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“Art. 18 e la grana degli esuberi”, di Alessandra Ricciardi

Ci sono circa 10 mila professori di ruolo da ricollocare. Patroni Griffi riapre la partita del settore pubblico: flessibilità in uscita al tavolo con i sindacati. Nel balletto di dichiarazioni del governo, Patroni Griffi aveva aperto all’applicazione dell’articolo 18 agli statali, scuola compresa, il ministro del lavoro, Elsa Fornero, aveva smentito, la stessa Fornero ha poi però ammesso che se ne potrebbe parlare. E da ultimo il ministro competente per il settore pubblico, Filippo Patroni Griffi, ha detto che sì, di flessibilità in uscita si parlerà con i sindacati al tavolo aperto a Palazzo Vidoni su contratti e relazioni sindacali.

Un polverone, quello sull’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto modificato nell’ambito della riforma del mercato del lavoro, che non tiene conto che nel settore pubblico i licenziamenti per motivi economici si possono già fare. E non solo perché il decreto legislativo n.165 del 2001 richiama espressamente lo Statuto dei lavoratori, ma perché la legge di stabilità del 2012 disciplina proprio i licenziamenti nel pubblico in caso di esubero di personale. Una norma che finora non è sta mai applicata e che troverebbe proprio nella scuola il suo terreno di più immediato impatto. Nei primi incontri che si sono già svolti tra Funzione pubblica e sindacati, quando ancora il polverone art. 18 non era stato sollevato, si è parlato dei 10 mila docenti in esubero nella scuola e del caso anche dei 4 mila docenti inidonei all’insegnamento e che vanno riconvertiti. L’ultima legge di stabilità di Giulio Tremonti ha modificato l’art. 33 del decreto165/2001 che già definiva la gestione delle eccedenze di personale e mobilità collettiva e ha previsto una mobilità verso altri comparti, anche altre regioni, a caccia di un utilizzo dei dipendenti assunti a tempo indeterminato ma risultanti in più rispetto al profilo di assunzione.

Nel caso di esito negativo, c’è l’atto finale della messa in disponibilità per la durata di 2 anni e una indennità pari all’80% della retribuzione, a cui fa seguito il licenziamento. Le procedure non sono mai state avviate anche perché definire i passaggi da un’amministrazione all’altra non è operazione semplice, dovendosi comparare profili professionali e vacanze in organico.

Nel frattempo il contratto sulle utilizzazioni della scuola ha disposto l’impegno dei prof in soprannumero nelle sostituzioni o nei progetti per il recupero dei ragazzi. Ma si tratta di interventi tampone. Di mobilità dovrà parlarsi di nuovo e in altra sede.

da ItaliaOggi 27.03.12

""Le aule? Sono della Congregazione" Così si evita la tassa sugli immobili", di Mario Reggio

Arriva l’Imu e tutti si sono chiesti in che misura la Chiesa la pagherà. Il criterio è quello dell’attività “non commerciale” che determina l’esclusione dalla tassa. Ma i modi per eluderla sono molti, i controlli minimi e le scuole confessionali sono già sul piede di guerra: “Comunque non pagheremo perché saremmo costretti a chiudere. Fioccheranno i ricorsi”. Il decreto sulle liberalizzazioni è diventato legge dello Stato. Tra le varie misure ritorna la tassa sui fabbricati, l’ex Ici, ora Imu che dovrà essere pagata anche dalle scuole paritarie, comprese quelle cattoliche.
I tentativi di sfuggire al fisco sono numerosi: far rientrare l’immobile nel patrimonio della congregazione religiosa a cui fa riferimento la scuola. Oppure passare la proprietà ad una Onlus o creare una cooperativa ad hoc.
Tra le scuole paritarie non cattoliche molte sono i vecchi “diplomifici” che hanno cambiato pelle ed a volte anche nome, continuando a spillare soldi alle famiglie con i corsi di recupero degli anni persi dallo studente e con rette che a volte superano, iscrizione a parte, i 3 mila euro.

Nel mirino dei Comuni, beneficiari di una quota dell’Imu, anche istituti religiosi di prestigio. L’Istituto Paritario Santa Maria ha sede in un grande edificio in viale Manzoni a Roma. L’offerta comprende tutti i cicli scolastici: materna, elementare, media inferiore e liceo. Le attività sportive sono di alto livello: piscine e palestre. Ed oltre all’immancabile chiesa una “residenza” ovvero un albergo. Il padre “gestore” della congregazione dei Marianisti non accetta visite e si rifiuta di fornire le cifre sulle rette. L’unica dichiarazione che rilascia è: “Gli immobili sono di proprietà della congregazione che certamente non ha fini di lucro”. Stessa musica per l’Istituto Paritario San Leone Magno di Roma, di proprietà dei fratelli Maristi. Il Collegio Nazareno, invece, ha deciso di ridurre l’attività scolastica ed affitta una parte del prestigioso immobile in pieno Centro Storico alla direzione nazionale del Partito Democratico.

Ora, approvato il decreto, le scuole religiose sono passate al contrattacco. “Le scuole cattoliche non pagheranno l’Imu perché nel giro di un anno sarebbero tutte costrette a chiudere e a mandare a casa 40 mila lavoratori. Faremo ricorso al giudice. L’Imu che andrebbe ad aggiungersi ai deficit gestionali. Oggi in molte scuole cattoliche stiamo applicando i contratti di solidarietà, d’accordo con i sindacati, per cui il dipendente prende il 30 per cento in meno e lo Stato assicura il 100 per cento dei contributi”. Parola di padre Francesco Ciccimarra, presidente dell’Associazione Gestori Istituti Dipendenti dall’Autorità Ecclesiastica.

Critico anche Luigi Sepiacci, presidente dell’Associazione Nazionale Istituti non statali di Educazione e Istruzione, aderente a Confindustria. “Se il governo vuol fare un favore alle scuole cattoliche lo dica chiaro e tondo – afferma – vorrei ricordare che la Corte di Cassazione ha stabilito che l’attività scolastica, ancorché svolta dietro corrispettivo, è un’attività commerciale”.

Nei giorni scorsi, spiegando il senso dell’emendamento del governo sul pagamento dell’Imu per gli immobili di
proprietà della Chiesa cattolica, aveva precisato: “Saranno esentate quelle che svolgono la propria attività con modalità concretamente ed effettivamente non commerciali”. Ma chi decide se la scuola paritaria non accantona utili, grazie alle rette e ai contributi dello Stato, facendo risultare il bilancio in pareggio o addirittura in rosso? Qui l’affare si complica. Il Ministero dell’Istruzione ha solo compiti di indirizzo e di registrazione dei dati. Chi fornisce i dati sulle scuole paritarie? In base alla legge, il compito spetta ai direttori scolastici regionali. Quali strumenti hanno a disposizione? Ovviamente gli ispettori. Peccato che siano meno di 70 in tutta Italia e controllare quasi 14 mila scuole paritarie è una missione impossibile. Ergo, la prassi diffusa è quella dell’autocertificazione.

Già oggi, una notevole percentuale delle scuole paritarie non risulta a scopo di lucro. Su un totale di 13.910 istituti, le materne sono 9.929 (il 95% delle quali dichiara di non guadagnare un euro dalla sua attività), le elementari sono 1.539 (73% non a scopo di lucro), le medie inferiori 690 (72% senza profitti) e le superiori risultano 1.752. Qui le cose cambiano: solo il 38%, infatti, non sono a scopo di lucro.

Non restano che i Comuni, i beneficiari, almeno in parte, della tassa sugli immobili cancellata nel 2008 dal governo Berlusconi. Per l’Anci, l’Associazione nazionale dei Comuni Italiani, un’inaspettata tegola sulla testa. Ce la faranno gli Uffici Tecnici comunali, falcidiati dal blocco del turn-over a verificare quali sono le scuole profit e quelle no-profit? Servirebbe un miracolo ma nessuno ci crede. Il dramma è che il tempo che resta è poco, perché entro il prossimo 30 giugno le amministrazioni locali dovranno presentare le cartelle esattoriali e saranno sommersi da una valanga di ricorsi.

Con molta probabilità andrà a finire come per le scuole paritarie: prendere per oro colato le autocertificazioni. Come è accaduto per anni, la legge 62 del 2000, di berlingueriana memoria, stabiliva che per ottenere la parità, quindi l’equiparazione al sistema pubblico dell’istruzione, gli aspiranti avrebbero dovuto rispettare alcune regole. Applicare ai dipendenti, insegnanti e non docenti il contratto nazionale della scuola. Rispettare i programmi stabiliti dal ministero dell’Istruzione. Assumere i docenti rispettando le graduatorie pubbliche. Accettare gli studenti “diversamente abili” e per le cattoliche “non precludere l’iscrizione ai ragazzi di fede diversa”. E dulcis in fundo, rispettare il principio della trasparenza dei bilanci.

Vediamo cosa succede sul campo. Diego Bouché è il direttore scolastico regionale della Campania, dove nella provincia di Caserta su 400 scuole, oltre 230 risultano “paritarie”. “Il nostro è un compito sicuramente difficile, visto che abbiamo 4 ispettori su un organico previsto di 24 – dichiara Bouché – noi controlliamo, compatibilmente con le forze a disposizione, le iscrizioni degli alunni, i titoli degli insegnanti, la struttura degli edifici e la sicurezza. Per quanto riguarda la trasparenza dei bilanci non siamo mica dei fiscalisti. Attendiamo con ansia la conclusione del concorso nazionale per i nuovi ispettori sperando di recuperare almeno in parte quelli che sono andati in pensione”.

Le cose vanno meglio nel Lazio? Neanche per sogno. “L’ufficio può contare su 3 ispettori, uno dei quali segue anche due dipartimenti amministrativi per carenza di organici – spiega la direttrice scolastica regionale Maria Maddalena Novelli – ora abbiamo messo in campo un piano straodinario di controlli che coinvolge 200 istituti paritari, utilizzando anche i dirigenti scolastici come consigliato dal Ministero, e dai primi risultati non emergono irregolarità. Vorrei ricordare che nel 2005 abbiamo revocato la parità a 12 scuole. Per quanto riguarda i bilanci sono gli istituti che si assumono la responsabilità di quanto messo nero su bianco”.

Siamo alle solite. Nessuno controlla. La regola aurea è “facciamo a fidarci”.

La Repubblica 27.03.12

“”Le aule? Sono della Congregazione” Così si evita la tassa sugli immobili”, di Mario Reggio

Arriva l’Imu e tutti si sono chiesti in che misura la Chiesa la pagherà. Il criterio è quello dell’attività “non commerciale” che determina l’esclusione dalla tassa. Ma i modi per eluderla sono molti, i controlli minimi e le scuole confessionali sono già sul piede di guerra: “Comunque non pagheremo perché saremmo costretti a chiudere. Fioccheranno i ricorsi”. Il decreto sulle liberalizzazioni è diventato legge dello Stato. Tra le varie misure ritorna la tassa sui fabbricati, l’ex Ici, ora Imu che dovrà essere pagata anche dalle scuole paritarie, comprese quelle cattoliche.
I tentativi di sfuggire al fisco sono numerosi: far rientrare l’immobile nel patrimonio della congregazione religiosa a cui fa riferimento la scuola. Oppure passare la proprietà ad una Onlus o creare una cooperativa ad hoc.
Tra le scuole paritarie non cattoliche molte sono i vecchi “diplomifici” che hanno cambiato pelle ed a volte anche nome, continuando a spillare soldi alle famiglie con i corsi di recupero degli anni persi dallo studente e con rette che a volte superano, iscrizione a parte, i 3 mila euro.

Nel mirino dei Comuni, beneficiari di una quota dell’Imu, anche istituti religiosi di prestigio. L’Istituto Paritario Santa Maria ha sede in un grande edificio in viale Manzoni a Roma. L’offerta comprende tutti i cicli scolastici: materna, elementare, media inferiore e liceo. Le attività sportive sono di alto livello: piscine e palestre. Ed oltre all’immancabile chiesa una “residenza” ovvero un albergo. Il padre “gestore” della congregazione dei Marianisti non accetta visite e si rifiuta di fornire le cifre sulle rette. L’unica dichiarazione che rilascia è: “Gli immobili sono di proprietà della congregazione che certamente non ha fini di lucro”. Stessa musica per l’Istituto Paritario San Leone Magno di Roma, di proprietà dei fratelli Maristi. Il Collegio Nazareno, invece, ha deciso di ridurre l’attività scolastica ed affitta una parte del prestigioso immobile in pieno Centro Storico alla direzione nazionale del Partito Democratico.

Ora, approvato il decreto, le scuole religiose sono passate al contrattacco. “Le scuole cattoliche non pagheranno l’Imu perché nel giro di un anno sarebbero tutte costrette a chiudere e a mandare a casa 40 mila lavoratori. Faremo ricorso al giudice. L’Imu che andrebbe ad aggiungersi ai deficit gestionali. Oggi in molte scuole cattoliche stiamo applicando i contratti di solidarietà, d’accordo con i sindacati, per cui il dipendente prende il 30 per cento in meno e lo Stato assicura il 100 per cento dei contributi”. Parola di padre Francesco Ciccimarra, presidente dell’Associazione Gestori Istituti Dipendenti dall’Autorità Ecclesiastica.

Critico anche Luigi Sepiacci, presidente dell’Associazione Nazionale Istituti non statali di Educazione e Istruzione, aderente a Confindustria. “Se il governo vuol fare un favore alle scuole cattoliche lo dica chiaro e tondo – afferma – vorrei ricordare che la Corte di Cassazione ha stabilito che l’attività scolastica, ancorché svolta dietro corrispettivo, è un’attività commerciale”.

Nei giorni scorsi, spiegando il senso dell’emendamento del governo sul pagamento dell’Imu per gli immobili di
proprietà della Chiesa cattolica, aveva precisato: “Saranno esentate quelle che svolgono la propria attività con modalità concretamente ed effettivamente non commerciali”. Ma chi decide se la scuola paritaria non accantona utili, grazie alle rette e ai contributi dello Stato, facendo risultare il bilancio in pareggio o addirittura in rosso? Qui l’affare si complica. Il Ministero dell’Istruzione ha solo compiti di indirizzo e di registrazione dei dati. Chi fornisce i dati sulle scuole paritarie? In base alla legge, il compito spetta ai direttori scolastici regionali. Quali strumenti hanno a disposizione? Ovviamente gli ispettori. Peccato che siano meno di 70 in tutta Italia e controllare quasi 14 mila scuole paritarie è una missione impossibile. Ergo, la prassi diffusa è quella dell’autocertificazione.

Già oggi, una notevole percentuale delle scuole paritarie non risulta a scopo di lucro. Su un totale di 13.910 istituti, le materne sono 9.929 (il 95% delle quali dichiara di non guadagnare un euro dalla sua attività), le elementari sono 1.539 (73% non a scopo di lucro), le medie inferiori 690 (72% senza profitti) e le superiori risultano 1.752. Qui le cose cambiano: solo il 38%, infatti, non sono a scopo di lucro.

Non restano che i Comuni, i beneficiari, almeno in parte, della tassa sugli immobili cancellata nel 2008 dal governo Berlusconi. Per l’Anci, l’Associazione nazionale dei Comuni Italiani, un’inaspettata tegola sulla testa. Ce la faranno gli Uffici Tecnici comunali, falcidiati dal blocco del turn-over a verificare quali sono le scuole profit e quelle no-profit? Servirebbe un miracolo ma nessuno ci crede. Il dramma è che il tempo che resta è poco, perché entro il prossimo 30 giugno le amministrazioni locali dovranno presentare le cartelle esattoriali e saranno sommersi da una valanga di ricorsi.

Con molta probabilità andrà a finire come per le scuole paritarie: prendere per oro colato le autocertificazioni. Come è accaduto per anni, la legge 62 del 2000, di berlingueriana memoria, stabiliva che per ottenere la parità, quindi l’equiparazione al sistema pubblico dell’istruzione, gli aspiranti avrebbero dovuto rispettare alcune regole. Applicare ai dipendenti, insegnanti e non docenti il contratto nazionale della scuola. Rispettare i programmi stabiliti dal ministero dell’Istruzione. Assumere i docenti rispettando le graduatorie pubbliche. Accettare gli studenti “diversamente abili” e per le cattoliche “non precludere l’iscrizione ai ragazzi di fede diversa”. E dulcis in fundo, rispettare il principio della trasparenza dei bilanci.

Vediamo cosa succede sul campo. Diego Bouché è il direttore scolastico regionale della Campania, dove nella provincia di Caserta su 400 scuole, oltre 230 risultano “paritarie”. “Il nostro è un compito sicuramente difficile, visto che abbiamo 4 ispettori su un organico previsto di 24 – dichiara Bouché – noi controlliamo, compatibilmente con le forze a disposizione, le iscrizioni degli alunni, i titoli degli insegnanti, la struttura degli edifici e la sicurezza. Per quanto riguarda la trasparenza dei bilanci non siamo mica dei fiscalisti. Attendiamo con ansia la conclusione del concorso nazionale per i nuovi ispettori sperando di recuperare almeno in parte quelli che sono andati in pensione”.

Le cose vanno meglio nel Lazio? Neanche per sogno. “L’ufficio può contare su 3 ispettori, uno dei quali segue anche due dipartimenti amministrativi per carenza di organici – spiega la direttrice scolastica regionale Maria Maddalena Novelli – ora abbiamo messo in campo un piano straodinario di controlli che coinvolge 200 istituti paritari, utilizzando anche i dirigenti scolastici come consigliato dal Ministero, e dai primi risultati non emergono irregolarità. Vorrei ricordare che nel 2005 abbiamo revocato la parità a 12 scuole. Per quanto riguarda i bilanci sono gli istituti che si assumono la responsabilità di quanto messo nero su bianco”.

Siamo alle solite. Nessuno controlla. La regola aurea è “facciamo a fidarci”.

La Repubblica 27.03.12

“”Le aule? Sono della Congregazione” Così si evita la tassa sugli immobili”, di Mario Reggio

Arriva l’Imu e tutti si sono chiesti in che misura la Chiesa la pagherà. Il criterio è quello dell’attività “non commerciale” che determina l’esclusione dalla tassa. Ma i modi per eluderla sono molti, i controlli minimi e le scuole confessionali sono già sul piede di guerra: “Comunque non pagheremo perché saremmo costretti a chiudere. Fioccheranno i ricorsi”. Il decreto sulle liberalizzazioni è diventato legge dello Stato. Tra le varie misure ritorna la tassa sui fabbricati, l’ex Ici, ora Imu che dovrà essere pagata anche dalle scuole paritarie, comprese quelle cattoliche.
I tentativi di sfuggire al fisco sono numerosi: far rientrare l’immobile nel patrimonio della congregazione religiosa a cui fa riferimento la scuola. Oppure passare la proprietà ad una Onlus o creare una cooperativa ad hoc.
Tra le scuole paritarie non cattoliche molte sono i vecchi “diplomifici” che hanno cambiato pelle ed a volte anche nome, continuando a spillare soldi alle famiglie con i corsi di recupero degli anni persi dallo studente e con rette che a volte superano, iscrizione a parte, i 3 mila euro.

Nel mirino dei Comuni, beneficiari di una quota dell’Imu, anche istituti religiosi di prestigio. L’Istituto Paritario Santa Maria ha sede in un grande edificio in viale Manzoni a Roma. L’offerta comprende tutti i cicli scolastici: materna, elementare, media inferiore e liceo. Le attività sportive sono di alto livello: piscine e palestre. Ed oltre all’immancabile chiesa una “residenza” ovvero un albergo. Il padre “gestore” della congregazione dei Marianisti non accetta visite e si rifiuta di fornire le cifre sulle rette. L’unica dichiarazione che rilascia è: “Gli immobili sono di proprietà della congregazione che certamente non ha fini di lucro”. Stessa musica per l’Istituto Paritario San Leone Magno di Roma, di proprietà dei fratelli Maristi. Il Collegio Nazareno, invece, ha deciso di ridurre l’attività scolastica ed affitta una parte del prestigioso immobile in pieno Centro Storico alla direzione nazionale del Partito Democratico.

Ora, approvato il decreto, le scuole religiose sono passate al contrattacco. “Le scuole cattoliche non pagheranno l’Imu perché nel giro di un anno sarebbero tutte costrette a chiudere e a mandare a casa 40 mila lavoratori. Faremo ricorso al giudice. L’Imu che andrebbe ad aggiungersi ai deficit gestionali. Oggi in molte scuole cattoliche stiamo applicando i contratti di solidarietà, d’accordo con i sindacati, per cui il dipendente prende il 30 per cento in meno e lo Stato assicura il 100 per cento dei contributi”. Parola di padre Francesco Ciccimarra, presidente dell’Associazione Gestori Istituti Dipendenti dall’Autorità Ecclesiastica.

Critico anche Luigi Sepiacci, presidente dell’Associazione Nazionale Istituti non statali di Educazione e Istruzione, aderente a Confindustria. “Se il governo vuol fare un favore alle scuole cattoliche lo dica chiaro e tondo – afferma – vorrei ricordare che la Corte di Cassazione ha stabilito che l’attività scolastica, ancorché svolta dietro corrispettivo, è un’attività commerciale”.

Nei giorni scorsi, spiegando il senso dell’emendamento del governo sul pagamento dell’Imu per gli immobili di
proprietà della Chiesa cattolica, aveva precisato: “Saranno esentate quelle che svolgono la propria attività con modalità concretamente ed effettivamente non commerciali”. Ma chi decide se la scuola paritaria non accantona utili, grazie alle rette e ai contributi dello Stato, facendo risultare il bilancio in pareggio o addirittura in rosso? Qui l’affare si complica. Il Ministero dell’Istruzione ha solo compiti di indirizzo e di registrazione dei dati. Chi fornisce i dati sulle scuole paritarie? In base alla legge, il compito spetta ai direttori scolastici regionali. Quali strumenti hanno a disposizione? Ovviamente gli ispettori. Peccato che siano meno di 70 in tutta Italia e controllare quasi 14 mila scuole paritarie è una missione impossibile. Ergo, la prassi diffusa è quella dell’autocertificazione.

Già oggi, una notevole percentuale delle scuole paritarie non risulta a scopo di lucro. Su un totale di 13.910 istituti, le materne sono 9.929 (il 95% delle quali dichiara di non guadagnare un euro dalla sua attività), le elementari sono 1.539 (73% non a scopo di lucro), le medie inferiori 690 (72% senza profitti) e le superiori risultano 1.752. Qui le cose cambiano: solo il 38%, infatti, non sono a scopo di lucro.

Non restano che i Comuni, i beneficiari, almeno in parte, della tassa sugli immobili cancellata nel 2008 dal governo Berlusconi. Per l’Anci, l’Associazione nazionale dei Comuni Italiani, un’inaspettata tegola sulla testa. Ce la faranno gli Uffici Tecnici comunali, falcidiati dal blocco del turn-over a verificare quali sono le scuole profit e quelle no-profit? Servirebbe un miracolo ma nessuno ci crede. Il dramma è che il tempo che resta è poco, perché entro il prossimo 30 giugno le amministrazioni locali dovranno presentare le cartelle esattoriali e saranno sommersi da una valanga di ricorsi.

Con molta probabilità andrà a finire come per le scuole paritarie: prendere per oro colato le autocertificazioni. Come è accaduto per anni, la legge 62 del 2000, di berlingueriana memoria, stabiliva che per ottenere la parità, quindi l’equiparazione al sistema pubblico dell’istruzione, gli aspiranti avrebbero dovuto rispettare alcune regole. Applicare ai dipendenti, insegnanti e non docenti il contratto nazionale della scuola. Rispettare i programmi stabiliti dal ministero dell’Istruzione. Assumere i docenti rispettando le graduatorie pubbliche. Accettare gli studenti “diversamente abili” e per le cattoliche “non precludere l’iscrizione ai ragazzi di fede diversa”. E dulcis in fundo, rispettare il principio della trasparenza dei bilanci.

Vediamo cosa succede sul campo. Diego Bouché è il direttore scolastico regionale della Campania, dove nella provincia di Caserta su 400 scuole, oltre 230 risultano “paritarie”. “Il nostro è un compito sicuramente difficile, visto che abbiamo 4 ispettori su un organico previsto di 24 – dichiara Bouché – noi controlliamo, compatibilmente con le forze a disposizione, le iscrizioni degli alunni, i titoli degli insegnanti, la struttura degli edifici e la sicurezza. Per quanto riguarda la trasparenza dei bilanci non siamo mica dei fiscalisti. Attendiamo con ansia la conclusione del concorso nazionale per i nuovi ispettori sperando di recuperare almeno in parte quelli che sono andati in pensione”.

Le cose vanno meglio nel Lazio? Neanche per sogno. “L’ufficio può contare su 3 ispettori, uno dei quali segue anche due dipartimenti amministrativi per carenza di organici – spiega la direttrice scolastica regionale Maria Maddalena Novelli – ora abbiamo messo in campo un piano straodinario di controlli che coinvolge 200 istituti paritari, utilizzando anche i dirigenti scolastici come consigliato dal Ministero, e dai primi risultati non emergono irregolarità. Vorrei ricordare che nel 2005 abbiamo revocato la parità a 12 scuole. Per quanto riguarda i bilanci sono gli istituti che si assumono la responsabilità di quanto messo nero su bianco”.

Siamo alle solite. Nessuno controlla. La regola aurea è “facciamo a fidarci”.

La Repubblica 27.03.12

"VALeS: se i numeri dicono qualcosa", di Antonio Valentino

Il progetto VALeS ha dunque avuto una buona accoglienza nelle nostre scuole. Le adesioni superano le 1000 unità (per la precisione, 1053): praticamente molto più di tre volte tanto il numero fissato dal Ministero per la sperimentazione. Se si paragona questo dato con quello delle adesioni ai progetti della Gelmini – che per raggiunere la soglia prevista (tra l’altro modesta) è dovuta ricorrere a sotterfugi e a pressioni – ci si rende conto che forse c’è qualcosa di nuovo nel clima generale delle nostre scuole e che certe forzature ideologiche del precedente ministro (l’insistenza maniacale sulla cosiddetta premialità) non pagano.

Questo pone un problema che l’amministrazione farebbe bene a non sottovalutare: limitarsi, per esempio, a selezionare le 300 scuole, sulla base dei criteri stabiliti, e chiudere così la porta a tutte le altre scuole che hanno inoltrato domanda può forse essere interpretato come disattenzione nei confronti di quanti vogliono mettersi alla prova ed accettare la sfida del rinnovamento

Bisognerebbe forse pensare, se non si può ampliare il numero previsto per motivi finanziari, ad una qualche modalità per non spegnere la voglia di protagonismo delle scuole che resteranno fuori e favorire in ogni caso, attraverso riconoscimenti da studiare e supporti e coordinamenti da prevedere (a livello ragionale?), ricerche e sperimentazioni autonome delle scuole (per quanto ispirate al progetto ministeriale).

Andrebbe considerata ad esempio, la possibilità

1. di mettere a disposizione anche di chi è rimasto fuori la strumentazione e I protocolli predisposti,

2. di dar conto periodicamente (un paio di volte all’anno?) dell’andamento della sperimentazione a livello nazionale, per tener vivo l’interesse e favorire il confronto.

Penso che, in questa fase, vada incoraggiata e sostenuta ogni spinta al protagonismo delle scuole. Anche per contrastare così la situazione di immobilismo diffuso che si respira. La quale, se protratta ulteriormente, fa correre il rischio che vengano mortificate le tante energie che aspettano di essere “risvegliate”.

Comunque il dato interessante è il numero delle richieste, che sta a indicare come la valutazione esterna non sia più un tabu per molte scuole e che, al riguardo, c’è comunque attesa.

Penso che le adesioni siano ascrivibili soprattutto alla volontà di mettersi in gioco, di saper al meglio rispondere a bisogni e attese dei giovani – e forse anche del paese, a volerla pensare con un po’ di orgoglio professionale -, di darsi strumenti più raffinati e incisivi per capire di più e riprendere a sentirsi – e ad essere considerati – socialmente rilevanti.

Se questa ipotesi interpretativa corrisponde ad una percezione fondata, e se nessuna idea di premialità è all’orizzonte, perché considerata, in questa fase, controproducente e insensata, allora andrebbero meglio focalizzate le “finalità generali” del Progetto e quindi i risultati attesi della sperimentazione.

In primo piano: ricerca e sperimentazione finalizzata al miglioramento

E’ sufficientemente chiara e condivisibile – credo – la scelta dello strumento (che è anche un risultato atteso) del Rapporto di Valutazione: sia quello conseguente all’analisi iniziale della scuola, sia quello conclusivo, che dovrà dar conto dei cambiamenti in positivo, introdotti a seguito dell’elaborazione del Piano di miglioramento.

Quello che mi chiedo a questo punto è: che cosa deve riguardare (in cosa deve consistere) il miglioramento che ci si aspetta.

Ovviamente la misurazione degli apprendimenti (dove giocherà un ruolo fondamentale l’INVALSI) e le interviste e i questionari, a cura dei nuclei esterni, dovranno costituire azioni centrali nel percorso sperimentale.

Non penso però che vadano enfatizzate più di tanto. Scopriremmo l’acqua calda se il senso della ricerca fosse quello di capire se – quanto ad apprendimenti sensati e durevoli – siamo messi bene o male. Sappiamo, senza bisogno di grandi ricerche, che siamo, in genere, messi male. Meno male, in qualche caso, e, in qualche altro, benino.

Il problema è capire se c’è, tra chi nella scuola opera, consapevolezza adeguata del “che cosa c’è dietro” giudizi di questo tipo e cosa si fa per venirne fuori.

Nella mia esperienza di dirigente scolastico, il ritornello più frequente, di fronte a situazioni più o meno disperate, che mi arrivava, è che gli studenti “ imparano poco o niente perchè non studiano e non hanno voglia di studiare”. Solo in pochissimi casi sono indicate le responsabilità della scuola. I “veri politicizzati”, poi, preferiscono invece addossare la colpa al Ministero e alla politica. Si fa prima.

Se queste ovvie osservazioni hanno un minimo di fondamento, allora potrebbe aver più senso, nell’intera operazione, enfatizzare sia le strategie di ricerca e sperimentazione – che sono richiamte in più punti dei due documenti di presentazione del Progetto (quello ministeriale e quello del Dipartimento preposto) -, sia le azioni di sostegno da parte dei Nuclei, dell’INVALSI e dell’INDIRE.

Le prime, in quanto rimarcano il protagonismo delle scuole e valorizzano la spinta a mettersi in gioco che le ha indotte ad aderire al progetto; le seconde perché possono fare uscire le scuole dall’isolamento e spingerle a confrontarsi e tesaurizzare culture, strumenti e professionalità esperte, esterne alla scuola, in grado di prospettare, orientare e prefigurare percorsi opportuni e adeguati di auto-osservazione / valutazione e di miglioramento.

Un punto centrale: la responsabilità rispetto agli esiti

Dal lavoro dell’INVALSI ci si dovrebbe aspettare quindi un’attenzione particolare al “calcolo del valore aggiunto” – e relativa riflessione -. Non tanto perché è una novità, ma perché dovrebbe permettere – se ho capito bene – di valutare l’incidenza effettiva del fare – e dell’essere – scuola nello sviluppo degli apprendimenti (incidenza da apprezzare, come il progetto prevede, dopo che i punteggi degli allievi nelle prove INVALSI siano stati ‘depurati’ dai fattori di contesto socio-culturale).

Penso – voglio pensare – che questo “strumento” possa aiutare a mettere al centro dei piani di miglioramento interventi volti a farsi carico delle difficoltà di apprendimento e dei problemi che ci stanno dietro e a individuare le responsabilità non tanto nel “non studio” dei nostri studenti, quanto piuttosto (anche se non solo) in una visione dell’essere insegnanti e dell’essere scuola che tende a non considerare adeguatamente (e qualche volta a rifiggire da) le proprie responsabilità rispetto agli esiti. E questo perché cultura della valutazione e cultura dell’ orientamento al risultato di cui rispondere (semplificando, la rendicontazione), non hanno mai segnato in profondità il mondo della scuola (e non certo per responsabilità del suo personale; almeno non per responsabilità prevalente).

Questo, allora, l’auspicio, almeno per chi scrive: che i risultati attesi in questa ricerca-sperimentazione riguardino soprattutto questi aspetti della vita scolastiva (visione e cultura professionale di docenti e dirigenti). Vorrebbe dire che si è imboccata, probabilmente, una strada giusta.

da ScuolaOggi 27.03.12

“VALeS: se i numeri dicono qualcosa”, di Antonio Valentino

Il progetto VALeS ha dunque avuto una buona accoglienza nelle nostre scuole. Le adesioni superano le 1000 unità (per la precisione, 1053): praticamente molto più di tre volte tanto il numero fissato dal Ministero per la sperimentazione. Se si paragona questo dato con quello delle adesioni ai progetti della Gelmini – che per raggiunere la soglia prevista (tra l’altro modesta) è dovuta ricorrere a sotterfugi e a pressioni – ci si rende conto che forse c’è qualcosa di nuovo nel clima generale delle nostre scuole e che certe forzature ideologiche del precedente ministro (l’insistenza maniacale sulla cosiddetta premialità) non pagano.

Questo pone un problema che l’amministrazione farebbe bene a non sottovalutare: limitarsi, per esempio, a selezionare le 300 scuole, sulla base dei criteri stabiliti, e chiudere così la porta a tutte le altre scuole che hanno inoltrato domanda può forse essere interpretato come disattenzione nei confronti di quanti vogliono mettersi alla prova ed accettare la sfida del rinnovamento

Bisognerebbe forse pensare, se non si può ampliare il numero previsto per motivi finanziari, ad una qualche modalità per non spegnere la voglia di protagonismo delle scuole che resteranno fuori e favorire in ogni caso, attraverso riconoscimenti da studiare e supporti e coordinamenti da prevedere (a livello ragionale?), ricerche e sperimentazioni autonome delle scuole (per quanto ispirate al progetto ministeriale).

Andrebbe considerata ad esempio, la possibilità

1. di mettere a disposizione anche di chi è rimasto fuori la strumentazione e I protocolli predisposti,

2. di dar conto periodicamente (un paio di volte all’anno?) dell’andamento della sperimentazione a livello nazionale, per tener vivo l’interesse e favorire il confronto.

Penso che, in questa fase, vada incoraggiata e sostenuta ogni spinta al protagonismo delle scuole. Anche per contrastare così la situazione di immobilismo diffuso che si respira. La quale, se protratta ulteriormente, fa correre il rischio che vengano mortificate le tante energie che aspettano di essere “risvegliate”.

Comunque il dato interessante è il numero delle richieste, che sta a indicare come la valutazione esterna non sia più un tabu per molte scuole e che, al riguardo, c’è comunque attesa.

Penso che le adesioni siano ascrivibili soprattutto alla volontà di mettersi in gioco, di saper al meglio rispondere a bisogni e attese dei giovani – e forse anche del paese, a volerla pensare con un po’ di orgoglio professionale -, di darsi strumenti più raffinati e incisivi per capire di più e riprendere a sentirsi – e ad essere considerati – socialmente rilevanti.

Se questa ipotesi interpretativa corrisponde ad una percezione fondata, e se nessuna idea di premialità è all’orizzonte, perché considerata, in questa fase, controproducente e insensata, allora andrebbero meglio focalizzate le “finalità generali” del Progetto e quindi i risultati attesi della sperimentazione.

In primo piano: ricerca e sperimentazione finalizzata al miglioramento

E’ sufficientemente chiara e condivisibile – credo – la scelta dello strumento (che è anche un risultato atteso) del Rapporto di Valutazione: sia quello conseguente all’analisi iniziale della scuola, sia quello conclusivo, che dovrà dar conto dei cambiamenti in positivo, introdotti a seguito dell’elaborazione del Piano di miglioramento.

Quello che mi chiedo a questo punto è: che cosa deve riguardare (in cosa deve consistere) il miglioramento che ci si aspetta.

Ovviamente la misurazione degli apprendimenti (dove giocherà un ruolo fondamentale l’INVALSI) e le interviste e i questionari, a cura dei nuclei esterni, dovranno costituire azioni centrali nel percorso sperimentale.

Non penso però che vadano enfatizzate più di tanto. Scopriremmo l’acqua calda se il senso della ricerca fosse quello di capire se – quanto ad apprendimenti sensati e durevoli – siamo messi bene o male. Sappiamo, senza bisogno di grandi ricerche, che siamo, in genere, messi male. Meno male, in qualche caso, e, in qualche altro, benino.

Il problema è capire se c’è, tra chi nella scuola opera, consapevolezza adeguata del “che cosa c’è dietro” giudizi di questo tipo e cosa si fa per venirne fuori.

Nella mia esperienza di dirigente scolastico, il ritornello più frequente, di fronte a situazioni più o meno disperate, che mi arrivava, è che gli studenti “ imparano poco o niente perchè non studiano e non hanno voglia di studiare”. Solo in pochissimi casi sono indicate le responsabilità della scuola. I “veri politicizzati”, poi, preferiscono invece addossare la colpa al Ministero e alla politica. Si fa prima.

Se queste ovvie osservazioni hanno un minimo di fondamento, allora potrebbe aver più senso, nell’intera operazione, enfatizzare sia le strategie di ricerca e sperimentazione – che sono richiamte in più punti dei due documenti di presentazione del Progetto (quello ministeriale e quello del Dipartimento preposto) -, sia le azioni di sostegno da parte dei Nuclei, dell’INVALSI e dell’INDIRE.

Le prime, in quanto rimarcano il protagonismo delle scuole e valorizzano la spinta a mettersi in gioco che le ha indotte ad aderire al progetto; le seconde perché possono fare uscire le scuole dall’isolamento e spingerle a confrontarsi e tesaurizzare culture, strumenti e professionalità esperte, esterne alla scuola, in grado di prospettare, orientare e prefigurare percorsi opportuni e adeguati di auto-osservazione / valutazione e di miglioramento.

Un punto centrale: la responsabilità rispetto agli esiti

Dal lavoro dell’INVALSI ci si dovrebbe aspettare quindi un’attenzione particolare al “calcolo del valore aggiunto” – e relativa riflessione -. Non tanto perché è una novità, ma perché dovrebbe permettere – se ho capito bene – di valutare l’incidenza effettiva del fare – e dell’essere – scuola nello sviluppo degli apprendimenti (incidenza da apprezzare, come il progetto prevede, dopo che i punteggi degli allievi nelle prove INVALSI siano stati ‘depurati’ dai fattori di contesto socio-culturale).

Penso – voglio pensare – che questo “strumento” possa aiutare a mettere al centro dei piani di miglioramento interventi volti a farsi carico delle difficoltà di apprendimento e dei problemi che ci stanno dietro e a individuare le responsabilità non tanto nel “non studio” dei nostri studenti, quanto piuttosto (anche se non solo) in una visione dell’essere insegnanti e dell’essere scuola che tende a non considerare adeguatamente (e qualche volta a rifiggire da) le proprie responsabilità rispetto agli esiti. E questo perché cultura della valutazione e cultura dell’ orientamento al risultato di cui rispondere (semplificando, la rendicontazione), non hanno mai segnato in profondità il mondo della scuola (e non certo per responsabilità del suo personale; almeno non per responsabilità prevalente).

Questo, allora, l’auspicio, almeno per chi scrive: che i risultati attesi in questa ricerca-sperimentazione riguardino soprattutto questi aspetti della vita scolastiva (visione e cultura professionale di docenti e dirigenti). Vorrebbe dire che si è imboccata, probabilmente, una strada giusta.

da ScuolaOggi 27.03.12

“VALeS: se i numeri dicono qualcosa”, di Antonio Valentino

Il progetto VALeS ha dunque avuto una buona accoglienza nelle nostre scuole. Le adesioni superano le 1000 unità (per la precisione, 1053): praticamente molto più di tre volte tanto il numero fissato dal Ministero per la sperimentazione. Se si paragona questo dato con quello delle adesioni ai progetti della Gelmini – che per raggiunere la soglia prevista (tra l’altro modesta) è dovuta ricorrere a sotterfugi e a pressioni – ci si rende conto che forse c’è qualcosa di nuovo nel clima generale delle nostre scuole e che certe forzature ideologiche del precedente ministro (l’insistenza maniacale sulla cosiddetta premialità) non pagano.

Questo pone un problema che l’amministrazione farebbe bene a non sottovalutare: limitarsi, per esempio, a selezionare le 300 scuole, sulla base dei criteri stabiliti, e chiudere così la porta a tutte le altre scuole che hanno inoltrato domanda può forse essere interpretato come disattenzione nei confronti di quanti vogliono mettersi alla prova ed accettare la sfida del rinnovamento

Bisognerebbe forse pensare, se non si può ampliare il numero previsto per motivi finanziari, ad una qualche modalità per non spegnere la voglia di protagonismo delle scuole che resteranno fuori e favorire in ogni caso, attraverso riconoscimenti da studiare e supporti e coordinamenti da prevedere (a livello ragionale?), ricerche e sperimentazioni autonome delle scuole (per quanto ispirate al progetto ministeriale).

Andrebbe considerata ad esempio, la possibilità

1. di mettere a disposizione anche di chi è rimasto fuori la strumentazione e I protocolli predisposti,

2. di dar conto periodicamente (un paio di volte all’anno?) dell’andamento della sperimentazione a livello nazionale, per tener vivo l’interesse e favorire il confronto.

Penso che, in questa fase, vada incoraggiata e sostenuta ogni spinta al protagonismo delle scuole. Anche per contrastare così la situazione di immobilismo diffuso che si respira. La quale, se protratta ulteriormente, fa correre il rischio che vengano mortificate le tante energie che aspettano di essere “risvegliate”.

Comunque il dato interessante è il numero delle richieste, che sta a indicare come la valutazione esterna non sia più un tabu per molte scuole e che, al riguardo, c’è comunque attesa.

Penso che le adesioni siano ascrivibili soprattutto alla volontà di mettersi in gioco, di saper al meglio rispondere a bisogni e attese dei giovani – e forse anche del paese, a volerla pensare con un po’ di orgoglio professionale -, di darsi strumenti più raffinati e incisivi per capire di più e riprendere a sentirsi – e ad essere considerati – socialmente rilevanti.

Se questa ipotesi interpretativa corrisponde ad una percezione fondata, e se nessuna idea di premialità è all’orizzonte, perché considerata, in questa fase, controproducente e insensata, allora andrebbero meglio focalizzate le “finalità generali” del Progetto e quindi i risultati attesi della sperimentazione.

In primo piano: ricerca e sperimentazione finalizzata al miglioramento

E’ sufficientemente chiara e condivisibile – credo – la scelta dello strumento (che è anche un risultato atteso) del Rapporto di Valutazione: sia quello conseguente all’analisi iniziale della scuola, sia quello conclusivo, che dovrà dar conto dei cambiamenti in positivo, introdotti a seguito dell’elaborazione del Piano di miglioramento.

Quello che mi chiedo a questo punto è: che cosa deve riguardare (in cosa deve consistere) il miglioramento che ci si aspetta.

Ovviamente la misurazione degli apprendimenti (dove giocherà un ruolo fondamentale l’INVALSI) e le interviste e i questionari, a cura dei nuclei esterni, dovranno costituire azioni centrali nel percorso sperimentale.

Non penso però che vadano enfatizzate più di tanto. Scopriremmo l’acqua calda se il senso della ricerca fosse quello di capire se – quanto ad apprendimenti sensati e durevoli – siamo messi bene o male. Sappiamo, senza bisogno di grandi ricerche, che siamo, in genere, messi male. Meno male, in qualche caso, e, in qualche altro, benino.

Il problema è capire se c’è, tra chi nella scuola opera, consapevolezza adeguata del “che cosa c’è dietro” giudizi di questo tipo e cosa si fa per venirne fuori.

Nella mia esperienza di dirigente scolastico, il ritornello più frequente, di fronte a situazioni più o meno disperate, che mi arrivava, è che gli studenti “ imparano poco o niente perchè non studiano e non hanno voglia di studiare”. Solo in pochissimi casi sono indicate le responsabilità della scuola. I “veri politicizzati”, poi, preferiscono invece addossare la colpa al Ministero e alla politica. Si fa prima.

Se queste ovvie osservazioni hanno un minimo di fondamento, allora potrebbe aver più senso, nell’intera operazione, enfatizzare sia le strategie di ricerca e sperimentazione – che sono richiamte in più punti dei due documenti di presentazione del Progetto (quello ministeriale e quello del Dipartimento preposto) -, sia le azioni di sostegno da parte dei Nuclei, dell’INVALSI e dell’INDIRE.

Le prime, in quanto rimarcano il protagonismo delle scuole e valorizzano la spinta a mettersi in gioco che le ha indotte ad aderire al progetto; le seconde perché possono fare uscire le scuole dall’isolamento e spingerle a confrontarsi e tesaurizzare culture, strumenti e professionalità esperte, esterne alla scuola, in grado di prospettare, orientare e prefigurare percorsi opportuni e adeguati di auto-osservazione / valutazione e di miglioramento.

Un punto centrale: la responsabilità rispetto agli esiti

Dal lavoro dell’INVALSI ci si dovrebbe aspettare quindi un’attenzione particolare al “calcolo del valore aggiunto” – e relativa riflessione -. Non tanto perché è una novità, ma perché dovrebbe permettere – se ho capito bene – di valutare l’incidenza effettiva del fare – e dell’essere – scuola nello sviluppo degli apprendimenti (incidenza da apprezzare, come il progetto prevede, dopo che i punteggi degli allievi nelle prove INVALSI siano stati ‘depurati’ dai fattori di contesto socio-culturale).

Penso – voglio pensare – che questo “strumento” possa aiutare a mettere al centro dei piani di miglioramento interventi volti a farsi carico delle difficoltà di apprendimento e dei problemi che ci stanno dietro e a individuare le responsabilità non tanto nel “non studio” dei nostri studenti, quanto piuttosto (anche se non solo) in una visione dell’essere insegnanti e dell’essere scuola che tende a non considerare adeguatamente (e qualche volta a rifiggire da) le proprie responsabilità rispetto agli esiti. E questo perché cultura della valutazione e cultura dell’ orientamento al risultato di cui rispondere (semplificando, la rendicontazione), non hanno mai segnato in profondità il mondo della scuola (e non certo per responsabilità del suo personale; almeno non per responsabilità prevalente).

Questo, allora, l’auspicio, almeno per chi scrive: che i risultati attesi in questa ricerca-sperimentazione riguardino soprattutto questi aspetti della vita scolastiva (visione e cultura professionale di docenti e dirigenti). Vorrebbe dire che si è imboccata, probabilmente, una strada giusta.

da ScuolaOggi 27.03.12