati in un universo senza frontiere e senza distanze. Mai prima d´ora l´umanità ha avuto tanta facilità a spostarsi e a comunicare. Emigranti poveri in fuga dal sottosviluppo o dalle guerre; espatriati di professione; “cervelli” che si spostano all´estero in cerca di migliori opportunità scientifiche. La tipologia è vasta, ma si scopre che non siamo così facilmente sradicabili, esportabili, adattabili. I costi psicologici del nomadismo globale sono in aumento. I numeri delle nuove migrazioni sono impressionanti, fantastici o spaventosi, di certo senza precedenti nella storia. A livello planetario il numero totale degli emigrati viene censito in 215 milioni di persone; con una crescita di 25 milioni nell´ultimo quindicennio.
I numeri delle nuove migrazioni sono impressionanti, fantastici o spaventosi, di certo senza precedenti nella storia. I dati della Organizzazione internazionale per le migrazioni rilevano solo per gli Stati Uniti un flusso in ingresso superiore a un milione di nuovi immigrati ogni anno. A livello planetario il numero totale degli emigrati viene censito in 215 milioni di persone; con una crescita di 25 milioni nell´ultimo quindicennio. E questa cifra non include le migrazioni interne, che possono comportare ugualmente spostamenti su grandi distanze, esperienze di sradicamento estremo. Basti pensare ai 10 milioni di contadini cinesi che ogni anno abbandonano le campagne e si riversano nelle metropoli costiere come Pechino o Shanghai. Anche il lavoratore americano licenziato a Detroit che si sposta per cercare un´occupazione in Arizona, fa un salto di qualche migliaio di chilometri, a grande distanza da dov´è cresciuto e da dove vivono i suoi affetti. Gli immigrati “interni” sono 740 milioni.
In totale, in questo istante un miliardo di abitanti del pianeta vivono l´esperienza dell´emigrazione: un essere umano su sette. E diventeremo molto più numerosi, ben presto. L´ultimo sondaggio Gallup World Poll rivela infatti che sono un miliardo e cento milioni coloro che «vogliono spostarsi temporaneamente all´estero nella speranza di trovare un lavoro migliore». Altre 630 milioni di persone vorrebbero «trasferirsi all´estero in modo permanente». Un terzo dell´umanità si sente psicologicamente sul piede di partenza, disponibile o costretto, attirato o rassegnato a doversi rifare una vita “altrove”. Ai due estremi del ventaglio delle migrazioni, ci sono disperazione e libertà. Le diseguaglianze crescenti aumentano la pressione per abbandonare i luoghi più miseri e inospitali. Al tempo stesso è diventato più facile andarsene, e viviamo in una cultura che esalta la mobilità come un valore positivo. Il giovane italiano neolaureato, che ha assaggiato l´esperienza dell´estero con un programma Erasmus di studio in una facoltà straniera, sente dire che «i migliori se ne vanno», vede talenti che si affermano dopo avere spiccato il volo verso gli Stati Uniti.
Ma è proprio vero che il XXI secolo ci ha reso tutti cittadini del mondo, cosmopoliti e flessibili? Una studiosa americana delle migrazioni, Susan Matt della Weber State University, dimostra che è una forzatura. «Il cosmopolitismo – spiega la Matt – e cioè l´idea che gli individui possono e debbono sentirsi a casa propria in ogni angolo del mondo, risale nientemeno che all´Illuminismo. Solo ora però è diventata senso comune, valore di massa, come un ingrediente costitutivo dell´economia globale. Tuttavia dopo un decennio di ricerche sulle esperienze e le emozioni degli immigrati, ho scoperto che molti di coloro che lasciano casa in cerca di un futuro migliore finiscono per subìre uno spaesamento dagli effetti depressivi. Pochi ne parlano apertamente». Gli effetti collaterali possono variare a seconda dello status socio-professionale: non vivono la stessa vita il messicano immigrato a Los Angeles per lavorare come cameriere o giardiniere, e il giovane matematico italiano che ha vinto una cattedra a Berkeley. La Matt però ha scoperto che la sindrome nostalgica è interclassista, colpisce anche chi vive in condizioni migliori. «Skype, Facebook, le email e i cellulari traggono in inganno – sostiene la ricercatrice – perché danno l´illusione che migrare sia diventato indolore, che le conseguenze siano irrilevanti perché ormai basta un clic sulla tastiera per cancellare le distanze».
Le tecnologie hanno aiutato anche i più poveri. Per l´espatriato di élite, già trent´anni fa viaggiare era facile. Oggi con le compagnie aeree lowcost il volo intercontinentale è accessibile a masse sempre più vaste. La videotelefonata internazionale gratuita con Skype è nelle case di tutti, compresi i latinos che arrivano in California per lavorare negli aranceti e nella raccolta dei pomodori. La velocità di diffusione “democratica” di queste tecnologie è strepitosa. Lo documenta una ricerca della fondazione Carnegie: ancora nel 2002 solo il 28% degli immigrati qui negli Stati Uniti telefonava ai familiari almeno una volta alla settimana; oggi oltre il 66%. E tuttavia uno studio pubblicato nella rivista scientifica Archives of General Psychiatry dimostra che i messicani immigrati negli Usa hanno tassi di depressione superiori del 40% ai loro familiari rimasti in Messico. «Una imponente mole di ricerche – conferma Susan Matt – documenta lo stesso fenomeno in altre comunità etniche. Tutti i nuovi arrivati in America soffrono di alte percentuali di depressione e sindromi da stress di acculturazione».
Nonostante il maggiore benessere che spesso premia coloro che imboccano la strada dell´emigrazione, le percentuali di ritorno sono più elevate di quanto si creda. «Dal 20% al 40% di tutti gli immigrati negli Stati Uniti, finiscono per ritornare al paese d´origine». Tutto ciò non stupiva affatto gli psicologi dell´Ottocento. Nell´epoca dei pionieri, dopo la conquista del Far West e la febbre dell´oro (il primo boom d´immigrazione globale verso la California nel 1848), i medici studiavano sistematicamente le “malattie da emigranti”, e il termine “nostalgia” ricorreva nel vocabolario clinico, come una sindrome precisa e talvolta fatale. Un articolo del 1887 sull´Evening Bulletin di San Francisco descriveva in modo dettagliato e struggente gli ultimi giorni di vita di un sacerdote irlandese, il reverendo McHale, «ucciso dai dolori della nostalgia di casa». Le riviste mediche americane di quell´epoca erano piene di una casistica simile. Parlare di nostalgia non era un tabù, nonostante che l´America fosse stata costruita su una visione gloriosa e positiva della mobilità, dello spirito di avventura, della voglia di conquista di nuovi territori.
«Oggi invece – osserva Susan Matt – le discussioni esplicite di questo fenomeno sono rare, anche nella comunità scientifica. Sembra quasi che le emozioni e i danni affettivi dell´emigrare siano un ostacolo imbarazzante, sulla strada del progresso e della prosperità individuale. L´idea che sia facile sentirsi a casa propria in ogni angolo del pianeta, deriva da una visione dell´umanità che celebra l´individuo solitario, mobile, facilmente separabile dalla sua famiglia, dalle sue radici, dal suo passato». In quanto all´illusione che le tecnologie abbiano abbattuto frontiere e distanze, la psicologa messicana Maria Elena Rivera ha raggiunto la conclusione opposta: molti suoi pazienti soffrono ancora più acutamente la lontananza da casa, dopo avere “assaggiato” l´atmosfera di una cena tra familiari e amici… osservata a mille chilometri di distanza sullo schermo di un computer o di un´iPhone via Skype.

Repubblica 28.3.12

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“I luoghi della memoria. Lo struggente viaggio tra le città del mondo”, di Gabriele Romagnoli

Metti di aver cambiato 8 città in 4 continenti. Ventisei appartamenti aperti e chiusi (trauma da trasloco? Basta sopravvivere la prima volta). Poi qualcuno ti chiede: non hai nostalgia di casa? Cerchi la risposta, ma quel che non trovi è “casa”. Nella mente si crea una sovrapposizione di immagini e sensazioni: i portici di Bologna lungo le avenues di Manhattan al fondo delle quali luccica il mare di Beirut. Alle sue spalle, Superga. Anni fa (la città, all´epoca, era Roma), mi proposero di scrivere una serie televisiva, così originale che non andò mai in onda. Storie fantastiche unite da un solo filo conduttore: lo scenario. Avevano fatto progettare a Vittorio Storaro “CurioCity”, così doveva chiamarsi la serie, con fondali che riproducevano parti di Roma e Londra, Parigi e Berlino. Una città della memoria, che avevi abitato e lasciato, dove forse ti era accaduto qualcosa o forse l´avevi sognato.
Più vivi e traslochi, più quella diventa la tua residenza: la città della memoria, la topografia dei ricordi che ti consenti.
Diceva Norman Mailer, essendosi sposato sei volte, che il matrimonio equivale alla vita in una città: «Per un po´ Los Angeles, meravigliosa esperienza. Poi Barcellona, altrettanto interessante. E così via..». Trascurando l´ipotesi di “sposarsi” a Frosinone, con tutto il rispetto per Frosinone. Vero è però anche il contrario: vivere in una città equivale a una relazione sentimentale. Andarsene provoca strascichi e sofferenze, non importa chi lascia chi e perché. Ricordo ancora la notte in cui abbandonai Beirut. L´aereo partiva all´alba. Il taxi attraversò la corniche in piena notte, il vento piegava le palme, il muezzin per la prima volta mi sembrò emettere un canto anziché un grido. Chiesi all´autista di accelerare e ridurmi lo strazio.
La prima mattina dopo aver lasciato New York aprii la finestra e vidi sullo sfondo il cupolone, ma davanti agli occhi un cestino che scendeva dalla finestra per ricevere la spesa dal panettiere, come in un film neorealista. Sintonizzai Mtv e partirono i Pet Shop Boys, dio li perdoni, con “New York City Boy”, quella che promette: non avrai mai un giorno di noia. Rimasi attonito ad ascoltarla fino alla fine, e ce ne vuole di malinconia.
Cambiare tanto, forse troppo, significa non tenere più insieme niente. Dimenticare per poter proseguire. Se ti manca una città, o una persona, puoi crearle un posto nel tuo cuore, ma con sei ti si sfondano le pareti dei ventricoli. E poi ogni volta che cambi residenza cambi anche tu e se torni nessuno ti riconosce, non veramente. I tuoi compagni di scuola che non si sono mai mossi dalla città dove sei nato continuano a guardarti cercando le tracce di quello che eri, di un´evoluzione che non hanno condiviso, riesumano aneddoti che proprio non rammenti perché non avevi più spazio nel file di quel gran casino che è stata la tua vita e hai cancellato la prima liceo. O hai fatto delle scelte e tenuto soltanto quel con cui potevi convivere: istinto di conservazione è anche tradire la memoria con l´indifferenza. Gli expats con cui hai bevuto tremendi liquori contraffatti nelle feluche lungo il Nilo hanno cambiato altrettante città, per un po´ vi siete inseguiti via mail da Istanbul a Shanghai, poi sono mutati anche gli account e quella era comunque la scusa per staccarsi. Così torni in gusci vuoti che assomigliano troppo a se stessi e ti segnano il tempo trascorso. Le città che hai lasciato sono ombre di meridiane sul tuo volto, più profonde delle rughe che ti aspettano al varco. Smetti di frequentarle. Vai avanti.
“Che ci fai a Milano?”.
Era la prossima tappa (unisci i puntini, qualcosa apparirà), era un posto come un altro, era l´Everest che era lì e allora: su. Un giorno mi ricorderò del tram della linea 19 che passava sferragliando nella neve, di quelli che ballavano il tango a mezzanotte dietro Piazza Affari, delle russe con gli uomini orrendi al bar di corso Sempione, o forse quello era a rue Monot, a Beirut. Vuoi sapere, davvero, di che cosa ho nostalgia? Di quello che non è mai accaduto. Del campus di una università della California dove non ho studiato, della casa con vista sulla Table Mountain che non ho mai arredato, del prossimo luogo dove andrò, con un bagaglio a mano, un passaporto valido almeno sei mesi e una ferma determinazione a non farmi mancare mai qualunque cosa lì possa esistere o accadere.

La Repubblica 29.03.12