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"Diliberto, Grillo e i cattivi esempi", di Michele Brambilla

Beppe Grillo, che una volta faceva ridere, ieri ha messo sulla home page del suo sito una foto di Mario Monti all’interno di una cassa da morto con scritto «articolo 18». Forse per mandare un altro segnale subliminale, la bara ha la forma di un’automobile. A scanso di equivoci, comunque, il presidente del Consiglio viene chiamato Rigor Montis. Vedere trasformato chi la pensa diversamente in un cadavere fa parte ahimè di una consolidata tradizione di un nostro manicomio tutto italiano. Negli anni Settanta si gridava «carabiniere basco nero il tuo posto è al cimitero», oggi girano t-shirts che al cimitero vorrebbero mandare il ministro Elsa Fornero, e qualcuno pensa che siano divertenti perché c’è anche la rima.

Tra costoro c’è evidentemente Oliviero Diliberto, segretario nazionale dei Comunisti italiani, che l’altro giorno si è fatto fotografare, appunto, abbracciato a una democratica signora che indossava la maglietta nera con la scritta «Fornero al cimitero». Non è chiaro se sia più grave quell’abbraccio o la grottesca giustificazione («Non mi ero accorto della scritta») che Diliberto ha balbettato quando ha visto la foto sui giornali: ieri è stato diffuso un video che lo sbugiarda, per ben 5 minuti e 49 secondi il segretario dei Comunisti ha la scritta davanti agli occhi.

Ma forse la cosa più grave è ancora un’altra. È il fatto che simili inviti a scomparire vengano rivolti ai rivali politici non più, come quarant’anni fa, dagli estremisti in piazza: ma da uno che si sta presentando alle elezioni con le sue cinque stelle in nome della moralità, e da un altro che è stato perfino ministro di Grazia e Giustizia. Così come era stato ministro Bossi, che pochi giorni fa aveva anticipato Grillo annunciando il funerale di Monti. Davvero non c’è un altro linguaggio possibile, in Italia, per fare opposizione?

Ci eravamo appena rallegrati per la fine del clima da rissa tra i partiti, e ora ci ritroviamo a rivivere le parole di piombo degli anni formidabili.

La Stampa 23.03.12

“Diliberto, Grillo e i cattivi esempi”, di Michele Brambilla

Beppe Grillo, che una volta faceva ridere, ieri ha messo sulla home page del suo sito una foto di Mario Monti all’interno di una cassa da morto con scritto «articolo 18». Forse per mandare un altro segnale subliminale, la bara ha la forma di un’automobile. A scanso di equivoci, comunque, il presidente del Consiglio viene chiamato Rigor Montis. Vedere trasformato chi la pensa diversamente in un cadavere fa parte ahimè di una consolidata tradizione di un nostro manicomio tutto italiano. Negli anni Settanta si gridava «carabiniere basco nero il tuo posto è al cimitero», oggi girano t-shirts che al cimitero vorrebbero mandare il ministro Elsa Fornero, e qualcuno pensa che siano divertenti perché c’è anche la rima.

Tra costoro c’è evidentemente Oliviero Diliberto, segretario nazionale dei Comunisti italiani, che l’altro giorno si è fatto fotografare, appunto, abbracciato a una democratica signora che indossava la maglietta nera con la scritta «Fornero al cimitero». Non è chiaro se sia più grave quell’abbraccio o la grottesca giustificazione («Non mi ero accorto della scritta») che Diliberto ha balbettato quando ha visto la foto sui giornali: ieri è stato diffuso un video che lo sbugiarda, per ben 5 minuti e 49 secondi il segretario dei Comunisti ha la scritta davanti agli occhi.

Ma forse la cosa più grave è ancora un’altra. È il fatto che simili inviti a scomparire vengano rivolti ai rivali politici non più, come quarant’anni fa, dagli estremisti in piazza: ma da uno che si sta presentando alle elezioni con le sue cinque stelle in nome della moralità, e da un altro che è stato perfino ministro di Grazia e Giustizia. Così come era stato ministro Bossi, che pochi giorni fa aveva anticipato Grillo annunciando il funerale di Monti. Davvero non c’è un altro linguaggio possibile, in Italia, per fare opposizione?

Ci eravamo appena rallegrati per la fine del clima da rissa tra i partiti, e ora ci ritroviamo a rivivere le parole di piombo degli anni formidabili.

La Stampa 23.03.12

Il modello «arbitrario» di Luigi Mariucci

Fa una certa impressione leggere questa formulazione al comma 9 del nuovo art.18 nella versione che ho potuto consultare: «Nell’ipotesi in cui annulla il licenziamento perché accerta l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo addotto dal datore di lavoro, il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria». Il giustificato motivo oggettivo è definito dalla legge 604 del 1966 e consiste in «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Si noti che la legge tedesca è più stringente e parla di «urgente necessità aziendale». La versione italiana è più lasca, tant’è che a suo tempo nelle ragioni oggettive fu incluso anche il caso della «eccessiva morbilità del lavoratore», cioè dell’eccessivo ricorso ad assenze per malattia, anche regolarmente giustificate. In ogni caso il nuovo art.18 prevederebbe che il giudice possa ordinare solo l’indennizzo quando il giustificato motivo è appunto «inesistente».
Questo significa che, anche se fosse acclarato che il motivo economico non esiste, è solo strumentale o che comunque non c’è nessun nesso causale tra la ragione economica e quel singolo lavoratore o lavoratrice da licenziare, il giudice avrebbe le mani legate, potrebbe solo disporre la monetizzazione del licenziamento. Ma cos’è un licenziamento economico in cui il motivo economico è «inesistente»? Non può che essere arbitrario. E licenziamento «arbitrario» non significa necessariamente «discriminatorio», come qualche osservatore vorrebbe farci credere. Discriminazione è altro, richiede una prova comparativa, difficilissima da dare, specie quando si è di fronte a un singolo licenziamento.
C’è quindi una sola interpretazione logica della disposizione descritta: si vuole dare libertà di licenziamento sub specie di motivi economici (anche fasulli). È evidente infatti che se anche ricorrendo al giudice, perdendo tempo e risorse, al massimo si arriva all’indennizzo, quell’indennizzo conviene negoziarlo prima con il datore di lavoro. Si chiama monetizzazione del licenziamento illegittimo. Ma perché mai si vuole costituire questa corsia privilegiata per i licenziamenti arbitrari sotto specie di pseudo-motivo economico, mentre per i disciplinari si prevede, giustamente, il potere discrezionale del giudice di optare tra indennizzo e reintegrazione? Chi saranno mai questi lavoratori candidati ai licenziamenti liberi?
La risposta è ovvia: i lavoratori «scomodi» a vario titolo, meno produttivi perché afflitti da malattie croniche, le donne oberate di carichi familiari, e soprattutto quelli più anziani e usurati per i quali di recente si è alzata l’età pensionabile, usando l’argomento della crescita delle aspettative di vita e della «vecchiaia attiva». Non a caso si prevede una indennità, nel massimo, molto elevata: fino a 27 mensilità. È chiaro che essa è destinata a quei lavoratori prima vicini e ora più lontani dalla pensione, che si troveranno nel limbo tra perdita del lavoro e attesa della pensione. Alla faccia delle retoriche sulla vecchiaia attiva. È evidente quindi che ai licenziamenti economici va riferita la medesima disciplina prevista per i licenziamenti disciplinari: lasciare al giudice la decisione tra indennizzo e reintegrazione, a seconda della natura del caso. Così si fa in Germania. Altrimenti si aprirebbe un problema insuperabile in termini di parità di trattamento, sullo stesso piano costituzionale. A proposito di parità di trattamento è emersa un’altra singolare questione. L’applicabilità o meno ai pubblici dipendenti della nuova normativa. Osservo che, checché ne dicano i diversi ministri, la nuova disciplina non può non applicarsi all’impiego pubblico. Altrimenti nel testo unico sul pubblico impiego si dovrebbe scrivere che lì si applica, qualunque sia la dimensione degli enti (compresa quindi la più sperduta comunità montana) l’art. 18 nella vecchia versione. Si tratterebbe di una soluzione aberrante, che scava di nuovo un divario tra lavoro pubblico e privato. A seguito della quale si riaprirebbe una campagna denigratoria e indifferenziata contro il lavoro pubblico. Meglio evitarlo, e costruire quindi una disciplina ragionevole per tutti i lavoratori dipendenti, privati o pubblici che siano.

l’Unità 23.3.12

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Le troppe favole ideologiche sull’articolo 18″, di Michele Raitano

Assumendo che l’abolizione della tutela in caso di licenziamento economico non discenda da influenze ideologiche o vincoli politici (anche se le dichiarazioni di Alfano lasciano supporre un’interpretazione diversa), è interessante valutare quanto siano giustificate le principali motivazioni che nel dibattito sono state poste a supporto dell’intervento governativo sull’art. 18. In primo luogo, si ritiene necessario aumentare sensibilmente la flessibilità in uscita ritenendo rigido e pieno di sacche di privilegio il nostro mercato del lavoro. Come ho argomentato in passato anche sulle colonne dell’Unità, la lettura dei dati sulle dinamiche di carriera dei lavoratori contrasta fortemente questa chiave di lettura. Da una parte, i dati sconfessano l’immagine di un mercato del lavoro rigido a tutela del «posto fisso» (si pensi che in media il 30% dei lavoratori a tempo indeterminato perde tale status in un periodo di soli 5 anni e questo dato risulta in linea con quello dei Paesi ritenuti più deregolamentati); dall’altra, i dati mostrano che la probabilità di stabilizzazione per i lavoratori atipici non dipende affatto dalla dimensione di impresa, anzi risulta addirittura maggiore in quelle medio-grandi. Tutto ciò suggerisce che l’influenza dell’art. 18 su licenziabilità effettiva e mobilità dei lavoratori è molto contenuta e che le scelte delle imprese risentono soprattutto di altri fattori.
D’altro canto, non si può non ricordare come fra i Paesi della Ue15, sulla base della graduatoria di rigidità della protezione dell’impiego stilata dall’Ocse, l’Italia risulti fra i più flessibili e sia quello caratterizzato dalla maggior riduzione di tale indice di rigidità negli ultimi 15 anni. Un’altra motivazione a supporto dell’abolizione delle tutele dell’art. 18 consiste nella supposta necessità di liberare il mercato del lavoro in uscita per consentire ai più giovani la possibilità di entrata. Ma questa affermazione, tutta da verificare, è in netto contrasto con le motivazioni portate, tra gli altri, dallo stesso Ministro Fornero a difesa del fortissimo aumento dell’età pensionabile. Si ritiene infatti che il blocco delle uscite degli anziani non costituisca nessun vincolo particolare alle entrate dei più giovani.
Ma, evidentemente, delle due l’una: o crediamo che ciò che conti nel sistema economico siano le forze «profonde» di domanda e offerta e ciò deve valere sia nella riforma delle pensioni che in quella del mercato del lavoro, oppure pensiamo che contino soprattutto i vincoli regolamentativi. Ma in questo caso le motivazioni alla base delle due riforme appaiono in forte contraddizione, a meno di non pensare male e vedere nella modifica dell’art. 18 la via d’uscita per le aziende per liberarsi dell’aumentata forza lavoro anziana, solitamente più costosa e meno produttiva.
La stesso vincolo alla crescita dimensionale delle imprese rappresentato dall’art. 18 è smentito da molti studi, come segnalato recentemente anche da Fabiano Schivardi su «Lavoce.info». Pensare poi che le imprese estere non investano in Italia per la troppa rigidità del mercato del lavoro è privo di fondamento, come confermano le indagini internazionali sulle motivazioni dei limiti all’investimento diretto estero, che segnalano per l’Italia la rilevanza di ben altri problemi (in primis i livelli di corruzione e l’incertezza dell’applicazione del quadro normativo-istituzionale). Se poi, come strategia di crescita, si intendesse attrarre investimenti esteri deregolamentando il mercato del lavoro e riducendo ulteriormente i salari, si continuerebbe a spingere il nostro Paese su un sentiero di sviluppo a bassa innovazione e bassa produttività, con le ricadute negative sulla crescita già evidenti nel decennio pre-crisi, caratterizzato dalla forte flessibilizzazione del mercato del lavoro e dalla caduta dell’intensità di capitale delle nostre imprese.
Alla luce poi dell’importanza attribuita nelle scorse settimane dal governo al problema della lunghezza e dell’incertezza delle cause di lavoro, che paralizzerebbe le imprese, stupisce che non si siano previsti interventi migliorativi sul rito giudiziario. Al contrario, come evidenziato in questi giorni da molti giuslavoristi, la disciplina che sembra emergere potrebbe aumentare in misura sostanziale i tempi delle cause di lavoro. Sulla base di queste considerazioni, appare quindi evidente, come dichiarato più volte anche dal neo-presidente di Confindustria Squinzi, che aumentare la licenziabilità dei lavoratori italiani sia l’ultimo dei problemi della nostra economia. Ci sono quindi seri indizi che l’esito della discussione fra governo e parti sociali sia motivato più da elementi ideologici, magari contenuti nelle richieste delle istituzioni europee e di non meglio definiti mercati internazionali, che da un’attenta analisi della problematica in esame.

L’Unità 23.03.12

"E l'esecutivo stringe ancora sul turn over, ma il PD non ci sta."Un atto illegittimo"", di Mariagrazia Gerina

Profumo si è impegnato ad accogliere almeno in parte le modifiche suggerite dal Pd. Ma i due decreti su diritto allo studio e turn over che oggi porterà in Consiglio dei ministri sono stati bocciati dai Democratici. Ma come? Non bisognava sbloccare il sistema e fare largo ai giovani? Certo,ma per ora l’università, guidata dal governo tecnico, rischia di continuare ad andare in direzione opposta. «Ci aspettavamo un cambio di passo rispetto al passato recente, necessario a rilanciare l’università: purtroppo non c’è stato», chiosa, con amarezza, la capogruppo del Pd nella Commissione Cultura, Manuela Ghizzoni, reduce dall’esame dei due provvedimenti che oggi il ministro Profumo porterà in Consiglio dei ministri. Due nuovi decreti attuativi della legge delega Gelmini: il primo riguarda il diritto allo studio, l’altro la possibilità di spesa degli atenei, che si vedono legare le mani con un nuovo blocco del turn over. Il Pd, ieri, in commissione Cultura, li ha bocciati entrambi. E, per di più, ha fatto mettere a verbale che introdurre un nuovo blocco del turn over in un decreto attuativo delle legge delega sull’università è illegittimo. «Quella legge, che noi non abbiamo mai apprezzato, non delega il governo a decidere per decreto un eventuale nuovo blocco del turn over, se l’esecutivo vuole procedere in questo senso deve quanto meno farlo con una legge ordinaria che chiami a esprimersi nel merito lo stesso parlamento», spiega Ghizzoni. Sui decreti attuativi che oggi Profumo porterà di nuovo in Consiglio dei ministri per il varo definitivo, invece, il Parlamento era chiamato a esprimere solo un parere. Quello licenziato dalla Commissione Cultura della Camera, votato da Pdl e Terzo Polo, non ha avuto, appunto, il via libera del Pd, che ha motivato il suo voto contrario, tanto sul diritto allo studio, quanto sui vincoli di spesa, con argomenti molto pesanti. In particolare, sul blocco del turn-over. Addirittura più severo di quello fissato dal governo Berlusconi. Se la legge 133, che cesserà i suoi effetti a dicembre 2012, imponeva agli atenei un turn over non superiore al 50%, ovvero un’assunzione ogni due pensionamenti, nel testo approdato in Parlamento con la firma del nuovo ministro, pur distinguendo tra atenei “virtuosi” e non, il turn over risulterebbe bloccato dell’80%, con una media nazionale, atenei “virtuosi” a parte, di due assunzioni ogni dieci pensionamenti. Prima, al Senato, il Pd ha cercato di introdurre dei correttivi, suggerendo, per esempio, all’esecutivo di riportare un eventuale blocco sotto al 60% e di non protrarlo oltre il prossimo triennio (nel testo originario non c’era neppure un termine temporale). Poi, alla Camera, ha affondato il colpo, votando contro un parere del relatore giudicato troppo troppo poco critico. Specie a fronte delle proteste che si sono levate da rettori, docenti, studenti e ricercatori. Oltretutto, la promessa del ministro, che ai Senatori aveva assicurato la disponibilità a introdurre delle modifiche, ha vacillato di fronte al timore che la Ragioneria dello Stato potrebbe non essere d’accordo. Come è già accaduto conle 10mila assunzioni, cancellate all’ultimo dal decreto semplificazioni per ragioni di bilancio. Il decreto giunge quindi oggi in Cdm, con la contrarietà del Pd. «Non si può continuare a sbattere la porta in faccia ai giovani:nell’ultimo triennio si sono già persi 6mila docenti», spiega Ghizzoni, molto critica anche con i vincoli di spesa imposti agli atenei: «Se vorranno trovare le risorse per nuove assunzioni, dovranno decidere di aumentare ancora le tasse universitarie ». Tanto più che i finanziamenti per il Fondo di finanziamento ordinario restano incerti. D’altra parte sempre sugli studenti, si scaricheranno i costi del diritto allo studio. Il decreto che giungerà a Palazzo Chigi oggi prevede un aumento delle tasse che va dal 20 al 100%. E anche se le risorse stanziate sono più dello scorso anno (da 110 milioni su passa a 165 milioni, mentre le Regioni si sono impegnate a mettere un altro 40%), non saranno sufficienti a garantire la borsa di studio a tutti gli aventi diritto. Lo scorso anno rimasero fuori il 30%:per dare a tutti la borsa sarebbero stati necessari 567milioni. Sommando tutte le risorse messe in campo dal nuovo esecutivo non si va oltre i 400 milioni. «A meno che non intendano ridurre la platea degli aventi diritto, abbassando a 16mila euro l’Isee per accedere allle borse», osserva Ghizzoni. Decisione che, non ancora scritta nero su bianco e rinviata a un successivo provvedimento, ovviamente già vede contrario il Pd.

L’Unità 23.03.12

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Se la borsa di studio diventa un miraggio. Italia ultima in Europa
La Francia eroga 525mila sostegni, la Germania 510mila: da noi sono 150mila

Dice una nota canzone di lotta degli anni 60 che «anche l’operaio vuole il figlio dottore». Erano gli anni del boom economico e le fasce più deboli della popolazione si affacciavano per la prima volta all’istruzione superiore, all’università che sarebbe diventata “di massa”. A distanza di 40 anni si può ancora dire che secondo dettato costituzionale, «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» (art. 34)? «Non per tutti, la condizione delle famiglie è cambiata con la crisi, i genitori non possono più permettersi non solo l’iscrizione agli atenei dei figli ma anche tutto quello che comportano in spese per i libri, l’alloggio, e i trasporti», nota Claudio Riccio, portavoce nazionale della Rete della Conoscenza, organizzazione che riunisce universitari, dottorandi, accademici e che si occupa proprio del tema del diritto allo studio. «All’Università si sta creando una selezione di censo, gli effetti saranno sotto gli occhi di tutti fra circa 4 anni». Il fatto è che l’Italia è da sempre carente su questo terreno. In Francia e in Germania (che hanno all’incirca lo stesso numero di studenti del nostro paese) beneficiano della borsa di studio rispettivamente 525mila e 510mila iscritti contro i 150mila del Bel Paese. Anche la Spagna investe nel diritto allo studio3volte che l’Italia (dati: Osservatorio regionale del Piemonte per l’Università e per il diritto allo studio universitario). Il governo Berlusconi ha tagliato del 94% (in tre anni) il fondo per le borse di studio, portandolo dai 246 Milioni di euro del 2009 a 26 Milioni nel 2012. Per l’anno 2013 il finanziamento previsto è di soli 12,9 milioni, ovvero il 95% in meno rispetto al 2009. Inoltre solo nello Stivale è presente la figura dell’“idoneo non vincitore” (quest’anno sono stati 45mila)e cioè una persona che avrebbe i requisiti giusti, di reddito e di merito, per accedere alle borse di studio o alla casa dello studente ma non può usufruirne perché è lo Stato a non avere le risorse per erogarle. O meglio le Regioni. Il diritto allo studio è infatti ad oggi articolato su base regionale, con gli enti territoriali per il diritto allo studio. E con i tagli agli enti locali sono state diverse le Regioni che non sono riuscite a garantire la copertura dei servizi. I casi che fanno scuola sono quelli del Piemonte e del Lazio. Il Piemonte fino a due anni fa era considerata una regione modello per i servizi agli studenti con reddito basso. Ora il completo cambio di rotta della giunta leghista: zero euro in bilancio e dal 100%di borse di studio erogate agli aventi diritto con la precedente amministrazione si è passati al30%. Che significa che 8mila ragazzi quest’anno non riceveranno nessun contributo. Più o meno la stessa situazione si è verificata nel Lazio di Renata Polverini. Qui le borse di studio sono pagate con un tale ritardo che gli studenti si ritrovano senza le risorse promesse e necessarie per pagare l’affitto, i libri, le spese. La giunta Polverini ha tagliato nel corso della sua legislatura diverse volte i fondi per il diritto allo studio, nella regione che ospita La Sapienza di Roma, ossia l’ateneo più grande d’Europa. Gli studenti iscritti in Piemonte e nelle università del Lazio protestano da mesi ma non sono pochi gli esperti che ritengono che queste due regioni non rappresentino un’eccezione ma, al contrario, quello che succederà da qui a poco in tutto il resto del paese. All’analisi del Consiglio dei ministri oggi ci sarà infatti un decreto di riforma della materia concepito però dall’ex ministro Maria Stella Gemini e lasciato in “eredità” al governo Monti. Tra i nodi l’aumento di tutte le tasse regionali per il diritto allo studio che potrà arrivare fino a 200 euro a fronte di finanziamenti ulteriormente ridotti, «come dire che il diritto allo studio se lo pagheranno gli studenti con le loro tasse», nota Luca Spadon, portavoce di Link, associazione che riunisce gli atenei di oltre 14città. «Siamo il terzo paese in Europa per tasse universitarie ma senza politiche sul diritto allo studio e senza politiche per gli studenti lavoratori, che poi vengono pure definiti “sfigati”». Allo studio anche l’innalzamento del limite di 16 mila euro di Isee (oggi è 18 mila) per partecipare ai bandi. Il che porterebbe a un’ulteriore restringimento dell’utenza del 10%. «Una famiglia media ha circa 35 mila euro di Isee, a 18 mila è già molto povera, restringere ancora significa impedire a nuclei in difficoltà la possibilità di prendere i benefici», spiega ancora Link. Sullo stesso punto si battono anche i Giovani democratici: «La è situazione problematica, vogliono risolvere il problema degli idonei non vincitori diminuendo il numero degli idonei», commenta Carlo Mazzei, responsabile Università Gd di Roma. Rimangono nel decreto anche i riferimenti al prestito d’onore, uno strumento che finora ha funzionato male e con il quale, sostanzialmente, lo studente si indebita. Critica anche Federica Laudisa, ricercatrice all’Osservatorio regionale del Piemonte per il diritto allo studio: «se rimangono questi i finanziamenti lo Stato non ce la farà a pagare le borse di studio secondo i parametri previsti dal decreto della Gelmini, mancano fondi e le Regioni faranno le loro valutazioni politiche. Saranno ancora di più gli studenti che pur avendo i requisiti rimarranno esclusi. È un contesto critico e non si vedono spiragli». In pratica: «il decreto non è coperto da un’adeguata copertura finanziaria che, peraltro, non è nemmeno stabilita. Se lo Stato è in crisi economica, e lo è, i soldi saranno messi su altro ». «Le scelte politiche degli ultimi anni e la crisi hanno avuto un solo risultato – conclude Link – che è diventato difficile pagarsi gli studi. Stiamo tornando a un’università d’elite».

L’Unità 23.03.12

“E l’esecutivo stringe ancora sul turn over, ma il PD non ci sta.”Un atto illegittimo””, di Mariagrazia Gerina

Profumo si è impegnato ad accogliere almeno in parte le modifiche suggerite dal Pd. Ma i due decreti su diritto allo studio e turn over che oggi porterà in Consiglio dei ministri sono stati bocciati dai Democratici. Ma come? Non bisognava sbloccare il sistema e fare largo ai giovani? Certo,ma per ora l’università, guidata dal governo tecnico, rischia di continuare ad andare in direzione opposta. «Ci aspettavamo un cambio di passo rispetto al passato recente, necessario a rilanciare l’università: purtroppo non c’è stato», chiosa, con amarezza, la capogruppo del Pd nella Commissione Cultura, Manuela Ghizzoni, reduce dall’esame dei due provvedimenti che oggi il ministro Profumo porterà in Consiglio dei ministri. Due nuovi decreti attuativi della legge delega Gelmini: il primo riguarda il diritto allo studio, l’altro la possibilità di spesa degli atenei, che si vedono legare le mani con un nuovo blocco del turn over. Il Pd, ieri, in commissione Cultura, li ha bocciati entrambi. E, per di più, ha fatto mettere a verbale che introdurre un nuovo blocco del turn over in un decreto attuativo delle legge delega sull’università è illegittimo. «Quella legge, che noi non abbiamo mai apprezzato, non delega il governo a decidere per decreto un eventuale nuovo blocco del turn over, se l’esecutivo vuole procedere in questo senso deve quanto meno farlo con una legge ordinaria che chiami a esprimersi nel merito lo stesso parlamento», spiega Ghizzoni. Sui decreti attuativi che oggi Profumo porterà di nuovo in Consiglio dei ministri per il varo definitivo, invece, il Parlamento era chiamato a esprimere solo un parere. Quello licenziato dalla Commissione Cultura della Camera, votato da Pdl e Terzo Polo, non ha avuto, appunto, il via libera del Pd, che ha motivato il suo voto contrario, tanto sul diritto allo studio, quanto sui vincoli di spesa, con argomenti molto pesanti. In particolare, sul blocco del turn-over. Addirittura più severo di quello fissato dal governo Berlusconi. Se la legge 133, che cesserà i suoi effetti a dicembre 2012, imponeva agli atenei un turn over non superiore al 50%, ovvero un’assunzione ogni due pensionamenti, nel testo approdato in Parlamento con la firma del nuovo ministro, pur distinguendo tra atenei “virtuosi” e non, il turn over risulterebbe bloccato dell’80%, con una media nazionale, atenei “virtuosi” a parte, di due assunzioni ogni dieci pensionamenti. Prima, al Senato, il Pd ha cercato di introdurre dei correttivi, suggerendo, per esempio, all’esecutivo di riportare un eventuale blocco sotto al 60% e di non protrarlo oltre il prossimo triennio (nel testo originario non c’era neppure un termine temporale). Poi, alla Camera, ha affondato il colpo, votando contro un parere del relatore giudicato troppo troppo poco critico. Specie a fronte delle proteste che si sono levate da rettori, docenti, studenti e ricercatori. Oltretutto, la promessa del ministro, che ai Senatori aveva assicurato la disponibilità a introdurre delle modifiche, ha vacillato di fronte al timore che la Ragioneria dello Stato potrebbe non essere d’accordo. Come è già accaduto conle 10mila assunzioni, cancellate all’ultimo dal decreto semplificazioni per ragioni di bilancio. Il decreto giunge quindi oggi in Cdm, con la contrarietà del Pd. «Non si può continuare a sbattere la porta in faccia ai giovani:nell’ultimo triennio si sono già persi 6mila docenti», spiega Ghizzoni, molto critica anche con i vincoli di spesa imposti agli atenei: «Se vorranno trovare le risorse per nuove assunzioni, dovranno decidere di aumentare ancora le tasse universitarie ». Tanto più che i finanziamenti per il Fondo di finanziamento ordinario restano incerti. D’altra parte sempre sugli studenti, si scaricheranno i costi del diritto allo studio. Il decreto che giungerà a Palazzo Chigi oggi prevede un aumento delle tasse che va dal 20 al 100%. E anche se le risorse stanziate sono più dello scorso anno (da 110 milioni su passa a 165 milioni, mentre le Regioni si sono impegnate a mettere un altro 40%), non saranno sufficienti a garantire la borsa di studio a tutti gli aventi diritto. Lo scorso anno rimasero fuori il 30%:per dare a tutti la borsa sarebbero stati necessari 567milioni. Sommando tutte le risorse messe in campo dal nuovo esecutivo non si va oltre i 400 milioni. «A meno che non intendano ridurre la platea degli aventi diritto, abbassando a 16mila euro l’Isee per accedere allle borse», osserva Ghizzoni. Decisione che, non ancora scritta nero su bianco e rinviata a un successivo provvedimento, ovviamente già vede contrario il Pd.

L’Unità 23.03.12

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Se la borsa di studio diventa un miraggio. Italia ultima in Europa
La Francia eroga 525mila sostegni, la Germania 510mila: da noi sono 150mila

Dice una nota canzone di lotta degli anni 60 che «anche l’operaio vuole il figlio dottore». Erano gli anni del boom economico e le fasce più deboli della popolazione si affacciavano per la prima volta all’istruzione superiore, all’università che sarebbe diventata “di massa”. A distanza di 40 anni si può ancora dire che secondo dettato costituzionale, «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» (art. 34)? «Non per tutti, la condizione delle famiglie è cambiata con la crisi, i genitori non possono più permettersi non solo l’iscrizione agli atenei dei figli ma anche tutto quello che comportano in spese per i libri, l’alloggio, e i trasporti», nota Claudio Riccio, portavoce nazionale della Rete della Conoscenza, organizzazione che riunisce universitari, dottorandi, accademici e che si occupa proprio del tema del diritto allo studio. «All’Università si sta creando una selezione di censo, gli effetti saranno sotto gli occhi di tutti fra circa 4 anni». Il fatto è che l’Italia è da sempre carente su questo terreno. In Francia e in Germania (che hanno all’incirca lo stesso numero di studenti del nostro paese) beneficiano della borsa di studio rispettivamente 525mila e 510mila iscritti contro i 150mila del Bel Paese. Anche la Spagna investe nel diritto allo studio3volte che l’Italia (dati: Osservatorio regionale del Piemonte per l’Università e per il diritto allo studio universitario). Il governo Berlusconi ha tagliato del 94% (in tre anni) il fondo per le borse di studio, portandolo dai 246 Milioni di euro del 2009 a 26 Milioni nel 2012. Per l’anno 2013 il finanziamento previsto è di soli 12,9 milioni, ovvero il 95% in meno rispetto al 2009. Inoltre solo nello Stivale è presente la figura dell’“idoneo non vincitore” (quest’anno sono stati 45mila)e cioè una persona che avrebbe i requisiti giusti, di reddito e di merito, per accedere alle borse di studio o alla casa dello studente ma non può usufruirne perché è lo Stato a non avere le risorse per erogarle. O meglio le Regioni. Il diritto allo studio è infatti ad oggi articolato su base regionale, con gli enti territoriali per il diritto allo studio. E con i tagli agli enti locali sono state diverse le Regioni che non sono riuscite a garantire la copertura dei servizi. I casi che fanno scuola sono quelli del Piemonte e del Lazio. Il Piemonte fino a due anni fa era considerata una regione modello per i servizi agli studenti con reddito basso. Ora il completo cambio di rotta della giunta leghista: zero euro in bilancio e dal 100%di borse di studio erogate agli aventi diritto con la precedente amministrazione si è passati al30%. Che significa che 8mila ragazzi quest’anno non riceveranno nessun contributo. Più o meno la stessa situazione si è verificata nel Lazio di Renata Polverini. Qui le borse di studio sono pagate con un tale ritardo che gli studenti si ritrovano senza le risorse promesse e necessarie per pagare l’affitto, i libri, le spese. La giunta Polverini ha tagliato nel corso della sua legislatura diverse volte i fondi per il diritto allo studio, nella regione che ospita La Sapienza di Roma, ossia l’ateneo più grande d’Europa. Gli studenti iscritti in Piemonte e nelle università del Lazio protestano da mesi ma non sono pochi gli esperti che ritengono che queste due regioni non rappresentino un’eccezione ma, al contrario, quello che succederà da qui a poco in tutto il resto del paese. All’analisi del Consiglio dei ministri oggi ci sarà infatti un decreto di riforma della materia concepito però dall’ex ministro Maria Stella Gemini e lasciato in “eredità” al governo Monti. Tra i nodi l’aumento di tutte le tasse regionali per il diritto allo studio che potrà arrivare fino a 200 euro a fronte di finanziamenti ulteriormente ridotti, «come dire che il diritto allo studio se lo pagheranno gli studenti con le loro tasse», nota Luca Spadon, portavoce di Link, associazione che riunisce gli atenei di oltre 14città. «Siamo il terzo paese in Europa per tasse universitarie ma senza politiche sul diritto allo studio e senza politiche per gli studenti lavoratori, che poi vengono pure definiti “sfigati”». Allo studio anche l’innalzamento del limite di 16 mila euro di Isee (oggi è 18 mila) per partecipare ai bandi. Il che porterebbe a un’ulteriore restringimento dell’utenza del 10%. «Una famiglia media ha circa 35 mila euro di Isee, a 18 mila è già molto povera, restringere ancora significa impedire a nuclei in difficoltà la possibilità di prendere i benefici», spiega ancora Link. Sullo stesso punto si battono anche i Giovani democratici: «La è situazione problematica, vogliono risolvere il problema degli idonei non vincitori diminuendo il numero degli idonei», commenta Carlo Mazzei, responsabile Università Gd di Roma. Rimangono nel decreto anche i riferimenti al prestito d’onore, uno strumento che finora ha funzionato male e con il quale, sostanzialmente, lo studente si indebita. Critica anche Federica Laudisa, ricercatrice all’Osservatorio regionale del Piemonte per il diritto allo studio: «se rimangono questi i finanziamenti lo Stato non ce la farà a pagare le borse di studio secondo i parametri previsti dal decreto della Gelmini, mancano fondi e le Regioni faranno le loro valutazioni politiche. Saranno ancora di più gli studenti che pur avendo i requisiti rimarranno esclusi. È un contesto critico e non si vedono spiragli». In pratica: «il decreto non è coperto da un’adeguata copertura finanziaria che, peraltro, non è nemmeno stabilita. Se lo Stato è in crisi economica, e lo è, i soldi saranno messi su altro ». «Le scelte politiche degli ultimi anni e la crisi hanno avuto un solo risultato – conclude Link – che è diventato difficile pagarsi gli studi. Stiamo tornando a un’università d’elite».

L’Unità 23.03.12

“E l’esecutivo stringe ancora sul turn over, ma il PD non ci sta.”Un atto illegittimo””, di Mariagrazia Gerina

Profumo si è impegnato ad accogliere almeno in parte le modifiche suggerite dal Pd. Ma i due decreti su diritto allo studio e turn over che oggi porterà in Consiglio dei ministri sono stati bocciati dai Democratici. Ma come? Non bisognava sbloccare il sistema e fare largo ai giovani? Certo,ma per ora l’università, guidata dal governo tecnico, rischia di continuare ad andare in direzione opposta. «Ci aspettavamo un cambio di passo rispetto al passato recente, necessario a rilanciare l’università: purtroppo non c’è stato», chiosa, con amarezza, la capogruppo del Pd nella Commissione Cultura, Manuela Ghizzoni, reduce dall’esame dei due provvedimenti che oggi il ministro Profumo porterà in Consiglio dei ministri. Due nuovi decreti attuativi della legge delega Gelmini: il primo riguarda il diritto allo studio, l’altro la possibilità di spesa degli atenei, che si vedono legare le mani con un nuovo blocco del turn over. Il Pd, ieri, in commissione Cultura, li ha bocciati entrambi. E, per di più, ha fatto mettere a verbale che introdurre un nuovo blocco del turn over in un decreto attuativo delle legge delega sull’università è illegittimo. «Quella legge, che noi non abbiamo mai apprezzato, non delega il governo a decidere per decreto un eventuale nuovo blocco del turn over, se l’esecutivo vuole procedere in questo senso deve quanto meno farlo con una legge ordinaria che chiami a esprimersi nel merito lo stesso parlamento», spiega Ghizzoni. Sui decreti attuativi che oggi Profumo porterà di nuovo in Consiglio dei ministri per il varo definitivo, invece, il Parlamento era chiamato a esprimere solo un parere. Quello licenziato dalla Commissione Cultura della Camera, votato da Pdl e Terzo Polo, non ha avuto, appunto, il via libera del Pd, che ha motivato il suo voto contrario, tanto sul diritto allo studio, quanto sui vincoli di spesa, con argomenti molto pesanti. In particolare, sul blocco del turn-over. Addirittura più severo di quello fissato dal governo Berlusconi. Se la legge 133, che cesserà i suoi effetti a dicembre 2012, imponeva agli atenei un turn over non superiore al 50%, ovvero un’assunzione ogni due pensionamenti, nel testo approdato in Parlamento con la firma del nuovo ministro, pur distinguendo tra atenei “virtuosi” e non, il turn over risulterebbe bloccato dell’80%, con una media nazionale, atenei “virtuosi” a parte, di due assunzioni ogni dieci pensionamenti. Prima, al Senato, il Pd ha cercato di introdurre dei correttivi, suggerendo, per esempio, all’esecutivo di riportare un eventuale blocco sotto al 60% e di non protrarlo oltre il prossimo triennio (nel testo originario non c’era neppure un termine temporale). Poi, alla Camera, ha affondato il colpo, votando contro un parere del relatore giudicato troppo troppo poco critico. Specie a fronte delle proteste che si sono levate da rettori, docenti, studenti e ricercatori. Oltretutto, la promessa del ministro, che ai Senatori aveva assicurato la disponibilità a introdurre delle modifiche, ha vacillato di fronte al timore che la Ragioneria dello Stato potrebbe non essere d’accordo. Come è già accaduto conle 10mila assunzioni, cancellate all’ultimo dal decreto semplificazioni per ragioni di bilancio. Il decreto giunge quindi oggi in Cdm, con la contrarietà del Pd. «Non si può continuare a sbattere la porta in faccia ai giovani:nell’ultimo triennio si sono già persi 6mila docenti», spiega Ghizzoni, molto critica anche con i vincoli di spesa imposti agli atenei: «Se vorranno trovare le risorse per nuove assunzioni, dovranno decidere di aumentare ancora le tasse universitarie ». Tanto più che i finanziamenti per il Fondo di finanziamento ordinario restano incerti. D’altra parte sempre sugli studenti, si scaricheranno i costi del diritto allo studio. Il decreto che giungerà a Palazzo Chigi oggi prevede un aumento delle tasse che va dal 20 al 100%. E anche se le risorse stanziate sono più dello scorso anno (da 110 milioni su passa a 165 milioni, mentre le Regioni si sono impegnate a mettere un altro 40%), non saranno sufficienti a garantire la borsa di studio a tutti gli aventi diritto. Lo scorso anno rimasero fuori il 30%:per dare a tutti la borsa sarebbero stati necessari 567milioni. Sommando tutte le risorse messe in campo dal nuovo esecutivo non si va oltre i 400 milioni. «A meno che non intendano ridurre la platea degli aventi diritto, abbassando a 16mila euro l’Isee per accedere allle borse», osserva Ghizzoni. Decisione che, non ancora scritta nero su bianco e rinviata a un successivo provvedimento, ovviamente già vede contrario il Pd.

L’Unità 23.03.12

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Se la borsa di studio diventa un miraggio. Italia ultima in Europa
La Francia eroga 525mila sostegni, la Germania 510mila: da noi sono 150mila

Dice una nota canzone di lotta degli anni 60 che «anche l’operaio vuole il figlio dottore». Erano gli anni del boom economico e le fasce più deboli della popolazione si affacciavano per la prima volta all’istruzione superiore, all’università che sarebbe diventata “di massa”. A distanza di 40 anni si può ancora dire che secondo dettato costituzionale, «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» (art. 34)? «Non per tutti, la condizione delle famiglie è cambiata con la crisi, i genitori non possono più permettersi non solo l’iscrizione agli atenei dei figli ma anche tutto quello che comportano in spese per i libri, l’alloggio, e i trasporti», nota Claudio Riccio, portavoce nazionale della Rete della Conoscenza, organizzazione che riunisce universitari, dottorandi, accademici e che si occupa proprio del tema del diritto allo studio. «All’Università si sta creando una selezione di censo, gli effetti saranno sotto gli occhi di tutti fra circa 4 anni». Il fatto è che l’Italia è da sempre carente su questo terreno. In Francia e in Germania (che hanno all’incirca lo stesso numero di studenti del nostro paese) beneficiano della borsa di studio rispettivamente 525mila e 510mila iscritti contro i 150mila del Bel Paese. Anche la Spagna investe nel diritto allo studio3volte che l’Italia (dati: Osservatorio regionale del Piemonte per l’Università e per il diritto allo studio universitario). Il governo Berlusconi ha tagliato del 94% (in tre anni) il fondo per le borse di studio, portandolo dai 246 Milioni di euro del 2009 a 26 Milioni nel 2012. Per l’anno 2013 il finanziamento previsto è di soli 12,9 milioni, ovvero il 95% in meno rispetto al 2009. Inoltre solo nello Stivale è presente la figura dell’“idoneo non vincitore” (quest’anno sono stati 45mila)e cioè una persona che avrebbe i requisiti giusti, di reddito e di merito, per accedere alle borse di studio o alla casa dello studente ma non può usufruirne perché è lo Stato a non avere le risorse per erogarle. O meglio le Regioni. Il diritto allo studio è infatti ad oggi articolato su base regionale, con gli enti territoriali per il diritto allo studio. E con i tagli agli enti locali sono state diverse le Regioni che non sono riuscite a garantire la copertura dei servizi. I casi che fanno scuola sono quelli del Piemonte e del Lazio. Il Piemonte fino a due anni fa era considerata una regione modello per i servizi agli studenti con reddito basso. Ora il completo cambio di rotta della giunta leghista: zero euro in bilancio e dal 100%di borse di studio erogate agli aventi diritto con la precedente amministrazione si è passati al30%. Che significa che 8mila ragazzi quest’anno non riceveranno nessun contributo. Più o meno la stessa situazione si è verificata nel Lazio di Renata Polverini. Qui le borse di studio sono pagate con un tale ritardo che gli studenti si ritrovano senza le risorse promesse e necessarie per pagare l’affitto, i libri, le spese. La giunta Polverini ha tagliato nel corso della sua legislatura diverse volte i fondi per il diritto allo studio, nella regione che ospita La Sapienza di Roma, ossia l’ateneo più grande d’Europa. Gli studenti iscritti in Piemonte e nelle università del Lazio protestano da mesi ma non sono pochi gli esperti che ritengono che queste due regioni non rappresentino un’eccezione ma, al contrario, quello che succederà da qui a poco in tutto il resto del paese. All’analisi del Consiglio dei ministri oggi ci sarà infatti un decreto di riforma della materia concepito però dall’ex ministro Maria Stella Gemini e lasciato in “eredità” al governo Monti. Tra i nodi l’aumento di tutte le tasse regionali per il diritto allo studio che potrà arrivare fino a 200 euro a fronte di finanziamenti ulteriormente ridotti, «come dire che il diritto allo studio se lo pagheranno gli studenti con le loro tasse», nota Luca Spadon, portavoce di Link, associazione che riunisce gli atenei di oltre 14città. «Siamo il terzo paese in Europa per tasse universitarie ma senza politiche sul diritto allo studio e senza politiche per gli studenti lavoratori, che poi vengono pure definiti “sfigati”». Allo studio anche l’innalzamento del limite di 16 mila euro di Isee (oggi è 18 mila) per partecipare ai bandi. Il che porterebbe a un’ulteriore restringimento dell’utenza del 10%. «Una famiglia media ha circa 35 mila euro di Isee, a 18 mila è già molto povera, restringere ancora significa impedire a nuclei in difficoltà la possibilità di prendere i benefici», spiega ancora Link. Sullo stesso punto si battono anche i Giovani democratici: «La è situazione problematica, vogliono risolvere il problema degli idonei non vincitori diminuendo il numero degli idonei», commenta Carlo Mazzei, responsabile Università Gd di Roma. Rimangono nel decreto anche i riferimenti al prestito d’onore, uno strumento che finora ha funzionato male e con il quale, sostanzialmente, lo studente si indebita. Critica anche Federica Laudisa, ricercatrice all’Osservatorio regionale del Piemonte per il diritto allo studio: «se rimangono questi i finanziamenti lo Stato non ce la farà a pagare le borse di studio secondo i parametri previsti dal decreto della Gelmini, mancano fondi e le Regioni faranno le loro valutazioni politiche. Saranno ancora di più gli studenti che pur avendo i requisiti rimarranno esclusi. È un contesto critico e non si vedono spiragli». In pratica: «il decreto non è coperto da un’adeguata copertura finanziaria che, peraltro, non è nemmeno stabilita. Se lo Stato è in crisi economica, e lo è, i soldi saranno messi su altro ». «Le scelte politiche degli ultimi anni e la crisi hanno avuto un solo risultato – conclude Link – che è diventato difficile pagarsi gli studi. Stiamo tornando a un’università d’elite».

L’Unità 23.03.12

“La moral suasion del Quirinale”, di Claudio Tito

«Il testo può essere migliorato in Parlamento». Dopo una lunga giornata di incontri e colloqui Mario Monti lancia il segnale che il Pd attendeva. La riforma del lavoro non può essere considerata blindata. Le Camere potranno intervenire senza però snaturarla. Una linea che in serata il premier comunica direttamente a Pierluigi Bersani in una lunga telefonata.
Un chiarimento che si basa però su un presupposto che il premier considera preliminare: gli impegni sono sempre stati rispettati, mai è stata violata la parola data. Una risposta alle dichiarazioni fatte mercoledì sera proprio dal leader Pd durante la trasmissione “Porta a Porta”.
Non ci saranno quindi pacchetti preconfezionati. Di certo nessun decreto. Lo strumento prescelto è quello della legge delega. E dopo la schiarita intervenuta nelle ultime ore, il Consiglio dei ministri di stamattina proverà ad approvare il disegno di legge con la formula “salve intese”. Un modo per rassicurare i democratici, prendere ancora una settimana per limare il testo e nello stesso tempo permettere al presidente del Consiglio di partire per il suo viaggio in Cina con la riforma già approvata.
Una soluzione che il Professore ha condiviso con il Presidente della Repubblica. Napolitano ha ricevuto al Quirinale la delegazione di governo formata dal premier, dal ministro del Lavoro e da Federico Toniato. Dopo le tensioni con il Partito democratico e la spaccatura della Cgil, i riflettori del Colle si sono concentrati proprio sulle conseguenze politiche potenzialmente provocate dalla riforma Fornero. Sui rischi determinati da quelle che Napolitano ha definito in passato le “opposte simbologie”.
Lo scontro, cioè, tra chi ha trasformato la difesa e la modifica dell´articolo 18 in una sorta di totem.
Preoccupazioni già espresse dal Capo dello Stato nei giorni scorsi con un richiamo alla necessità di intesa rivolto a tutti gli interlocutori e non solo alle organizzazioni sindacali. Non è stato un caso allora che da ieri la “moral suasion” del Capo dello Stato si sia fatta sentire con Palazzo Chigi e con le forze politiche. Contatti che hanno permesso a Napolitano di chiudere la giornata con un senso di maggiore serenità e con la certezza che il provvedimento conterrà anche alcune delle chiarificazioni richieste. Il Capo dello Stato ha visto Monti e ha sentito Bersani, ha parlato con Casini e ha trasmesso i suoi messaggi ai vertici del Pdl.
L´idea del decreto non gli è stata prospettata da Monti ma su ricorso eccessivo alla decretazione di urgenza ha sempre espresso i suoi dubbi in tutti i suoi anni di mandato: lo ha fatto con Prodi e con Berlusconi. La sua posizione non è cambiata con Monti. Anche perché i decreti spesso a suo giudizio provocano ingorghi, fatica e sofferenza. Ma questa volta con il premier non c´è stato nemmeno bisogno di spiegare la sua eventuale opposizione.
Del resto il Presidente della Repubblica è convinto che la soluzione progettata da Palazzo Chigi possa essere quella giusta. A condizione che non si porti in Parlamento un pacchetto preconfezionato e si consenta un esame da parte delle Camere approfondito seppure in tempi ragionevolmente rapidi. Lo strappo della Cgil, infatti, impone ancor di più di calibrare i passi. Il Professore e gli uomini del Quirinale hanno in questi giorni più volte evidenziato che l´adesione della Camusso al modello tedesco non era mai stato esplicitato. Tutto si è sempre limitato alla definizione vaga di “manutenzione” dell´articolo 18.
Eppure, nello stesso tempo, sul Colle è stata sottolineata la bocciatura da parte della stessa confederazione dell´ipotesi di tornare alla difesa sic et sempliciter della norma sui licenziamenti. Una proposta avanzata ai vertici Cgil dal capo della Fiom Landini. Il voto contrario è stato giudicato il segno che anche a corso d´Italia è ormai maturata la consapevolezza che non tutto può più rimanere come prima. Il sistema tedesco, poi, non è comunque facilmente applicabile in Italia. Napolitano si è fatto mandare tutto il materiale disponibile per capire i meccanismi di quel modello: capendo quanto sia complicato quel sistema e soprattutto verificando che i reintegri in Germania sono rari. E che quasi tutti i casi più spinosi vengono risolti dai consigli di fabbrica. La vera questione, sottolineata di recente dal Quirinale, riguarda l´enfatizzazione eccessiva data proprio dalla Cgil al tema dei licenziamenti. Una linea che ha offerto la possibilità agli avversari di trasformare quel nodo in un banco di prova. Napolitano in questi giorni ha ricordato le battaglie storiche del sindacato ma non ha nemmeno dimenticato le sconfitte come quella sulla scala mobile.
Nell´incontro ristretto che si è svolto ieri al Quirinale, si è poi fatto notare che per il governo la riforma del lavoro è la logica conseguenza degli interventi fatti negli ultimi mesi su pensioni e liberalizzazioni.
Anche per questo il Colle non condivide chi contesta la rigidità manifestata in alcune occasioni da parte del Professore. La questione sociale è un valore da difendere – lo ha ripetuto in questi giorni il Presidente della Repubblica – ma non a costo dell´immobilismo. Nello stesso tempo al Quirinale nessuno nasconde i pericoli di una tensione sociale crescente. Timori manifestati anche con il presidente del Consiglio. Tensioni che Palazzo Chigi non vuole avallare e proprio per questo ha apprezzato la presa di distanza della Cgil dall´episodio che ha coinvolto l´altro ieri il segretario del Pdci Diliberto con una militante che indossava una maglietta inneggiante alla morte del ministro Fornero.
Anche per questo da ieri Monti ha fatto di tutto per tendere la mano verso il Pd. «Voglio unire e non dividere», spiega in queste ore. Sa che il malessere dei democratici non può essere sottovalutato. E´ addolorato per il no della Camusso ma non intende nemmeno fare dietrofront sull´intera riforma.
A Bersani – ma anche a Fini e a Schifani – ha spiegato che proprio in Parlamento possono intervenire delle modifiche in grado di evitare spaccature «nella maggioranza e dentro i partiti della coalizione che sostiene il governo». Soprattutto il premier vuole impedire che il Pdl possa mettere in atto una strategia capace di allontanare il Pd dal governo.
Sospetti questi che anche il segretario democratico ha iniziato a coltivare. Non solo. Bersani ha voluto ieri in primo luogo far notare a Monti che le conseguenze di una riforma non condivisa «non possono essere sottovalutate». E i primi segni di queste conseguenze sono già emersi con le dichiarazioni pubbliche della Cei e della Cisl che ha corretto in corsa la sua impostazione.
Un primo chiarimento, quindi, tra Palazzo Chigi e il Pd è intervenuto.
Non solo con Bersani. Monti ieri alla Camera ha voluto parlare anche con due esponenti di due correnti diverse all´interno dei democratici: con D´Alema e con Fioroni. E sul banco della trattativa da ieri il Professore ha messo anche un altro intervento: una nuova iniziativa in materia sociale. Un´ultima offerta per persuadere definitivamente il Pd.

La Repubblica 23.03.12