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Bersani: “Dobbiamo arginare la recessione”

Sintesi della relazione del segretario Pier Luigi Bersani durante la Direzione nazionale del PD.
“In un paese carico di incertezze dobbiamo trasmettere salvezza, unità, sicurezza, convinzione che diano il senso della nostra posizione”. Così il leader del PD, Pier Luigi Bersani durante la Direzione nazionale del Partito, ha introdotto la sua relazione poi votata e approvata all’unanimità dai delegati.

“Fisseremo un presidio sul lavoro, un tavolo con gruppi parlamentari e partito” nel quale si dialogherà con tutti i soggetti sociali. “Nelle prossime settimane non servono proposte estemporanee. Il PD non dev’essere un partito “con cento voci”.

C’è la “necessita’ di una politica attiva per contrastare la recessione” e serve “dare un segnale” chiaro in questo senso. Per dare respiro ai comuni c’è bisogno di una serie di interventi a tra cui “l’allentamento del Patto di stabilità”. È necessario dare un messaggio di riscossa nazionale: “noi siamo consapevoli dei problemi che ci sono e siamo consapevoli nel dare il nostro appoggio al governo Monti anche in questi momenti di grande incertezza”. Ma non dimentichiamoci cosa è successo fino a poco tempo fa e chi ha governato 8 degli ultimi 10 anni. Dalla destra non accettiamo nessuna lezione!

“Il Partito Democratico è il principale soggetto per il cambiamento e il riscatto del Paese. Il PD dovrà essere l’infrastruttura nazionale capace di andare e dire le proprie idee in molti posti politici, culturali e sociali”.

Riforma del Lavoro. “Proponiamo di abbassare i toni e chiediamo alle forze parlamentari di riflettere sui punti controversi” della riforma del Lavoro che approda in Parlamento. “Noi non siamo fermi, ma siamo stati i primi ad intercettare la preoccupazione crescente tra i lavoratori. Ricordiamoci che per affrontare la riforma ci vuole anche modestia: sono i lavoratori che conoscono bene cosa sia la cassa integrazione e l’articolo 18. Si può arrivare in tempi rapidi a un risultato ragionevole con un dibattito parlamentare serio e costruttivo per correggere le lacune che ci sono. Siamo positivi e fiduciosi sull’esito della riforma”.

Legge elettorale. “Una cosa è chiara: il PD non traccheggia sulla necessità di riformare la legge elettorale. Per noi quella è una priorità assoluta a cui vorremmo aggiungere anche la diminuzione del numero dei parlamentari e una legge riforma dei partiti”. Ma dobbiamo anche essere consapevoli che laddove non arrivano i meccanismi elettorali è la politica che deve dare delle risposte. La domanda che parte dal profondo del Paese con chi vai e contro chi sei, pretende una risposta”.

“Le forze di centrosinistra di governo si rivolgeranno a tutte quelle forze moderate e civiche che vogliono andare oltre il populismo e il berlusconismo che molti danni hanno portato al paese”.

Primarie. La commissione statuto del PD si metterà subito al lavoro “per trovare soluzioni correttive che mettano in sicurezza le primarie”, soluzioni che saranno votate nella prossima assemblea del PD dopo le amministrative. “Nella malaugurata ipotesi che non si possa arrivare ad una riforma della legge elettorale, le primarie saranno uno strumento democratico fondamentale. Non possiamo non tenere conto delle preoccupazioni di Franceschini e dovremmo trovare dei meccanismi alternativi di designazione dei candidati. Quando si entrerà nel merito vedrete che sarà possibile”, ha detto Bersani in direzione chiudendone i lavori.

www.partitodemocratico.it

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Gli interventi durante la Direzione del PD
Alcuni commenti alla relazione di Bersani durante la Direzione nazionale del PD

“Dobbiamo valorizzare tutte le cose positive nella riforma del lavoro che riguardano i giovani, i precari e gli esclusi. Dobbiamo rappresentare i giovani e gli esclusi e non solo il lavoro oggi tutelato”. Lo ha sottolineato il vicesegretario del PD Enrico Letta che, alla Direzione del partito, ha evidenziato come “l’unità del PD è essenziale per la vita del governo Monti” apprezzando la relazione di Pier Luigi Bersani che “ha aiutato molto lo spirito unitario”.

“Nessuno strappo con il Governo: confermiamo la nostra scelta della fiducia al Governo fatta con generosità” con l’obiettivo di “salvare l’Italia dal disastro” ma “nello stesso tempo non rinunciamo ad affermare la nostra forza e quella del Parlamento” dunque a tentare di modificare il testo. Lo ha detto la capo gruppo del PD al Senato Anna Finocchiaro riassumendo la linea del Partito emersa dalla relazione del segretario Pier Luigi Bersani alla direzione del PD.

“Il PD, – ha continuato Finocchiaro – il più grande partito del Paese si pone l’obiettivo di modificare in Parlamento una ingiustizia. E’ così che dobbiamo spiegare al Paese la nostra posizione. La proposta del Governo, per quello che riguarda la parte relativa ai licenziamenti economici, sta gettando nello smarrimento larghe fasce sociali. E noi dobbiamo dire che è semplicemente ingiusto che un lavoratore ingiustamente licenziato possa contare solo sull’indennizzo”.

“Questo – ha spiegato ancora Anna Finocchiaro – è il ragionamento che dobbiamo fare in Parlamento, sui giornali, nelle nostre discussioni e anche nelle piazze. Io credo che questo sia l’approccio giusto per dimostrare che ci preoccupiamo delle condizioni reali di vita dei cittadini, rilanciando contestualmente le questioni che riguardano la crescita”.

“Siamo ad aprile e temo che il Pdl stia puntando a trascinare tutti in una soluzione indistinta. Occorre allora andare avanti anche con la sola legge elettorale, non possiamo permetterci di andare a votare col porcellum”. Lo ha detto il capogruppo del PD alla Camera, Dario Franceschini, nel suo intervento alla direzione del partito, sollevando qualche dubbio sulla possibilità di fare elezioni primarie per la selezione dei candidati alle politiche. “Le primarie per le liste plurinominali” sono rischiose, ha osservato, dopo casi come quelli di Napoli e Palermo.

“Sulla riforma del mercato del lavoro ho condiviso con il Segretario l’esigenza che la proposta del governo sia discussa e modificata”. Lo ha detto Walter Veltroni nel suo intervento alla direzione del PD. Dobbiamo lavorare “in Parlamento per rendere più forte la capacità di stabilizzare i milioni di giovani italiani ed evitando contemporaneamente di sottoporre a ulteriori tensioni quanti, con contratti di lavoro già in essere possano sentirsi esposti a inediti rischi di instabilità”.

Per Veltroni, la relazione di Bersani “ci ha fornito in questa circostanza una utile base di discussione e permette una unità del PD, un partito che discute ma poi è unito, come lo siamo stati in tutti i voti parlamentari”.

L’intervento di Massimo D’Alema è arrivato dopo quello di Walter Veltroni, che ha manifestato il proprio consenso alla relazione di Bersani. “Questo passaggio è stato pensato, interpretato da qualcuno come una occasione importante, un agguato preparato. Nel senso che ci si aspettava, arrivati a questo punto, di introdurre un cuneo tra noi e il governo, isolare la Cgil e spaccare il PD. Non ci sono riusciti, come Willy il coyote”.
“Non è così. Innanzitutto, perché la domanda di cambiare la riforma viene da tutti i sindacati, compresa la Ugl, dalla stragrande maggioranza dei cittadini italiani. Si tratta di una domanda larghissima di cui noi ci facciamo portatori”. “Non siamo subalterni a nessuno e noi ne possiamo uscire anche più uniti e credibili in un passaggio delicatissimo, perché la situazione è dura. Noi reggiamo nel rapporto tra la durezza delle scelte dell’oggi e la sofferenza del Paese se siamo anche in grado di dare forza al dopo, anche perché questo dopo non è così lontano: sono le elezioni del 2013″. Il presidente del Copasir si è lasciato sfuggire una battuta sul clima al positivo della direzione del partito: “non stiamo scrivendo il libro Cuore…”.

“Prima di una nuova cornice istituzionale, di cui non convince né l’ipotesi di sfiducia costruttiva né quella sul superamento del bicameralismo perfetto, la vera priorità è la riforma della legge elettorale”: lo ha ribadito Rosy Bindi alla direzione del partito. “Bene la decisione di convocare l’Assemblea nazionale, come avevamo chiesto. Concordo sulle priorità indicate nella relazione di Bersani: restituire agli elettori la scelta dei parlamentari e la scelta delle coalizioni di governo. Non mi convince la bozza Violante – fa presente – e non sono d’accordo con l’impostazione di D’Alema: un conto è chiedere i voti per un partito e il suo programma di governo, altro e’ lasciare ai partiti le mani libere dopo il voto per formare le alleanze.
Come si fa una campagna elettorale senza dire ai cittadini chi sono i nostri alleati e con chi vogliamo governare? Lo considero un passo indietro – conclude Rosy Bindi – che non farebbe bene alla politica, al Pd e al Bipolarismo’.

Quella di Bersani è stata una relazione “molto equilibrata, che condivido comprese le premesse”. Lo ha detto il deputato del PD Beppe Fioroni alla direzione del partito esprimendo la propria preoccupazione rispetto alla disaffezione dei cittadini nei confronti della politica. Per questo, ha evidenziato, “oltre alla legge elettorale e alle riforme, serve una profonda auto-riforma della politica a partire dal PD” che deve “ricostruire il patrimonio della politica che genera passione e identità evitando le scorciatoie della seconda Repubblica”.
Bisogna quindi andare avanti nella costruzione di una casa europea dei socialdemocratici e moderati e su questo “passare dalla parole ai fatti”, è l’invito di Fioroni. Tutto questo anche “per evitare che si utilizzino i nostri sostegni in Europa per dire che in Italia si sta costruendo una svolta a sinistra”. Di qui il plauso al passaggio dell’intervento di Bersani in cui si è sottolineata l’importanza “di un’alleanza con i moderati e cioè il Terzo Polo evitando di far credere che stiamo dando vita a una svolta a sinistra del PD”. Per quanto riguarda, infine, la legge elettorale, Fioroni ha ribadito la propria “solitaria posizione per le preferenze”.

“Sulla riforma del lavoro è in gioco il profilo stesso del Pd. Condivido il terreno comune di discussione offerto da Bersani e le proposte della sua relazione. Ma le richieste di correzione sull’art. 18 non possono oscurare il nostro giudizio positivo sull’insieme della riforma Fornero”. Lo ha detto Paolo Gentiloni nel corso della direzione del partito.
“Il Pd deve essere in prima fila nella battaglia per i diritti dei precari e per estendere le tutele ai lavoratori che oggi ne sono privi e non può essere invece l’ultima fila riluttante di un corteo che incita alla lotta contro i padroni e il governo”, ha concluso Gentiloni.

www.partitodemocratico.it

Bersani: “Dobbiamo arginare la recessione”

Sintesi della relazione del segretario Pier Luigi Bersani durante la Direzione nazionale del PD.
“In un paese carico di incertezze dobbiamo trasmettere salvezza, unità, sicurezza, convinzione che diano il senso della nostra posizione”. Così il leader del PD, Pier Luigi Bersani durante la Direzione nazionale del Partito, ha introdotto la sua relazione poi votata e approvata all’unanimità dai delegati.

“Fisseremo un presidio sul lavoro, un tavolo con gruppi parlamentari e partito” nel quale si dialogherà con tutti i soggetti sociali. “Nelle prossime settimane non servono proposte estemporanee. Il PD non dev’essere un partito “con cento voci”.

C’è la “necessita’ di una politica attiva per contrastare la recessione” e serve “dare un segnale” chiaro in questo senso. Per dare respiro ai comuni c’è bisogno di una serie di interventi a tra cui “l’allentamento del Patto di stabilità”. È necessario dare un messaggio di riscossa nazionale: “noi siamo consapevoli dei problemi che ci sono e siamo consapevoli nel dare il nostro appoggio al governo Monti anche in questi momenti di grande incertezza”. Ma non dimentichiamoci cosa è successo fino a poco tempo fa e chi ha governato 8 degli ultimi 10 anni. Dalla destra non accettiamo nessuna lezione!

“Il Partito Democratico è il principale soggetto per il cambiamento e il riscatto del Paese. Il PD dovrà essere l’infrastruttura nazionale capace di andare e dire le proprie idee in molti posti politici, culturali e sociali”.

Riforma del Lavoro. “Proponiamo di abbassare i toni e chiediamo alle forze parlamentari di riflettere sui punti controversi” della riforma del Lavoro che approda in Parlamento. “Noi non siamo fermi, ma siamo stati i primi ad intercettare la preoccupazione crescente tra i lavoratori. Ricordiamoci che per affrontare la riforma ci vuole anche modestia: sono i lavoratori che conoscono bene cosa sia la cassa integrazione e l’articolo 18. Si può arrivare in tempi rapidi a un risultato ragionevole con un dibattito parlamentare serio e costruttivo per correggere le lacune che ci sono. Siamo positivi e fiduciosi sull’esito della riforma”.

Legge elettorale. “Una cosa è chiara: il PD non traccheggia sulla necessità di riformare la legge elettorale. Per noi quella è una priorità assoluta a cui vorremmo aggiungere anche la diminuzione del numero dei parlamentari e una legge riforma dei partiti”. Ma dobbiamo anche essere consapevoli che laddove non arrivano i meccanismi elettorali è la politica che deve dare delle risposte. La domanda che parte dal profondo del Paese con chi vai e contro chi sei, pretende una risposta”.

“Le forze di centrosinistra di governo si rivolgeranno a tutte quelle forze moderate e civiche che vogliono andare oltre il populismo e il berlusconismo che molti danni hanno portato al paese”.

Primarie. La commissione statuto del PD si metterà subito al lavoro “per trovare soluzioni correttive che mettano in sicurezza le primarie”, soluzioni che saranno votate nella prossima assemblea del PD dopo le amministrative. “Nella malaugurata ipotesi che non si possa arrivare ad una riforma della legge elettorale, le primarie saranno uno strumento democratico fondamentale. Non possiamo non tenere conto delle preoccupazioni di Franceschini e dovremmo trovare dei meccanismi alternativi di designazione dei candidati. Quando si entrerà nel merito vedrete che sarà possibile”, ha detto Bersani in direzione chiudendone i lavori.

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Gli interventi durante la Direzione del PD
Alcuni commenti alla relazione di Bersani durante la Direzione nazionale del PD

“Dobbiamo valorizzare tutte le cose positive nella riforma del lavoro che riguardano i giovani, i precari e gli esclusi. Dobbiamo rappresentare i giovani e gli esclusi e non solo il lavoro oggi tutelato”. Lo ha sottolineato il vicesegretario del PD Enrico Letta che, alla Direzione del partito, ha evidenziato come “l’unità del PD è essenziale per la vita del governo Monti” apprezzando la relazione di Pier Luigi Bersani che “ha aiutato molto lo spirito unitario”.

“Nessuno strappo con il Governo: confermiamo la nostra scelta della fiducia al Governo fatta con generosità” con l’obiettivo di “salvare l’Italia dal disastro” ma “nello stesso tempo non rinunciamo ad affermare la nostra forza e quella del Parlamento” dunque a tentare di modificare il testo. Lo ha detto la capo gruppo del PD al Senato Anna Finocchiaro riassumendo la linea del Partito emersa dalla relazione del segretario Pier Luigi Bersani alla direzione del PD.

“Il PD, – ha continuato Finocchiaro – il più grande partito del Paese si pone l’obiettivo di modificare in Parlamento una ingiustizia. E’ così che dobbiamo spiegare al Paese la nostra posizione. La proposta del Governo, per quello che riguarda la parte relativa ai licenziamenti economici, sta gettando nello smarrimento larghe fasce sociali. E noi dobbiamo dire che è semplicemente ingiusto che un lavoratore ingiustamente licenziato possa contare solo sull’indennizzo”.

“Questo – ha spiegato ancora Anna Finocchiaro – è il ragionamento che dobbiamo fare in Parlamento, sui giornali, nelle nostre discussioni e anche nelle piazze. Io credo che questo sia l’approccio giusto per dimostrare che ci preoccupiamo delle condizioni reali di vita dei cittadini, rilanciando contestualmente le questioni che riguardano la crescita”.

“Siamo ad aprile e temo che il Pdl stia puntando a trascinare tutti in una soluzione indistinta. Occorre allora andare avanti anche con la sola legge elettorale, non possiamo permetterci di andare a votare col porcellum”. Lo ha detto il capogruppo del PD alla Camera, Dario Franceschini, nel suo intervento alla direzione del partito, sollevando qualche dubbio sulla possibilità di fare elezioni primarie per la selezione dei candidati alle politiche. “Le primarie per le liste plurinominali” sono rischiose, ha osservato, dopo casi come quelli di Napoli e Palermo.

“Sulla riforma del mercato del lavoro ho condiviso con il Segretario l’esigenza che la proposta del governo sia discussa e modificata”. Lo ha detto Walter Veltroni nel suo intervento alla direzione del PD. Dobbiamo lavorare “in Parlamento per rendere più forte la capacità di stabilizzare i milioni di giovani italiani ed evitando contemporaneamente di sottoporre a ulteriori tensioni quanti, con contratti di lavoro già in essere possano sentirsi esposti a inediti rischi di instabilità”.

Per Veltroni, la relazione di Bersani “ci ha fornito in questa circostanza una utile base di discussione e permette una unità del PD, un partito che discute ma poi è unito, come lo siamo stati in tutti i voti parlamentari”.

L’intervento di Massimo D’Alema è arrivato dopo quello di Walter Veltroni, che ha manifestato il proprio consenso alla relazione di Bersani. “Questo passaggio è stato pensato, interpretato da qualcuno come una occasione importante, un agguato preparato. Nel senso che ci si aspettava, arrivati a questo punto, di introdurre un cuneo tra noi e il governo, isolare la Cgil e spaccare il PD. Non ci sono riusciti, come Willy il coyote”.
“Non è così. Innanzitutto, perché la domanda di cambiare la riforma viene da tutti i sindacati, compresa la Ugl, dalla stragrande maggioranza dei cittadini italiani. Si tratta di una domanda larghissima di cui noi ci facciamo portatori”. “Non siamo subalterni a nessuno e noi ne possiamo uscire anche più uniti e credibili in un passaggio delicatissimo, perché la situazione è dura. Noi reggiamo nel rapporto tra la durezza delle scelte dell’oggi e la sofferenza del Paese se siamo anche in grado di dare forza al dopo, anche perché questo dopo non è così lontano: sono le elezioni del 2013″. Il presidente del Copasir si è lasciato sfuggire una battuta sul clima al positivo della direzione del partito: “non stiamo scrivendo il libro Cuore…”.

“Prima di una nuova cornice istituzionale, di cui non convince né l’ipotesi di sfiducia costruttiva né quella sul superamento del bicameralismo perfetto, la vera priorità è la riforma della legge elettorale”: lo ha ribadito Rosy Bindi alla direzione del partito. “Bene la decisione di convocare l’Assemblea nazionale, come avevamo chiesto. Concordo sulle priorità indicate nella relazione di Bersani: restituire agli elettori la scelta dei parlamentari e la scelta delle coalizioni di governo. Non mi convince la bozza Violante – fa presente – e non sono d’accordo con l’impostazione di D’Alema: un conto è chiedere i voti per un partito e il suo programma di governo, altro e’ lasciare ai partiti le mani libere dopo il voto per formare le alleanze.
Come si fa una campagna elettorale senza dire ai cittadini chi sono i nostri alleati e con chi vogliamo governare? Lo considero un passo indietro – conclude Rosy Bindi – che non farebbe bene alla politica, al Pd e al Bipolarismo’.

Quella di Bersani è stata una relazione “molto equilibrata, che condivido comprese le premesse”. Lo ha detto il deputato del PD Beppe Fioroni alla direzione del partito esprimendo la propria preoccupazione rispetto alla disaffezione dei cittadini nei confronti della politica. Per questo, ha evidenziato, “oltre alla legge elettorale e alle riforme, serve una profonda auto-riforma della politica a partire dal PD” che deve “ricostruire il patrimonio della politica che genera passione e identità evitando le scorciatoie della seconda Repubblica”.
Bisogna quindi andare avanti nella costruzione di una casa europea dei socialdemocratici e moderati e su questo “passare dalla parole ai fatti”, è l’invito di Fioroni. Tutto questo anche “per evitare che si utilizzino i nostri sostegni in Europa per dire che in Italia si sta costruendo una svolta a sinistra”. Di qui il plauso al passaggio dell’intervento di Bersani in cui si è sottolineata l’importanza “di un’alleanza con i moderati e cioè il Terzo Polo evitando di far credere che stiamo dando vita a una svolta a sinistra del PD”. Per quanto riguarda, infine, la legge elettorale, Fioroni ha ribadito la propria “solitaria posizione per le preferenze”.

“Sulla riforma del lavoro è in gioco il profilo stesso del Pd. Condivido il terreno comune di discussione offerto da Bersani e le proposte della sua relazione. Ma le richieste di correzione sull’art. 18 non possono oscurare il nostro giudizio positivo sull’insieme della riforma Fornero”. Lo ha detto Paolo Gentiloni nel corso della direzione del partito.
“Il Pd deve essere in prima fila nella battaglia per i diritti dei precari e per estendere le tutele ai lavoratori che oggi ne sono privi e non può essere invece l’ultima fila riluttante di un corteo che incita alla lotta contro i padroni e il governo”, ha concluso Gentiloni.

www.partitodemocratico.it

"Così si è scaricato sui più deboli l’onere della prova", di David Sassoli

La professoressa Paola Severino, avvocato, docente di diritto penale, attualmente Guardasigilli, venerdì nel Consiglio dei ministri poteva essere invitata dal presidente Monti a svolgere una lectio magistralis sugli effetti della nuova disciplina dei licenziamenti economici sull’ordinamento italiano. Ai tecnici e agli economisti, la professoressa Severino avrebbe potuto spiegare il “costo” che la nuova disciplina dei licenziamenti economici produrrebbe su un principio generale del diritto: l’onere della prova. Il principio è sistemato nel Codice civile all’articolo 2697: colui che chiede il giudizio su un diritto negato deve prendersi l’impegno di provare ciò che afferma, assumendosi anche la responsabilità dell’insuccesso. La professoressa Severino avrebbe brillantemente spiegato anche le eccezioni – “presunzioni” – e gli ambiti assai ristretti in cui si può accettare di invertire l’onere della prova.
Se il Consiglio dei ministri avesse ascoltato con attenzione l’illustre giurista ci saremmo risparmiati tante polemiche su una tipologia di licenziamento – per cause economiche che non consentirà mai al lavoratore di dimostrare che il suo licenziamento sottintende ad altre finalità. Polemiche che con troppa superficialità sono state catalogate nell’ambito di un “simbolismo” sociale di stampo conservatore. Se il datore di lavoro propone un licenziamento per ragioni economiche, oggi il lavoratore può ricorrere al giudice dimostrando che le ragioni economiche non sussistono; domani, con la legge Fornero, per ottenere il reintegro il lavoratore dovrebbe dimostrare che il licenziamento non è avvenuto per le ragioni dichiarate ma dovrebbe fornire la prova di quali siano le ragioni reali.
È evidente un rapporto asimmetrico, che pone la parte debole nell’impossibilità di far valere le proprie ragioni. Davanti al giudice, dove si è chiamati ad esprimersi su una causa di licenziamento scelta dal datore di lavoro, il dipendente dovrebbe provare che non si tratta dei motivi manifestati dalla controparte, e che i motivi economici non sussistono. Una prova impossibile da fornire. A questo punto la professoressa Severino, con la competenza che la contraddistingue, avrebbe potuto intrattenere i suoi illustri colleghi sulla “probatio diabolica” – la prova del Diavolo e spiegare quando una prova diventa impossibile da ottenere. Le questioni giuridiche che pone l’istituto del licenziamento per motivi economici sono di grande rilevanza. Se il giudizio è incardinato come ricorso contro un licenziamento per ragioni economiche (giustificato motivo oggettivo), il giudice non potrà mai disporre il reintegro anche se accerterà che il licenziamento sia stato illegittimo. Facile, dunque, contrabbandare licenziamenti per “giustificato motivo oggettivo” per nascondere così altre finalità. In tempo di crisi, oltretutto, è alquanto agevole avanzare ipotesi di questo genere. Inoltre, neppure il giudice potrebbe intervenire. Alla mancata sapienza del Consiglio dei ministri tocca ora al Parlamento porre rimedio.
Le forze sociali hanno dimostrato di aver chiara la dimensione dell’impatto umano e sociale del provvedimento; le forze politiche hanno il dovere ora di precisare la base giuridica su cui il Parlamento è chiamato ad intervenire per “ricucire” il senso della giustizia e i principi del nostro ordinamento. Lo strappo avanzato nel disegno di legge, d’altronde, rischia di produrre effetti negativi a valanga, mentre «l’efficacia del diritto è sempre nella determinatezza e specificità della tutela».

L’Unità 26.03.12

“Così si è scaricato sui più deboli l’onere della prova”, di David Sassoli

La professoressa Paola Severino, avvocato, docente di diritto penale, attualmente Guardasigilli, venerdì nel Consiglio dei ministri poteva essere invitata dal presidente Monti a svolgere una lectio magistralis sugli effetti della nuova disciplina dei licenziamenti economici sull’ordinamento italiano. Ai tecnici e agli economisti, la professoressa Severino avrebbe potuto spiegare il “costo” che la nuova disciplina dei licenziamenti economici produrrebbe su un principio generale del diritto: l’onere della prova. Il principio è sistemato nel Codice civile all’articolo 2697: colui che chiede il giudizio su un diritto negato deve prendersi l’impegno di provare ciò che afferma, assumendosi anche la responsabilità dell’insuccesso. La professoressa Severino avrebbe brillantemente spiegato anche le eccezioni – “presunzioni” – e gli ambiti assai ristretti in cui si può accettare di invertire l’onere della prova.
Se il Consiglio dei ministri avesse ascoltato con attenzione l’illustre giurista ci saremmo risparmiati tante polemiche su una tipologia di licenziamento – per cause economiche che non consentirà mai al lavoratore di dimostrare che il suo licenziamento sottintende ad altre finalità. Polemiche che con troppa superficialità sono state catalogate nell’ambito di un “simbolismo” sociale di stampo conservatore. Se il datore di lavoro propone un licenziamento per ragioni economiche, oggi il lavoratore può ricorrere al giudice dimostrando che le ragioni economiche non sussistono; domani, con la legge Fornero, per ottenere il reintegro il lavoratore dovrebbe dimostrare che il licenziamento non è avvenuto per le ragioni dichiarate ma dovrebbe fornire la prova di quali siano le ragioni reali.
È evidente un rapporto asimmetrico, che pone la parte debole nell’impossibilità di far valere le proprie ragioni. Davanti al giudice, dove si è chiamati ad esprimersi su una causa di licenziamento scelta dal datore di lavoro, il dipendente dovrebbe provare che non si tratta dei motivi manifestati dalla controparte, e che i motivi economici non sussistono. Una prova impossibile da fornire. A questo punto la professoressa Severino, con la competenza che la contraddistingue, avrebbe potuto intrattenere i suoi illustri colleghi sulla “probatio diabolica” – la prova del Diavolo e spiegare quando una prova diventa impossibile da ottenere. Le questioni giuridiche che pone l’istituto del licenziamento per motivi economici sono di grande rilevanza. Se il giudizio è incardinato come ricorso contro un licenziamento per ragioni economiche (giustificato motivo oggettivo), il giudice non potrà mai disporre il reintegro anche se accerterà che il licenziamento sia stato illegittimo. Facile, dunque, contrabbandare licenziamenti per “giustificato motivo oggettivo” per nascondere così altre finalità. In tempo di crisi, oltretutto, è alquanto agevole avanzare ipotesi di questo genere. Inoltre, neppure il giudice potrebbe intervenire. Alla mancata sapienza del Consiglio dei ministri tocca ora al Parlamento porre rimedio.
Le forze sociali hanno dimostrato di aver chiara la dimensione dell’impatto umano e sociale del provvedimento; le forze politiche hanno il dovere ora di precisare la base giuridica su cui il Parlamento è chiamato ad intervenire per “ricucire” il senso della giustizia e i principi del nostro ordinamento. Lo strappo avanzato nel disegno di legge, d’altronde, rischia di produrre effetti negativi a valanga, mentre «l’efficacia del diritto è sempre nella determinatezza e specificità della tutela».

L’Unità 26.03.12

“Così si è scaricato sui più deboli l’onere della prova”, di David Sassoli

La professoressa Paola Severino, avvocato, docente di diritto penale, attualmente Guardasigilli, venerdì nel Consiglio dei ministri poteva essere invitata dal presidente Monti a svolgere una lectio magistralis sugli effetti della nuova disciplina dei licenziamenti economici sull’ordinamento italiano. Ai tecnici e agli economisti, la professoressa Severino avrebbe potuto spiegare il “costo” che la nuova disciplina dei licenziamenti economici produrrebbe su un principio generale del diritto: l’onere della prova. Il principio è sistemato nel Codice civile all’articolo 2697: colui che chiede il giudizio su un diritto negato deve prendersi l’impegno di provare ciò che afferma, assumendosi anche la responsabilità dell’insuccesso. La professoressa Severino avrebbe brillantemente spiegato anche le eccezioni – “presunzioni” – e gli ambiti assai ristretti in cui si può accettare di invertire l’onere della prova.
Se il Consiglio dei ministri avesse ascoltato con attenzione l’illustre giurista ci saremmo risparmiati tante polemiche su una tipologia di licenziamento – per cause economiche che non consentirà mai al lavoratore di dimostrare che il suo licenziamento sottintende ad altre finalità. Polemiche che con troppa superficialità sono state catalogate nell’ambito di un “simbolismo” sociale di stampo conservatore. Se il datore di lavoro propone un licenziamento per ragioni economiche, oggi il lavoratore può ricorrere al giudice dimostrando che le ragioni economiche non sussistono; domani, con la legge Fornero, per ottenere il reintegro il lavoratore dovrebbe dimostrare che il licenziamento non è avvenuto per le ragioni dichiarate ma dovrebbe fornire la prova di quali siano le ragioni reali.
È evidente un rapporto asimmetrico, che pone la parte debole nell’impossibilità di far valere le proprie ragioni. Davanti al giudice, dove si è chiamati ad esprimersi su una causa di licenziamento scelta dal datore di lavoro, il dipendente dovrebbe provare che non si tratta dei motivi manifestati dalla controparte, e che i motivi economici non sussistono. Una prova impossibile da fornire. A questo punto la professoressa Severino, con la competenza che la contraddistingue, avrebbe potuto intrattenere i suoi illustri colleghi sulla “probatio diabolica” – la prova del Diavolo e spiegare quando una prova diventa impossibile da ottenere. Le questioni giuridiche che pone l’istituto del licenziamento per motivi economici sono di grande rilevanza. Se il giudizio è incardinato come ricorso contro un licenziamento per ragioni economiche (giustificato motivo oggettivo), il giudice non potrà mai disporre il reintegro anche se accerterà che il licenziamento sia stato illegittimo. Facile, dunque, contrabbandare licenziamenti per “giustificato motivo oggettivo” per nascondere così altre finalità. In tempo di crisi, oltretutto, è alquanto agevole avanzare ipotesi di questo genere. Inoltre, neppure il giudice potrebbe intervenire. Alla mancata sapienza del Consiglio dei ministri tocca ora al Parlamento porre rimedio.
Le forze sociali hanno dimostrato di aver chiara la dimensione dell’impatto umano e sociale del provvedimento; le forze politiche hanno il dovere ora di precisare la base giuridica su cui il Parlamento è chiamato ad intervenire per “ricucire” il senso della giustizia e i principi del nostro ordinamento. Lo strappo avanzato nel disegno di legge, d’altronde, rischia di produrre effetti negativi a valanga, mentre «l’efficacia del diritto è sempre nella determinatezza e specificità della tutela».

L’Unità 26.03.12

"L'Italia che non ha imparato nulla da un secolo e mezzo di terremoti", di Gian Antonio Stella

«Hiiii! Volete portare jella?» Così rispondono gli abusivi ad Aldo De Chiara, se il magistrato che combatte gli obbrobri edilizi di Ischia ricorda loro il terremoto catastrofico del 1883. Ma è l’Italia tutta che non vuole sapere, non vuole ricordare, non vuole affrontare il tema. Pur avendo avuto in media, dall’Unità ad oggi, almeno 1333 morti l’anno sotto le macerie dei disastri sismici. Sei volte i morti dell’Aquila.
Lo documenta il libro di due studiosi, Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, «Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni», un volumone di 551 pagine edito da Bonomia University. Racconta che dal 1861 ad oggi nel nostro Paese, tra i più martoriati, ci sono stati 34 terremoti molto forti più 86 minori. Anzi, il regno italiano si trovò subito in carico le rovine di altre catastrofi appena accadute nei territori che erano stati pontifici e napoletani: del 1851 e poi del 1857 in Basilicata, del 1853 in Campania, del 1859 in Val Nerina. E come scrivono gli autori, in quel Mezzogiorno dove «su 1.848 comuni, 1.321 erano privi di collegamenti stradali» (a dispetto dei rimpianti per il meraviglioso Regno delle due Sicilie), «la sfida delle ricostruzioni fu forse una delle prime perse dal nuovo regno».
Avrebbe potuto fare un figurone, l’Italia, dimostrandosi più materna ed efficiente, ad esempio, di Ferdinando II che dopo il terremoto del 1857 aveva mandato in Basilicata l’intendente Rosica col mandato di dar fondo alla beneficenza e alle casse comunali, che già erano vuote. Di più: la somma «irrisoria» raccolta senza che i regnanti mettessero mano al portafoglio «fu impiegata in modo a dir poco singolare, se si pensa che più di 20.000 ducati furono spesi per il restauro di chiese, cappelle e monasteri di suore». Peggio: un anno dopo un «rescritto» reale «stabilì che per reperire i fondi necessari per la ricostruzione delle chiese parrocchiali della provincia di Basilicata si riutilizzasse il legname impiegato nella costruzione di baracche finanziate dalle casse comunali». Scelta indecente accolta dalle proteste della popolazione terremotata, «che si vedeva privata anche di un alloggio precario».
Avrebbe potuto fare un figurone, l’Italia, con intellettuali come Giacomo Racioppi scandalizzati dall’inefficienza borbonica: «Il governo di Napoli sovvenne a tanta jattura scarsissimo e male». Ma non andò così, scrivono gli autori: «La cura per le ricostruzioni non fu certo un elemento a favore del nuovo governo, che non seppe o non volle valutare la portata e le conseguenze di quegli impatti devastanti, né l’importanza di una risposta adeguata». Ovvio: «Altri erano i problemi da risolvere per i nuovi regnanti: stroncare ogni spirito di rivolta, ogni aspirazione di autonomia».
Un errore fatale. Come di errori è costellata tutta la storia degli interventi di soccorso, delle ricostruzioni, delle regole antisismiche via via dettate per evitare nuove tragedie ma mai fatte applicare. Al sud, come al Nord. Spicca, tra le storie infami, la decisione delle autorità militari, dopo il sisma del 23 febbraio 1887 a Bussana, vicino a Sanremo, di sgomberare il paese prima ancora di scavare tra le macerie e «ordinare la fucilazione per chiunque fosse rientrato nel borgo». Una scelta malvagia: «Nella notte alcuni uomini tentarono di forzare il blocco attorno a Bussana, furono scoperti dalle sentinelle che aprirono il fuoco, ma quattro riuscirono comunque a penetrare nel paese, dove cominciarono a scavare tra le macerie, estraendo tre donne ancora vive».
C’è da vergognarsi, a rileggere quanto fece l’Italia per la gente di Bussana rimasta senza casa sugli Appennini a fine inverno. Niente. Un mese dopo «ai superstiti, circa 700 persone, fu concessa una quantità di legname sufficiente solo per costruire 50 baracche. Divennero la casa dei bussanesi per cinque anni, ma non furono gratuite. Infatti, fu richiesto il pagamento del trasporto e l’affitto delle tavole di legno, a fronte dell’impegno a restituirle integre, pena il pagamento delle stesse».
E come dimenticare il terremoto di Messina del 1908? Mentre i marinai d’una flottiglia russa di passaggio si precipitavano a scavare distribuendo agli scampati l’acqua delle caldaie e gli inglesi giunti da Malta si dannavano a spegnere incendi e curar feriti, la «Regina Elena» e il «Napoli», rimasero per ore ferme in porto con i terremotati che li invocavano dal molo. Scrisse la «Gazzetta» che «c’erano ufficiali e marinai messinesi che avrebbero voluto scavare con le unghie fra le macerie. Ufficiali che si vergognavano della loro inazione forzata…». Perché restarono fermi lì? Dovevano aspettare l’arrivo del re.
Il disastro del 1908, scrivono Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, «lasciò un’impronta indelebile nella realtà complessiva delle aree distrutte e nella memoria storica dell’intero Paese, colpendo la coscienza civile non solo degli italiani, ma anche dell’Europa e dell’America». Fu dopo quella catastrofe, che uccise 58mila persone e demolì «una città moderna, economicamente e culturalmente molto attiva», che si tentò infine di mettere in ordine le regole anti-sismiche già abbozzate nei decenni precedenti dall’Italia, dai Borbone, dallo Stato pontificio.
Neppure il terremoto che nel 1915 avrebbe annientato Avezzano (dove morì il 95% dei diecimila abitanti e restò su un solo edificio: uno) e quelli del 1920 in Garfagnana, del 1928 in Carnia, del 1930 nel Vulture, del 1962 in Irpinia, del 1968 nel Belice, del 1976 in Friuli, del 1980 ancora in Irpinia, del 1990 in Val di Noto, del 2002 nel Molise e del 2009 in Abruzzo, più decine di scossoni minori, sono riusciti però a conficcare nella testa degli italiani ciò che è chiarissimo ai giapponesi. E cioè che è sciocco invocare la buona sorte e toccare «‘o curniciello ‘e corallo»: occorre costruire le case in un certo modo, educare a scuola gli alunni, fare esercitazioni pubbliche, stare sempre in guardia.
Il contrario di quanto, per riprendere l’esempio iniziale, accadde a Ischia. La catastrofe di Casamicciola del 1883, quando morirono 2.313 abitanti su 4.300 tra cui il padre, la madre e la sorella di Benedetto Croce che restò sepolto per ore, è entrata perfino nelle commedie di Eduardo: «qui faccio una casamicciola!». Eppure, spiega il vulcanologo Giuseppe Luongo, che in «Storia di un’isola vulcanica» ricorda i rischi sismici e idrogeologici, «nove case su dieci sono state tirate su (spesso abusivamente) senza regole. Anzi, guai a parlare dei rischi: fa male al turismo». Ventottomila abusi edilizi per 62mila ischitani. Manifesti elettorali con scritto «Io voto abusivo». Rivolte di interi consigli comunali. «Per abbattere una casa abusiva che non è solo illegale ma pericolosa», sospira il procuratore Aldo De Chiara, «devo passare attraverso il sindaco che magari ha fatto la campagna elettorale promettendo di salvare gli abusivi!» Eppure sono stati almeno 200mila i morti, dall’Unità a oggi. E che sono stati 1.560, tra cui dieci capoluoghi, i comuni bastonati più o meno duramente: uno su cinque. Anzi, diciamolo a dispetto della scaramanzia autolesionista: i terremoti tipo quelli di Messina o Avezzano, un paio al secolo, sono perfino «in ritardo» sulla media. Quanto indurrebbe un paese serio a dedicare il massimo sforzo al rispetto delle regole e alla prevenzione.
Il bilancio di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise è invece amaro: «Colpisce la perseverante miopia nella programmazione del territorio». Tanto più che «le aree colpite dai disastri sismici sono quasi sempre le stesse». Insomma, i terremoti «ci sono stati e ci saranno sempre». E fingere di ignorarlo non è solo irrazionale: è inutile. E suicida.

Il Corriere della Sera 26.03.12

“L’Italia che non ha imparato nulla da un secolo e mezzo di terremoti”, di Gian Antonio Stella

«Hiiii! Volete portare jella?» Così rispondono gli abusivi ad Aldo De Chiara, se il magistrato che combatte gli obbrobri edilizi di Ischia ricorda loro il terremoto catastrofico del 1883. Ma è l’Italia tutta che non vuole sapere, non vuole ricordare, non vuole affrontare il tema. Pur avendo avuto in media, dall’Unità ad oggi, almeno 1333 morti l’anno sotto le macerie dei disastri sismici. Sei volte i morti dell’Aquila.
Lo documenta il libro di due studiosi, Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, «Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni», un volumone di 551 pagine edito da Bonomia University. Racconta che dal 1861 ad oggi nel nostro Paese, tra i più martoriati, ci sono stati 34 terremoti molto forti più 86 minori. Anzi, il regno italiano si trovò subito in carico le rovine di altre catastrofi appena accadute nei territori che erano stati pontifici e napoletani: del 1851 e poi del 1857 in Basilicata, del 1853 in Campania, del 1859 in Val Nerina. E come scrivono gli autori, in quel Mezzogiorno dove «su 1.848 comuni, 1.321 erano privi di collegamenti stradali» (a dispetto dei rimpianti per il meraviglioso Regno delle due Sicilie), «la sfida delle ricostruzioni fu forse una delle prime perse dal nuovo regno».
Avrebbe potuto fare un figurone, l’Italia, dimostrandosi più materna ed efficiente, ad esempio, di Ferdinando II che dopo il terremoto del 1857 aveva mandato in Basilicata l’intendente Rosica col mandato di dar fondo alla beneficenza e alle casse comunali, che già erano vuote. Di più: la somma «irrisoria» raccolta senza che i regnanti mettessero mano al portafoglio «fu impiegata in modo a dir poco singolare, se si pensa che più di 20.000 ducati furono spesi per il restauro di chiese, cappelle e monasteri di suore». Peggio: un anno dopo un «rescritto» reale «stabilì che per reperire i fondi necessari per la ricostruzione delle chiese parrocchiali della provincia di Basilicata si riutilizzasse il legname impiegato nella costruzione di baracche finanziate dalle casse comunali». Scelta indecente accolta dalle proteste della popolazione terremotata, «che si vedeva privata anche di un alloggio precario».
Avrebbe potuto fare un figurone, l’Italia, con intellettuali come Giacomo Racioppi scandalizzati dall’inefficienza borbonica: «Il governo di Napoli sovvenne a tanta jattura scarsissimo e male». Ma non andò così, scrivono gli autori: «La cura per le ricostruzioni non fu certo un elemento a favore del nuovo governo, che non seppe o non volle valutare la portata e le conseguenze di quegli impatti devastanti, né l’importanza di una risposta adeguata». Ovvio: «Altri erano i problemi da risolvere per i nuovi regnanti: stroncare ogni spirito di rivolta, ogni aspirazione di autonomia».
Un errore fatale. Come di errori è costellata tutta la storia degli interventi di soccorso, delle ricostruzioni, delle regole antisismiche via via dettate per evitare nuove tragedie ma mai fatte applicare. Al sud, come al Nord. Spicca, tra le storie infami, la decisione delle autorità militari, dopo il sisma del 23 febbraio 1887 a Bussana, vicino a Sanremo, di sgomberare il paese prima ancora di scavare tra le macerie e «ordinare la fucilazione per chiunque fosse rientrato nel borgo». Una scelta malvagia: «Nella notte alcuni uomini tentarono di forzare il blocco attorno a Bussana, furono scoperti dalle sentinelle che aprirono il fuoco, ma quattro riuscirono comunque a penetrare nel paese, dove cominciarono a scavare tra le macerie, estraendo tre donne ancora vive».
C’è da vergognarsi, a rileggere quanto fece l’Italia per la gente di Bussana rimasta senza casa sugli Appennini a fine inverno. Niente. Un mese dopo «ai superstiti, circa 700 persone, fu concessa una quantità di legname sufficiente solo per costruire 50 baracche. Divennero la casa dei bussanesi per cinque anni, ma non furono gratuite. Infatti, fu richiesto il pagamento del trasporto e l’affitto delle tavole di legno, a fronte dell’impegno a restituirle integre, pena il pagamento delle stesse».
E come dimenticare il terremoto di Messina del 1908? Mentre i marinai d’una flottiglia russa di passaggio si precipitavano a scavare distribuendo agli scampati l’acqua delle caldaie e gli inglesi giunti da Malta si dannavano a spegnere incendi e curar feriti, la «Regina Elena» e il «Napoli», rimasero per ore ferme in porto con i terremotati che li invocavano dal molo. Scrisse la «Gazzetta» che «c’erano ufficiali e marinai messinesi che avrebbero voluto scavare con le unghie fra le macerie. Ufficiali che si vergognavano della loro inazione forzata…». Perché restarono fermi lì? Dovevano aspettare l’arrivo del re.
Il disastro del 1908, scrivono Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, «lasciò un’impronta indelebile nella realtà complessiva delle aree distrutte e nella memoria storica dell’intero Paese, colpendo la coscienza civile non solo degli italiani, ma anche dell’Europa e dell’America». Fu dopo quella catastrofe, che uccise 58mila persone e demolì «una città moderna, economicamente e culturalmente molto attiva», che si tentò infine di mettere in ordine le regole anti-sismiche già abbozzate nei decenni precedenti dall’Italia, dai Borbone, dallo Stato pontificio.
Neppure il terremoto che nel 1915 avrebbe annientato Avezzano (dove morì il 95% dei diecimila abitanti e restò su un solo edificio: uno) e quelli del 1920 in Garfagnana, del 1928 in Carnia, del 1930 nel Vulture, del 1962 in Irpinia, del 1968 nel Belice, del 1976 in Friuli, del 1980 ancora in Irpinia, del 1990 in Val di Noto, del 2002 nel Molise e del 2009 in Abruzzo, più decine di scossoni minori, sono riusciti però a conficcare nella testa degli italiani ciò che è chiarissimo ai giapponesi. E cioè che è sciocco invocare la buona sorte e toccare «‘o curniciello ‘e corallo»: occorre costruire le case in un certo modo, educare a scuola gli alunni, fare esercitazioni pubbliche, stare sempre in guardia.
Il contrario di quanto, per riprendere l’esempio iniziale, accadde a Ischia. La catastrofe di Casamicciola del 1883, quando morirono 2.313 abitanti su 4.300 tra cui il padre, la madre e la sorella di Benedetto Croce che restò sepolto per ore, è entrata perfino nelle commedie di Eduardo: «qui faccio una casamicciola!». Eppure, spiega il vulcanologo Giuseppe Luongo, che in «Storia di un’isola vulcanica» ricorda i rischi sismici e idrogeologici, «nove case su dieci sono state tirate su (spesso abusivamente) senza regole. Anzi, guai a parlare dei rischi: fa male al turismo». Ventottomila abusi edilizi per 62mila ischitani. Manifesti elettorali con scritto «Io voto abusivo». Rivolte di interi consigli comunali. «Per abbattere una casa abusiva che non è solo illegale ma pericolosa», sospira il procuratore Aldo De Chiara, «devo passare attraverso il sindaco che magari ha fatto la campagna elettorale promettendo di salvare gli abusivi!» Eppure sono stati almeno 200mila i morti, dall’Unità a oggi. E che sono stati 1.560, tra cui dieci capoluoghi, i comuni bastonati più o meno duramente: uno su cinque. Anzi, diciamolo a dispetto della scaramanzia autolesionista: i terremoti tipo quelli di Messina o Avezzano, un paio al secolo, sono perfino «in ritardo» sulla media. Quanto indurrebbe un paese serio a dedicare il massimo sforzo al rispetto delle regole e alla prevenzione.
Il bilancio di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise è invece amaro: «Colpisce la perseverante miopia nella programmazione del territorio». Tanto più che «le aree colpite dai disastri sismici sono quasi sempre le stesse». Insomma, i terremoti «ci sono stati e ci saranno sempre». E fingere di ignorarlo non è solo irrazionale: è inutile. E suicida.

Il Corriere della Sera 26.03.12