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“L’errore del bruco”, di Barbara Spinelli

C´è qualcosa che zoppica molto, nel giudizio che il Premier dà dell´Italia, della sua preparazione ad accettare le volontà del governo. Sostiene Mario Monti che «se il Paese non è pronto» lui se ne va, non sta aggrappato alla poltrona come i vecchi politici. Ma lo vede, il Paese? E sullo sfondo vede davvero l´Europa, come promette, o percepisce solo l´austerità sollecitata in agosto dall´Unione? In realtà l´Italia sarebbe più che pronta, se solo le si dicesse la direzione in cui si va, l´Europa diversa che si vuol costruire, la democrazia da rifondare a casa ma anche fuori: lì dove si sta decidendo, ben poco democraticamente, la mutazione delle nostre economie, delle nostre tutele sociali, del lavoro.
È qui che manca prontezza: nei governi, non nei Paesi. Che manca il riformismo autentico: quello che non cambia le cose con rivoluzioni, ma le cambia pur sempre. La modifica dell´articolo 18 e altre misure d´austerità hanno senso se inserite in una mutazione al tempo stesso economica, democratica, geopolitica. Se non son parte di un New Deal nazionale ed europeo, secernono solo recessione, regressione, e quei chicchi di furore che secondo Steinbeck marchiarono la Depressione negli anni ‘30. Al Premier vorrei domandare: è per un New Deal che sta a Palazzo Chigi, o per certificare che la crisi economico-democratica è gestibile da platoniche, oligarchiche Repubbliche di esperti-filosofi che la sanno più lunga? Una risposta a simili interrogativi ci preparerebbe un po´. Non basta dire: noi abbiamo filosofie sui giovani e il futuro che nessuno possiede.
Urge quel che chiedono da tempo i federalisti; quel che il 10 marzo hanno invocato tanti cittadini e movimenti europei, in un appello (firmato anche da Jacques Delors) uscito in Italia e Germania: un´Europa politica, un´assemblea costituente che ne faciliti la metamorfosi. Incuriosisce che l´assemblea costituente attragga anche oppositori di sinistra (ne ha parlato Sabina Guzzanti, in Uno Due Tre Stella). È segno che ovunque c´è oggi sete di un´agorà europea: di uno spazio di discussione-deliberazione su quel che deve divenire l´Unione, se non vuol degenerare in matrigna sorvegliante dei conti. È una sete ignota ai partiti, al governo, ai sindacati. La Cgil ad esempio non ha firmato l´appello federalista, ritenendolo troppo favorevole al Patto fiscale. Non vede che anche il fiscal compact è doppio: ha senso se è il gradino di una scala, è stasi in assenza di scala.
Nella stessa trappola può cadere Bersani, se condivide queste cecità. Senza un´Europa politica e democratica, che non si limiti a coordinare recessioni nazionali ma fabbrichi essa stessa crescita, il Pd è in un imbuto micidiale: come sabbia scivolosa, le sue forze si esauriranno. Per un partito vicino ai deboli e ai poveri, questi sono tempi bui. Gli mancano le parole, per dire quel che tocca comunque vivere, con o senza articolo 18: il taglio dei redditi, l´insicurezza del lavoro.
Per decenni i progressisti hanno parlato di riformismo senza approfondirlo, e ora la parola tocca ripensarla, non farla coincidere solo con austerità, ineguaglianza. «Nessun nemico a sinistra», era l´antico motto. Oggi a sinistra s´affollano partiti, movimenti, e puoi denunciare l´antipolitica ma gli elettori non se ne curano, delusi come sono. Tuttavia, proprio la trasmissione di Sabina Guzzanti conferma che c´è, tra i delusi, un residuo di speranza, una sete che si può dissetare, se si vuole. Una domanda che implora più Europa. Che nella corruzione di tutti i partiti fiuta la temibile morte della politica.
Il vero problema è che manca terribilmente l´aria, nelle stanze dove si riscrive il Welfare europeo (non sempre male d´altronde: nel piano Fornero ci sono molti progressi per i precari). Le stanze sono piccole, strette, e l´essenziale resta dietro la porta. L´essenziale è l´Europa: l´ossigeno che può venire da essa, se la trasformiamo in unione politica che governi quel che gli Stati non governano più. La dottrina tedesca che ingiunge «l´ordine in casa» prima di tentare forme politiche transnazionali è conficcata nelle menti: anche in quella di Monti. La crisi mostra l´inconsistenza degli Stati nazione, e nel nuovo mondo – già sovranazionale economicamente, ma non politicamente e democraticamente – le sinistre storiche sono in un vicolo cieco.
Dicono alcuni che la democrazia svanisce, nel presente squasso. Secondo Ernesto Galli della Loggia, solo lo Stato nazione può essere democratico: fuori di esso non esisterebbe un demos ma «individui sparpagliati, che semplicemente ‘si conoscono´» (Corriere 12-3). Rotto il contenitore nazionale, la democrazia apocalitticamente muore. Dimentica, l´autore, che lo Stato nazione (a differenza degli imperi) ha creato democrazia ma anche nazionalismi, guerre, annientamenti di tutto ciò che il demos (popolo) riteneva impuro.
Il Partito democratico, ma anche lo strano governo dei Saggi, sembra dar ragione a questa tesi, per nulla controcorrente. È la tesi dominante invece – ha la forza dello status quo – ed è anche la più facile, perché inventare un diverso ordinamento europeo implica ingegno, fantasia, forti trasferimenti di sovranità, trasgressione di conformismi, e una mente cosmopolitica che le sinistre storiche professano sempre, osservano di rado. Le torsioni del Pd, e dei socialisti in Francia, confermano l´infermità di partiti chiusi nelle case nazionali, che l´Unione la sognano soltanto. Quando esigono «più Europa» (al vertice parigino tra sinistre francesi, tedesche, italiane) non osano neppure parlare di governo federale: pudibondi, prediligono la vacua parola governance.
Solo attraverso un governo europeo eletto e controllato dai deputati europei, ritroveremo la sovranità che gli Stati hanno delegato non perché rinunciatari, ma perché non la possiedono più. Solo in Europa possiamo fare quello che nazionalmente è infattibile: salvare il Welfare, dotare il potere sovranazionale di risorse per un´altra crescita, più competitiva e anche parsimoniosa perché fatta in comune. Concentrata su energie alternative, ricerca, istruzione, trasporti comuni che superino l´automobile individuale.
Il Pd ha più patemi delle destre, abituate a custodire i fittizi troni nazionali delegando le sovranità perdute a incontrollate lobby finanziarie (un´abitudine contratta nei rapporti con la Chiesa). Le sinistre hanno una visione più laica e ambiziosa della politica, e il loro disinteresse per l´Europa federale è inane: non ci sarà vero progresso, senza vera democrazia europea. Nei vertici di maggioranza con Monti di Europa politica non si parla: come se non fosse la prima emergenza, l´ossigeno che ci evita l´asfissia. Monti ritiene che «non c´è bisogno» di Stati Uniti d´Europa. I suoi ministri raccomandano, svogliati, «piccoli passi».
Come ricordano alcuni deputati, in un´interrogazione alla Camera presentata dal prodiano Sandro Gozzi, non è questa la linea fissata dal Parlamento. La mozione del 25 gennaio esige che il governo acceleri, in parallelo con Patto fiscale, un «processo costituente verso un´unione politica dei popoli europei», metta «al centro della riflessione politica europea le politiche dello sviluppo e della crescita», proponga il ricorso a eurobond e project bond come «strumenti innovativi di finanziamento allo sviluppo». Non s´intravvede prontezza governativa, in materia.
Ulrich Beck ha dato un nome all´indolenza dei politici nazionali. La chiama l´«errore del bruco». L´umanità-bruco vive la condizione della crisalide, «ma lamenta la propria scomparsa perché non presagisce la farfalla che sta per diventare». Non è la prima volta che accade, secondo lo scrittore Burkhard Müller che per primo ha usato la metafora del bruco (Süddeutsche Zeitung, 1-8-08). Nell´800 stava per finire la legna: nessuno presagiva il carbone fossile. Oggi accade lo stesso col petrolio, e anche con gli Stati nazione. Si aspetta che l´alternativa si materializzi da sola, mentre bisogna tirarla fuori dal pigro ventre del presente. Decenni di lavoro di movimenti cittadini hanno consentito ai tedeschi di uscire dal nucleare, ricorda Habermas. Anni di negoziati hanno prodotto un diritto del lavoro che non ha spaccato e umiliato i sindacati come da noi.
La sinistra può farcela. Purché lavori alla nascita della farfalla europea, e smetta le comode certezze di chi, apocalitticamente vivendo da bruco, ritiene morta le democrazia, una volta perduto il contenitore che fu lo Stato nazione.

La Repubblica 28.03.12

Revisione Isee: la Fish invia un documento di analisi e proposte a Fornero e Guerra

Viene chiesto di considerare anche il rischio di impoverimento a causa di disabilità e non autosufficienza, di definire i livelli essenziali di assistenza sociale e di non considerare reddito le indennità per i disabili gravi. Uno dei prossimi punti nell’agenda del Governo Monti è la ridefinizione dell’Isee, cioè lo strumento di calcolo della disponibilità economica dei nuclei familiari. Il Governo, infatti, in forza dell’articolo 5 della Manovra Monti (Legge 214/2011) dovrà rivedere sia le modalità di determinazione che i campi di applicazione dell’indicatore della situazione economica equivalente (Isee).

La Federazione nazionale superamento handicap ha inviato al ministro Elsa Fornero e al sottosegretario Cecilia Guerra, in previsione dell’elaborazione del nuovo decreto, un articolato documento di analisi e di proposta per la revisione dell’Isee. Nel documento emerge con forza la necessità di tenere in considerazione, oltre al reddito e al patrimonio, anche il rischio di impoverimento a causa della disabilità e della non autosufficienza. Viene sottolineata l’importanza di definire, prima di applicare in modo stringente l’Isee, i livelli essenziali dell’assistenza sociale ancora assenti nel nostro impianto normativo. Viene ribadita l’importanza di non considerare reddito le provvidenze assistenziali quali la pensione sociale o l’indennità di accompagnamento per i disabili gravi, né che quest’ultima sia condizionata dallo stesso Isee.

“Si tratta di un passaggio indubbiamente delicato – spiega la Fish in una nota appena diffusa – e che interessa una ampia gamma di servizi sociali e agevolazioni tariffarie e, potenzialmente, fiscali. Dagli asili nido ai centri diurni per persone con disabilità, dal ricovero in Rsa alle agevolazioni tariffarie sui consumi elettrici, tanto per citare alcuni esempi: sono interessati un gran numero di nuclei familiari (sono circa 7 milioni le dichiarazioni Isee compilate ogni anno). Le premesse normative fissate dalla Manovra Monti – prosegue la Fish – richiamano la volontà di rivedere la definizione di reddito disponibile, di migliorare la capacità selettiva dell’indicatore, valorizzando in misura maggiore la componente patrimoniale, e di permettere una differenziazione dell’indicatore per le diverse tipologie di prestazioni”. Il testo integrale del documento inviato al governo è su www.fishonlus.it. (Redattore Sociale)

www.partitodemocratico.it

"Il messaggio sbagliato", di Francesco Cundari

Da qualche giorno sui più autorevoli quotidiani finanziari del mondo la riforma del mercato del lavoro viene descritta come il terreno di scontro decisivo tra governo e sindacati, tra Mario Monti il modernizzatore e i recalcitranti rappresentanti della vecchia sinistra, tra le riforme necessarie a salvare il Paese e il baratro della bancarotta. Molti, proseguendo così un’antichissima tradizione nazionale, portano questi lugubri responsi a sostegno e giustificazione della linea dura scelta da Palazzo Chigi. La voce tonante dei quotidiani della City e di Wall Street confermerebbe il fatto che prima di ogni altra considerazione, se vogliamo evitare il fallimento, viene l’esigenza di mandare un «messaggio ai mercati». È un argomento che può però essere facilmente rovesciato. Perché il punto è proprio questo: quale messaggio il governo ha scelto di mandare ai mercati, quando ha deciso di far saltare l’accordo sul modello tedesco, per ingaggiare un’insensata prova di forza con il maggiore sindacato e con buona parte della sua stessa maggioranza parlamentare. Poteva ottenere una riforma storica, che sui licenziamenti prendeva a modello la regolazione adottata dall’economia più competitiva d’Europa, con l’accordo di tutti e senza un minuto di sciopero. Non sarebbe stato questo un segnale ben più rassicurante sul futuro dell’Italia, sulla solidità e soprattutto sulla non reversibilità del percorso di risanamento intrapreso dopo la caduta dello sciagurato governo Berlusconi? Questo poteva essere il messaggio, simile a quello che in un’altra fase di crisi finanziaria acuta venne dal governo Ciampi, con l’accordo del luglio 1993 con i sindacati. Quella fu la base politica, non tecnica, del percorso di risanamento che portò l’Italia dal rischio bancarotta all’ingresso nel gruppo di testa della moneta unica europea. Ben diversa è invece la musica di questi giorni. Sul Wall Street Journal di ieri si scrive che Monti ha deciso di riformare il mercato del lavoro «con o senza il consenso dei sindacati» (dunque, sia detto per inciso, non è stato l’estremismo della Cgil a impedire un accordo che il governo avrebbe invece ricercato fino all’ultimo) e si spiega pure che in tal modo Monti avrebbe l’occasione di «educare gli italiani sulle conseguenze che comporta opporsi alle riforme» (in breve, quello che sta capitando alla Grecia). Per finire, e certo pensando di fargli cosa gradita, il Wall Street Journal paragona Monti alla signora Thatcher. Ma la signora Thatcher, quando piegava la resistenza dei minatori inglesi e avviava una durissima fase di tagli allo stato sociale e privatizzazione dei servizi pubblici, non lo faceva certo con i voti del partito laburista, e tantomeno in nome di un programma di unità nazionale e coesione sociale, come tale solennemente presentato al Parlamento e al Paese. Se il quadro dipinto dal Wall Street Journal è una fedele testimonianza del «messaggio» inviato ai mercati da questo governo, il presidente del Consiglio dovrebbe usare tutta la sua autorevolezza e le sue relazioni per correggerlo subito. E avvertire tutta la responsabilità per non avere contrastato sul nascere un’immagine così gravemente distorta non solo del confronto in corso sulle riforme, ma anzitutto dell’incarico ricevuto dal Presidente della Repubblica e dal Parlamento. Certo in quel «mandato» non c’erano né la linea Thatcher né l’«educazione» degli italiani. Il capo del governo rappresenta il Paese all’estero e risponde della sua immagine. Valeva per Silvio Berlusconi, che all’immagine internazionale dell’Italia ha fatto tanti danni, vale a maggior ragione per Monti, che a Palazzo Chigi è stato chiamato anzitutto per porre rimedio a questo problema. Il suo «mandato» consisteva cioè nell’usare la sua credibilità per infondere fiducia nell’Italia. A meno che l’incomprensibile scelta di rottura sul mercato del lavoro non sia stata influenzata dai tanti (ultimo ieri Carlo De Benedetti) che invitano i tecnici a proseguire la loro opera anche dopo le elezioni del 2013. Se però dall’impegno nazionale per uscire dalla crisi siamo già passati alla campagna elettorale per le politiche dell’anno prossimo, forse sarebbe il caso che qualcuno avvertisse i cittadini.

L’Unità 28.03.12

“Il messaggio sbagliato”, di Francesco Cundari

Da qualche giorno sui più autorevoli quotidiani finanziari del mondo la riforma del mercato del lavoro viene descritta come il terreno di scontro decisivo tra governo e sindacati, tra Mario Monti il modernizzatore e i recalcitranti rappresentanti della vecchia sinistra, tra le riforme necessarie a salvare il Paese e il baratro della bancarotta. Molti, proseguendo così un’antichissima tradizione nazionale, portano questi lugubri responsi a sostegno e giustificazione della linea dura scelta da Palazzo Chigi. La voce tonante dei quotidiani della City e di Wall Street confermerebbe il fatto che prima di ogni altra considerazione, se vogliamo evitare il fallimento, viene l’esigenza di mandare un «messaggio ai mercati». È un argomento che può però essere facilmente rovesciato. Perché il punto è proprio questo: quale messaggio il governo ha scelto di mandare ai mercati, quando ha deciso di far saltare l’accordo sul modello tedesco, per ingaggiare un’insensata prova di forza con il maggiore sindacato e con buona parte della sua stessa maggioranza parlamentare. Poteva ottenere una riforma storica, che sui licenziamenti prendeva a modello la regolazione adottata dall’economia più competitiva d’Europa, con l’accordo di tutti e senza un minuto di sciopero. Non sarebbe stato questo un segnale ben più rassicurante sul futuro dell’Italia, sulla solidità e soprattutto sulla non reversibilità del percorso di risanamento intrapreso dopo la caduta dello sciagurato governo Berlusconi? Questo poteva essere il messaggio, simile a quello che in un’altra fase di crisi finanziaria acuta venne dal governo Ciampi, con l’accordo del luglio 1993 con i sindacati. Quella fu la base politica, non tecnica, del percorso di risanamento che portò l’Italia dal rischio bancarotta all’ingresso nel gruppo di testa della moneta unica europea. Ben diversa è invece la musica di questi giorni. Sul Wall Street Journal di ieri si scrive che Monti ha deciso di riformare il mercato del lavoro «con o senza il consenso dei sindacati» (dunque, sia detto per inciso, non è stato l’estremismo della Cgil a impedire un accordo che il governo avrebbe invece ricercato fino all’ultimo) e si spiega pure che in tal modo Monti avrebbe l’occasione di «educare gli italiani sulle conseguenze che comporta opporsi alle riforme» (in breve, quello che sta capitando alla Grecia). Per finire, e certo pensando di fargli cosa gradita, il Wall Street Journal paragona Monti alla signora Thatcher. Ma la signora Thatcher, quando piegava la resistenza dei minatori inglesi e avviava una durissima fase di tagli allo stato sociale e privatizzazione dei servizi pubblici, non lo faceva certo con i voti del partito laburista, e tantomeno in nome di un programma di unità nazionale e coesione sociale, come tale solennemente presentato al Parlamento e al Paese. Se il quadro dipinto dal Wall Street Journal è una fedele testimonianza del «messaggio» inviato ai mercati da questo governo, il presidente del Consiglio dovrebbe usare tutta la sua autorevolezza e le sue relazioni per correggerlo subito. E avvertire tutta la responsabilità per non avere contrastato sul nascere un’immagine così gravemente distorta non solo del confronto in corso sulle riforme, ma anzitutto dell’incarico ricevuto dal Presidente della Repubblica e dal Parlamento. Certo in quel «mandato» non c’erano né la linea Thatcher né l’«educazione» degli italiani. Il capo del governo rappresenta il Paese all’estero e risponde della sua immagine. Valeva per Silvio Berlusconi, che all’immagine internazionale dell’Italia ha fatto tanti danni, vale a maggior ragione per Monti, che a Palazzo Chigi è stato chiamato anzitutto per porre rimedio a questo problema. Il suo «mandato» consisteva cioè nell’usare la sua credibilità per infondere fiducia nell’Italia. A meno che l’incomprensibile scelta di rottura sul mercato del lavoro non sia stata influenzata dai tanti (ultimo ieri Carlo De Benedetti) che invitano i tecnici a proseguire la loro opera anche dopo le elezioni del 2013. Se però dall’impegno nazionale per uscire dalla crisi siamo già passati alla campagna elettorale per le politiche dell’anno prossimo, forse sarebbe il caso che qualcuno avvertisse i cittadini.

L’Unità 28.03.12

“Il messaggio sbagliato”, di Francesco Cundari

Da qualche giorno sui più autorevoli quotidiani finanziari del mondo la riforma del mercato del lavoro viene descritta come il terreno di scontro decisivo tra governo e sindacati, tra Mario Monti il modernizzatore e i recalcitranti rappresentanti della vecchia sinistra, tra le riforme necessarie a salvare il Paese e il baratro della bancarotta. Molti, proseguendo così un’antichissima tradizione nazionale, portano questi lugubri responsi a sostegno e giustificazione della linea dura scelta da Palazzo Chigi. La voce tonante dei quotidiani della City e di Wall Street confermerebbe il fatto che prima di ogni altra considerazione, se vogliamo evitare il fallimento, viene l’esigenza di mandare un «messaggio ai mercati». È un argomento che può però essere facilmente rovesciato. Perché il punto è proprio questo: quale messaggio il governo ha scelto di mandare ai mercati, quando ha deciso di far saltare l’accordo sul modello tedesco, per ingaggiare un’insensata prova di forza con il maggiore sindacato e con buona parte della sua stessa maggioranza parlamentare. Poteva ottenere una riforma storica, che sui licenziamenti prendeva a modello la regolazione adottata dall’economia più competitiva d’Europa, con l’accordo di tutti e senza un minuto di sciopero. Non sarebbe stato questo un segnale ben più rassicurante sul futuro dell’Italia, sulla solidità e soprattutto sulla non reversibilità del percorso di risanamento intrapreso dopo la caduta dello sciagurato governo Berlusconi? Questo poteva essere il messaggio, simile a quello che in un’altra fase di crisi finanziaria acuta venne dal governo Ciampi, con l’accordo del luglio 1993 con i sindacati. Quella fu la base politica, non tecnica, del percorso di risanamento che portò l’Italia dal rischio bancarotta all’ingresso nel gruppo di testa della moneta unica europea. Ben diversa è invece la musica di questi giorni. Sul Wall Street Journal di ieri si scrive che Monti ha deciso di riformare il mercato del lavoro «con o senza il consenso dei sindacati» (dunque, sia detto per inciso, non è stato l’estremismo della Cgil a impedire un accordo che il governo avrebbe invece ricercato fino all’ultimo) e si spiega pure che in tal modo Monti avrebbe l’occasione di «educare gli italiani sulle conseguenze che comporta opporsi alle riforme» (in breve, quello che sta capitando alla Grecia). Per finire, e certo pensando di fargli cosa gradita, il Wall Street Journal paragona Monti alla signora Thatcher. Ma la signora Thatcher, quando piegava la resistenza dei minatori inglesi e avviava una durissima fase di tagli allo stato sociale e privatizzazione dei servizi pubblici, non lo faceva certo con i voti del partito laburista, e tantomeno in nome di un programma di unità nazionale e coesione sociale, come tale solennemente presentato al Parlamento e al Paese. Se il quadro dipinto dal Wall Street Journal è una fedele testimonianza del «messaggio» inviato ai mercati da questo governo, il presidente del Consiglio dovrebbe usare tutta la sua autorevolezza e le sue relazioni per correggerlo subito. E avvertire tutta la responsabilità per non avere contrastato sul nascere un’immagine così gravemente distorta non solo del confronto in corso sulle riforme, ma anzitutto dell’incarico ricevuto dal Presidente della Repubblica e dal Parlamento. Certo in quel «mandato» non c’erano né la linea Thatcher né l’«educazione» degli italiani. Il capo del governo rappresenta il Paese all’estero e risponde della sua immagine. Valeva per Silvio Berlusconi, che all’immagine internazionale dell’Italia ha fatto tanti danni, vale a maggior ragione per Monti, che a Palazzo Chigi è stato chiamato anzitutto per porre rimedio a questo problema. Il suo «mandato» consisteva cioè nell’usare la sua credibilità per infondere fiducia nell’Italia. A meno che l’incomprensibile scelta di rottura sul mercato del lavoro non sia stata influenzata dai tanti (ultimo ieri Carlo De Benedetti) che invitano i tecnici a proseguire la loro opera anche dopo le elezioni del 2013. Se però dall’impegno nazionale per uscire dalla crisi siamo già passati alla campagna elettorale per le politiche dell’anno prossimo, forse sarebbe il caso che qualcuno avvertisse i cittadini.

L’Unità 28.03.12

"Nuovo Governo delle Istituzioni scolastiche ma l’Autonomia è ancora debole", di Gian Carlo Sacchi

L’autonomia scolastica è l’orizzonte in cui si colloca il governo del sistema scolastico italiano, dopo i decreti delegati del 1974 che istituivano la “partecipazione” della comunità alla vita della scuola e tanti anni di sperimentazione che cercavano di collegare la funzione formativa della stessa con lo sviluppo del territorio.

Questa nuova prospettiva è contenuta nella riforma degli enti locali del 1990 (L. 142), della Pubblica Amministrazione del 1997 (L. 59), che ha iniziato una azione di decentramento delle competenze statali verso gli enti locali (D.Leg.vo 112/1998) e ha dato il via alla costruzione dell’impalcatura della scuola autonoma (DPR 275/1999), con il conferimento della personalità giuridica alle scuole nell’ambito di un’azione di programmazione territoriale (DPR 233/1998).

Questo impianto, anche se ancora lontano dall’essere compiutamente realizzato ha già subito cambiamenti (L. 111/2011), ma comunque non ha perso valore in quanto sancito dalla modifica del titolo quinto della Costituzione (anch’esso però non ancora applicato) (L.C. n. 3/2001) ed è in qualche modo confermato dalla normativa sul così detto federalismo fiscale (L. 42/2009 e D.Leg.vo 68/2011) nonché dai recenti provvedimenti sulla semplificazione (DL 5/2012).

La legislazione richiamata sta cercando, pur non senza contraddizioni, di ricostruire un governo del sistema educativo – scolastico – formativo ai diversi livelli di organizzazione territoriale, che riparta dal basso e cioè dal riconoscimento, secondo quanto indicato dalla predetta norma costituzionale, degli organi della Repubblica tra i quali è “fatta salva” l’autonomia delle istituzioni scolastiche (art. 117 della Costituzione).

L’autonomia dunque non è concessa, in una prospettiva meramente decentralistica dell’ordinamento statale, ma è riconosciuta, e quindi ha bisogno oltre che di avere spazio di darsi una configurazione istituzionale: autonomia statutaria. La situazione ricalca molto, dicono gli studiosi, quella universitaria, entrambe infatti sono state identificate dalla predetta legge 59 come autonomie funzionali. Per l’università però tale impostazione era già praticata ed è stata riconfermata, mentre per la scuola il centralismo statale ha di fatto sempre impedito di arrivare a soluzioni veramente autonomiste, sia che si tratti di passaggi di competenze agli enti locali/autonomie scolastiche, sia che si voglia valorizzare il “sistema formativo” come una componente veramente autonoma nell’esercizio della funzione culturale ed educativa pur all’interno di un “sistema nazionale dell’istruzione”, anch’esso ridefinito dalla L. 62/2000.

E’ quest’ultimo approccio infatti quello assunto dalla predetta riforma costituzionale, ma, come si è detto, molto resta ancora da fare.

Proprio per rinforzare tale impostazione si deve pensare ad una revisione della governance interna agli istituti, ferma ai decreti del 1974; con la proposta di legge licenziata alla VII Commissione della Camera si cerca dunque di rivedere organi, processi e strumenti nella più recente visione della piena realizzazione di un’autonomia scolastica come parte del sistema nazionale dell’istruzione, ma anche parte inscindibile della comunità locale.

Nell’ambito del “sistema delle autonomie” deve esistere dunque un’autonomia statuaria che dia valore alla personalità giuridica e porti le scuole autonome allo stesso livello di altri enti territoriali. Sono gli statuti delle scuole infatti che devono saper interpretare le “norme generali dell’istruzione” e tradurle in offerta formativa, nell’ambito dei “livelli essenziali delle prestazioni”e per la crescita dei singoli sul piano umano, culturale e professionale, come potrà essere indicato dagli standard nazionali e locali perché sia riconosciuto il diritto alla formazione a tutti i cittadini italiani.

In tale contesto, famiglie, studenti, comunità locali, docenti dovranno potersi muovere autonomamente per garantire un’offerta sempre più qualificata in un’ottica generale ma che sia aderente alla realtà in cui la scuola opera, per poter incontrare i problemi e le aspettative che tale realtà esprime e nello stesso tempo contribuire a “collocare nel mondo”.

Le scuole autonome sono il punto di riferimento e la loro consistenza deve essere oggetto di un’attenta azione di programmazione territoriale e gestione della spesa secondo un’azione multilivello, come indicato dai predetti provvedimenti sul federalismo fiscale. Reti e consorzi sono strumenti per potenziare l’autonomia e ottimizzare l’uso delle risorse, in vista del raggiungimento di migliori e più qualificati obiettivi.

Gli organi di governo prevedono la distinzione delle funzioni di indirizzo, di quelle professionali in senso stretto e di gestione, pur in una visione e pratica di integrazione tra di loro.

Il dirigente scolastico è il rappresentante legale dell’istituzione, presiede i momenti strategici per l’impostazione della programmazione e risponde dei risultati; i docenti, sul piano individuale e collegiale, hanno “libertà di insegnamento” ma sono responsabili della progettazione e conduzione dell’impianto didattico, nonché della valutazione degli alunni; la comunità locale è corresponsabile, sul piano dei bisogni formativi e delle risorse, e interviene, anche attraverso la compartecipazione alle entrate fiscali, per quanto riguarda il sostegno all’intero sistema: essa deve poter partecipare tenendo presente l’integrazione tra i servizi educativi del territorio.

La presidenza del Consiglio dell’Istituzione Scolastica viene mantenuta ad un membro eletto dalle famiglie, che con il dirigente scolastico ed altre componenti saranno coinvolte nelle modalità di rappresentanza della stessa, sia per intraprendere intese e azioni locali, sia nei processi elettivi di livello regionale e nazionale.

La scuola veramente autonoma non potrà sottrarsi a processi valutativi per corrispondere agli standard indicati a livello di sistema, ma anche come capacità di autoanalisi delle proprie attività, di confronto dei risultati e con le aspettative e su come riesce ad promuovere il successo formativo, anche attraverso una autonomo nucleo di valutazione.

L’autonomia è prima di tutto un processo culturale che oltre a rendere più efficiente il servizio deve migliorare costantemente la consapevolezza di assicurare su tutto il territorio nazionale un sistema di qualità nel quale viene tutelata la libertà di insegnamento. Il tutto verrà demandato ad un “Consiglio delle Autonomie Scolastiche”.

Sono sempre le medesime autonomie scolastiche il riferimento per le politiche regionali e degli enti locali, i quali devono valorizzare le associazioni tra le scuole che vogliono accrescere l’efficacia della loro presenza e della loro azione insieme ad altri enti e soggetti locali.

Un risultato importante, raggiunto a livello parlamentare, come non si vedeva da tempo: il potere legislativo che finalmente si riappropria del suo ruolo ed i problemi della scuola non vengono relegati alla sola gestione burocratica. Sarà la nuova tregua politica ? Fatto sta che questo provvedimento, bipartisan, è di buon auspicio, sia per il modo, anche se affrettato, sia per il luogo, che allontana dagli interessi che cercano di prevalere in altri palazzi del governo.

Attraverso questi strumenti l’autonomia cerca di prendere il largo, ma la nave è ancora fragile e rischia di incappare nei pericoli tesi da vecchi e nuovi centralismi; soprattutto è la cultura dell’autonomia ed i protagonisti di questa esperienza che devono portare la scuola all’interno di processi sociali significativi per lo sviluppo del territorio ai diversi livelli, in modo da valorizzare questa funzione non solo secondo la logica della gerarchia delle fonti del diritto, ma della qualità della crescita delle persone, dell’economia, della società.

E qui c’è un problema di cornice istituzionale: senza l’applicazione del Titolo Quinto della Costituzione le pedine non vanno a posto ed alcuni passaggi di questa legge sono scivolosi. Ciò che si mette come norma transitoria, riferita al potere degli Uffici Regionali dell’Amministrazione Scolastica nel controllo degli statuti e del (mal)funzionamento degli organi, rischia di rimanere in eterno se le competenze non vengono definitivamente decentrate agli enti territoriali ed alle scuole stesse. Il riferimento alle norme di contabilità dello stato per la redazione del “programma annuale” diventerà un macigno sulla strada della gestione delle risorse, soprattutto se lo Stato continuerà ad essere pressoché l’unico finanziatore. Abbiamo già avuto esperienza di come un decreto di contabilità (1975) di fatto abbia bloccato la nascente autonomia dei decreti delegati (1974). Più o meno le cose stanno ancora così nonostante l’ammodernamento della redazione del bilancio. Altro che scuole/fondazioni, di cui peraltro si è persa traccia! Anche quando si parla di “regolamento” relativo alle reti ed ai consorzi occorre vigilare, per vedere se sono regole che favoriscono o inibiscono.

Rispetto alle risorse finanziarie si capisce che siano erogate in gran parte dallo Stato ed altri (Fondazioni, privati, e quindi anche le famiglie) possono intervenire in senso integrativo, ma la novità insita nel federalismo fiscale è proprio la modalità con la quale vengono prelevate, non più soltanto a livello di trasferimenti (es: fondo di istituto), ma di compartecipazione ai tributi locali/regionali. Quindi occorre presidiare ora l’altro settore, quello delle norme sulle autonomie locali, in discussione al Senato. E’ per questo che se da un lato occorre che i servizi educativi – scolastici e formativi rientrino (come sono rientrati) tra le “funzioni fondamentali” degli Enti Locali e quindi ciò richiede una efficace azione di questi ultimi sul piano delle programmazione della organizzazione Es.: unioni di comuni/istituti comprensivi), dall’altro diventerà progressivamente inutile uno stringente riferimento alla contabilità statale, quando magari proprio lo Stato si potrebbe limitare alla retribuzione (con partita di spesa in conto tesoro) del personale. Da notare che l’autonomia finanziaria era già contenuta nell’art. 21 della legge 59/1997.

Compito vero dello Stato fin qui disatteso sono le “norme generali sull’istruzione” e i predetti livelli essenziali delle prestazioni: ma su questo non accade nulla, nemmeno nei più recenti provvedimenti del nuovo Governo. Ed allora forse tocca ancora al Parlamento!?

Anche le disposizioni di questa legge costituiscono norme generali sull’istruzione, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera n), della Costituzione ed in quello spirito sono dunque finalizzate alla piena attuazione dell’autonomia scolastica, come indicata dalla già citata legge n.59 del 15 marzo1997, art. 21 e dal DPR n. 275 del 8 marzo 1999.

La nuova governance degli istituti scolastici fa leva sulla capacità delle scuole stesse di concorrere alla definizione e alla realizzazione degli obiettivi educativi e formativi, che trovano poi compiuta espressione nel piano dell’offerta formativa, fondato su uno stretto rapporto con la domanda sociale, senza perdere di vista l’efficacia (valutazione) della sua appunto funzione universalistica di crescita personale e culturale. Dovranno quindi essere valorizzati la funzione educativa dei docenti, il diritto all’apprendimento e alla partecipazione degli alunni alla vita della scuola, le scelte dei genitori, il patto educativo tra famiglie e docenti e tra istituzione scolastica e territorio.

Con questa legge lo Stato non deve cercare le modalità per condizionare l’autonomia, è già stato così per più di vent’anni con la sperimentazione, in barba a quanto previsto dall’art. 3 del DPR 419/1974 e dall’art. 11 DPR 275/1999, ma fare la sua parte secondo quanto la costituzione gli affida. E’ ovvio che senza cornice si rischia lo sbandamento, ma con la gestione centralistica siamo già nella paralisi.

Il problema dunque non sta nel prevedere nuove reti di scuole per la gestione degli organici, ma in organici anch’essi funzionali alla popolazione scolastica ed all’offerta formativa dati alle autonomie scolastiche, che per effetto delle varie soluzioni territoriali (istituti comprensivi, ISII, ecc.) sono già reti e possono per effetto di quanto già previsto dall’art. 7 del citato decreto 275 scambiarsi il personale e costituire anche laboratori per la documentazione, la ricerca, l’innovazione. Le reti devono infatti essere convenienti e non obbligatorie e andranno valorizzate associazioni di scuole autonome che si costituiscono per esercitare un migliore coordinamento delle azioni delle stesse ed aumentare l’efficacia dei rapporti con altri enti e realtà territoriali.

Domanda e offerta, qualità e partecipazione sono ingredienti che lo Statuto deve saper far reagire per la costruzione della comunità scolastica pienamente inserita in quella territoriale, garantendo per studenti e famiglie l’esercizio dei diritti di riunione e di associazione. In quest’ottica si inserisce la necessità di rendere più flessibili curricoli, tempi, gruppi e organizzazione della didattica e quindi di un’adeguata politica del personale.

Sul piano della valutazione resta in piedi il comitato di valutazione del servizio degli insegnanti di cui al DPR 416/1974, in attesa che venga affrontato il tema specifico anche in vista delle ipotizzate diversificazioni di carriera, e viene introdotto, come si è detto, il nucleo di autovalutazione del funzionamento dell’istituto. Esso coinvolge gli operatori scolastici, gli studenti, le famiglie e predispone un rapporto annuale di autovalutazione, anche sulla base dei criteri, degli indicatori nazionali e degli altri strumenti di rilevazione forniti dall’INVALSI. Tale Rapporto è assunto come parametro di riferimento per l’elaborazione del piano dell’offerta formativa e del programma annuale delle attività, nonché della valutazione esterna della scuola realizzata secondo le modalità che saranno previste dallo sviluppo del sistema nazionale di valutazione. La scuola può decidere di rendere pubblico il rapporto, ma in ogni caso deve organizzare annualmente una “conferenza di rendicontazione”.

La “rappresentanza istituzionale delle scuole autonome” viene costituita a livello locale, regionale e nazionale. Quest’ultima con un decreto del ministro si istituisce il predetto Consiglio delle Autonomie Scolastiche, composto da rappresentanti eletti rispettivamente dai dirigenti, dai docenti e dai presidenti dei consigli delle istituzioni scolastiche autonome. E’ presieduto dal Ministro o da un suo delegato e vede la partecipazione anche di rappresentanti della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, delle Associazioni delle Province e dei Comuni e del Presidente dell’INVALSI. E’ un organo di partecipazione e di corresponsabilità tra Stato, Regioni, Enti Locali ed Autonomie Scolastiche nel governo del sistema nazionale di istruzione. E’ altresì organo di tutela della libertà di insegnamento, della qualità della scuola italiana e di garanzia della piena attuazione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche. In questa funzione esprime l’autonomia dell’intero sistema formativo a tutti i suoi livelli.

A livello regionale saranno le rispettive leggi, in attuazione degli art 117, 118 e 119 della Costituzione a prevedere strumenti e modalità di relazione con le autonomie scolastiche e per la loro rappresentanza in quanto considerate soggetti imprescindibili nell’organizzazione e nella gestione dell’offerta formativa regionale, in integrazione con i servizi educativi per l’infanzia, la formazione professionale e permanente, in costante confronto con le politiche scolastiche nazionali e prevedendo ogni possibile collegamento con gli altri sistemi scolastici regionali. Le Regioni istituiscono la “conferenza regionale del sistema educativo, scolastico e formativo. Essa svolge attività consultiva e di supporto nelle materie di competenza delle regioni stesse, e su richiesta di queste, esprimendo pareri sui disegni di legge attinenti il sistema regionale. Le Regioni istituiscono altresì Conferenze di ambito territoriale che sono il luogo del coordinamento tra le istituzioni scolastiche, gli Enti locali, i rappresentanti del mondo della cultura, del lavoro e dell’impresa di un determinato territorio. Alle Conferenze partecipano i Comuni, singoli o associati, l’amministrazione scolastica regionale, le Università, le istituzioni scolastiche, singole o in rete, rappresentanti delle realtà professionali, culturali e dell’impresa. Esprimono pareri sui piani di organizzazione della rete scolastica, proposte sulla programmazione dell’offerta formativa, sugli accordi a livello territoriale, sulle reti di scuole e sui consorzi, sulla continuità tra i vari cicli dell’istruzione, sull’integrazione degli alunni diversamente abili, sull’adempimento dell’obbligo di istruzione e formazione.

Come si può vedere in conclusione tanti sono i provvedimenti che debbono essere composti e questo è una parte importante, affinché si possa davvero arrivare a costruire un sistema nazionale a partire dai territori e quindi dalle scuole autonome, assicurando risorse umane e finanziarie nell’ottica del multilivello, in modo che la formazione sia un’occasione di crescita di tutta la comunità nazionale, ma prima di tutto territoriale.

Il riconoscimento dell’autonomia vuol dire innanzitutto che le scuole devono saper svolgere il loro ruolo, ma non lo imparano in un corso di aggiornamento organizzato dall’amministrazione scolastica, bensì in un costante rapporto con la realtà locale/nazionale, alle quali devono corrispondere in termini di ricerca e innovazione. Lo Stato deve fare altro, la cornice e il controllo; alle Regioni la programmazione, senza lasciarsi tentare dal riformare nuovi ministeri.

Il circuito si può veramente chiudere. C’è ormai tutto quel che serve, ora largo alla volontà politica: lo potrebbe fare un governo tecnico anche con costi molto limitati. Ma non vi è nulla di questo nei documenti programmatici: forse possiamo chiederci il perché e darci anche qualche risposta circa un’idea immortale di centralismo: le leggi vi son ma chi pon mano ad esse?

Lavorare sulla governance senza autonomia vera è ammassare anche questo provvedimento nel magazzino già affollato degli attrezzi legislativi.

da http://www.edscuola.eu

“Nuovo Governo delle Istituzioni scolastiche ma l’Autonomia è ancora debole”, di Gian Carlo Sacchi

L’autonomia scolastica è l’orizzonte in cui si colloca il governo del sistema scolastico italiano, dopo i decreti delegati del 1974 che istituivano la “partecipazione” della comunità alla vita della scuola e tanti anni di sperimentazione che cercavano di collegare la funzione formativa della stessa con lo sviluppo del territorio.

Questa nuova prospettiva è contenuta nella riforma degli enti locali del 1990 (L. 142), della Pubblica Amministrazione del 1997 (L. 59), che ha iniziato una azione di decentramento delle competenze statali verso gli enti locali (D.Leg.vo 112/1998) e ha dato il via alla costruzione dell’impalcatura della scuola autonoma (DPR 275/1999), con il conferimento della personalità giuridica alle scuole nell’ambito di un’azione di programmazione territoriale (DPR 233/1998).

Questo impianto, anche se ancora lontano dall’essere compiutamente realizzato ha già subito cambiamenti (L. 111/2011), ma comunque non ha perso valore in quanto sancito dalla modifica del titolo quinto della Costituzione (anch’esso però non ancora applicato) (L.C. n. 3/2001) ed è in qualche modo confermato dalla normativa sul così detto federalismo fiscale (L. 42/2009 e D.Leg.vo 68/2011) nonché dai recenti provvedimenti sulla semplificazione (DL 5/2012).

La legislazione richiamata sta cercando, pur non senza contraddizioni, di ricostruire un governo del sistema educativo – scolastico – formativo ai diversi livelli di organizzazione territoriale, che riparta dal basso e cioè dal riconoscimento, secondo quanto indicato dalla predetta norma costituzionale, degli organi della Repubblica tra i quali è “fatta salva” l’autonomia delle istituzioni scolastiche (art. 117 della Costituzione).

L’autonomia dunque non è concessa, in una prospettiva meramente decentralistica dell’ordinamento statale, ma è riconosciuta, e quindi ha bisogno oltre che di avere spazio di darsi una configurazione istituzionale: autonomia statutaria. La situazione ricalca molto, dicono gli studiosi, quella universitaria, entrambe infatti sono state identificate dalla predetta legge 59 come autonomie funzionali. Per l’università però tale impostazione era già praticata ed è stata riconfermata, mentre per la scuola il centralismo statale ha di fatto sempre impedito di arrivare a soluzioni veramente autonomiste, sia che si tratti di passaggi di competenze agli enti locali/autonomie scolastiche, sia che si voglia valorizzare il “sistema formativo” come una componente veramente autonoma nell’esercizio della funzione culturale ed educativa pur all’interno di un “sistema nazionale dell’istruzione”, anch’esso ridefinito dalla L. 62/2000.

E’ quest’ultimo approccio infatti quello assunto dalla predetta riforma costituzionale, ma, come si è detto, molto resta ancora da fare.

Proprio per rinforzare tale impostazione si deve pensare ad una revisione della governance interna agli istituti, ferma ai decreti del 1974; con la proposta di legge licenziata alla VII Commissione della Camera si cerca dunque di rivedere organi, processi e strumenti nella più recente visione della piena realizzazione di un’autonomia scolastica come parte del sistema nazionale dell’istruzione, ma anche parte inscindibile della comunità locale.

Nell’ambito del “sistema delle autonomie” deve esistere dunque un’autonomia statuaria che dia valore alla personalità giuridica e porti le scuole autonome allo stesso livello di altri enti territoriali. Sono gli statuti delle scuole infatti che devono saper interpretare le “norme generali dell’istruzione” e tradurle in offerta formativa, nell’ambito dei “livelli essenziali delle prestazioni”e per la crescita dei singoli sul piano umano, culturale e professionale, come potrà essere indicato dagli standard nazionali e locali perché sia riconosciuto il diritto alla formazione a tutti i cittadini italiani.

In tale contesto, famiglie, studenti, comunità locali, docenti dovranno potersi muovere autonomamente per garantire un’offerta sempre più qualificata in un’ottica generale ma che sia aderente alla realtà in cui la scuola opera, per poter incontrare i problemi e le aspettative che tale realtà esprime e nello stesso tempo contribuire a “collocare nel mondo”.

Le scuole autonome sono il punto di riferimento e la loro consistenza deve essere oggetto di un’attenta azione di programmazione territoriale e gestione della spesa secondo un’azione multilivello, come indicato dai predetti provvedimenti sul federalismo fiscale. Reti e consorzi sono strumenti per potenziare l’autonomia e ottimizzare l’uso delle risorse, in vista del raggiungimento di migliori e più qualificati obiettivi.

Gli organi di governo prevedono la distinzione delle funzioni di indirizzo, di quelle professionali in senso stretto e di gestione, pur in una visione e pratica di integrazione tra di loro.

Il dirigente scolastico è il rappresentante legale dell’istituzione, presiede i momenti strategici per l’impostazione della programmazione e risponde dei risultati; i docenti, sul piano individuale e collegiale, hanno “libertà di insegnamento” ma sono responsabili della progettazione e conduzione dell’impianto didattico, nonché della valutazione degli alunni; la comunità locale è corresponsabile, sul piano dei bisogni formativi e delle risorse, e interviene, anche attraverso la compartecipazione alle entrate fiscali, per quanto riguarda il sostegno all’intero sistema: essa deve poter partecipare tenendo presente l’integrazione tra i servizi educativi del territorio.

La presidenza del Consiglio dell’Istituzione Scolastica viene mantenuta ad un membro eletto dalle famiglie, che con il dirigente scolastico ed altre componenti saranno coinvolte nelle modalità di rappresentanza della stessa, sia per intraprendere intese e azioni locali, sia nei processi elettivi di livello regionale e nazionale.

La scuola veramente autonoma non potrà sottrarsi a processi valutativi per corrispondere agli standard indicati a livello di sistema, ma anche come capacità di autoanalisi delle proprie attività, di confronto dei risultati e con le aspettative e su come riesce ad promuovere il successo formativo, anche attraverso una autonomo nucleo di valutazione.

L’autonomia è prima di tutto un processo culturale che oltre a rendere più efficiente il servizio deve migliorare costantemente la consapevolezza di assicurare su tutto il territorio nazionale un sistema di qualità nel quale viene tutelata la libertà di insegnamento. Il tutto verrà demandato ad un “Consiglio delle Autonomie Scolastiche”.

Sono sempre le medesime autonomie scolastiche il riferimento per le politiche regionali e degli enti locali, i quali devono valorizzare le associazioni tra le scuole che vogliono accrescere l’efficacia della loro presenza e della loro azione insieme ad altri enti e soggetti locali.

Un risultato importante, raggiunto a livello parlamentare, come non si vedeva da tempo: il potere legislativo che finalmente si riappropria del suo ruolo ed i problemi della scuola non vengono relegati alla sola gestione burocratica. Sarà la nuova tregua politica ? Fatto sta che questo provvedimento, bipartisan, è di buon auspicio, sia per il modo, anche se affrettato, sia per il luogo, che allontana dagli interessi che cercano di prevalere in altri palazzi del governo.

Attraverso questi strumenti l’autonomia cerca di prendere il largo, ma la nave è ancora fragile e rischia di incappare nei pericoli tesi da vecchi e nuovi centralismi; soprattutto è la cultura dell’autonomia ed i protagonisti di questa esperienza che devono portare la scuola all’interno di processi sociali significativi per lo sviluppo del territorio ai diversi livelli, in modo da valorizzare questa funzione non solo secondo la logica della gerarchia delle fonti del diritto, ma della qualità della crescita delle persone, dell’economia, della società.

E qui c’è un problema di cornice istituzionale: senza l’applicazione del Titolo Quinto della Costituzione le pedine non vanno a posto ed alcuni passaggi di questa legge sono scivolosi. Ciò che si mette come norma transitoria, riferita al potere degli Uffici Regionali dell’Amministrazione Scolastica nel controllo degli statuti e del (mal)funzionamento degli organi, rischia di rimanere in eterno se le competenze non vengono definitivamente decentrate agli enti territoriali ed alle scuole stesse. Il riferimento alle norme di contabilità dello stato per la redazione del “programma annuale” diventerà un macigno sulla strada della gestione delle risorse, soprattutto se lo Stato continuerà ad essere pressoché l’unico finanziatore. Abbiamo già avuto esperienza di come un decreto di contabilità (1975) di fatto abbia bloccato la nascente autonomia dei decreti delegati (1974). Più o meno le cose stanno ancora così nonostante l’ammodernamento della redazione del bilancio. Altro che scuole/fondazioni, di cui peraltro si è persa traccia! Anche quando si parla di “regolamento” relativo alle reti ed ai consorzi occorre vigilare, per vedere se sono regole che favoriscono o inibiscono.

Rispetto alle risorse finanziarie si capisce che siano erogate in gran parte dallo Stato ed altri (Fondazioni, privati, e quindi anche le famiglie) possono intervenire in senso integrativo, ma la novità insita nel federalismo fiscale è proprio la modalità con la quale vengono prelevate, non più soltanto a livello di trasferimenti (es: fondo di istituto), ma di compartecipazione ai tributi locali/regionali. Quindi occorre presidiare ora l’altro settore, quello delle norme sulle autonomie locali, in discussione al Senato. E’ per questo che se da un lato occorre che i servizi educativi – scolastici e formativi rientrino (come sono rientrati) tra le “funzioni fondamentali” degli Enti Locali e quindi ciò richiede una efficace azione di questi ultimi sul piano delle programmazione della organizzazione Es.: unioni di comuni/istituti comprensivi), dall’altro diventerà progressivamente inutile uno stringente riferimento alla contabilità statale, quando magari proprio lo Stato si potrebbe limitare alla retribuzione (con partita di spesa in conto tesoro) del personale. Da notare che l’autonomia finanziaria era già contenuta nell’art. 21 della legge 59/1997.

Compito vero dello Stato fin qui disatteso sono le “norme generali sull’istruzione” e i predetti livelli essenziali delle prestazioni: ma su questo non accade nulla, nemmeno nei più recenti provvedimenti del nuovo Governo. Ed allora forse tocca ancora al Parlamento!?

Anche le disposizioni di questa legge costituiscono norme generali sull’istruzione, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera n), della Costituzione ed in quello spirito sono dunque finalizzate alla piena attuazione dell’autonomia scolastica, come indicata dalla già citata legge n.59 del 15 marzo1997, art. 21 e dal DPR n. 275 del 8 marzo 1999.

La nuova governance degli istituti scolastici fa leva sulla capacità delle scuole stesse di concorrere alla definizione e alla realizzazione degli obiettivi educativi e formativi, che trovano poi compiuta espressione nel piano dell’offerta formativa, fondato su uno stretto rapporto con la domanda sociale, senza perdere di vista l’efficacia (valutazione) della sua appunto funzione universalistica di crescita personale e culturale. Dovranno quindi essere valorizzati la funzione educativa dei docenti, il diritto all’apprendimento e alla partecipazione degli alunni alla vita della scuola, le scelte dei genitori, il patto educativo tra famiglie e docenti e tra istituzione scolastica e territorio.

Con questa legge lo Stato non deve cercare le modalità per condizionare l’autonomia, è già stato così per più di vent’anni con la sperimentazione, in barba a quanto previsto dall’art. 3 del DPR 419/1974 e dall’art. 11 DPR 275/1999, ma fare la sua parte secondo quanto la costituzione gli affida. E’ ovvio che senza cornice si rischia lo sbandamento, ma con la gestione centralistica siamo già nella paralisi.

Il problema dunque non sta nel prevedere nuove reti di scuole per la gestione degli organici, ma in organici anch’essi funzionali alla popolazione scolastica ed all’offerta formativa dati alle autonomie scolastiche, che per effetto delle varie soluzioni territoriali (istituti comprensivi, ISII, ecc.) sono già reti e possono per effetto di quanto già previsto dall’art. 7 del citato decreto 275 scambiarsi il personale e costituire anche laboratori per la documentazione, la ricerca, l’innovazione. Le reti devono infatti essere convenienti e non obbligatorie e andranno valorizzate associazioni di scuole autonome che si costituiscono per esercitare un migliore coordinamento delle azioni delle stesse ed aumentare l’efficacia dei rapporti con altri enti e realtà territoriali.

Domanda e offerta, qualità e partecipazione sono ingredienti che lo Statuto deve saper far reagire per la costruzione della comunità scolastica pienamente inserita in quella territoriale, garantendo per studenti e famiglie l’esercizio dei diritti di riunione e di associazione. In quest’ottica si inserisce la necessità di rendere più flessibili curricoli, tempi, gruppi e organizzazione della didattica e quindi di un’adeguata politica del personale.

Sul piano della valutazione resta in piedi il comitato di valutazione del servizio degli insegnanti di cui al DPR 416/1974, in attesa che venga affrontato il tema specifico anche in vista delle ipotizzate diversificazioni di carriera, e viene introdotto, come si è detto, il nucleo di autovalutazione del funzionamento dell’istituto. Esso coinvolge gli operatori scolastici, gli studenti, le famiglie e predispone un rapporto annuale di autovalutazione, anche sulla base dei criteri, degli indicatori nazionali e degli altri strumenti di rilevazione forniti dall’INVALSI. Tale Rapporto è assunto come parametro di riferimento per l’elaborazione del piano dell’offerta formativa e del programma annuale delle attività, nonché della valutazione esterna della scuola realizzata secondo le modalità che saranno previste dallo sviluppo del sistema nazionale di valutazione. La scuola può decidere di rendere pubblico il rapporto, ma in ogni caso deve organizzare annualmente una “conferenza di rendicontazione”.

La “rappresentanza istituzionale delle scuole autonome” viene costituita a livello locale, regionale e nazionale. Quest’ultima con un decreto del ministro si istituisce il predetto Consiglio delle Autonomie Scolastiche, composto da rappresentanti eletti rispettivamente dai dirigenti, dai docenti e dai presidenti dei consigli delle istituzioni scolastiche autonome. E’ presieduto dal Ministro o da un suo delegato e vede la partecipazione anche di rappresentanti della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, delle Associazioni delle Province e dei Comuni e del Presidente dell’INVALSI. E’ un organo di partecipazione e di corresponsabilità tra Stato, Regioni, Enti Locali ed Autonomie Scolastiche nel governo del sistema nazionale di istruzione. E’ altresì organo di tutela della libertà di insegnamento, della qualità della scuola italiana e di garanzia della piena attuazione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche. In questa funzione esprime l’autonomia dell’intero sistema formativo a tutti i suoi livelli.

A livello regionale saranno le rispettive leggi, in attuazione degli art 117, 118 e 119 della Costituzione a prevedere strumenti e modalità di relazione con le autonomie scolastiche e per la loro rappresentanza in quanto considerate soggetti imprescindibili nell’organizzazione e nella gestione dell’offerta formativa regionale, in integrazione con i servizi educativi per l’infanzia, la formazione professionale e permanente, in costante confronto con le politiche scolastiche nazionali e prevedendo ogni possibile collegamento con gli altri sistemi scolastici regionali. Le Regioni istituiscono la “conferenza regionale del sistema educativo, scolastico e formativo. Essa svolge attività consultiva e di supporto nelle materie di competenza delle regioni stesse, e su richiesta di queste, esprimendo pareri sui disegni di legge attinenti il sistema regionale. Le Regioni istituiscono altresì Conferenze di ambito territoriale che sono il luogo del coordinamento tra le istituzioni scolastiche, gli Enti locali, i rappresentanti del mondo della cultura, del lavoro e dell’impresa di un determinato territorio. Alle Conferenze partecipano i Comuni, singoli o associati, l’amministrazione scolastica regionale, le Università, le istituzioni scolastiche, singole o in rete, rappresentanti delle realtà professionali, culturali e dell’impresa. Esprimono pareri sui piani di organizzazione della rete scolastica, proposte sulla programmazione dell’offerta formativa, sugli accordi a livello territoriale, sulle reti di scuole e sui consorzi, sulla continuità tra i vari cicli dell’istruzione, sull’integrazione degli alunni diversamente abili, sull’adempimento dell’obbligo di istruzione e formazione.

Come si può vedere in conclusione tanti sono i provvedimenti che debbono essere composti e questo è una parte importante, affinché si possa davvero arrivare a costruire un sistema nazionale a partire dai territori e quindi dalle scuole autonome, assicurando risorse umane e finanziarie nell’ottica del multilivello, in modo che la formazione sia un’occasione di crescita di tutta la comunità nazionale, ma prima di tutto territoriale.

Il riconoscimento dell’autonomia vuol dire innanzitutto che le scuole devono saper svolgere il loro ruolo, ma non lo imparano in un corso di aggiornamento organizzato dall’amministrazione scolastica, bensì in un costante rapporto con la realtà locale/nazionale, alle quali devono corrispondere in termini di ricerca e innovazione. Lo Stato deve fare altro, la cornice e il controllo; alle Regioni la programmazione, senza lasciarsi tentare dal riformare nuovi ministeri.

Il circuito si può veramente chiudere. C’è ormai tutto quel che serve, ora largo alla volontà politica: lo potrebbe fare un governo tecnico anche con costi molto limitati. Ma non vi è nulla di questo nei documenti programmatici: forse possiamo chiederci il perché e darci anche qualche risposta circa un’idea immortale di centralismo: le leggi vi son ma chi pon mano ad esse?

Lavorare sulla governance senza autonomia vera è ammassare anche questo provvedimento nel magazzino già affollato degli attrezzi legislativi.

da http://www.edscuola.eu