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“Monti chiama e i partiti rispondono, accordo lampo sulle grandi riforme”, di Francesco Lo Sardo

In parallelo modifiche costituzionali e abrogazione del Porcellum: decolla il “lodo Napolitano”. Non solo fibrillazioni e fisiologiche tensioni, come sulla delicata partita dell’articolo 18: la maggioranza parlamentare che sostiene l’esecutivo Monti regge all’urto, sigla un’intesa lampo sulle riforme istituzionali ed elettorale e dissolve i fantasmi di crisi e di voto anticipato. A Mario Monti che due giorni fa da Seul, in Corea, aveva “richiamato” i partiti, i tre segretari di Pdl, Pd e Udc hanno risposto ieri dalla cosiddetta Corea di Montecitorio, il grande corridoio parallelo al Transatlantico: dallo studio di Berlusconi.
Un vertice deciso a tambur battente: ordine del giorno preciso, zero sbavature: poco più di un’ora di colloquio tra Alfano, Bersani e Casini, assistiti da La Russa, Quagliariello, Violante, Adornato e Bocchino per siglare un protocollo congiunto sulle riforme istituzionali possibili in questo scorcio di legislatura da far marciare – e qui è la novità – in parallelo con una riforma elettorale che consenta, cancellando il Porcellum, la scelta dei parlamentari da parte di chi vota e la fine dell’obbligo di coalizione.
Sembra poco: ma nella «strana e eterogenea» maggioranza “montista” l’accelerazione chiesta dal Pd sulla legge elettorale che era stata finora posta in coda, cioè dopo le riforme costituzionali, è l’ennesimo esplicito segnale politico della volontà di arrivare con Monti fino a fine legislatura, che i tre segretari hanno voluto mandare non soltanto al capo del governo, ma anche ai loro nervosi partiti: alternativamente, o congiuntamente, insofferenti al piglio “tecnico”. Si rassegni chi, nei partiti, ancora coltiva l’idea di spedire a casa Monti anzitempo. Dal vertice “ABC” esce il messaggio opposto: si va avanti. C’è un pezzo di Pdl, per restare sul versante destro della maggioranza – molti ex An più qualche falco ex forzista – che gioca al tanto peggio tanto meglio e cerca la rissa, come sull’articolo 18: il che fa gioco a Berlusconi, ma a condizione che si tratti solo di fumo, senza far veri danni a Monti.
Quest’ala di Pdl, ieri, è stata isolata e neutralizzata: poiché si doveva mandare un segnale di concordia tra i segretari sulle riforme, Alfano ha ammainato la bandiera del Pdl del posticipo della legge elettorale rispetto alle modifiche della costituzione. Si vedrà in concreto se l’atto cavalleresco del Pdl nasconda una trappola: cioè se, una volta partite in parallelo, «le riforme costituzionali passano entro giugno in prima lettura e quella elettorale invece rallenta…», come già sibilava ieri un grosso calibro del Pdl, ex aennino.
Ma per veleni e trame c’è tempo. Ieri è stato il giorno dell’accordo (nonostante uno scambio di battute al fulmicotone Bersani-Alfano sull’articolo 18), salutato subito da Napolitano con parole di «vivo apprezzamento» per l’impegno di Pdl, Pd e Terzo polo a collaborare «senza indugio» alla doppia riforma. Del resto l’idea del percorso parallelo ha il copyright del Quirinale, che la teorizza da prima di Natale. «Possiamo dire che è passato il “lodo Napolitano”», scherzava ieri Quagliariello. La prossima settimana i segretari si ritroveranno per un nuovo vertice, con Monti. Dovrebbe essere la volta del dossier Rai e di un primo accenno a quello sull’articolo 18. Per certo ABC e Monti parleranno di giustizia, tema su cui il Pdl (in cui tutti sono contro tutti e nessuno si fida più di nessuno) ha i nervi scoperti.
Al punto che ieri, in vista del vertice di venerdì su anticorruzione, responsabilità civile dei magistrati e intercettazioni (tra i capigruppo Pdl, Pd, Udc e Fli e il ministro Paola Severino), Cicchitto s’è attaccato al telefono e ha preteso di parlare direttamente con Monti che era a Seul, nel bel mezzo di una plenaria di 60 leader mondiali: scavalcando clamorosamente Alfano, ha indicato presunti paletti e chiesto garanzie sui nodi della giustizia. Per colpa della telefonata, Monti s’è perso il discorso di Obama in cui il presidente Usa aveva onorato il premier-professore italiano con una citazione.

da Europa Quotidiano 28.03.12

“Monti chiama e i partiti rispondono, accordo lampo sulle grandi riforme”, di Francesco Lo Sardo

In parallelo modifiche costituzionali e abrogazione del Porcellum: decolla il “lodo Napolitano”. Non solo fibrillazioni e fisiologiche tensioni, come sulla delicata partita dell’articolo 18: la maggioranza parlamentare che sostiene l’esecutivo Monti regge all’urto, sigla un’intesa lampo sulle riforme istituzionali ed elettorale e dissolve i fantasmi di crisi e di voto anticipato. A Mario Monti che due giorni fa da Seul, in Corea, aveva “richiamato” i partiti, i tre segretari di Pdl, Pd e Udc hanno risposto ieri dalla cosiddetta Corea di Montecitorio, il grande corridoio parallelo al Transatlantico: dallo studio di Berlusconi.
Un vertice deciso a tambur battente: ordine del giorno preciso, zero sbavature: poco più di un’ora di colloquio tra Alfano, Bersani e Casini, assistiti da La Russa, Quagliariello, Violante, Adornato e Bocchino per siglare un protocollo congiunto sulle riforme istituzionali possibili in questo scorcio di legislatura da far marciare – e qui è la novità – in parallelo con una riforma elettorale che consenta, cancellando il Porcellum, la scelta dei parlamentari da parte di chi vota e la fine dell’obbligo di coalizione.
Sembra poco: ma nella «strana e eterogenea» maggioranza “montista” l’accelerazione chiesta dal Pd sulla legge elettorale che era stata finora posta in coda, cioè dopo le riforme costituzionali, è l’ennesimo esplicito segnale politico della volontà di arrivare con Monti fino a fine legislatura, che i tre segretari hanno voluto mandare non soltanto al capo del governo, ma anche ai loro nervosi partiti: alternativamente, o congiuntamente, insofferenti al piglio “tecnico”. Si rassegni chi, nei partiti, ancora coltiva l’idea di spedire a casa Monti anzitempo. Dal vertice “ABC” esce il messaggio opposto: si va avanti. C’è un pezzo di Pdl, per restare sul versante destro della maggioranza – molti ex An più qualche falco ex forzista – che gioca al tanto peggio tanto meglio e cerca la rissa, come sull’articolo 18: il che fa gioco a Berlusconi, ma a condizione che si tratti solo di fumo, senza far veri danni a Monti.
Quest’ala di Pdl, ieri, è stata isolata e neutralizzata: poiché si doveva mandare un segnale di concordia tra i segretari sulle riforme, Alfano ha ammainato la bandiera del Pdl del posticipo della legge elettorale rispetto alle modifiche della costituzione. Si vedrà in concreto se l’atto cavalleresco del Pdl nasconda una trappola: cioè se, una volta partite in parallelo, «le riforme costituzionali passano entro giugno in prima lettura e quella elettorale invece rallenta…», come già sibilava ieri un grosso calibro del Pdl, ex aennino.
Ma per veleni e trame c’è tempo. Ieri è stato il giorno dell’accordo (nonostante uno scambio di battute al fulmicotone Bersani-Alfano sull’articolo 18), salutato subito da Napolitano con parole di «vivo apprezzamento» per l’impegno di Pdl, Pd e Terzo polo a collaborare «senza indugio» alla doppia riforma. Del resto l’idea del percorso parallelo ha il copyright del Quirinale, che la teorizza da prima di Natale. «Possiamo dire che è passato il “lodo Napolitano”», scherzava ieri Quagliariello. La prossima settimana i segretari si ritroveranno per un nuovo vertice, con Monti. Dovrebbe essere la volta del dossier Rai e di un primo accenno a quello sull’articolo 18. Per certo ABC e Monti parleranno di giustizia, tema su cui il Pdl (in cui tutti sono contro tutti e nessuno si fida più di nessuno) ha i nervi scoperti.
Al punto che ieri, in vista del vertice di venerdì su anticorruzione, responsabilità civile dei magistrati e intercettazioni (tra i capigruppo Pdl, Pd, Udc e Fli e il ministro Paola Severino), Cicchitto s’è attaccato al telefono e ha preteso di parlare direttamente con Monti che era a Seul, nel bel mezzo di una plenaria di 60 leader mondiali: scavalcando clamorosamente Alfano, ha indicato presunti paletti e chiesto garanzie sui nodi della giustizia. Per colpa della telefonata, Monti s’è perso il discorso di Obama in cui il presidente Usa aveva onorato il premier-professore italiano con una citazione.

da Europa Quotidiano 28.03.12

"Precari, i limiti del Piano Fornero", di Franco Scarpelli*

Le regole del mercato del lavoro hanno molte funzioni, più o meno evidenti a seconda dei casi: incidono sulle condizioni di concorrenza tra le imprese, da un lato, comportano conseguenze di maggiore o minore protezione sociale per i lavoratori (occupati o disoccupati), dall’altro. Una cosa però fanno, sempre: determinano gli equilibri di potere sociale e contrattuale tra i soggetti coinvolti, sia nella dimensione individuale (il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro) sia in quella collettiva (le condizioni di radicamento delle organizzazioni sindacali). Da un governo tecnico, sostenuto da una maggioranza trasversale, ci si attenderebbe che questi delicatissimi equilibri siano modificati il meno possibile, puntando soprattutto a interventi di razionalizzazione ed efficienza o che, almeno, le loro modifiche fossero compensate da interventi di riequilibrio su altri aspetti. Sorprende davvero che quasi nessuno abbia notato in questi giorni il grave intervento previsto sui contratti a termine. Si parla molto, e giustamente, della riforma sull’art. 18, che sposta il potere contrattuale a favore dell’impresa indebolendo la sanzione di un licenziamento che risulti privo di una seria giustificazione. Il ministro del Lavoro, per giustificare tale scelta, ha affermato in più occasioni che la manovra ha un equilibrio complessivo, dato dagli interventi sulla flessibilità in entrata miranti a contrastare l’utilizzo abusivo di alcuni contratti e spingere verso la forma contrattuale standard, a tempo indeterminato. Nella manovra sono previsti alcuni interventi antielusivi, ma sulla materia centrale dei contratti a termine il documento contiene una sorpresa molto negativa, che va in senso esattamente opposto a quello annunciato. Infatti si prevede che il primo contratto a termine stipulato da un’impresa col singolo lavoratore sia privo di ogni limite, venendo meno l’obbligo di una giustificazione «causale» previsto dalla legge vigente. Ciò significa autorizzare l’impiego di manodopera precaria senza limiti, eliminando la possibilità per i lavoratori così impiegati di far valere in giudizio l’eventuale contrasto del contratto con la legge. Questa modifica va in direzione opposta a quanto voluto dalla disciplina europea. Non per caso, da circa un decennio la maggioranza di centro destra ha ripetutamente tentato di allargare le maglie della legge del 2001 che aveva attuato la direttiva Ue, e che la giurisprudenza ha interpretato nel senso di una rigorosa necessità di giustificazione del ricorso al lavoro temporaneo. La modifica, se passerà, aggraverà la condizione soprattutto dei lavoratori marginali a bassa professionalità, che rischiano di passare da un’impresa all’altra, da un «primo» contratto a termine all’altro, senza alcuna speranza di entrare nella «cittadella» del lavoro standard. La proposta Fornero non prevede alcun obbligo di stabilizzarne una parte, né alcun limite quantitativo o di durata del contratto. C’è solo un lieve aumento del costo contributivo, ampiamente compensato dal minore costo salariale dei contratti precari, dall’esclusione dei rischi di contenzioso giudiziario, dalla possibilità di affidare stabilmente una quota della produzione a lavoratori per i quali è di fatto impossibile l’accesso alla rappresentanza sindacale. Anche su questa materia la proposta modifica gli equilibri di potere sociale a favore delle imprese, anzi delle imprese che meno investono sul lavoro: quando si rende più facile l’impiego di manodopera scarsamente professionalizzata si creano effetti distorsivi della concorrenza, a danno delle imprese più avanzate e socialmente sensibili. È necessaria una seria correzione della direzione di marcia, che ci si augura venga dall’esame parlamentare.

*Ordinario di diritto del lavoro all’Università di Milano Bicocca

L’Unità 28.03.12

“Precari, i limiti del Piano Fornero”, di Franco Scarpelli*

Le regole del mercato del lavoro hanno molte funzioni, più o meno evidenti a seconda dei casi: incidono sulle condizioni di concorrenza tra le imprese, da un lato, comportano conseguenze di maggiore o minore protezione sociale per i lavoratori (occupati o disoccupati), dall’altro. Una cosa però fanno, sempre: determinano gli equilibri di potere sociale e contrattuale tra i soggetti coinvolti, sia nella dimensione individuale (il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro) sia in quella collettiva (le condizioni di radicamento delle organizzazioni sindacali). Da un governo tecnico, sostenuto da una maggioranza trasversale, ci si attenderebbe che questi delicatissimi equilibri siano modificati il meno possibile, puntando soprattutto a interventi di razionalizzazione ed efficienza o che, almeno, le loro modifiche fossero compensate da interventi di riequilibrio su altri aspetti. Sorprende davvero che quasi nessuno abbia notato in questi giorni il grave intervento previsto sui contratti a termine. Si parla molto, e giustamente, della riforma sull’art. 18, che sposta il potere contrattuale a favore dell’impresa indebolendo la sanzione di un licenziamento che risulti privo di una seria giustificazione. Il ministro del Lavoro, per giustificare tale scelta, ha affermato in più occasioni che la manovra ha un equilibrio complessivo, dato dagli interventi sulla flessibilità in entrata miranti a contrastare l’utilizzo abusivo di alcuni contratti e spingere verso la forma contrattuale standard, a tempo indeterminato. Nella manovra sono previsti alcuni interventi antielusivi, ma sulla materia centrale dei contratti a termine il documento contiene una sorpresa molto negativa, che va in senso esattamente opposto a quello annunciato. Infatti si prevede che il primo contratto a termine stipulato da un’impresa col singolo lavoratore sia privo di ogni limite, venendo meno l’obbligo di una giustificazione «causale» previsto dalla legge vigente. Ciò significa autorizzare l’impiego di manodopera precaria senza limiti, eliminando la possibilità per i lavoratori così impiegati di far valere in giudizio l’eventuale contrasto del contratto con la legge. Questa modifica va in direzione opposta a quanto voluto dalla disciplina europea. Non per caso, da circa un decennio la maggioranza di centro destra ha ripetutamente tentato di allargare le maglie della legge del 2001 che aveva attuato la direttiva Ue, e che la giurisprudenza ha interpretato nel senso di una rigorosa necessità di giustificazione del ricorso al lavoro temporaneo. La modifica, se passerà, aggraverà la condizione soprattutto dei lavoratori marginali a bassa professionalità, che rischiano di passare da un’impresa all’altra, da un «primo» contratto a termine all’altro, senza alcuna speranza di entrare nella «cittadella» del lavoro standard. La proposta Fornero non prevede alcun obbligo di stabilizzarne una parte, né alcun limite quantitativo o di durata del contratto. C’è solo un lieve aumento del costo contributivo, ampiamente compensato dal minore costo salariale dei contratti precari, dall’esclusione dei rischi di contenzioso giudiziario, dalla possibilità di affidare stabilmente una quota della produzione a lavoratori per i quali è di fatto impossibile l’accesso alla rappresentanza sindacale. Anche su questa materia la proposta modifica gli equilibri di potere sociale a favore delle imprese, anzi delle imprese che meno investono sul lavoro: quando si rende più facile l’impiego di manodopera scarsamente professionalizzata si creano effetti distorsivi della concorrenza, a danno delle imprese più avanzate e socialmente sensibili. È necessaria una seria correzione della direzione di marcia, che ci si augura venga dall’esame parlamentare.

*Ordinario di diritto del lavoro all’Università di Milano Bicocca

L’Unità 28.03.12

“Precari, i limiti del Piano Fornero”, di Franco Scarpelli*

Le regole del mercato del lavoro hanno molte funzioni, più o meno evidenti a seconda dei casi: incidono sulle condizioni di concorrenza tra le imprese, da un lato, comportano conseguenze di maggiore o minore protezione sociale per i lavoratori (occupati o disoccupati), dall’altro. Una cosa però fanno, sempre: determinano gli equilibri di potere sociale e contrattuale tra i soggetti coinvolti, sia nella dimensione individuale (il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro) sia in quella collettiva (le condizioni di radicamento delle organizzazioni sindacali). Da un governo tecnico, sostenuto da una maggioranza trasversale, ci si attenderebbe che questi delicatissimi equilibri siano modificati il meno possibile, puntando soprattutto a interventi di razionalizzazione ed efficienza o che, almeno, le loro modifiche fossero compensate da interventi di riequilibrio su altri aspetti. Sorprende davvero che quasi nessuno abbia notato in questi giorni il grave intervento previsto sui contratti a termine. Si parla molto, e giustamente, della riforma sull’art. 18, che sposta il potere contrattuale a favore dell’impresa indebolendo la sanzione di un licenziamento che risulti privo di una seria giustificazione. Il ministro del Lavoro, per giustificare tale scelta, ha affermato in più occasioni che la manovra ha un equilibrio complessivo, dato dagli interventi sulla flessibilità in entrata miranti a contrastare l’utilizzo abusivo di alcuni contratti e spingere verso la forma contrattuale standard, a tempo indeterminato. Nella manovra sono previsti alcuni interventi antielusivi, ma sulla materia centrale dei contratti a termine il documento contiene una sorpresa molto negativa, che va in senso esattamente opposto a quello annunciato. Infatti si prevede che il primo contratto a termine stipulato da un’impresa col singolo lavoratore sia privo di ogni limite, venendo meno l’obbligo di una giustificazione «causale» previsto dalla legge vigente. Ciò significa autorizzare l’impiego di manodopera precaria senza limiti, eliminando la possibilità per i lavoratori così impiegati di far valere in giudizio l’eventuale contrasto del contratto con la legge. Questa modifica va in direzione opposta a quanto voluto dalla disciplina europea. Non per caso, da circa un decennio la maggioranza di centro destra ha ripetutamente tentato di allargare le maglie della legge del 2001 che aveva attuato la direttiva Ue, e che la giurisprudenza ha interpretato nel senso di una rigorosa necessità di giustificazione del ricorso al lavoro temporaneo. La modifica, se passerà, aggraverà la condizione soprattutto dei lavoratori marginali a bassa professionalità, che rischiano di passare da un’impresa all’altra, da un «primo» contratto a termine all’altro, senza alcuna speranza di entrare nella «cittadella» del lavoro standard. La proposta Fornero non prevede alcun obbligo di stabilizzarne una parte, né alcun limite quantitativo o di durata del contratto. C’è solo un lieve aumento del costo contributivo, ampiamente compensato dal minore costo salariale dei contratti precari, dall’esclusione dei rischi di contenzioso giudiziario, dalla possibilità di affidare stabilmente una quota della produzione a lavoratori per i quali è di fatto impossibile l’accesso alla rappresentanza sindacale. Anche su questa materia la proposta modifica gli equilibri di potere sociale a favore delle imprese, anzi delle imprese che meno investono sul lavoro: quando si rende più facile l’impiego di manodopera scarsamente professionalizzata si creano effetti distorsivi della concorrenza, a danno delle imprese più avanzate e socialmente sensibili. È necessaria una seria correzione della direzione di marcia, che ci si augura venga dall’esame parlamentare.

*Ordinario di diritto del lavoro all’Università di Milano Bicocca

L’Unità 28.03.12

"L'errore del bruco", di Barbara Spinelli

C´è qualcosa che zoppica molto, nel giudizio che il Premier dà dell´Italia, della sua preparazione ad accettare le volontà del governo. Sostiene Mario Monti che «se il Paese non è pronto» lui se ne va, non sta aggrappato alla poltrona come i vecchi politici. Ma lo vede, il Paese? E sullo sfondo vede davvero l´Europa, come promette, o percepisce solo l´austerità sollecitata in agosto dall´Unione? In realtà l´Italia sarebbe più che pronta, se solo le si dicesse la direzione in cui si va, l´Europa diversa che si vuol costruire, la democrazia da rifondare a casa ma anche fuori: lì dove si sta decidendo, ben poco democraticamente, la mutazione delle nostre economie, delle nostre tutele sociali, del lavoro.
È qui che manca prontezza: nei governi, non nei Paesi. Che manca il riformismo autentico: quello che non cambia le cose con rivoluzioni, ma le cambia pur sempre. La modifica dell´articolo 18 e altre misure d´austerità hanno senso se inserite in una mutazione al tempo stesso economica, democratica, geopolitica. Se non son parte di un New Deal nazionale ed europeo, secernono solo recessione, regressione, e quei chicchi di furore che secondo Steinbeck marchiarono la Depressione negli anni ‘30. Al Premier vorrei domandare: è per un New Deal che sta a Palazzo Chigi, o per certificare che la crisi economico-democratica è gestibile da platoniche, oligarchiche Repubbliche di esperti-filosofi che la sanno più lunga? Una risposta a simili interrogativi ci preparerebbe un po´. Non basta dire: noi abbiamo filosofie sui giovani e il futuro che nessuno possiede.
Urge quel che chiedono da tempo i federalisti; quel che il 10 marzo hanno invocato tanti cittadini e movimenti europei, in un appello (firmato anche da Jacques Delors) uscito in Italia e Germania: un´Europa politica, un´assemblea costituente che ne faciliti la metamorfosi. Incuriosisce che l´assemblea costituente attragga anche oppositori di sinistra (ne ha parlato Sabina Guzzanti, in Uno Due Tre Stella). È segno che ovunque c´è oggi sete di un´agorà europea: di uno spazio di discussione-deliberazione su quel che deve divenire l´Unione, se non vuol degenerare in matrigna sorvegliante dei conti. È una sete ignota ai partiti, al governo, ai sindacati. La Cgil ad esempio non ha firmato l´appello federalista, ritenendolo troppo favorevole al Patto fiscale. Non vede che anche il fiscal compact è doppio: ha senso se è il gradino di una scala, è stasi in assenza di scala.
Nella stessa trappola può cadere Bersani, se condivide queste cecità. Senza un´Europa politica e democratica, che non si limiti a coordinare recessioni nazionali ma fabbrichi essa stessa crescita, il Pd è in un imbuto micidiale: come sabbia scivolosa, le sue forze si esauriranno. Per un partito vicino ai deboli e ai poveri, questi sono tempi bui. Gli mancano le parole, per dire quel che tocca comunque vivere, con o senza articolo 18: il taglio dei redditi, l´insicurezza del lavoro.
Per decenni i progressisti hanno parlato di riformismo senza approfondirlo, e ora la parola tocca ripensarla, non farla coincidere solo con austerità, ineguaglianza. «Nessun nemico a sinistra», era l´antico motto. Oggi a sinistra s´affollano partiti, movimenti, e puoi denunciare l´antipolitica ma gli elettori non se ne curano, delusi come sono. Tuttavia, proprio la trasmissione di Sabina Guzzanti conferma che c´è, tra i delusi, un residuo di speranza, una sete che si può dissetare, se si vuole. Una domanda che implora più Europa. Che nella corruzione di tutti i partiti fiuta la temibile morte della politica.
Il vero problema è che manca terribilmente l´aria, nelle stanze dove si riscrive il Welfare europeo (non sempre male d´altronde: nel piano Fornero ci sono molti progressi per i precari). Le stanze sono piccole, strette, e l´essenziale resta dietro la porta. L´essenziale è l´Europa: l´ossigeno che può venire da essa, se la trasformiamo in unione politica che governi quel che gli Stati non governano più. La dottrina tedesca che ingiunge «l´ordine in casa» prima di tentare forme politiche transnazionali è conficcata nelle menti: anche in quella di Monti. La crisi mostra l´inconsistenza degli Stati nazione, e nel nuovo mondo – già sovranazionale economicamente, ma non politicamente e democraticamente – le sinistre storiche sono in un vicolo cieco.
Dicono alcuni che la democrazia svanisce, nel presente squasso. Secondo Ernesto Galli della Loggia, solo lo Stato nazione può essere democratico: fuori di esso non esisterebbe un demos ma «individui sparpagliati, che semplicemente ‘si conoscono´» (Corriere 12-3). Rotto il contenitore nazionale, la democrazia apocalitticamente muore. Dimentica, l´autore, che lo Stato nazione (a differenza degli imperi) ha creato democrazia ma anche nazionalismi, guerre, annientamenti di tutto ciò che il demos (popolo) riteneva impuro.
Il Partito democratico, ma anche lo strano governo dei Saggi, sembra dar ragione a questa tesi, per nulla controcorrente. È la tesi dominante invece – ha la forza dello status quo – ed è anche la più facile, perché inventare un diverso ordinamento europeo implica ingegno, fantasia, forti trasferimenti di sovranità, trasgressione di conformismi, e una mente cosmopolitica che le sinistre storiche professano sempre, osservano di rado. Le torsioni del Pd, e dei socialisti in Francia, confermano l´infermità di partiti chiusi nelle case nazionali, che l´Unione la sognano soltanto. Quando esigono «più Europa» (al vertice parigino tra sinistre francesi, tedesche, italiane) non osano neppure parlare di governo federale: pudibondi, prediligono la vacua parola governance.
Solo attraverso un governo europeo eletto e controllato dai deputati europei, ritroveremo la sovranità che gli Stati hanno delegato non perché rinunciatari, ma perché non la possiedono più. Solo in Europa possiamo fare quello che nazionalmente è infattibile: salvare il Welfare, dotare il potere sovranazionale di risorse per un´altra crescita, più competitiva e anche parsimoniosa perché fatta in comune. Concentrata su energie alternative, ricerca, istruzione, trasporti comuni che superino l´automobile individuale.
Il Pd ha più patemi delle destre, abituate a custodire i fittizi troni nazionali delegando le sovranità perdute a incontrollate lobby finanziarie (un´abitudine contratta nei rapporti con la Chiesa). Le sinistre hanno una visione più laica e ambiziosa della politica, e il loro disinteresse per l´Europa federale è inane: non ci sarà vero progresso, senza vera democrazia europea. Nei vertici di maggioranza con Monti di Europa politica non si parla: come se non fosse la prima emergenza, l´ossigeno che ci evita l´asfissia. Monti ritiene che «non c´è bisogno» di Stati Uniti d´Europa. I suoi ministri raccomandano, svogliati, «piccoli passi».
Come ricordano alcuni deputati, in un´interrogazione alla Camera presentata dal prodiano Sandro Gozzi, non è questa la linea fissata dal Parlamento. La mozione del 25 gennaio esige che il governo acceleri, in parallelo con Patto fiscale, un «processo costituente verso un´unione politica dei popoli europei», metta «al centro della riflessione politica europea le politiche dello sviluppo e della crescita», proponga il ricorso a eurobond e project bond come «strumenti innovativi di finanziamento allo sviluppo». Non s´intravvede prontezza governativa, in materia.
Ulrich Beck ha dato un nome all´indolenza dei politici nazionali. La chiama l´«errore del bruco». L´umanità-bruco vive la condizione della crisalide, «ma lamenta la propria scomparsa perché non presagisce la farfalla che sta per diventare». Non è la prima volta che accade, secondo lo scrittore Burkhard Müller che per primo ha usato la metafora del bruco (Süddeutsche Zeitung, 1-8-08). Nell´800 stava per finire la legna: nessuno presagiva il carbone fossile. Oggi accade lo stesso col petrolio, e anche con gli Stati nazione. Si aspetta che l´alternativa si materializzi da sola, mentre bisogna tirarla fuori dal pigro ventre del presente. Decenni di lavoro di movimenti cittadini hanno consentito ai tedeschi di uscire dal nucleare, ricorda Habermas. Anni di negoziati hanno prodotto un diritto del lavoro che non ha spaccato e umiliato i sindacati come da noi.
La sinistra può farcela. Purché lavori alla nascita della farfalla europea, e smetta le comode certezze di chi, apocalitticamente vivendo da bruco, ritiene morta le democrazia, una volta perduto il contenitore che fu lo Stato nazione.

La Repubblica 28.03.12

“L’errore del bruco”, di Barbara Spinelli

C´è qualcosa che zoppica molto, nel giudizio che il Premier dà dell´Italia, della sua preparazione ad accettare le volontà del governo. Sostiene Mario Monti che «se il Paese non è pronto» lui se ne va, non sta aggrappato alla poltrona come i vecchi politici. Ma lo vede, il Paese? E sullo sfondo vede davvero l´Europa, come promette, o percepisce solo l´austerità sollecitata in agosto dall´Unione? In realtà l´Italia sarebbe più che pronta, se solo le si dicesse la direzione in cui si va, l´Europa diversa che si vuol costruire, la democrazia da rifondare a casa ma anche fuori: lì dove si sta decidendo, ben poco democraticamente, la mutazione delle nostre economie, delle nostre tutele sociali, del lavoro.
È qui che manca prontezza: nei governi, non nei Paesi. Che manca il riformismo autentico: quello che non cambia le cose con rivoluzioni, ma le cambia pur sempre. La modifica dell´articolo 18 e altre misure d´austerità hanno senso se inserite in una mutazione al tempo stesso economica, democratica, geopolitica. Se non son parte di un New Deal nazionale ed europeo, secernono solo recessione, regressione, e quei chicchi di furore che secondo Steinbeck marchiarono la Depressione negli anni ‘30. Al Premier vorrei domandare: è per un New Deal che sta a Palazzo Chigi, o per certificare che la crisi economico-democratica è gestibile da platoniche, oligarchiche Repubbliche di esperti-filosofi che la sanno più lunga? Una risposta a simili interrogativi ci preparerebbe un po´. Non basta dire: noi abbiamo filosofie sui giovani e il futuro che nessuno possiede.
Urge quel che chiedono da tempo i federalisti; quel che il 10 marzo hanno invocato tanti cittadini e movimenti europei, in un appello (firmato anche da Jacques Delors) uscito in Italia e Germania: un´Europa politica, un´assemblea costituente che ne faciliti la metamorfosi. Incuriosisce che l´assemblea costituente attragga anche oppositori di sinistra (ne ha parlato Sabina Guzzanti, in Uno Due Tre Stella). È segno che ovunque c´è oggi sete di un´agorà europea: di uno spazio di discussione-deliberazione su quel che deve divenire l´Unione, se non vuol degenerare in matrigna sorvegliante dei conti. È una sete ignota ai partiti, al governo, ai sindacati. La Cgil ad esempio non ha firmato l´appello federalista, ritenendolo troppo favorevole al Patto fiscale. Non vede che anche il fiscal compact è doppio: ha senso se è il gradino di una scala, è stasi in assenza di scala.
Nella stessa trappola può cadere Bersani, se condivide queste cecità. Senza un´Europa politica e democratica, che non si limiti a coordinare recessioni nazionali ma fabbrichi essa stessa crescita, il Pd è in un imbuto micidiale: come sabbia scivolosa, le sue forze si esauriranno. Per un partito vicino ai deboli e ai poveri, questi sono tempi bui. Gli mancano le parole, per dire quel che tocca comunque vivere, con o senza articolo 18: il taglio dei redditi, l´insicurezza del lavoro.
Per decenni i progressisti hanno parlato di riformismo senza approfondirlo, e ora la parola tocca ripensarla, non farla coincidere solo con austerità, ineguaglianza. «Nessun nemico a sinistra», era l´antico motto. Oggi a sinistra s´affollano partiti, movimenti, e puoi denunciare l´antipolitica ma gli elettori non se ne curano, delusi come sono. Tuttavia, proprio la trasmissione di Sabina Guzzanti conferma che c´è, tra i delusi, un residuo di speranza, una sete che si può dissetare, se si vuole. Una domanda che implora più Europa. Che nella corruzione di tutti i partiti fiuta la temibile morte della politica.
Il vero problema è che manca terribilmente l´aria, nelle stanze dove si riscrive il Welfare europeo (non sempre male d´altronde: nel piano Fornero ci sono molti progressi per i precari). Le stanze sono piccole, strette, e l´essenziale resta dietro la porta. L´essenziale è l´Europa: l´ossigeno che può venire da essa, se la trasformiamo in unione politica che governi quel che gli Stati non governano più. La dottrina tedesca che ingiunge «l´ordine in casa» prima di tentare forme politiche transnazionali è conficcata nelle menti: anche in quella di Monti. La crisi mostra l´inconsistenza degli Stati nazione, e nel nuovo mondo – già sovranazionale economicamente, ma non politicamente e democraticamente – le sinistre storiche sono in un vicolo cieco.
Dicono alcuni che la democrazia svanisce, nel presente squasso. Secondo Ernesto Galli della Loggia, solo lo Stato nazione può essere democratico: fuori di esso non esisterebbe un demos ma «individui sparpagliati, che semplicemente ‘si conoscono´» (Corriere 12-3). Rotto il contenitore nazionale, la democrazia apocalitticamente muore. Dimentica, l´autore, che lo Stato nazione (a differenza degli imperi) ha creato democrazia ma anche nazionalismi, guerre, annientamenti di tutto ciò che il demos (popolo) riteneva impuro.
Il Partito democratico, ma anche lo strano governo dei Saggi, sembra dar ragione a questa tesi, per nulla controcorrente. È la tesi dominante invece – ha la forza dello status quo – ed è anche la più facile, perché inventare un diverso ordinamento europeo implica ingegno, fantasia, forti trasferimenti di sovranità, trasgressione di conformismi, e una mente cosmopolitica che le sinistre storiche professano sempre, osservano di rado. Le torsioni del Pd, e dei socialisti in Francia, confermano l´infermità di partiti chiusi nelle case nazionali, che l´Unione la sognano soltanto. Quando esigono «più Europa» (al vertice parigino tra sinistre francesi, tedesche, italiane) non osano neppure parlare di governo federale: pudibondi, prediligono la vacua parola governance.
Solo attraverso un governo europeo eletto e controllato dai deputati europei, ritroveremo la sovranità che gli Stati hanno delegato non perché rinunciatari, ma perché non la possiedono più. Solo in Europa possiamo fare quello che nazionalmente è infattibile: salvare il Welfare, dotare il potere sovranazionale di risorse per un´altra crescita, più competitiva e anche parsimoniosa perché fatta in comune. Concentrata su energie alternative, ricerca, istruzione, trasporti comuni che superino l´automobile individuale.
Il Pd ha più patemi delle destre, abituate a custodire i fittizi troni nazionali delegando le sovranità perdute a incontrollate lobby finanziarie (un´abitudine contratta nei rapporti con la Chiesa). Le sinistre hanno una visione più laica e ambiziosa della politica, e il loro disinteresse per l´Europa federale è inane: non ci sarà vero progresso, senza vera democrazia europea. Nei vertici di maggioranza con Monti di Europa politica non si parla: come se non fosse la prima emergenza, l´ossigeno che ci evita l´asfissia. Monti ritiene che «non c´è bisogno» di Stati Uniti d´Europa. I suoi ministri raccomandano, svogliati, «piccoli passi».
Come ricordano alcuni deputati, in un´interrogazione alla Camera presentata dal prodiano Sandro Gozzi, non è questa la linea fissata dal Parlamento. La mozione del 25 gennaio esige che il governo acceleri, in parallelo con Patto fiscale, un «processo costituente verso un´unione politica dei popoli europei», metta «al centro della riflessione politica europea le politiche dello sviluppo e della crescita», proponga il ricorso a eurobond e project bond come «strumenti innovativi di finanziamento allo sviluppo». Non s´intravvede prontezza governativa, in materia.
Ulrich Beck ha dato un nome all´indolenza dei politici nazionali. La chiama l´«errore del bruco». L´umanità-bruco vive la condizione della crisalide, «ma lamenta la propria scomparsa perché non presagisce la farfalla che sta per diventare». Non è la prima volta che accade, secondo lo scrittore Burkhard Müller che per primo ha usato la metafora del bruco (Süddeutsche Zeitung, 1-8-08). Nell´800 stava per finire la legna: nessuno presagiva il carbone fossile. Oggi accade lo stesso col petrolio, e anche con gli Stati nazione. Si aspetta che l´alternativa si materializzi da sola, mentre bisogna tirarla fuori dal pigro ventre del presente. Decenni di lavoro di movimenti cittadini hanno consentito ai tedeschi di uscire dal nucleare, ricorda Habermas. Anni di negoziati hanno prodotto un diritto del lavoro che non ha spaccato e umiliato i sindacati come da noi.
La sinistra può farcela. Purché lavori alla nascita della farfalla europea, e smetta le comode certezze di chi, apocalitticamente vivendo da bruco, ritiene morta le democrazia, una volta perduto il contenitore che fu lo Stato nazione.

La Repubblica 28.03.12