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“Così non si combatte la piaga del precariato”, di Luciano Gallino

Lo scopo più importante di una riforma del mercato del lavoro dovrebbe consistere nel ridurre in misura considerevole, e nel minor tempo possibile, il numero di lavoratori che hanno contratti di breve durata, ossia precari, quale che sia la loro denominazione formale. Per conseguire tale scopo sarebbe necessario comprendere anzitutto i motivi che spingono le imprese a impiegare milioni di lavoratori con contratti aventi una scadenza fissa e breve. Di un esame di tali motivi non sembra esservi traccia nelle dichiarazioni e nei testi provvisori rilasciati finora dal governo, tipo le “Linee di intervento sulla disciplina delle tipologie contrattuali” o le modifiche annunciate dell´art. 18. Meno che mai si parla di essi nella miriade di articoli che ogni giorno commentano i passi del governo. Pare stiano tutti mettendo mano alla riparazione urgente di un complesso macchinario rimasto bloccato, senza avere la minima idea di come funziona e com´è fatto dentro.
Si suole affermare che le imprese fanno un uso smodato dei contratti di breve durata – in ciò incentivati da leggi e decreti sul mercato del lavoro emanate dal 1997 al 2003 e oltre – perché costano meno. Ma non è affatto questo il motivo principale. Le imprese ricorrono a tali contratti, sia pure in misura variabile da un settore all´altro, soprattutto perché essi permettono di adattare rapidamente la quantità di personale impiegato, in più o in meno, alla catena produttiva, organizzativa e finanziaria in cui si trovano ad operare. Nel corso degli anni l´hanno scientificamente costruita loro stesse, la catena, finendo tuttavia per diventarne schiave. Ogni impresa è ormai soltanto un anello che dipende da tutti gli altri. Nessuna impresa produce più nulla per intero al proprio interno, si tratti di un elettrodomestico, un mobile o un servizio pubblicitario. Ciascuna aggiunge un po´ di lavoro a manufatti o servizi che sono già stati lavorati in parte da imprese a monte, quasi sempre situate in Paesi differenti, e saranno ulteriormente lavorati da un´impresa a valle, in altri Paesi. Questo modo di produrre comporta che la regolare attività di ogni impresa dipende da qualità, prezzo, puntualità di consegna di quel che le arriva dalle imprese a monte, non meno che dalla disponibilità delle imprese a valle ad accettare qualità, prezzo, puntualità di quel che essa consegna loro. Per cui l´imperativo di ciascuna è diventato “assumi meno che puoi, appalta ad altri tutto ciò che ti riesce.”
Oltre a questa intrinseca dipendenza da ciò che fanno gli anelli che la precedono come da quelli che la seguono, ciascuna impresa sa bene di essere oggetto di continue e implacabili valutazioni di ordine finanziario. Il suo prodotto intermedio può anche essere di buona qualità e rendere elevati utili; nondimeno se sullo schermo di un qualche computer compare che nello Utah, in Pomerania o in Vietnam c´è un´impresa che fa la stessa lavorazione a minor costo, o con maggiori utili, è molto probabile che le commesse spariscano, o arrivi dall´alto l´ordine di chiudere.
A causa dei suddetti caratteri le catene globali di creazione del valore, come si chiamano, hanno accresciuto a dismisura l´insicurezza produttiva e finanziaria in cui le imprese, non importa se grandi o piccole, si trovano ad operare. Più che mai ai tempi di una crisi che dura da anni, e promette di durarne molti altri. Un rimedio però è stato trovato, con l´aiuto del legislatore dell´ultimo quindicennio: utilizzando grossi volumi di contratti precari le imprese hanno trasferito l´insicurezza che le assilla ai lavoratori. Fa parte di quelle politiche del lavoro chiamate globalizzazione. Quando i rapporti con gli altri anelli della catena vanno bene, un´impresa assume personale mediante un buon numero di contratti di breve durata; se i rapporti vanno male, non rinnova una parte di tali contratti, o magari tutti, senza nemmeno doversi prendere il fastidio di licenziare qualcuno.
A fronte di simile realtà strutturale, che riguarda l´intero modello produttivo e la sua drammatica crisi, è dubbio che la riforma in gestazione, salvo modifiche sostanziali in Parlamento, risulti idonea a ridurre il tasso di precarietà che affligge milioni di lavoratori, e meno che mai a farlo presto. In effetti potrebbe intervenire una sorta di scambio perverso: le imprese riducono di qualcosa l´utilizzo dei contratti atipici di breve durata, a causa dell´aumento del costo contributivo previsto dalle citate linee di intervento; però grazie allo svuotamento sostanziale dell´articolo 18, perseguito dal governo con una tenacia che meriterebbe di essere dedicata ad altri scopi, licenziano un maggior numero di lavoratori che si erano illusi di avere un contratto a tempo indeterminato, o di altri che nella veste di apprendisti speravano, anno dopo anno, di arrivare ad averlo.
Ma potrebbe anche accadere di peggio: che la precarietà esistente rimanga più o meno tal quale, ma si estenda a settori dove prima ce n´era poca (improvvisi fallimenti aziendali a parte). Lo scenario è pronto: da un lato, dinanzi al cospicuo vantaggio di poter ridurre la forza lavoro senza nemmeno dover licenziare, l´aumento dell´1,4 per cento del costo contributivo dei contratti atipici si configura come uno svantaggio quasi trascurabile. Dall´altro lato, la libertà concessa di licenziare ciascuno e tutti per motivi economici, veri o presunti o inventati, di cui chiunque abbia un´idea di come funziona un´impresa può redigere un elenco infinito, costituisce un formidabile incentivo a modulare quantità e qualità della forza lavoro utilizzata a suon di licenziamenti. Magari assumendo giovani freschi di studi, al posto di quarantenni o cinquantenni tecnologicamente obsoleti, che tanto, una volta perso lo stipendio, non dovranno aspettare più di dieci o quindici anni per ricevere la pensione. Sarebbe un passo verso l´eliminazione del dualismo tra bacini diversi di lavoro, da molti deprecato, ma non esattamente nel modo che la riforma sembrava da principio promettere.
Potrebbe il Parlamento ovviare ai limiti della riforma in discussione? In qualche misura sì, se mai si trovasse una maggioranza. Però v´è da temere non possa andare al di là di qualche ritocco, perché se non si tengono in debito conto le cause reali del guasto di un complicato macchinario, è molto difficile che la riparazione vada a buon fine, quali che siano le intenzioni dei riparatori.

La Repubblica 25.03.12

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“Un milione di atipici esclusi dall´assegno di disoccupazione”, di Valentina Conte

Nel documento approvato dal governo c´è soltanto l´impegno a rafforzare le una tantum previste oggi dalla legge
La mini-Aspi si applicherà solo ai lavoratori subordinati, non agli “indipendenti” come i cocopro. Un milione di precari senza rete. La nuova riforma del mercato del lavoro, targata Monti-Fornero, rischia di lasciare a piedi ancora una volta i molti già esclusi dalle tutele, gli intermittenti, gli ex milleuristi, le vittime di un mercato “segmentato” tra protetti e non protetti. Proprio coloro che, nelle intenzioni, questa riforma doveva accompagnare nel tunnel della flessibilità “buona” verso la luce della stabilità. E invece abbandona nel «deserto» evocato dal ministro Fornero come il nemico da sconfiggere.

FUORI DA ASPI E MINI-ASPI
Uno su due è sotto i 40 anni e guadagna meno di 10 mila euro lordi l´anno. Quando il lavoro finisce, nessun sostegno. Né Aspi, né mini-Aspi. Zero. Come prima e peggio di prima. L´Assicurazione sociale per l´impiego – l´assegno unico di disoccupazione che dal 2017 sostituirà mobilità e indennità – copre i soli lavoratori dipendenti, sia pubblici che privati, e in più apprendisti e artisti (oggi esclusi da ogni sostegno), che hanno un contratto a termine (determinato, formazione lavoro, part-time, ecc). I requisiti sono stringenti: due anni di anzianità assicurativa e almeno 52 settimane lavorate nel biennio. La mini-Aspi è invece la versione aggiornata dell´attuale assegno “con requisiti ridotti”, riservato ancora una volta ai soli lavoratori subordinati che hanno lavorato poco, almeno 78 giorni in un anno, ora diventato «almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi» con durata massima «pari alla metà delle settimane» lavorate nell´anno, dunque al massimo sei mesi, come ora. A conti fatti, però la mini-Aspi è più generosa del trattamento attuale, per una retribuzione media di 9.855 euro l´anno (quella di un precario): chi ha lavorato 3 mesi prenderà 926 euro in tutto (contro i 731 di oggi), ma chi ha lavorato un anno raddoppierà l´assegno (3.700 euro contro 1.800). Il calcolo è lo stesso previsto per l´Aspi: il 75% della retribuzione (fino a 1.150 euro), il 25% dopo, con abbattimento del 15% ogni sei mesi.

L´ESERCITO DEI NON PROTETTI
La mini-Aspi, dunque, non amplia la platea dei protetti, ma sostiene chi oggi ha già un ombrello. Al palo restano 945.141 lavoratori atipici, intermittenti, precari (dati Isfol, 2010). Quasi la metà sono co.co.pro (675.883). Ma si contano anche 52.459 associati in partecipazione, 54.210 co.co.co statali, 49.179 dottorandi e assegnisti di ricerca, 24 mila venditori porta a porta, 27 mila “collaboratori”, 8.913 occasionali.

SOLO UN IMPEGNO
La riforma approvata dal Consiglio dei ministri venerdì scorso contiene solo un impegno a rendere strutturale («a regime») l´una tantum oggi riservata ai co.co.pro. E questa viene considerata una vittoria dai sindacati, visto che le ultime versioni del testo la escludevano. L´una tantum oggi è pari al 30% del reddito dell´anno precedente, con un tetto di 4 mila euro. I requisiti sono molto restrittivi e di fatto l´83% dei fondi stanziati per il triennio 2009-2011 non è stato utilizzato (35 milioni su 200), con il 69% di domande respinte (28.674 su 42.550). Senza una revisione, questo paracadute continuerà ad essere inutile, oltre che limitato.

LE BUSTE PAGA
Il confronto parlamentare sulla riforma dovrebbe tenerne conto, considerando poi che l´aumento dell´1,4% delle aliquote contributive su tutti i contratti a termine – quindi anche del milione di parasubordinati – rischia di scaricarsi su buste paga già ridotte all´osso. Un rincaro che finanzierà proprio Aspi e mini-Aspi, da cui i precari sono tagliati fuori. Beffa e paradosso. E che potrebbe ingrossare – nonostante la stretta che la riforma intende mettere in campo – le fila delle 4 milioni di partite Iva, escluse da tutto, da sempre. Ma ancora “convenienti”.

La Repubblica 25.03.12

"Varo del pdl su Autogoverno delle istituzioni scolastiche statali", di Giovanni Bachelet

Il varo della proposta di legge sull’autogoverno e la rappresentanza delle scuole autonome è un grande passo avanti per la scuola italiana. Alla sua definizione il PD ha dato un contributo determinante con le proprie idee di scuola autonoma, di comunità educante in dialogo con le autonomie territoriali, nella scia delle riforme di Berlinguer e del titolo V della Costituzione.

La scuola italiana attendeva da tempo una riforma alla quale il Forum Nazionale Istruzione del PD ha dedicato il proprio secondo seminario nazionale nel gennaio 2011: la partecipazione e l’autogoverno risultavano sempre meno efficaci, sia perché non piú adeguati ai tempi, sia perché diverse leggi avevano nel frattempo vanificato la funzione degli organi di partecipazione e di autogoverno senza che mai intervenisse un riordino efficace, capace di riportare coerenza fra questi organi e il nuovo principio dell’autonomia scolastica. Le proposte di legge presentate in materia dalle diverse forze politiche erano state abbinate alla discussione della “legge Aprea” a inizio legislatura, ma circa un anno dopo, nel luglio 2009, la discussione presso la VII commissione della Camera si era arenata.

Il PD aveva fin dall’inizio chiarito che non era disponibile ad alcuna discussione sulla trasformazione delle scuole in fondazioni, sul reclutamento dei docenti per chiamata diretta e piú in generale su una visione aziendale della scuola, centrata sul dirigente scolastico, che scippava ai docenti la libertà di insegnamento e cancellava, anziché rilanciare, la dimensione collegiale dell’offerta didattica e della valutazione (collegio docenti e consiglio di classe, per intenderci) e la partecipazione degli alunni e delle famiglie, ma non era per questo che la legge si era arenata. L’avevano messa su un binario morto le strampalate richieste della Lega Nord sull’insegnamento dei dialetti locali (NB questo gruppo di proposte di legge non riguardavano in nessun modo il curriculum) ma soprattutto l’atteggiamento fra disinteressato e ostile del ministro Gelmini, la cui politica centralistica era incompatibile con qualsiasi potenziamento dell’autonomia scolastica.

Non è quindi un caso che la discussione sia ripresa solo a gennaio, dopo che la Gelmini se n’era andata, e non è un caso che, nel nuovo clima, tutte le condizioni poste dal PD siano alla fine entrate nella legge ierilicenziata dalla VII Commissione della Camera. Rispetto ai testi discussi fra 2008 e 2009, ma anche rispetto al nuovo testo proposto dalla Aprea lo scorso gennaio, quello licenziato ieri (che trovate in questa stessa pagina) testimonia il ruolo chiave che il PD ha avuto in questa discussione e il lavoro straordinario del comitato ristretto della VII commissione negli ultimi due mesi. Scomparse le fondazioni e la chiamata diretta (nella sua versione finale la legge non si occupa proprio di reclutamento), restituita la responsabilità di formulare l’offerta formativa all’esclusiva responsabilità del collegio docenti, la nuova autonomia statutaria fornisce strumenti di partecipazione e coinvolgimento del territorio coerenti con la visione di una comunità educante, di una scuola sempre piú aperta, punto di riferimento per i bambini e i ragazzi ma anche per l’educazione permanente. Pone anche, con il nucleo di autovalutazione e l’obbligo di rendicontazione pubblica annuale, premesse importanti per l’avvio di una autonomia responsabile. Promuove, con la riforma della rappresentanza istituzionale delle scuole autonome, un rilancio della partecipazione a tutti i livelli. Insomma realizza molte idee che docenti, dirigenti, studenti e famiglie che si riconoscono nel PD hanno elaborato e proposto insieme a noi in questi anni.

Certo dopo uno stop pluriennale dovuto alla Gelmini alla quale dell’autonomia scolastica in generale e di questa legge in particolare non importava nulla, quasi tutto il lavoro di revisione, una revisione molto profonda e combattuta, è stato fatto nel giro di poche settimane. Il passaggio del testo alle altre commissioni della Camera per il loro parere e soprattutto il passaggio al Senato potranno consentire di rivedere e correggere quel che ancora non va bene.

Certo, come per la (benefica) riforma governativa che da poco ha introdotto l’organico dell’autonomia scolastica (quello che noi avevamo da anni propugnato chiamandolo organico funzionale), l’autonomia statutaria non potrà sviluppare le proprie grandi potenzialità se il governo pro tempore non finanzierà adeguatamente, rendendole indipendenti dal Miur, adeguate strutture di valutazione del sistema scolastico, e soprattutto se continuerà a non fornire adeguate risorse alle scuole autonome, e soprattutto se, mentre autorevoli voci raccomandano un ringiovanimento del corpo docente piú anziano di Europa, continuerà ad allungare l’età pensionabile dei docenti e a non fare i concorsi che pur ha promesso. Queste, però, sono le nostre battaglie di domani. Quella di ieri l’abbiamo vinta.

da http://beta.partitodemocratico.it/doc/233181/varo-pdl-su-autogoverno-delle-istituzioni-scolastiche-statali.htm

“Varo del pdl su Autogoverno delle istituzioni scolastiche statali”, di Giovanni Bachelet

Il varo della proposta di legge sull’autogoverno e la rappresentanza delle scuole autonome è un grande passo avanti per la scuola italiana. Alla sua definizione il PD ha dato un contributo determinante con le proprie idee di scuola autonoma, di comunità educante in dialogo con le autonomie territoriali, nella scia delle riforme di Berlinguer e del titolo V della Costituzione.

La scuola italiana attendeva da tempo una riforma alla quale il Forum Nazionale Istruzione del PD ha dedicato il proprio secondo seminario nazionale nel gennaio 2011: la partecipazione e l’autogoverno risultavano sempre meno efficaci, sia perché non piú adeguati ai tempi, sia perché diverse leggi avevano nel frattempo vanificato la funzione degli organi di partecipazione e di autogoverno senza che mai intervenisse un riordino efficace, capace di riportare coerenza fra questi organi e il nuovo principio dell’autonomia scolastica. Le proposte di legge presentate in materia dalle diverse forze politiche erano state abbinate alla discussione della “legge Aprea” a inizio legislatura, ma circa un anno dopo, nel luglio 2009, la discussione presso la VII commissione della Camera si era arenata.

Il PD aveva fin dall’inizio chiarito che non era disponibile ad alcuna discussione sulla trasformazione delle scuole in fondazioni, sul reclutamento dei docenti per chiamata diretta e piú in generale su una visione aziendale della scuola, centrata sul dirigente scolastico, che scippava ai docenti la libertà di insegnamento e cancellava, anziché rilanciare, la dimensione collegiale dell’offerta didattica e della valutazione (collegio docenti e consiglio di classe, per intenderci) e la partecipazione degli alunni e delle famiglie, ma non era per questo che la legge si era arenata. L’avevano messa su un binario morto le strampalate richieste della Lega Nord sull’insegnamento dei dialetti locali (NB questo gruppo di proposte di legge non riguardavano in nessun modo il curriculum) ma soprattutto l’atteggiamento fra disinteressato e ostile del ministro Gelmini, la cui politica centralistica era incompatibile con qualsiasi potenziamento dell’autonomia scolastica.

Non è quindi un caso che la discussione sia ripresa solo a gennaio, dopo che la Gelmini se n’era andata, e non è un caso che, nel nuovo clima, tutte le condizioni poste dal PD siano alla fine entrate nella legge ierilicenziata dalla VII Commissione della Camera. Rispetto ai testi discussi fra 2008 e 2009, ma anche rispetto al nuovo testo proposto dalla Aprea lo scorso gennaio, quello licenziato ieri (che trovate in questa stessa pagina) testimonia il ruolo chiave che il PD ha avuto in questa discussione e il lavoro straordinario del comitato ristretto della VII commissione negli ultimi due mesi. Scomparse le fondazioni e la chiamata diretta (nella sua versione finale la legge non si occupa proprio di reclutamento), restituita la responsabilità di formulare l’offerta formativa all’esclusiva responsabilità del collegio docenti, la nuova autonomia statutaria fornisce strumenti di partecipazione e coinvolgimento del territorio coerenti con la visione di una comunità educante, di una scuola sempre piú aperta, punto di riferimento per i bambini e i ragazzi ma anche per l’educazione permanente. Pone anche, con il nucleo di autovalutazione e l’obbligo di rendicontazione pubblica annuale, premesse importanti per l’avvio di una autonomia responsabile. Promuove, con la riforma della rappresentanza istituzionale delle scuole autonome, un rilancio della partecipazione a tutti i livelli. Insomma realizza molte idee che docenti, dirigenti, studenti e famiglie che si riconoscono nel PD hanno elaborato e proposto insieme a noi in questi anni.

Certo dopo uno stop pluriennale dovuto alla Gelmini alla quale dell’autonomia scolastica in generale e di questa legge in particolare non importava nulla, quasi tutto il lavoro di revisione, una revisione molto profonda e combattuta, è stato fatto nel giro di poche settimane. Il passaggio del testo alle altre commissioni della Camera per il loro parere e soprattutto il passaggio al Senato potranno consentire di rivedere e correggere quel che ancora non va bene.

Certo, come per la (benefica) riforma governativa che da poco ha introdotto l’organico dell’autonomia scolastica (quello che noi avevamo da anni propugnato chiamandolo organico funzionale), l’autonomia statutaria non potrà sviluppare le proprie grandi potenzialità se il governo pro tempore non finanzierà adeguatamente, rendendole indipendenti dal Miur, adeguate strutture di valutazione del sistema scolastico, e soprattutto se continuerà a non fornire adeguate risorse alle scuole autonome, e soprattutto se, mentre autorevoli voci raccomandano un ringiovanimento del corpo docente piú anziano di Europa, continuerà ad allungare l’età pensionabile dei docenti e a non fare i concorsi che pur ha promesso. Queste, però, sono le nostre battaglie di domani. Quella di ieri l’abbiamo vinta.

da http://beta.partitodemocratico.it/doc/233181/varo-pdl-su-autogoverno-delle-istituzioni-scolastiche-statali.htm

“Varo del pdl su Autogoverno delle istituzioni scolastiche statali”, di Giovanni Bachelet

Il varo della proposta di legge sull’autogoverno e la rappresentanza delle scuole autonome è un grande passo avanti per la scuola italiana. Alla sua definizione il PD ha dato un contributo determinante con le proprie idee di scuola autonoma, di comunità educante in dialogo con le autonomie territoriali, nella scia delle riforme di Berlinguer e del titolo V della Costituzione.

La scuola italiana attendeva da tempo una riforma alla quale il Forum Nazionale Istruzione del PD ha dedicato il proprio secondo seminario nazionale nel gennaio 2011: la partecipazione e l’autogoverno risultavano sempre meno efficaci, sia perché non piú adeguati ai tempi, sia perché diverse leggi avevano nel frattempo vanificato la funzione degli organi di partecipazione e di autogoverno senza che mai intervenisse un riordino efficace, capace di riportare coerenza fra questi organi e il nuovo principio dell’autonomia scolastica. Le proposte di legge presentate in materia dalle diverse forze politiche erano state abbinate alla discussione della “legge Aprea” a inizio legislatura, ma circa un anno dopo, nel luglio 2009, la discussione presso la VII commissione della Camera si era arenata.

Il PD aveva fin dall’inizio chiarito che non era disponibile ad alcuna discussione sulla trasformazione delle scuole in fondazioni, sul reclutamento dei docenti per chiamata diretta e piú in generale su una visione aziendale della scuola, centrata sul dirigente scolastico, che scippava ai docenti la libertà di insegnamento e cancellava, anziché rilanciare, la dimensione collegiale dell’offerta didattica e della valutazione (collegio docenti e consiglio di classe, per intenderci) e la partecipazione degli alunni e delle famiglie, ma non era per questo che la legge si era arenata. L’avevano messa su un binario morto le strampalate richieste della Lega Nord sull’insegnamento dei dialetti locali (NB questo gruppo di proposte di legge non riguardavano in nessun modo il curriculum) ma soprattutto l’atteggiamento fra disinteressato e ostile del ministro Gelmini, la cui politica centralistica era incompatibile con qualsiasi potenziamento dell’autonomia scolastica.

Non è quindi un caso che la discussione sia ripresa solo a gennaio, dopo che la Gelmini se n’era andata, e non è un caso che, nel nuovo clima, tutte le condizioni poste dal PD siano alla fine entrate nella legge ierilicenziata dalla VII Commissione della Camera. Rispetto ai testi discussi fra 2008 e 2009, ma anche rispetto al nuovo testo proposto dalla Aprea lo scorso gennaio, quello licenziato ieri (che trovate in questa stessa pagina) testimonia il ruolo chiave che il PD ha avuto in questa discussione e il lavoro straordinario del comitato ristretto della VII commissione negli ultimi due mesi. Scomparse le fondazioni e la chiamata diretta (nella sua versione finale la legge non si occupa proprio di reclutamento), restituita la responsabilità di formulare l’offerta formativa all’esclusiva responsabilità del collegio docenti, la nuova autonomia statutaria fornisce strumenti di partecipazione e coinvolgimento del territorio coerenti con la visione di una comunità educante, di una scuola sempre piú aperta, punto di riferimento per i bambini e i ragazzi ma anche per l’educazione permanente. Pone anche, con il nucleo di autovalutazione e l’obbligo di rendicontazione pubblica annuale, premesse importanti per l’avvio di una autonomia responsabile. Promuove, con la riforma della rappresentanza istituzionale delle scuole autonome, un rilancio della partecipazione a tutti i livelli. Insomma realizza molte idee che docenti, dirigenti, studenti e famiglie che si riconoscono nel PD hanno elaborato e proposto insieme a noi in questi anni.

Certo dopo uno stop pluriennale dovuto alla Gelmini alla quale dell’autonomia scolastica in generale e di questa legge in particolare non importava nulla, quasi tutto il lavoro di revisione, una revisione molto profonda e combattuta, è stato fatto nel giro di poche settimane. Il passaggio del testo alle altre commissioni della Camera per il loro parere e soprattutto il passaggio al Senato potranno consentire di rivedere e correggere quel che ancora non va bene.

Certo, come per la (benefica) riforma governativa che da poco ha introdotto l’organico dell’autonomia scolastica (quello che noi avevamo da anni propugnato chiamandolo organico funzionale), l’autonomia statutaria non potrà sviluppare le proprie grandi potenzialità se il governo pro tempore non finanzierà adeguatamente, rendendole indipendenti dal Miur, adeguate strutture di valutazione del sistema scolastico, e soprattutto se continuerà a non fornire adeguate risorse alle scuole autonome, e soprattutto se, mentre autorevoli voci raccomandano un ringiovanimento del corpo docente piú anziano di Europa, continuerà ad allungare l’età pensionabile dei docenti e a non fare i concorsi che pur ha promesso. Queste, però, sono le nostre battaglie di domani. Quella di ieri l’abbiamo vinta.

da http://beta.partitodemocratico.it/doc/233181/varo-pdl-su-autogoverno-delle-istituzioni-scolastiche-statali.htm

"Urlo a difesa della scuola pubblica", di Mila Spicola

Sommersa di post it, ritagli di notizie, dati e cronaca metto insieme i pensieri prima di partire per Bologna. È il 23 marzo e in tutta Italia, da Pesaro a Ragusa, da Milano a Roma, si celebra, con “L’Urlo della Scuola”, grazie a un gruppo indomito di colleghi e genitori bolognesi. Oggi ci riuniremo in un teatro, proprio a Bologna, al teatro Testoni, dalle 10 del mattino alla sera, per definire una Convenzione per la Scuola Pubblica, coi promotori, con quelli che accorreranno, con coloro che hanno aderito, con gli interventi, tra gli altri, di Alex Zanotelli, di Girolamo De Micheli, a difendere ancora una volta la scuola. Ancora? Dopo la “cacciata” di quegli altri e l’arrivo del governo dei tecnici, di Profumo, di Rossi Doria? Beh sì. C’è da difenderla eccome la scuola. Perché ci pare che la terribile rotta intrapresa non si sa da quanti anni non accenna a cambiare. Ho sotto gli occhi la lettera di un collega napoletano che scrive della «scuola dell’obbligo, ma di fotocopiare».

Perché nei luoghi dove i ragazzi hanno maggior bisogno di risorse sono, adesso come l’altro ieri, privi di risorse: rimane qualche fotocopia, a spese di noi docenti spesso. Qualche cifra. Fondi di funzionamento delle scuole: nel 2012 caleranno rispetto al 2011 di 48 mln di euro e ammonteranno in tutto a 78,7 mln di euro. Per darvi un’idea: nel 1999 le somme disponibili per l’offerta formativa erano 345,6 mln. Altro che fotocopie. Un altro ritaglio mi ricorda dell’abbaglio denominato «organico funzionale». Ci luccicavano gli occhi nel sentirlo nominare al ministro Profumo. Cos’è? È la possibilità per ogni scuola di definirsi da sé il fabbisogno di risorse professionali per funzionare al meglio. E siccome è noto a tutti che siamo sottodimensionati «l’organico funzionale» costerebbe di più. Per cui rimane sì nel decreto semplificazioni ma è vincolato al tetto finanziario di Tremonti stabilito nel 2008. Ergo ce lo sogniamo. Ho gli appunti sulla determinazione degli organici nelle scuole: per la prima volta saranno stabiliti non in base al dato demografico degli studenti, ma alle necessità di cassa del Ministero.

Come dire: in un ospedale ci sono 100 malati o 1000? Non importa, avrete comunque 5 infermieri e 2 medici. E poi una marea di tabelle: quelle dei numeri di docenti decimati in ogni ordine di grado e scuola, quelle della quantità in crescita dei ragazzi nelle classi, e le ore tagliate. Le necessità di ore di scuola richieste dalle famiglie (tempo pieno e tempo prolungato) e le ore effettivamente concesse. Molte ma molte di meno. Specie al Sud, dove tempo pieno e tempo prolungato non ci son mai stati e dove ogni anno qualche beota ha il coraggio di stupirsi per i bassi livelli cognitivi dei ragazzi, non facendo nemmeno la fatica di sapere che hanno anche altissimi livelli di povertà e degrado. Altri numeri: la dispersione. Quanti ragazzi lasciano le scuole? Perché? Di chi è la colpa?

Qualità dell’istruzione e fichi secchi. Percentuale di Pil investito in istruzione e ricerca: Islanda 7,6%, Stati Uniti 7,6 %, Sud Corea 7 %, Francia 6 %… Tra gli ultimi ci siamo noi, Italia 4,3 %. «Noi investiremo sui giovani e sul futuro». Bugiardi. Investire su giovani e futuro vuole dire balzare in cima con l’8% , non arrancare con ragionamenti illogici. Mi chiedo quante scuole si aggiusterebbero con un km di Tav. Qualcuno mi rimprovera: non sono investimenti confrontabili, entrambi servono per metterci al passo coi tempi. Epperò la Tav la faranno, le risorse per scuola e ricerca invece caleranno, si prevede di arrivare al 3,7 % nel 2015. Dunque di cosa parliamo? Domani parleremo di “Scuola Bene Comune”. Inizio a pensare che il termine “bene” non “vada bene”. Un bene è qualcosa connesso con un possesso, con qualcosa di fisico, con un patrimonio. La mia giacca è un bene, la strada qua sotto è un bene. L’acqua, sì, l’acqua è un bene, comune certo, ma è un bene, fisico. In questi anni ci siamo riempiti la testa di termini quantitativi ed economici anche per difendere le scuole. Risorse, giacimenti, investimenti, sviluppo economico, Ocse…

No. La scuola no. La scuola è un valore. Siamo noi. È la nostra identità, è ciò che ci forma. È la nostra memoria, la nostra educazione, la nostra storia. No… non è un bene, è di più. È pregiudiziale a tutto questo e forse lo abbiamo dimenticato in tanti, in troppi. Non solo i governi. Per questo arranchiamo verso il 3% e ci sogniamo l’8%. Perché nessuno di noi ci crede più. Saviano ha dichiarato: «i professori sono sacri». Sarebbero, aggiungerei. Sarebbe sacro il sapere se tutti ci credessimo: al valore pregiudiziale e primario del sapere, della memoria, dello studio. Dobbiamo tornare a crederci tutti e mettere sotto ricatto le forze politiche su questo. È il paese intero a non averci più creduto. Io dico: non abbiamo risorse che tengano, tolta la scuola nessun art.18 riscritto ci salverà. Ecco perché stiamo urlando.

L’Unità 24.03.12

“Urlo a difesa della scuola pubblica”, di Mila Spicola

Sommersa di post it, ritagli di notizie, dati e cronaca metto insieme i pensieri prima di partire per Bologna. È il 23 marzo e in tutta Italia, da Pesaro a Ragusa, da Milano a Roma, si celebra, con “L’Urlo della Scuola”, grazie a un gruppo indomito di colleghi e genitori bolognesi. Oggi ci riuniremo in un teatro, proprio a Bologna, al teatro Testoni, dalle 10 del mattino alla sera, per definire una Convenzione per la Scuola Pubblica, coi promotori, con quelli che accorreranno, con coloro che hanno aderito, con gli interventi, tra gli altri, di Alex Zanotelli, di Girolamo De Micheli, a difendere ancora una volta la scuola. Ancora? Dopo la “cacciata” di quegli altri e l’arrivo del governo dei tecnici, di Profumo, di Rossi Doria? Beh sì. C’è da difenderla eccome la scuola. Perché ci pare che la terribile rotta intrapresa non si sa da quanti anni non accenna a cambiare. Ho sotto gli occhi la lettera di un collega napoletano che scrive della «scuola dell’obbligo, ma di fotocopiare».

Perché nei luoghi dove i ragazzi hanno maggior bisogno di risorse sono, adesso come l’altro ieri, privi di risorse: rimane qualche fotocopia, a spese di noi docenti spesso. Qualche cifra. Fondi di funzionamento delle scuole: nel 2012 caleranno rispetto al 2011 di 48 mln di euro e ammonteranno in tutto a 78,7 mln di euro. Per darvi un’idea: nel 1999 le somme disponibili per l’offerta formativa erano 345,6 mln. Altro che fotocopie. Un altro ritaglio mi ricorda dell’abbaglio denominato «organico funzionale». Ci luccicavano gli occhi nel sentirlo nominare al ministro Profumo. Cos’è? È la possibilità per ogni scuola di definirsi da sé il fabbisogno di risorse professionali per funzionare al meglio. E siccome è noto a tutti che siamo sottodimensionati «l’organico funzionale» costerebbe di più. Per cui rimane sì nel decreto semplificazioni ma è vincolato al tetto finanziario di Tremonti stabilito nel 2008. Ergo ce lo sogniamo. Ho gli appunti sulla determinazione degli organici nelle scuole: per la prima volta saranno stabiliti non in base al dato demografico degli studenti, ma alle necessità di cassa del Ministero.

Come dire: in un ospedale ci sono 100 malati o 1000? Non importa, avrete comunque 5 infermieri e 2 medici. E poi una marea di tabelle: quelle dei numeri di docenti decimati in ogni ordine di grado e scuola, quelle della quantità in crescita dei ragazzi nelle classi, e le ore tagliate. Le necessità di ore di scuola richieste dalle famiglie (tempo pieno e tempo prolungato) e le ore effettivamente concesse. Molte ma molte di meno. Specie al Sud, dove tempo pieno e tempo prolungato non ci son mai stati e dove ogni anno qualche beota ha il coraggio di stupirsi per i bassi livelli cognitivi dei ragazzi, non facendo nemmeno la fatica di sapere che hanno anche altissimi livelli di povertà e degrado. Altri numeri: la dispersione. Quanti ragazzi lasciano le scuole? Perché? Di chi è la colpa?

Qualità dell’istruzione e fichi secchi. Percentuale di Pil investito in istruzione e ricerca: Islanda 7,6%, Stati Uniti 7,6 %, Sud Corea 7 %, Francia 6 %… Tra gli ultimi ci siamo noi, Italia 4,3 %. «Noi investiremo sui giovani e sul futuro». Bugiardi. Investire su giovani e futuro vuole dire balzare in cima con l’8% , non arrancare con ragionamenti illogici. Mi chiedo quante scuole si aggiusterebbero con un km di Tav. Qualcuno mi rimprovera: non sono investimenti confrontabili, entrambi servono per metterci al passo coi tempi. Epperò la Tav la faranno, le risorse per scuola e ricerca invece caleranno, si prevede di arrivare al 3,7 % nel 2015. Dunque di cosa parliamo? Domani parleremo di “Scuola Bene Comune”. Inizio a pensare che il termine “bene” non “vada bene”. Un bene è qualcosa connesso con un possesso, con qualcosa di fisico, con un patrimonio. La mia giacca è un bene, la strada qua sotto è un bene. L’acqua, sì, l’acqua è un bene, comune certo, ma è un bene, fisico. In questi anni ci siamo riempiti la testa di termini quantitativi ed economici anche per difendere le scuole. Risorse, giacimenti, investimenti, sviluppo economico, Ocse…

No. La scuola no. La scuola è un valore. Siamo noi. È la nostra identità, è ciò che ci forma. È la nostra memoria, la nostra educazione, la nostra storia. No… non è un bene, è di più. È pregiudiziale a tutto questo e forse lo abbiamo dimenticato in tanti, in troppi. Non solo i governi. Per questo arranchiamo verso il 3% e ci sogniamo l’8%. Perché nessuno di noi ci crede più. Saviano ha dichiarato: «i professori sono sacri». Sarebbero, aggiungerei. Sarebbe sacro il sapere se tutti ci credessimo: al valore pregiudiziale e primario del sapere, della memoria, dello studio. Dobbiamo tornare a crederci tutti e mettere sotto ricatto le forze politiche su questo. È il paese intero a non averci più creduto. Io dico: non abbiamo risorse che tengano, tolta la scuola nessun art.18 riscritto ci salverà. Ecco perché stiamo urlando.

L’Unità 24.03.12

“Urlo a difesa della scuola pubblica”, di Mila Spicola

Sommersa di post it, ritagli di notizie, dati e cronaca metto insieme i pensieri prima di partire per Bologna. È il 23 marzo e in tutta Italia, da Pesaro a Ragusa, da Milano a Roma, si celebra, con “L’Urlo della Scuola”, grazie a un gruppo indomito di colleghi e genitori bolognesi. Oggi ci riuniremo in un teatro, proprio a Bologna, al teatro Testoni, dalle 10 del mattino alla sera, per definire una Convenzione per la Scuola Pubblica, coi promotori, con quelli che accorreranno, con coloro che hanno aderito, con gli interventi, tra gli altri, di Alex Zanotelli, di Girolamo De Micheli, a difendere ancora una volta la scuola. Ancora? Dopo la “cacciata” di quegli altri e l’arrivo del governo dei tecnici, di Profumo, di Rossi Doria? Beh sì. C’è da difenderla eccome la scuola. Perché ci pare che la terribile rotta intrapresa non si sa da quanti anni non accenna a cambiare. Ho sotto gli occhi la lettera di un collega napoletano che scrive della «scuola dell’obbligo, ma di fotocopiare».

Perché nei luoghi dove i ragazzi hanno maggior bisogno di risorse sono, adesso come l’altro ieri, privi di risorse: rimane qualche fotocopia, a spese di noi docenti spesso. Qualche cifra. Fondi di funzionamento delle scuole: nel 2012 caleranno rispetto al 2011 di 48 mln di euro e ammonteranno in tutto a 78,7 mln di euro. Per darvi un’idea: nel 1999 le somme disponibili per l’offerta formativa erano 345,6 mln. Altro che fotocopie. Un altro ritaglio mi ricorda dell’abbaglio denominato «organico funzionale». Ci luccicavano gli occhi nel sentirlo nominare al ministro Profumo. Cos’è? È la possibilità per ogni scuola di definirsi da sé il fabbisogno di risorse professionali per funzionare al meglio. E siccome è noto a tutti che siamo sottodimensionati «l’organico funzionale» costerebbe di più. Per cui rimane sì nel decreto semplificazioni ma è vincolato al tetto finanziario di Tremonti stabilito nel 2008. Ergo ce lo sogniamo. Ho gli appunti sulla determinazione degli organici nelle scuole: per la prima volta saranno stabiliti non in base al dato demografico degli studenti, ma alle necessità di cassa del Ministero.

Come dire: in un ospedale ci sono 100 malati o 1000? Non importa, avrete comunque 5 infermieri e 2 medici. E poi una marea di tabelle: quelle dei numeri di docenti decimati in ogni ordine di grado e scuola, quelle della quantità in crescita dei ragazzi nelle classi, e le ore tagliate. Le necessità di ore di scuola richieste dalle famiglie (tempo pieno e tempo prolungato) e le ore effettivamente concesse. Molte ma molte di meno. Specie al Sud, dove tempo pieno e tempo prolungato non ci son mai stati e dove ogni anno qualche beota ha il coraggio di stupirsi per i bassi livelli cognitivi dei ragazzi, non facendo nemmeno la fatica di sapere che hanno anche altissimi livelli di povertà e degrado. Altri numeri: la dispersione. Quanti ragazzi lasciano le scuole? Perché? Di chi è la colpa?

Qualità dell’istruzione e fichi secchi. Percentuale di Pil investito in istruzione e ricerca: Islanda 7,6%, Stati Uniti 7,6 %, Sud Corea 7 %, Francia 6 %… Tra gli ultimi ci siamo noi, Italia 4,3 %. «Noi investiremo sui giovani e sul futuro». Bugiardi. Investire su giovani e futuro vuole dire balzare in cima con l’8% , non arrancare con ragionamenti illogici. Mi chiedo quante scuole si aggiusterebbero con un km di Tav. Qualcuno mi rimprovera: non sono investimenti confrontabili, entrambi servono per metterci al passo coi tempi. Epperò la Tav la faranno, le risorse per scuola e ricerca invece caleranno, si prevede di arrivare al 3,7 % nel 2015. Dunque di cosa parliamo? Domani parleremo di “Scuola Bene Comune”. Inizio a pensare che il termine “bene” non “vada bene”. Un bene è qualcosa connesso con un possesso, con qualcosa di fisico, con un patrimonio. La mia giacca è un bene, la strada qua sotto è un bene. L’acqua, sì, l’acqua è un bene, comune certo, ma è un bene, fisico. In questi anni ci siamo riempiti la testa di termini quantitativi ed economici anche per difendere le scuole. Risorse, giacimenti, investimenti, sviluppo economico, Ocse…

No. La scuola no. La scuola è un valore. Siamo noi. È la nostra identità, è ciò che ci forma. È la nostra memoria, la nostra educazione, la nostra storia. No… non è un bene, è di più. È pregiudiziale a tutto questo e forse lo abbiamo dimenticato in tanti, in troppi. Non solo i governi. Per questo arranchiamo verso il 3% e ci sogniamo l’8%. Perché nessuno di noi ci crede più. Saviano ha dichiarato: «i professori sono sacri». Sarebbero, aggiungerei. Sarebbe sacro il sapere se tutti ci credessimo: al valore pregiudiziale e primario del sapere, della memoria, dello studio. Dobbiamo tornare a crederci tutti e mettere sotto ricatto le forze politiche su questo. È il paese intero a non averci più creduto. Io dico: non abbiamo risorse che tengano, tolta la scuola nessun art.18 riscritto ci salverà. Ecco perché stiamo urlando.

L’Unità 24.03.12