Latest Posts

“L’Italia che non ha imparato nulla da un secolo e mezzo di terremoti”, di Gian Antonio Stella

«Hiiii! Volete portare jella?» Così rispondono gli abusivi ad Aldo De Chiara, se il magistrato che combatte gli obbrobri edilizi di Ischia ricorda loro il terremoto catastrofico del 1883. Ma è l’Italia tutta che non vuole sapere, non vuole ricordare, non vuole affrontare il tema. Pur avendo avuto in media, dall’Unità ad oggi, almeno 1333 morti l’anno sotto le macerie dei disastri sismici. Sei volte i morti dell’Aquila.
Lo documenta il libro di due studiosi, Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, «Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni», un volumone di 551 pagine edito da Bonomia University. Racconta che dal 1861 ad oggi nel nostro Paese, tra i più martoriati, ci sono stati 34 terremoti molto forti più 86 minori. Anzi, il regno italiano si trovò subito in carico le rovine di altre catastrofi appena accadute nei territori che erano stati pontifici e napoletani: del 1851 e poi del 1857 in Basilicata, del 1853 in Campania, del 1859 in Val Nerina. E come scrivono gli autori, in quel Mezzogiorno dove «su 1.848 comuni, 1.321 erano privi di collegamenti stradali» (a dispetto dei rimpianti per il meraviglioso Regno delle due Sicilie), «la sfida delle ricostruzioni fu forse una delle prime perse dal nuovo regno».
Avrebbe potuto fare un figurone, l’Italia, dimostrandosi più materna ed efficiente, ad esempio, di Ferdinando II che dopo il terremoto del 1857 aveva mandato in Basilicata l’intendente Rosica col mandato di dar fondo alla beneficenza e alle casse comunali, che già erano vuote. Di più: la somma «irrisoria» raccolta senza che i regnanti mettessero mano al portafoglio «fu impiegata in modo a dir poco singolare, se si pensa che più di 20.000 ducati furono spesi per il restauro di chiese, cappelle e monasteri di suore». Peggio: un anno dopo un «rescritto» reale «stabilì che per reperire i fondi necessari per la ricostruzione delle chiese parrocchiali della provincia di Basilicata si riutilizzasse il legname impiegato nella costruzione di baracche finanziate dalle casse comunali». Scelta indecente accolta dalle proteste della popolazione terremotata, «che si vedeva privata anche di un alloggio precario».
Avrebbe potuto fare un figurone, l’Italia, con intellettuali come Giacomo Racioppi scandalizzati dall’inefficienza borbonica: «Il governo di Napoli sovvenne a tanta jattura scarsissimo e male». Ma non andò così, scrivono gli autori: «La cura per le ricostruzioni non fu certo un elemento a favore del nuovo governo, che non seppe o non volle valutare la portata e le conseguenze di quegli impatti devastanti, né l’importanza di una risposta adeguata». Ovvio: «Altri erano i problemi da risolvere per i nuovi regnanti: stroncare ogni spirito di rivolta, ogni aspirazione di autonomia».
Un errore fatale. Come di errori è costellata tutta la storia degli interventi di soccorso, delle ricostruzioni, delle regole antisismiche via via dettate per evitare nuove tragedie ma mai fatte applicare. Al sud, come al Nord. Spicca, tra le storie infami, la decisione delle autorità militari, dopo il sisma del 23 febbraio 1887 a Bussana, vicino a Sanremo, di sgomberare il paese prima ancora di scavare tra le macerie e «ordinare la fucilazione per chiunque fosse rientrato nel borgo». Una scelta malvagia: «Nella notte alcuni uomini tentarono di forzare il blocco attorno a Bussana, furono scoperti dalle sentinelle che aprirono il fuoco, ma quattro riuscirono comunque a penetrare nel paese, dove cominciarono a scavare tra le macerie, estraendo tre donne ancora vive».
C’è da vergognarsi, a rileggere quanto fece l’Italia per la gente di Bussana rimasta senza casa sugli Appennini a fine inverno. Niente. Un mese dopo «ai superstiti, circa 700 persone, fu concessa una quantità di legname sufficiente solo per costruire 50 baracche. Divennero la casa dei bussanesi per cinque anni, ma non furono gratuite. Infatti, fu richiesto il pagamento del trasporto e l’affitto delle tavole di legno, a fronte dell’impegno a restituirle integre, pena il pagamento delle stesse».
E come dimenticare il terremoto di Messina del 1908? Mentre i marinai d’una flottiglia russa di passaggio si precipitavano a scavare distribuendo agli scampati l’acqua delle caldaie e gli inglesi giunti da Malta si dannavano a spegnere incendi e curar feriti, la «Regina Elena» e il «Napoli», rimasero per ore ferme in porto con i terremotati che li invocavano dal molo. Scrisse la «Gazzetta» che «c’erano ufficiali e marinai messinesi che avrebbero voluto scavare con le unghie fra le macerie. Ufficiali che si vergognavano della loro inazione forzata…». Perché restarono fermi lì? Dovevano aspettare l’arrivo del re.
Il disastro del 1908, scrivono Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, «lasciò un’impronta indelebile nella realtà complessiva delle aree distrutte e nella memoria storica dell’intero Paese, colpendo la coscienza civile non solo degli italiani, ma anche dell’Europa e dell’America». Fu dopo quella catastrofe, che uccise 58mila persone e demolì «una città moderna, economicamente e culturalmente molto attiva», che si tentò infine di mettere in ordine le regole anti-sismiche già abbozzate nei decenni precedenti dall’Italia, dai Borbone, dallo Stato pontificio.
Neppure il terremoto che nel 1915 avrebbe annientato Avezzano (dove morì il 95% dei diecimila abitanti e restò su un solo edificio: uno) e quelli del 1920 in Garfagnana, del 1928 in Carnia, del 1930 nel Vulture, del 1962 in Irpinia, del 1968 nel Belice, del 1976 in Friuli, del 1980 ancora in Irpinia, del 1990 in Val di Noto, del 2002 nel Molise e del 2009 in Abruzzo, più decine di scossoni minori, sono riusciti però a conficcare nella testa degli italiani ciò che è chiarissimo ai giapponesi. E cioè che è sciocco invocare la buona sorte e toccare «‘o curniciello ‘e corallo»: occorre costruire le case in un certo modo, educare a scuola gli alunni, fare esercitazioni pubbliche, stare sempre in guardia.
Il contrario di quanto, per riprendere l’esempio iniziale, accadde a Ischia. La catastrofe di Casamicciola del 1883, quando morirono 2.313 abitanti su 4.300 tra cui il padre, la madre e la sorella di Benedetto Croce che restò sepolto per ore, è entrata perfino nelle commedie di Eduardo: «qui faccio una casamicciola!». Eppure, spiega il vulcanologo Giuseppe Luongo, che in «Storia di un’isola vulcanica» ricorda i rischi sismici e idrogeologici, «nove case su dieci sono state tirate su (spesso abusivamente) senza regole. Anzi, guai a parlare dei rischi: fa male al turismo». Ventottomila abusi edilizi per 62mila ischitani. Manifesti elettorali con scritto «Io voto abusivo». Rivolte di interi consigli comunali. «Per abbattere una casa abusiva che non è solo illegale ma pericolosa», sospira il procuratore Aldo De Chiara, «devo passare attraverso il sindaco che magari ha fatto la campagna elettorale promettendo di salvare gli abusivi!» Eppure sono stati almeno 200mila i morti, dall’Unità a oggi. E che sono stati 1.560, tra cui dieci capoluoghi, i comuni bastonati più o meno duramente: uno su cinque. Anzi, diciamolo a dispetto della scaramanzia autolesionista: i terremoti tipo quelli di Messina o Avezzano, un paio al secolo, sono perfino «in ritardo» sulla media. Quanto indurrebbe un paese serio a dedicare il massimo sforzo al rispetto delle regole e alla prevenzione.
Il bilancio di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise è invece amaro: «Colpisce la perseverante miopia nella programmazione del territorio». Tanto più che «le aree colpite dai disastri sismici sono quasi sempre le stesse». Insomma, i terremoti «ci sono stati e ci saranno sempre». E fingere di ignorarlo non è solo irrazionale: è inutile. E suicida.

Il Corriere della Sera 26.03.12

Lavoro, Pd all’attacco Bindi: «Dobbiamo scendere in piazza», di Maria Zegarelli

Oggi la direzione Pd. Bersani rivendicherà i primi risultati sull’articolo 18 e rilancerà l’alternativa per il 2013
Bindi: «Il partito dovrebbe fare manifestazioni per il lavoro». D’Alema: «La riforma va migliorata». Il Pd sulla modifica dell’articolo 18 non arretrerà di un passo: partirà da qui la relazione del segretario Pier Luigi Bersani in apertura dei lavori della direzione nazionale convocata per stamattina. «La nostra posizione, che solo una settimana veniva descritta come isolata, oggi è condivisa non soltanto dalle parti sociali, ma dalla stessa Cei e da gran parte del Paese», ha detto anche ieri il segretario ai suoi collaboratori, mentre limava il discorso. E questo è un successo sul quale il segretario non intende affatto sorvolare: «C’era chi prevedeva scissioni e spaccature del nostro partito proprio sull’articolo 18, e invece non solo non è accaduto, ma siamo riusciti a riaprire una partita che sembrava chiusa perché noi sappiamo di cosa si parla quando si discute di lavoro, in Parlamento ci sono le nostre proposte di riforma del mercato del lavoro».
E se Bersani conferma che questa sarà la linea e che «alla fine anche il Pdl dovrà sentire la sua base», la presidente del partito, Rosy Bindi, parlando a margine dell’iniziativa dei Giovani democratici a Pisa è anche andata oltre: «Penso che il Pd debba fare manifestazioni per fare capire ai giovani, alle donne, agli italiani tutti, che c’è un partito che mette al centro della propria azione politica il lavoro». Parlando dal palco, poco dopo, aggiunge: «A chi mi chiede come fa un partito a sostenere il governo e a manifestare contro alcuni provvedimenti che emana, io rispondo: ma come fa un partito come il nostro a non dire nelle sedi istituzionali e in ogni angolo del Paese che noi stiamo con i lavoratori e riteniamo il lavoro lo strumento fondamentale per la crescita del Paese?».
Per Massimo D’Alema, intervistato da Fabio Fazio, l’impegno deve essere in Parlamento, «per trovare un ragionevole compromesso» sull’articolo 18 che «è solo una parte di una grande riforma che ha un obiettivo: rendere meno precaria la vita dei lavoratori». D’Alema, come lo stesso Bersani, riconosce «che ci sono delle novità importanti», ma ritiene che «si possa fare di più, soprattutto per l’universalizzazione degli ammortizzatori sociali». E spingere per questo non vuol dire mettere in difficoltà il governo, «ma renderlo più forte, fino al 2013».
LA RIFORMA
La riforma del lavoro è il passaggio più delicato per il Pd, dove comunque non sono certo passati inosservati i sondaggi (come quello pubblicato ieri sul Corriere della Sera) raccontano di un brusco calo del consenso al governo, fino al 44 per cento. Un segnale chiaro anche per i partiti che lo sostengono. Di questo non possono non tenere conto anche i montiani più convinti del Pd, da Letta a Veltro-
ni, a Fioroni. L’ex ministro oggi tornerà sulla sua preoccupazione maggiore: «Bisogna evitare il contenzioso tra falchi, da un lato e dall’altro. Non vorrei che per ottenere il meglio assoluto si producano danni gravi anche al governo». Dai Modem, Achille Passoni, un passato nella Cgil, ribadirà che è necessario «lavorare affinché in Parlamento si arrivi a una modifica verso il modello tedesco». In tal senso il confronto con il Terzo Polo è già avviato e i margini sono ampi, diverso il discorso con il Pdl ma, come dice Sergio D’Antoni, «Alfano e il suo partito, così sensibili ai sondaggi, non potranno far finta di niente di fronte ai propri elettori, ai quali questa riforma non piace».
I NODI DA SCIOGLIERE
Riforma del lavoro e anche le prossime elezioni amministrative saranno un test importante prima delle politiche del 2013: nel 90 per cento dei comuni il Pd si presenta con Idv e Sel, il «nocciolo» della futura alleanza di governo, mentre in altri il centrosinistra si allarga all’Udc.
Bersani oggi ribadirà che il centrosinistra di cui si parla non ha nulla a che vedere con l’Unione, «la nostra sarà un’alleanza aperta a quelle forze che hanno una cultura di governo, con le altre potrà esserci un confronto, niente di più».
Per vincere le elezioni e dare un governo stabile al Paese, il segretario ne è convinto, il Pd «deve rivolgersi anche all’elettorato moderato, dobbiamo allargare l’alleanza e aprire la stagione delle riforme istituzionali e costituzionali per le quali l’appoggio e il consenso degli elettori moderati è fondamentale». La scorsa settimana ne ha parlato a lungo con Nichi Vendola con il quale i rapporti in questo momento sono sicuramente più fluidi che con Antonio Di Pietro e l’Idv e nelle prossime settimane darà un’accelerazione al
coordinamento politico fra i partiti per iniziare ad affrontare anche i pilastri programmatici su cui qualunque alleanza dovrà saldarsi.
Altro tema caldo della direzione saranno le primarie, dopo Genova e Palermo sono molte le critiche avanzate anche alla linea del Nazareno da parte della minoranza del partito. L’analisi di quelle appena effettuate, con al centro i risultati del capoluogo ligure e del caso siciliano, e l’annuncio di un appuntamento ad hoc, dopo le amministrative, per «mettere a registro uno strumento dice il segretario che ha il nostro brand ma necessita di manutenzione».
In direzione Bersani ribadirà anche che se il Pd non vuole allontanare la fiducia dei suoi elettori dovrà spingere per la riforma della legge elettorale, la riduzione del numero dei parlamentari e la riforma dei regolamenti.

L’Unità 26.03.12

"Il nodo dell’articolo 18. Scegliere il modello Usa o quello tedesco", di Paolo Buttaroni

Forse è un segno dei tempi che un governo «tecnico» disegni una riforma quella del mercato del lavoro che più politica non si può. E le implicazioni sociali ed economiche non hanno certo contorni vaghi e indefiniti; gli indirizzi del presidente del Consiglio sono precisi: nel breve, medio e lungo periodo. Piaccia o no, è così. E dopo gli anni della convivenza del tutto con il suo contrario, degli annunci, dei rinvii e delle riforme di cui si è persa traccia, il merito della chiarezza va riconosciuto. È evidente, però, il cambio di registro degli ultimi mesi. Il mandato conferito a Monti era di affrontare l’emergenza economica nel segno della massima unità possibile. Regole d’ingaggio non scritte, che avevano consegnato a Mario Monti la maggioranza più ampia della storia della Repubblica. Un conferimento che, nella sua impostazione iniziale, suggeriva cautela nell’affrontare alcune questioni politiche ad alto rischio di generare turbolenze e instabilità. Il presidente del Consiglio pur dalle prese con una maggioranza innaturale ha scelto, invece, di lanciare una sfida che costringe le forze di maggioranza ad alzarsi dalla panchina e a scendere in campo. Ora, è inevitabile: tutti dovranno fare chiarezza e dire da che parte stanno. A cominciare dal Pd e dal Pdl. Le risposte dei partiti non si sono fatte attendere. Con Bersani: «Molte cose di questa riforma del lavoro le appoggiamo, altre no», ma «il Pd starà dalla parte dei lavoratori». Con Alfano: «Se si lavora a qualche modifica, non si può immaginare che siano di un solo colore». Con Di Pietro: «Dal governo una dichiarazione di guerra guerreggiata ai lavoratori e ai giovani». Con Casini: riforma «che migliora la situazione». La scelta di affidare la riforma a un disegno di legge non è stata dettata dal recupero di una qualche forma di cautela. È stato, invece, l’incipit di una partita la cui fine coinciderà con le prossime elezioni politiche, quando Parlamento e governo assumeranno le forme della terza Repubblica. La riforma del mercato del lavoro segna, quindi, lo spartiacque tra un governo tecnico e un governo politico. Una svolta con il passato nei metodi e nei contenuti. Nel metodo perché manda in soffitta la concertazione e il patto che da Ciampi in poi conferiva alle parti sociali un ruolo decisivo nelle scelte che riguardavano le politiche del lavoro e del welfare. Monti e Fornero hanno sostenuto che il metodo della concertazione non era più praticabile nelle forme del ’93 perché i sindacati non avrebbero comunque sottoscritto l’accordo. Probabilmente è vero,ma andare avanti,ponendo fine alla concertazione, è stata una scelta politica, non tecnica. Così come politiche e non tecniche sono state le scelte di contenuto. A cominciare dalla rimozione della norma-simbolo dello Statuto dei lavoratori: l’articolo 18. La disciplina, cioè, che garantisce, a chi viene licenziato senza giusta causa, il reintegro nel posto di lavoro nelle aziende con più di 15 dipendenti. Al suo posto andranno tutele più generiche e ad ampio spettro discrezionale. Ed è indicativa, in tal senso, la dichiarazione dello stesso premier rispetto al rischio di licenziamenti basati su motivazioni diverse da quelle previste nel perimetro della riforma. «Vigileremo» ha detto Monti. Una risposta che derubrica il tema nella categoria “quisquilie”, perché è evidente che un sistema giuridico deve poggiare su norme vincolanti e inderogabili, e non su vaghe forme di vigilanza sanzionate da rimbrotti di natura morale. L’ispirazione della riforma dovrebbe andar bene alla Fiat di Marchionne, piuttosto che al modello di fabbrica al quale si ispirava e aspirava, negli anni Cinquanta, Adriano Olivetti. Probabilmente, nell’economia generale della riforma, era utile ma non indispensabile sottrarre alla disciplina dell’articolo 18 il contenzioso tra lavoratori e imprese in materia di licenziamenti. Non era indispensabile perché, di fatto, non risolve i problemi che rendono difficile l’ingresso nel mondo del lavoro stabile. È molto più importante, in tal senso, il riequilibrio, previsto dalla riforma, tra i costi del lavoro a tempo indeterminato e determinato. Quest’ultimo diventa più oneroso e limitato nel tempo, giacché le imprese potranno farne ricorso solo fino a un massimo di tre anni. Cancellare l’articolo 18, oltretutto, non servirà a dare slancio al sistema Italia, perché la norma riguarda soltanto il3%delle imprese (ma quasi la metà degli occupati) mentre il restante 97% è soffocato dalla concorrenza sleale, dalla burocrazia, dalle tasse, dalla stretta creditizia e dai ritardati pagamenti, soprattutto da parte della pubblica amministrazione. Alla miriade di piccole e piccolissime imprese, la nostra struttura economica e produttiva, serve ben altro. Banche e governo in primis: le prime ridando fiducia agli operatori economici e alle famiglie, il secondo riducendo il peso della burocrazia e immettendo valore nel sistema con investimenti che aiutino concretamente il Paese a ripartire, cominciando dai consumi interni. Per questi motivi, cancellare il simbolo dello Statuto dei lavoratori ha un valore più politico che di cifra economica. La stessa ragione che probabilmente ha portato Monti a non accogliere la disponibilità dei sindacati sulla flessibilità in uscita. Disponibilità che riguardava l’adozione del modello tedesco e che affida al giudice la scelta tra reintegro e indennizzo, qualora il licenziamento per motivi economici si rivelasse immotivato. Ma il connotato politico è soprattutto un altro: con la riforma cambierà il focus della regolamentazione, che non sarà più sui lavoratori, ma incentrato prevalentemente sul rapporto tra offerta e domanda. È questo il cambio di prospettiva della riforma Monti-Fornero. Una riforma che contiene aspetti indubbiamente innovativi e positivi, soprattutto nel momento in cui disincentiva il ricorso al lavoro precario da parte delle imprese e rende finalmente performanti i percorsi formativi. Sistema che, però, nell’impostazione complessiva, si dispone sul modello anglosassone piuttosto che su quello europeo, quello tedesco, che sembrava dovesse ispirare il testo in discussione. La riforma cambia i paradigmi che hanno fin qui regolato il rapporto tra mondo del lavoro e impresa, spostando a livello aziendale il piano della relazione e invertendo la direzione di marcia che aveva portato le imprese minori a organizzarsi localmente come se fossero una sola grande impresa e quelle maggiori ad articolarsi come se fossero un insieme di piccole realtà. Il Parlamento dovrà decidere se scegliere un modello economico a metà tra gli Stati Uniti di Clinton e l’Inghilterra thatcheriana, oppure riorientarsi verso un sistema che ci avvicina alla Francia e alla Germa nia. Dal suo punto di vista Monti ha ragione quando dice che il testo è blindato: la riforma può accogliere piccoli aggiustamenti,ma non gran di cambiamenti che ne stravolgerebbero l’impianto e quindi gli effetti. I partiti dovranno scegliere, pensando se è quello che serve all’Italia e se il Paese ha una struttura economica adatta a ospitare una regolamentazione come quella varata dal Governo. Il fischio d’inizio è stato dato. Adesso la politica giochi la partita più importante.

*Presidente di Tecnè

L’Unità 26.03.12

“Il nodo dell’articolo 18. Scegliere il modello Usa o quello tedesco”, di Paolo Buttaroni

Forse è un segno dei tempi che un governo «tecnico» disegni una riforma quella del mercato del lavoro che più politica non si può. E le implicazioni sociali ed economiche non hanno certo contorni vaghi e indefiniti; gli indirizzi del presidente del Consiglio sono precisi: nel breve, medio e lungo periodo. Piaccia o no, è così. E dopo gli anni della convivenza del tutto con il suo contrario, degli annunci, dei rinvii e delle riforme di cui si è persa traccia, il merito della chiarezza va riconosciuto. È evidente, però, il cambio di registro degli ultimi mesi. Il mandato conferito a Monti era di affrontare l’emergenza economica nel segno della massima unità possibile. Regole d’ingaggio non scritte, che avevano consegnato a Mario Monti la maggioranza più ampia della storia della Repubblica. Un conferimento che, nella sua impostazione iniziale, suggeriva cautela nell’affrontare alcune questioni politiche ad alto rischio di generare turbolenze e instabilità. Il presidente del Consiglio pur dalle prese con una maggioranza innaturale ha scelto, invece, di lanciare una sfida che costringe le forze di maggioranza ad alzarsi dalla panchina e a scendere in campo. Ora, è inevitabile: tutti dovranno fare chiarezza e dire da che parte stanno. A cominciare dal Pd e dal Pdl. Le risposte dei partiti non si sono fatte attendere. Con Bersani: «Molte cose di questa riforma del lavoro le appoggiamo, altre no», ma «il Pd starà dalla parte dei lavoratori». Con Alfano: «Se si lavora a qualche modifica, non si può immaginare che siano di un solo colore». Con Di Pietro: «Dal governo una dichiarazione di guerra guerreggiata ai lavoratori e ai giovani». Con Casini: riforma «che migliora la situazione». La scelta di affidare la riforma a un disegno di legge non è stata dettata dal recupero di una qualche forma di cautela. È stato, invece, l’incipit di una partita la cui fine coinciderà con le prossime elezioni politiche, quando Parlamento e governo assumeranno le forme della terza Repubblica. La riforma del mercato del lavoro segna, quindi, lo spartiacque tra un governo tecnico e un governo politico. Una svolta con il passato nei metodi e nei contenuti. Nel metodo perché manda in soffitta la concertazione e il patto che da Ciampi in poi conferiva alle parti sociali un ruolo decisivo nelle scelte che riguardavano le politiche del lavoro e del welfare. Monti e Fornero hanno sostenuto che il metodo della concertazione non era più praticabile nelle forme del ’93 perché i sindacati non avrebbero comunque sottoscritto l’accordo. Probabilmente è vero,ma andare avanti,ponendo fine alla concertazione, è stata una scelta politica, non tecnica. Così come politiche e non tecniche sono state le scelte di contenuto. A cominciare dalla rimozione della norma-simbolo dello Statuto dei lavoratori: l’articolo 18. La disciplina, cioè, che garantisce, a chi viene licenziato senza giusta causa, il reintegro nel posto di lavoro nelle aziende con più di 15 dipendenti. Al suo posto andranno tutele più generiche e ad ampio spettro discrezionale. Ed è indicativa, in tal senso, la dichiarazione dello stesso premier rispetto al rischio di licenziamenti basati su motivazioni diverse da quelle previste nel perimetro della riforma. «Vigileremo» ha detto Monti. Una risposta che derubrica il tema nella categoria “quisquilie”, perché è evidente che un sistema giuridico deve poggiare su norme vincolanti e inderogabili, e non su vaghe forme di vigilanza sanzionate da rimbrotti di natura morale. L’ispirazione della riforma dovrebbe andar bene alla Fiat di Marchionne, piuttosto che al modello di fabbrica al quale si ispirava e aspirava, negli anni Cinquanta, Adriano Olivetti. Probabilmente, nell’economia generale della riforma, era utile ma non indispensabile sottrarre alla disciplina dell’articolo 18 il contenzioso tra lavoratori e imprese in materia di licenziamenti. Non era indispensabile perché, di fatto, non risolve i problemi che rendono difficile l’ingresso nel mondo del lavoro stabile. È molto più importante, in tal senso, il riequilibrio, previsto dalla riforma, tra i costi del lavoro a tempo indeterminato e determinato. Quest’ultimo diventa più oneroso e limitato nel tempo, giacché le imprese potranno farne ricorso solo fino a un massimo di tre anni. Cancellare l’articolo 18, oltretutto, non servirà a dare slancio al sistema Italia, perché la norma riguarda soltanto il3%delle imprese (ma quasi la metà degli occupati) mentre il restante 97% è soffocato dalla concorrenza sleale, dalla burocrazia, dalle tasse, dalla stretta creditizia e dai ritardati pagamenti, soprattutto da parte della pubblica amministrazione. Alla miriade di piccole e piccolissime imprese, la nostra struttura economica e produttiva, serve ben altro. Banche e governo in primis: le prime ridando fiducia agli operatori economici e alle famiglie, il secondo riducendo il peso della burocrazia e immettendo valore nel sistema con investimenti che aiutino concretamente il Paese a ripartire, cominciando dai consumi interni. Per questi motivi, cancellare il simbolo dello Statuto dei lavoratori ha un valore più politico che di cifra economica. La stessa ragione che probabilmente ha portato Monti a non accogliere la disponibilità dei sindacati sulla flessibilità in uscita. Disponibilità che riguardava l’adozione del modello tedesco e che affida al giudice la scelta tra reintegro e indennizzo, qualora il licenziamento per motivi economici si rivelasse immotivato. Ma il connotato politico è soprattutto un altro: con la riforma cambierà il focus della regolamentazione, che non sarà più sui lavoratori, ma incentrato prevalentemente sul rapporto tra offerta e domanda. È questo il cambio di prospettiva della riforma Monti-Fornero. Una riforma che contiene aspetti indubbiamente innovativi e positivi, soprattutto nel momento in cui disincentiva il ricorso al lavoro precario da parte delle imprese e rende finalmente performanti i percorsi formativi. Sistema che, però, nell’impostazione complessiva, si dispone sul modello anglosassone piuttosto che su quello europeo, quello tedesco, che sembrava dovesse ispirare il testo in discussione. La riforma cambia i paradigmi che hanno fin qui regolato il rapporto tra mondo del lavoro e impresa, spostando a livello aziendale il piano della relazione e invertendo la direzione di marcia che aveva portato le imprese minori a organizzarsi localmente come se fossero una sola grande impresa e quelle maggiori ad articolarsi come se fossero un insieme di piccole realtà. Il Parlamento dovrà decidere se scegliere un modello economico a metà tra gli Stati Uniti di Clinton e l’Inghilterra thatcheriana, oppure riorientarsi verso un sistema che ci avvicina alla Francia e alla Germa nia. Dal suo punto di vista Monti ha ragione quando dice che il testo è blindato: la riforma può accogliere piccoli aggiustamenti,ma non gran di cambiamenti che ne stravolgerebbero l’impianto e quindi gli effetti. I partiti dovranno scegliere, pensando se è quello che serve all’Italia e se il Paese ha una struttura economica adatta a ospitare una regolamentazione come quella varata dal Governo. Il fischio d’inizio è stato dato. Adesso la politica giochi la partita più importante.

*Presidente di Tecnè

L’Unità 26.03.12

“Il nodo dell’articolo 18. Scegliere il modello Usa o quello tedesco”, di Paolo Buttaroni

Forse è un segno dei tempi che un governo «tecnico» disegni una riforma quella del mercato del lavoro che più politica non si può. E le implicazioni sociali ed economiche non hanno certo contorni vaghi e indefiniti; gli indirizzi del presidente del Consiglio sono precisi: nel breve, medio e lungo periodo. Piaccia o no, è così. E dopo gli anni della convivenza del tutto con il suo contrario, degli annunci, dei rinvii e delle riforme di cui si è persa traccia, il merito della chiarezza va riconosciuto. È evidente, però, il cambio di registro degli ultimi mesi. Il mandato conferito a Monti era di affrontare l’emergenza economica nel segno della massima unità possibile. Regole d’ingaggio non scritte, che avevano consegnato a Mario Monti la maggioranza più ampia della storia della Repubblica. Un conferimento che, nella sua impostazione iniziale, suggeriva cautela nell’affrontare alcune questioni politiche ad alto rischio di generare turbolenze e instabilità. Il presidente del Consiglio pur dalle prese con una maggioranza innaturale ha scelto, invece, di lanciare una sfida che costringe le forze di maggioranza ad alzarsi dalla panchina e a scendere in campo. Ora, è inevitabile: tutti dovranno fare chiarezza e dire da che parte stanno. A cominciare dal Pd e dal Pdl. Le risposte dei partiti non si sono fatte attendere. Con Bersani: «Molte cose di questa riforma del lavoro le appoggiamo, altre no», ma «il Pd starà dalla parte dei lavoratori». Con Alfano: «Se si lavora a qualche modifica, non si può immaginare che siano di un solo colore». Con Di Pietro: «Dal governo una dichiarazione di guerra guerreggiata ai lavoratori e ai giovani». Con Casini: riforma «che migliora la situazione». La scelta di affidare la riforma a un disegno di legge non è stata dettata dal recupero di una qualche forma di cautela. È stato, invece, l’incipit di una partita la cui fine coinciderà con le prossime elezioni politiche, quando Parlamento e governo assumeranno le forme della terza Repubblica. La riforma del mercato del lavoro segna, quindi, lo spartiacque tra un governo tecnico e un governo politico. Una svolta con il passato nei metodi e nei contenuti. Nel metodo perché manda in soffitta la concertazione e il patto che da Ciampi in poi conferiva alle parti sociali un ruolo decisivo nelle scelte che riguardavano le politiche del lavoro e del welfare. Monti e Fornero hanno sostenuto che il metodo della concertazione non era più praticabile nelle forme del ’93 perché i sindacati non avrebbero comunque sottoscritto l’accordo. Probabilmente è vero,ma andare avanti,ponendo fine alla concertazione, è stata una scelta politica, non tecnica. Così come politiche e non tecniche sono state le scelte di contenuto. A cominciare dalla rimozione della norma-simbolo dello Statuto dei lavoratori: l’articolo 18. La disciplina, cioè, che garantisce, a chi viene licenziato senza giusta causa, il reintegro nel posto di lavoro nelle aziende con più di 15 dipendenti. Al suo posto andranno tutele più generiche e ad ampio spettro discrezionale. Ed è indicativa, in tal senso, la dichiarazione dello stesso premier rispetto al rischio di licenziamenti basati su motivazioni diverse da quelle previste nel perimetro della riforma. «Vigileremo» ha detto Monti. Una risposta che derubrica il tema nella categoria “quisquilie”, perché è evidente che un sistema giuridico deve poggiare su norme vincolanti e inderogabili, e non su vaghe forme di vigilanza sanzionate da rimbrotti di natura morale. L’ispirazione della riforma dovrebbe andar bene alla Fiat di Marchionne, piuttosto che al modello di fabbrica al quale si ispirava e aspirava, negli anni Cinquanta, Adriano Olivetti. Probabilmente, nell’economia generale della riforma, era utile ma non indispensabile sottrarre alla disciplina dell’articolo 18 il contenzioso tra lavoratori e imprese in materia di licenziamenti. Non era indispensabile perché, di fatto, non risolve i problemi che rendono difficile l’ingresso nel mondo del lavoro stabile. È molto più importante, in tal senso, il riequilibrio, previsto dalla riforma, tra i costi del lavoro a tempo indeterminato e determinato. Quest’ultimo diventa più oneroso e limitato nel tempo, giacché le imprese potranno farne ricorso solo fino a un massimo di tre anni. Cancellare l’articolo 18, oltretutto, non servirà a dare slancio al sistema Italia, perché la norma riguarda soltanto il3%delle imprese (ma quasi la metà degli occupati) mentre il restante 97% è soffocato dalla concorrenza sleale, dalla burocrazia, dalle tasse, dalla stretta creditizia e dai ritardati pagamenti, soprattutto da parte della pubblica amministrazione. Alla miriade di piccole e piccolissime imprese, la nostra struttura economica e produttiva, serve ben altro. Banche e governo in primis: le prime ridando fiducia agli operatori economici e alle famiglie, il secondo riducendo il peso della burocrazia e immettendo valore nel sistema con investimenti che aiutino concretamente il Paese a ripartire, cominciando dai consumi interni. Per questi motivi, cancellare il simbolo dello Statuto dei lavoratori ha un valore più politico che di cifra economica. La stessa ragione che probabilmente ha portato Monti a non accogliere la disponibilità dei sindacati sulla flessibilità in uscita. Disponibilità che riguardava l’adozione del modello tedesco e che affida al giudice la scelta tra reintegro e indennizzo, qualora il licenziamento per motivi economici si rivelasse immotivato. Ma il connotato politico è soprattutto un altro: con la riforma cambierà il focus della regolamentazione, che non sarà più sui lavoratori, ma incentrato prevalentemente sul rapporto tra offerta e domanda. È questo il cambio di prospettiva della riforma Monti-Fornero. Una riforma che contiene aspetti indubbiamente innovativi e positivi, soprattutto nel momento in cui disincentiva il ricorso al lavoro precario da parte delle imprese e rende finalmente performanti i percorsi formativi. Sistema che, però, nell’impostazione complessiva, si dispone sul modello anglosassone piuttosto che su quello europeo, quello tedesco, che sembrava dovesse ispirare il testo in discussione. La riforma cambia i paradigmi che hanno fin qui regolato il rapporto tra mondo del lavoro e impresa, spostando a livello aziendale il piano della relazione e invertendo la direzione di marcia che aveva portato le imprese minori a organizzarsi localmente come se fossero una sola grande impresa e quelle maggiori ad articolarsi come se fossero un insieme di piccole realtà. Il Parlamento dovrà decidere se scegliere un modello economico a metà tra gli Stati Uniti di Clinton e l’Inghilterra thatcheriana, oppure riorientarsi verso un sistema che ci avvicina alla Francia e alla Germa nia. Dal suo punto di vista Monti ha ragione quando dice che il testo è blindato: la riforma può accogliere piccoli aggiustamenti,ma non gran di cambiamenti che ne stravolgerebbero l’impianto e quindi gli effetti. I partiti dovranno scegliere, pensando se è quello che serve all’Italia e se il Paese ha una struttura economica adatta a ospitare una regolamentazione come quella varata dal Governo. Il fischio d’inizio è stato dato. Adesso la politica giochi la partita più importante.

*Presidente di Tecnè

L’Unità 26.03.12

"Il valore aggiunto nella scuola: pret à porter?", di Giancarlo Cerini

Bell’equilibrio quello che si è realizzato a Bologna, al convegno nazionale dell’ANDIS (Associazione nazionale dirigenti scolastici), tenutosi nella prestigiosa “Sala Borsa” – oggi biblioteca multimediale – il 23-24 marzo, con 200 partecipanti attentissimi e molti relatori di qualità, che si sono “misurati” (è proprio il caso di dirlo) con il concetto di “valore aggiunto” e più in generale con il tema della valutazione a scuola. Come auspicava in apertura il sottosegretario all’istruzione Elena Ugolini, lanciando un guanto di sfida agli esperti, “il valore aggiunto non è un algoritmo statistico”. Ma allora che cos’è? E chi è titolato a parlarne?

Hanno ragione gli economisti, a reclamare efficacia della spesa pubblica, qualità dei risultati, rapporto costo-benefici, conti alla mano? Sono convincenti i docimologi nel richiedere affidabilità dei dati, indicatori pertinenti, strumentazioni oggettive? E che dire dei giuristi che esigono trasparenza, correttezza degli atti, rendicontazione sociale, responsabilità? Sono forse patetici i pedagogisti a mettere al centro i valori disinteressati della cultura, della relazione educativa, dell’apprendimento, della cittadinanza?

La società pretende una valutazione affidabile! E la scuola che cosa pensa? Gli insegnanti e i dirigenti, che tipo di valutazione si aspettano? E l’Invalsi – il nostro istituto nazionale di valutazione – che ruolo intende svolgere? E’ possibile tenere insieme queste diverse sollecitazioni? Credo che il convegno di Bologna (di alto livello e su cui dovremo ritornare in maniera non frettolosa) abbia rappresentato un buon passo avanti in questa ricerca. Ricostruiamo allora il filo dei discorsi, tutti importanti.

I dati non devono far paura (Martinez), ma oggi serve più che mai una valutazione mite, non intrusiva, capace di stimolare responsabilità e miglioramento: un approccio etico-costituzionale, piuttosto che tecnicistico (Cerini), con un giusto dosaggio tra valutazione esterna (accountability), performativa ma hard, e autovalutazione interna (debole se autoreferenziale), ma soft (Scheerens). Il valore aggiunto evidenzia l’effetto scuola, ciò di cui gli operatori interni devono prendersi la responsabilità per andare oltre i tanti vincoli del contesto (Ricci). Già ci sono riscontri positivi dalla sperimentazione VSQ-Valutazione Sviluppo Qualità, che utilizza il calcolo del valore aggiunto, abbinandolo però all’apprezzamento di ulteriori fattori organizzativi e didattici (Gavosto), mentre ha fatto più discutere il progetto Valorizza, con un premio ai docenti più “stimati” da ogni comunità scolastica: ma i termometri, anche se spiacevoli, vanno usati (Ichino). Meglio, tuttavia, parlare di valutazione come “cannocchiale galileiano” (Previtali), senza dimenticare la condivisione necessaria della scuola e dei docenti, che non possono subire la valutazione, ma devono viverla come ricerca (Giovannini). Un altolà è giunto da Martini: la pubblicazione dei dati grezzi sui livelli di apprendimento, ma anche quelli di valore aggiunto, scuola per scuola, può accrescere i rischi di segregazione e polarizzazione tra istituti scolastici che diventerebbero sempre più disuguali. L’esperienza internazionale dovrebbe rendere tutti più cauti.

Ripensare la valutazione in senso formativo può influire positivamente sui risultati dei ragazzi, però bisogna cambiare parametri di riferimento (Comoglio), come ci fanno intravvedere le ricerche più recenti sull’apprendimento. Strategica risulta anche la valorizzazione/validazione delle competenze comunque conseguite (Accorsi), in ambienti formali e informali. Determinante è anche il ruolo di facilitazione, di freno o di sfida dei diversi contesti territoriali (Pillati e Palmieri, assessori comunali di Bologna e Napoli, hanno richiamato criticità ma anche virtù civiche). Di tutto ciò deve far tesoro il dirigente scolastico, se vuole interpretare una leadership educativa orientata all’apprendimento e alla comunità professionale (Cristanini). I responsabili dell’ANDIS (Jannaccone, Rossi, Stellati, Quirini, Anania) hanno puntualizzato i “passaggi” salienti del “loro” convegno, che si è concluso con 5 work-shop partecipati e animati (condotti da Luisi, Senni e staff Aicq, Mosca e rete Avimes, Cerini, Previtali, Panziera, Risoli). Un bel week-end lungo sotto le Due Torri, che deve far riflettere sia chi sta nei palazzi (gli asettici tecnici al Governo), sia chi anima le piazze (gli indignados dell’”urlo per la scuola”). La democrazia è proprio questo.

da ScuolaOggi 26.03.12

“Il valore aggiunto nella scuola: pret à porter?”, di Giancarlo Cerini

Bell’equilibrio quello che si è realizzato a Bologna, al convegno nazionale dell’ANDIS (Associazione nazionale dirigenti scolastici), tenutosi nella prestigiosa “Sala Borsa” – oggi biblioteca multimediale – il 23-24 marzo, con 200 partecipanti attentissimi e molti relatori di qualità, che si sono “misurati” (è proprio il caso di dirlo) con il concetto di “valore aggiunto” e più in generale con il tema della valutazione a scuola. Come auspicava in apertura il sottosegretario all’istruzione Elena Ugolini, lanciando un guanto di sfida agli esperti, “il valore aggiunto non è un algoritmo statistico”. Ma allora che cos’è? E chi è titolato a parlarne?

Hanno ragione gli economisti, a reclamare efficacia della spesa pubblica, qualità dei risultati, rapporto costo-benefici, conti alla mano? Sono convincenti i docimologi nel richiedere affidabilità dei dati, indicatori pertinenti, strumentazioni oggettive? E che dire dei giuristi che esigono trasparenza, correttezza degli atti, rendicontazione sociale, responsabilità? Sono forse patetici i pedagogisti a mettere al centro i valori disinteressati della cultura, della relazione educativa, dell’apprendimento, della cittadinanza?

La società pretende una valutazione affidabile! E la scuola che cosa pensa? Gli insegnanti e i dirigenti, che tipo di valutazione si aspettano? E l’Invalsi – il nostro istituto nazionale di valutazione – che ruolo intende svolgere? E’ possibile tenere insieme queste diverse sollecitazioni? Credo che il convegno di Bologna (di alto livello e su cui dovremo ritornare in maniera non frettolosa) abbia rappresentato un buon passo avanti in questa ricerca. Ricostruiamo allora il filo dei discorsi, tutti importanti.

I dati non devono far paura (Martinez), ma oggi serve più che mai una valutazione mite, non intrusiva, capace di stimolare responsabilità e miglioramento: un approccio etico-costituzionale, piuttosto che tecnicistico (Cerini), con un giusto dosaggio tra valutazione esterna (accountability), performativa ma hard, e autovalutazione interna (debole se autoreferenziale), ma soft (Scheerens). Il valore aggiunto evidenzia l’effetto scuola, ciò di cui gli operatori interni devono prendersi la responsabilità per andare oltre i tanti vincoli del contesto (Ricci). Già ci sono riscontri positivi dalla sperimentazione VSQ-Valutazione Sviluppo Qualità, che utilizza il calcolo del valore aggiunto, abbinandolo però all’apprezzamento di ulteriori fattori organizzativi e didattici (Gavosto), mentre ha fatto più discutere il progetto Valorizza, con un premio ai docenti più “stimati” da ogni comunità scolastica: ma i termometri, anche se spiacevoli, vanno usati (Ichino). Meglio, tuttavia, parlare di valutazione come “cannocchiale galileiano” (Previtali), senza dimenticare la condivisione necessaria della scuola e dei docenti, che non possono subire la valutazione, ma devono viverla come ricerca (Giovannini). Un altolà è giunto da Martini: la pubblicazione dei dati grezzi sui livelli di apprendimento, ma anche quelli di valore aggiunto, scuola per scuola, può accrescere i rischi di segregazione e polarizzazione tra istituti scolastici che diventerebbero sempre più disuguali. L’esperienza internazionale dovrebbe rendere tutti più cauti.

Ripensare la valutazione in senso formativo può influire positivamente sui risultati dei ragazzi, però bisogna cambiare parametri di riferimento (Comoglio), come ci fanno intravvedere le ricerche più recenti sull’apprendimento. Strategica risulta anche la valorizzazione/validazione delle competenze comunque conseguite (Accorsi), in ambienti formali e informali. Determinante è anche il ruolo di facilitazione, di freno o di sfida dei diversi contesti territoriali (Pillati e Palmieri, assessori comunali di Bologna e Napoli, hanno richiamato criticità ma anche virtù civiche). Di tutto ciò deve far tesoro il dirigente scolastico, se vuole interpretare una leadership educativa orientata all’apprendimento e alla comunità professionale (Cristanini). I responsabili dell’ANDIS (Jannaccone, Rossi, Stellati, Quirini, Anania) hanno puntualizzato i “passaggi” salienti del “loro” convegno, che si è concluso con 5 work-shop partecipati e animati (condotti da Luisi, Senni e staff Aicq, Mosca e rete Avimes, Cerini, Previtali, Panziera, Risoli). Un bel week-end lungo sotto le Due Torri, che deve far riflettere sia chi sta nei palazzi (gli asettici tecnici al Governo), sia chi anima le piazze (gli indignados dell’”urlo per la scuola”). La democrazia è proprio questo.

da ScuolaOggi 26.03.12