Ghizzoni: troppe incertezze su finanziamenti e penalizzazioni per welfare universitario. “Il Pd ha votato contro i due provvedimenti del governo che attuano la riforma Gelmini”. Lo rende noto la capogruppo democratica nella commissione Cultura della Camera, Manuela Ghizzoni che sottolinea come “i due ultimi decreti attuativi presentati dal ministro Profumo non contengono quel cambio di passo necessario a rilanciare le università italiane e penalizzano gli studenti. Ancora una volta non si garantisce lo sviluppo degli atenei e si mette a repentaglio il sistema di welfare studentesco. Il provvedimento che riforma il diritto allo studio, ad esempio, non interviene efficacemente per superare quell’assurdità tutta italiana che vede ben il 30% degli studenti dichiarati idonei a ricevere la borsa di studio a vedersela invece negata per carenza di risorse. Uno strappo ad un diritto costituzionale che dovrebbe essere posto al centro dell’azione del governo per lo sviluppo del paese e la mobilità sociale. E invece si continua a fare cassa sulle spalle degli studenti che, non solo, avranno la certezza di vedersi aumentata di circa il 40% la tassa regionale, ma anche, le tasse universitarie. Mentre con il provvedimento sulla programmazione universitaria – prosegue Ghizzoni – il governo, a nostro avviso, ha peccato di eccesso di delega perché non si è limitato a definire un nuovo parametro di compatibilità economica, come avrebbe dovuto fare, ma ha introdotto un nuovo e pesante blocco al turn over che porterà ad un progressivo e veloce depauperamento del sistema universitario e chiuderà le porte a tutti i giovani di talento che aspirano legittimamente alla carriera accademica. Infine, sul tema della stabilità del finanziamento del fondo ordinario non è stata prevista alcuna garanzia. Per tutte queste ragioni abbiamo votato contro i due provvedimenti del governo”.
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Universita’: Pd vota contro il governo, manca cambio di passo
Ghizzoni: troppe incertezze su finanziamenti e penalizzazioni per welfare universitario. “Il Pd ha votato contro i due provvedimenti del governo che attuano la riforma Gelmini”. Lo rende noto la capogruppo democratica nella commissione Cultura della Camera, Manuela Ghizzoni che sottolinea come “i due ultimi decreti attuativi presentati dal ministro Profumo non contengono quel cambio di passo necessario a rilanciare le università italiane e penalizzano gli studenti. Ancora una volta non si garantisce lo sviluppo degli atenei e si mette a repentaglio il sistema di welfare studentesco. Il provvedimento che riforma il diritto allo studio, ad esempio, non interviene efficacemente per superare quell’assurdità tutta italiana che vede ben il 30% degli studenti dichiarati idonei a ricevere la borsa di studio a vedersela invece negata per carenza di risorse. Uno strappo ad un diritto costituzionale che dovrebbe essere posto al centro dell’azione del governo per lo sviluppo del paese e la mobilità sociale. E invece si continua a fare cassa sulle spalle degli studenti che, non solo, avranno la certezza di vedersi aumentata di circa il 40% la tassa regionale, ma anche, le tasse universitarie. Mentre con il provvedimento sulla programmazione universitaria – prosegue Ghizzoni – il governo, a nostro avviso, ha peccato di eccesso di delega perché non si è limitato a definire un nuovo parametro di compatibilità economica, come avrebbe dovuto fare, ma ha introdotto un nuovo e pesante blocco al turn over che porterà ad un progressivo e veloce depauperamento del sistema universitario e chiuderà le porte a tutti i giovani di talento che aspirano legittimamente alla carriera accademica. Infine, sul tema della stabilità del finanziamento del fondo ordinario non è stata prevista alcuna garanzia. Per tutte queste ragioni abbiamo votato contro i due provvedimenti del governo”.
"Corruzione: dalle mazzette alle cozze pelose i diversi gradi della questione morale", di Miguel Gotor, Donatella Della Porta e Filippo Ceccarelli
La vita pubblica delle ultime settimane è stata punteggiata da una serie di episodi di corruzione e, più in generale, di malcostume politico che rendono sempre più urgente il varo di una rigorosa legge di contrasto al fenomeno: dalle vicende del leghista Davide Boni a quelle del tesoriere della Margherita Luigi Lusi, dalle inchieste su Romano La Russa alle cozze pelose del sindaco Michele Emiliano. Si tratta di una costante di lungo periodo della storia italiana, ma il peso del passato, con i suoi luoghi comuni e inevitabili fatalismi, non è una buona ragione per relativizzare la necessità di un impegno a cui ogni cittadino e ogni generazione sono chiamati a offrire il loro contributo.
Cambiano i contesti, i protagonisti, le modalità e le finalità, ma il tasso di inquinamento della nostra vita pubblica resta elevato, superiore a quello della media europea. Secondo il Global corruption barometer, nel 2010, il 13 per cento degli italiani ha dichiarato di avere pagato una tangente, quando la media continentale è del 5 per cento. Inoltre, il contrasto giudiziario è clamorosamente diminuito negli ultimi anni, mentre la percezione del fenomeno è andata aumentando: nel 1996 le condanne per reati di corruzione furono 1700, dieci anni dopo sono state 239. Nell’affrontare l’argomento è opportuno evitare la fiera dell’ovvio, in fondo una forma di corruzione intellettuale anch’essa. E dunque non è possibile limitarsi a esecrare il malcostume perché tra le file di quel coro i primi a levare alti lai di indignazione sono di solito proprio i malfattori. Così come non funziona l’atteggiamento di quanti, pur animati dalle migliori intenzioni rigeneratrici, scaricano ogni responsabilità sulla politica e sui partiti, postulando l’esistenza di una società civile vittima o pregiudizialmente incontaminata. Una chiave di lettura che in Italia riscuote uno straordinario successo anche perché serve da copertura per gli autori di comportamenti illeciti, in base al principio che se tutti i politici sono ladri, nessuno è ladro. Infine, è bene differenziare la condotta morale dall’attitudine moralistica, ossia dall’uso strumentale della postura etica, un filone che, non a caso, trova da secoli negli intellettuali del Belpaese degli interpreti insuperabili. Ci si scava così una nicchia di supposta superiorità morale ove trova riparo nobilitante una sterile miscela di radicalismo e indifferentismo. Purtroppo, anche in questo caso, il moralismo consente al ladro di travestirsi da santo, all’amministratore corrotto di vestire i panni del fustigatore dei pubblici costumi in nome del rinnovamento della politica e al mafioso di diventare un sostenitore della battaglia antimafia.
Di conseguenza l’unica strada percorribile è quella di esercitare l’arte della distinzione e della responsabilità, sviluppando un atteggiamento critico che impedisce di fare di ogni erba un fascio. Anzitutto, al di là dei pronunciamenti giudiziari, bisogna individuare diversi livelli di colpevolezza che in concreto significa ricordare come le spigole di Emiliano non siano paragonabili ai 12 milioni di euro sottratti da Lusi. In secondo luogo, vuol dire valorizzare la diversità delle reazioni delle parti politiche sotto accusa, un dato di fatto che impedisce di considerarle uguali:a destra, di norma, si resiste incollati alla propria poltrona e si accusa la magistratura di politicizzazione,a sinistra si fa un passo indietro e si esprime fiducia nell’azione giudiziaria.
Si diceva che la corruzione costituisce il cuore antico di un problema economico e di cittadinanza sempre attuale. Essa costa moltissimo alla collettività poiché altera la libera concorrenza dei mercati e lede i principi di uguaglianza, allontanando gli investitori e diminuendo la fiducia nelle istituzioni. Alcuni fattori rivelano che la corruzione in Italia è sistemica e per questa ragione richiede una grande battaglia civile e politica non solo sul terreno della repressione, ma su quello della prevenzione, a partire dalla famiglia e dalla scuola. Il primo problema riguarda la credibilità dell’azione giudiziaria, ossia la capacità di contrastare il fenomeno a causa della lentezza del sistema e della inadeguatezza della legislazione. C’è poco da fare ma gli standard italiani sono più bassi di quelli europei. Ad esempio, per responsabilità della legge 251/2005 (ex Cirielli) voluta dal governo Berlusconi, oggi in Italia il delitto di corruzione si prescrive in sei anni e non in dieci.
Inoltre nel nostro Paese l’87 per cento delle condanne per concussione e corruzione produce pene al di sotto dei due anni, il che significa una sostanziale impunità del reo, a causa del meccanismo di sospensione condizionale della pena.
La seconda specificità nazionale, come racconta la battaglia di Roberto Saviano, è la saldatura della corruzione con la criminalità organizzata. Essa prospera soltanto dove c’è una zona grigia di passività, fatalismo, consenso che le fornisce l’ossigeno per affermarsi e apparire invincibile. Pertanto il problema non riguarda soltanto la grande corruzione, ma quella piccola e persino inconsapevole, di carattere ambientale, che si manifesta nel tollerare le regole di un sistema fuorilegge. Il nodo della corruzione riconduce al deficit di riformismo che caratterizza la nostra democrazia, refrattaria ad adottare condotte di trasparenza, integrità e tutela per chi denuncia il malaffare: il sentiero è stretto, ma è l’unico percorribile per vedere un po’ di luce. Altrimenti prevarrà sempre la delega purificatrice alla magistratura, oppure la scorciatoia giustizialista, accompagnata dall’eterna tenzone fra anti-italiani e arci-italiani, esterofili e strapaesani. Tra una mazzetta e l’altra, mentre contempliamo la nostra decadenza.
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I PEGGIORI D’EUROPA, di DONATELLA DELLA PORTA
Se le indagini giudiziarie sulla corruzione e le trasformazioni politiche ad esse seguite avevano fatto parlare ottimisticamente di un passaggio a una seconda (e migliore) repubblica, alcuni indicatori confermano la percezione diffusa (sia fra gli esperti che nella opinione pubblica più in generale) di una corruzione ancora rampante.
Si può iniziare dai dati elaborati da una associazione internazionale, Transparency International, fondata proprio con lo scopo di contribuire alla diffusione di politiche anti-corruzione. Il Corruption perception index di Trasparency International è basato sulle opinioni di osservatori privilegiati, combinando le analisi di 13 organizzazioni indipendenti che valutano il livello di trasparenza su una scala dove 10 rappresenta assenza di corruzione e 0 massima corruzione. Nel 2010, l’Italia si colloca al 67° posto, il livello più basso da quando l’indice ha cominciato ad essere usato alla fine degli anni Novanta. In una comparazione internazionale, l’Italia è considerata come più corrotta degli altri paesi europei (esclusi Grecia, Bulgaria e Romania), ottenendo un punteggio peggiore anche rispetto Rwanda, Ghana, Tunisia, Namibia, Malesia, Giordania. la percentuale dei cittadini italiani che dichiarano di avere ricevuto o offerto una tangente è, nel 2009, del 17% in Italia, contro il 9% della media europea. Dati simili sono riportati dal Global corruption barometer: il 13% degli intervistati in Italia ha dichiarato di avere pagato almeno una tangente, contro il 5 per cento della media della Ue. Nel tempo, la percezione che vi sia in Italia una corruzione diffusa tende a crescere. Secondo Transparency International, nel 2010, l’Italia con il 3,9 totalizza il peggior punteggio dalla prima rilevazione del 1998.
Questi dati mettono in evidenza che la percepita causa della crisi della così detta “Prima repubblica” appare ancora pienamente caratterizzare il panorama politico italiano di quelli che alcuni si sono affrettati a definire “Seconda repubblica”. La ricerca sul caso italiano segnala l’anomalia di un paese liberal-democratico industrializzato che presenta livelli di corruzione paragonabili a quelli dei paesi in via di sviluppo, segnalando la presenza di condizioni particolarmente vantaggiose per gli aspiranti corrotti e corruttori.
In Italia i fattori che orientano le scelte dei potenziali corrotti e corruttori, tanto a livello di occasioni economiche che di vincoli morali, pongono deboli barriere alla diffusione del fenomeno. Come ha osservato Alessandro Pizzorno, si è sviluppata una conventio ad consociandum, con residui di conflitto ideologico nella sfera visibile della politica, e invece accordi di reciproca connivenza in una sfera occulta della politica. Accanto alla politica, anche il mercato appare storicamente permeabile alle pressioni partitiche, data la tradizione di imprese familiari, il controllo politico delle fonti di credito, il debole sviluppo della borsa.
Se gli scandali di “tangentopoli” riguardano gli anni Ottanta e Novanta, le condizioni di quei fenomeni di corruzione della democrazia sono storicamente radicate. Proprio la bassa trasparenza della politica e della amministrazione è una chiave di lettura delle radici storiche profonde della corruzione in Italia. Sei nomi dei partiti sono cambiati dopo il terremoto di Tangentopoli, non sembra però che i partiti siano riusciti a riconquistare legittimazione tra la popolazione, che anzi assegna ai partiti percentuali di fiducia sempre più basse. Senza una riforma della politica, la corruzione appare in vigorosa crescita.
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LA BUSTARELLA NELLE MUTANDE, di FILIPPO CECCARELLI
Pensi ai preziosi molluschi del sindaco Emiliano e in cortocircuito di scomodi omaggi e necessitati appetiti ritorna alla memoria la leggenda di quel presidente socialdemocratico dell’Inail che alla fine degli anni 80 durante una perquisizione afferrò un documento, se lo mise in bocca e se lo inghiottì, glòp.
Ah, la corruzione di una volta! La prontezza sacrificale di Mario Chiesa che butta i quattrini nel cesso e tira lo sciacquone, la furia tesaurizzante di Poggiolini e dei suoi puff a doppio fondo ricolmi di dobloni, i metal-detector, la radaristicae la geofonia per scoprire l’oro nelle fioriere di Licio Gelli. Ma si stava peggio, in realtà, anche quando si stava peggio, nel senso che ieri e oggi e sempre in Italia il malaffare si porta appresso un eccesso di immaginazione, un costante aggiornamento fantasmagorico. E se vent’anni orsono Tangentopoli si annunciò con la saga delle “mutande col pizzo”, cioè bustarelle nascoste nell’intimo,e semprea Roma la moglie indignata di un tangentista gettò dalla finestra il maltolto – che sembra la scena di un film: grida nel silenzio della notte, pioggia di banconote come coriandoli, carnevale di rabbia e di vergogna – ecco che anche in questo tempo nell’albo nero della commedia si possono inscrivere le cozze pelose e rivelatrici, gli sciagurati spaghetti al caviale da 180 euri, la casa “a sua insaputa” di Scajola e perfino i massaggi nel Centro del Benessere notturno, per l’occasione rifornito di champagne e costumini da ballo brasiliani, da cui peraltro l’illustre ed eroico beneficiato non riusciva più a venir fuori, prigioniero dell’omaggio dei suoi amici ricchi e cattivi.E così anche nelle mazzette, altrimenti dette “stecche”, “cresta”, “malloppo”, come pure più pudicamente “provvigioni” o “risorse”, o più prosaicamente “merluzzi”, “biscotti”, “fischioni”, “zucchine”, ecco che in tutto questo si rivela qualcosa che ondeggia tra l’inferno dantesco e il cinepanettone. Vedi la torva pratica dello “scaricamorto”, le tangenti dell’oltretomba, da addebitare ai defunti, ma vedi anche il farsesco vitalismo del braccio destro del compunto ministro dell’Economia che distribuisce orologioni, scorrazza con la Ferrari e per Natale si fa pagare il viaggetto a New York con De Sica e la Ferillona.
E comunque, pure al netto di pruriti estetici, viene da chiedersi su che cosa, su quali comparti della società in questi anni non sono passati quattrini sporchi! E vale quasi l’elenco alfabetico: acqua, aids, anziani, quindi “vecchietti d’oro”, lenzuola “d’oro”, perfino carceri – e ce ne voleva! – “d’oro”.
Con il risultato che un’immane pubblicistica disorientai più scrupolosi collezionisti di ritagli in una girandola di inaudite scorrerie, perché si è rubato sul pane e sulle tombe, sugli aerei da guerra e sulle dentiere, sui casinò e sul palco del Papa (in Campania, costò un miliardo e 500 milioni).
Il tutto a colpi di valigette, buste policrome, scatole da scarpe o di cioccolatini, fascette, elastici, pacchetti di sigarette, custodie di cd. Intanto il ragioniere della Parmalat prende a martellate il pc per cancellare le tracce del conto “Epicurus”. E pare di riascoltare le risate di sciacalleschi costruttori la notte del terremoto dell’Aquila.E ci si scoprea immaginare l’inaudito, ma ritenendolo possibile solo qui in Italia. Le partitelle di calcetto con Previti. La ” Guida al carcere” di Zamorani. Lo yacht di Comunione liberazione. I macachi e lo zoo di don Verzè. L’arresto in diretta telefonica di Prosperini: «Non posso parlare, ma sono qui tranquillo e bello pacciarotto… però devo mettere giù».
La Repubblica 22.03.12
“Corruzione: dalle mazzette alle cozze pelose i diversi gradi della questione morale”, di Miguel Gotor, Donatella Della Porta e Filippo Ceccarelli
La vita pubblica delle ultime settimane è stata punteggiata da una serie di episodi di corruzione e, più in generale, di malcostume politico che rendono sempre più urgente il varo di una rigorosa legge di contrasto al fenomeno: dalle vicende del leghista Davide Boni a quelle del tesoriere della Margherita Luigi Lusi, dalle inchieste su Romano La Russa alle cozze pelose del sindaco Michele Emiliano. Si tratta di una costante di lungo periodo della storia italiana, ma il peso del passato, con i suoi luoghi comuni e inevitabili fatalismi, non è una buona ragione per relativizzare la necessità di un impegno a cui ogni cittadino e ogni generazione sono chiamati a offrire il loro contributo.
Cambiano i contesti, i protagonisti, le modalità e le finalità, ma il tasso di inquinamento della nostra vita pubblica resta elevato, superiore a quello della media europea. Secondo il Global corruption barometer, nel 2010, il 13 per cento degli italiani ha dichiarato di avere pagato una tangente, quando la media continentale è del 5 per cento. Inoltre, il contrasto giudiziario è clamorosamente diminuito negli ultimi anni, mentre la percezione del fenomeno è andata aumentando: nel 1996 le condanne per reati di corruzione furono 1700, dieci anni dopo sono state 239. Nell’affrontare l’argomento è opportuno evitare la fiera dell’ovvio, in fondo una forma di corruzione intellettuale anch’essa. E dunque non è possibile limitarsi a esecrare il malcostume perché tra le file di quel coro i primi a levare alti lai di indignazione sono di solito proprio i malfattori. Così come non funziona l’atteggiamento di quanti, pur animati dalle migliori intenzioni rigeneratrici, scaricano ogni responsabilità sulla politica e sui partiti, postulando l’esistenza di una società civile vittima o pregiudizialmente incontaminata. Una chiave di lettura che in Italia riscuote uno straordinario successo anche perché serve da copertura per gli autori di comportamenti illeciti, in base al principio che se tutti i politici sono ladri, nessuno è ladro. Infine, è bene differenziare la condotta morale dall’attitudine moralistica, ossia dall’uso strumentale della postura etica, un filone che, non a caso, trova da secoli negli intellettuali del Belpaese degli interpreti insuperabili. Ci si scava così una nicchia di supposta superiorità morale ove trova riparo nobilitante una sterile miscela di radicalismo e indifferentismo. Purtroppo, anche in questo caso, il moralismo consente al ladro di travestirsi da santo, all’amministratore corrotto di vestire i panni del fustigatore dei pubblici costumi in nome del rinnovamento della politica e al mafioso di diventare un sostenitore della battaglia antimafia.
Di conseguenza l’unica strada percorribile è quella di esercitare l’arte della distinzione e della responsabilità, sviluppando un atteggiamento critico che impedisce di fare di ogni erba un fascio. Anzitutto, al di là dei pronunciamenti giudiziari, bisogna individuare diversi livelli di colpevolezza che in concreto significa ricordare come le spigole di Emiliano non siano paragonabili ai 12 milioni di euro sottratti da Lusi. In secondo luogo, vuol dire valorizzare la diversità delle reazioni delle parti politiche sotto accusa, un dato di fatto che impedisce di considerarle uguali:a destra, di norma, si resiste incollati alla propria poltrona e si accusa la magistratura di politicizzazione,a sinistra si fa un passo indietro e si esprime fiducia nell’azione giudiziaria.
Si diceva che la corruzione costituisce il cuore antico di un problema economico e di cittadinanza sempre attuale. Essa costa moltissimo alla collettività poiché altera la libera concorrenza dei mercati e lede i principi di uguaglianza, allontanando gli investitori e diminuendo la fiducia nelle istituzioni. Alcuni fattori rivelano che la corruzione in Italia è sistemica e per questa ragione richiede una grande battaglia civile e politica non solo sul terreno della repressione, ma su quello della prevenzione, a partire dalla famiglia e dalla scuola. Il primo problema riguarda la credibilità dell’azione giudiziaria, ossia la capacità di contrastare il fenomeno a causa della lentezza del sistema e della inadeguatezza della legislazione. C’è poco da fare ma gli standard italiani sono più bassi di quelli europei. Ad esempio, per responsabilità della legge 251/2005 (ex Cirielli) voluta dal governo Berlusconi, oggi in Italia il delitto di corruzione si prescrive in sei anni e non in dieci.
Inoltre nel nostro Paese l’87 per cento delle condanne per concussione e corruzione produce pene al di sotto dei due anni, il che significa una sostanziale impunità del reo, a causa del meccanismo di sospensione condizionale della pena.
La seconda specificità nazionale, come racconta la battaglia di Roberto Saviano, è la saldatura della corruzione con la criminalità organizzata. Essa prospera soltanto dove c’è una zona grigia di passività, fatalismo, consenso che le fornisce l’ossigeno per affermarsi e apparire invincibile. Pertanto il problema non riguarda soltanto la grande corruzione, ma quella piccola e persino inconsapevole, di carattere ambientale, che si manifesta nel tollerare le regole di un sistema fuorilegge. Il nodo della corruzione riconduce al deficit di riformismo che caratterizza la nostra democrazia, refrattaria ad adottare condotte di trasparenza, integrità e tutela per chi denuncia il malaffare: il sentiero è stretto, ma è l’unico percorribile per vedere un po’ di luce. Altrimenti prevarrà sempre la delega purificatrice alla magistratura, oppure la scorciatoia giustizialista, accompagnata dall’eterna tenzone fra anti-italiani e arci-italiani, esterofili e strapaesani. Tra una mazzetta e l’altra, mentre contempliamo la nostra decadenza.
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I PEGGIORI D’EUROPA, di DONATELLA DELLA PORTA
Se le indagini giudiziarie sulla corruzione e le trasformazioni politiche ad esse seguite avevano fatto parlare ottimisticamente di un passaggio a una seconda (e migliore) repubblica, alcuni indicatori confermano la percezione diffusa (sia fra gli esperti che nella opinione pubblica più in generale) di una corruzione ancora rampante.
Si può iniziare dai dati elaborati da una associazione internazionale, Transparency International, fondata proprio con lo scopo di contribuire alla diffusione di politiche anti-corruzione. Il Corruption perception index di Trasparency International è basato sulle opinioni di osservatori privilegiati, combinando le analisi di 13 organizzazioni indipendenti che valutano il livello di trasparenza su una scala dove 10 rappresenta assenza di corruzione e 0 massima corruzione. Nel 2010, l’Italia si colloca al 67° posto, il livello più basso da quando l’indice ha cominciato ad essere usato alla fine degli anni Novanta. In una comparazione internazionale, l’Italia è considerata come più corrotta degli altri paesi europei (esclusi Grecia, Bulgaria e Romania), ottenendo un punteggio peggiore anche rispetto Rwanda, Ghana, Tunisia, Namibia, Malesia, Giordania. la percentuale dei cittadini italiani che dichiarano di avere ricevuto o offerto una tangente è, nel 2009, del 17% in Italia, contro il 9% della media europea. Dati simili sono riportati dal Global corruption barometer: il 13% degli intervistati in Italia ha dichiarato di avere pagato almeno una tangente, contro il 5 per cento della media della Ue. Nel tempo, la percezione che vi sia in Italia una corruzione diffusa tende a crescere. Secondo Transparency International, nel 2010, l’Italia con il 3,9 totalizza il peggior punteggio dalla prima rilevazione del 1998.
Questi dati mettono in evidenza che la percepita causa della crisi della così detta “Prima repubblica” appare ancora pienamente caratterizzare il panorama politico italiano di quelli che alcuni si sono affrettati a definire “Seconda repubblica”. La ricerca sul caso italiano segnala l’anomalia di un paese liberal-democratico industrializzato che presenta livelli di corruzione paragonabili a quelli dei paesi in via di sviluppo, segnalando la presenza di condizioni particolarmente vantaggiose per gli aspiranti corrotti e corruttori.
In Italia i fattori che orientano le scelte dei potenziali corrotti e corruttori, tanto a livello di occasioni economiche che di vincoli morali, pongono deboli barriere alla diffusione del fenomeno. Come ha osservato Alessandro Pizzorno, si è sviluppata una conventio ad consociandum, con residui di conflitto ideologico nella sfera visibile della politica, e invece accordi di reciproca connivenza in una sfera occulta della politica. Accanto alla politica, anche il mercato appare storicamente permeabile alle pressioni partitiche, data la tradizione di imprese familiari, il controllo politico delle fonti di credito, il debole sviluppo della borsa.
Se gli scandali di “tangentopoli” riguardano gli anni Ottanta e Novanta, le condizioni di quei fenomeni di corruzione della democrazia sono storicamente radicate. Proprio la bassa trasparenza della politica e della amministrazione è una chiave di lettura delle radici storiche profonde della corruzione in Italia. Sei nomi dei partiti sono cambiati dopo il terremoto di Tangentopoli, non sembra però che i partiti siano riusciti a riconquistare legittimazione tra la popolazione, che anzi assegna ai partiti percentuali di fiducia sempre più basse. Senza una riforma della politica, la corruzione appare in vigorosa crescita.
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LA BUSTARELLA NELLE MUTANDE, di FILIPPO CECCARELLI
Pensi ai preziosi molluschi del sindaco Emiliano e in cortocircuito di scomodi omaggi e necessitati appetiti ritorna alla memoria la leggenda di quel presidente socialdemocratico dell’Inail che alla fine degli anni 80 durante una perquisizione afferrò un documento, se lo mise in bocca e se lo inghiottì, glòp.
Ah, la corruzione di una volta! La prontezza sacrificale di Mario Chiesa che butta i quattrini nel cesso e tira lo sciacquone, la furia tesaurizzante di Poggiolini e dei suoi puff a doppio fondo ricolmi di dobloni, i metal-detector, la radaristicae la geofonia per scoprire l’oro nelle fioriere di Licio Gelli. Ma si stava peggio, in realtà, anche quando si stava peggio, nel senso che ieri e oggi e sempre in Italia il malaffare si porta appresso un eccesso di immaginazione, un costante aggiornamento fantasmagorico. E se vent’anni orsono Tangentopoli si annunciò con la saga delle “mutande col pizzo”, cioè bustarelle nascoste nell’intimo,e semprea Roma la moglie indignata di un tangentista gettò dalla finestra il maltolto – che sembra la scena di un film: grida nel silenzio della notte, pioggia di banconote come coriandoli, carnevale di rabbia e di vergogna – ecco che anche in questo tempo nell’albo nero della commedia si possono inscrivere le cozze pelose e rivelatrici, gli sciagurati spaghetti al caviale da 180 euri, la casa “a sua insaputa” di Scajola e perfino i massaggi nel Centro del Benessere notturno, per l’occasione rifornito di champagne e costumini da ballo brasiliani, da cui peraltro l’illustre ed eroico beneficiato non riusciva più a venir fuori, prigioniero dell’omaggio dei suoi amici ricchi e cattivi.E così anche nelle mazzette, altrimenti dette “stecche”, “cresta”, “malloppo”, come pure più pudicamente “provvigioni” o “risorse”, o più prosaicamente “merluzzi”, “biscotti”, “fischioni”, “zucchine”, ecco che in tutto questo si rivela qualcosa che ondeggia tra l’inferno dantesco e il cinepanettone. Vedi la torva pratica dello “scaricamorto”, le tangenti dell’oltretomba, da addebitare ai defunti, ma vedi anche il farsesco vitalismo del braccio destro del compunto ministro dell’Economia che distribuisce orologioni, scorrazza con la Ferrari e per Natale si fa pagare il viaggetto a New York con De Sica e la Ferillona.
E comunque, pure al netto di pruriti estetici, viene da chiedersi su che cosa, su quali comparti della società in questi anni non sono passati quattrini sporchi! E vale quasi l’elenco alfabetico: acqua, aids, anziani, quindi “vecchietti d’oro”, lenzuola “d’oro”, perfino carceri – e ce ne voleva! – “d’oro”.
Con il risultato che un’immane pubblicistica disorientai più scrupolosi collezionisti di ritagli in una girandola di inaudite scorrerie, perché si è rubato sul pane e sulle tombe, sugli aerei da guerra e sulle dentiere, sui casinò e sul palco del Papa (in Campania, costò un miliardo e 500 milioni).
Il tutto a colpi di valigette, buste policrome, scatole da scarpe o di cioccolatini, fascette, elastici, pacchetti di sigarette, custodie di cd. Intanto il ragioniere della Parmalat prende a martellate il pc per cancellare le tracce del conto “Epicurus”. E pare di riascoltare le risate di sciacalleschi costruttori la notte del terremoto dell’Aquila.E ci si scoprea immaginare l’inaudito, ma ritenendolo possibile solo qui in Italia. Le partitelle di calcetto con Previti. La ” Guida al carcere” di Zamorani. Lo yacht di Comunione liberazione. I macachi e lo zoo di don Verzè. L’arresto in diretta telefonica di Prosperini: «Non posso parlare, ma sono qui tranquillo e bello pacciarotto… però devo mettere giù».
La Repubblica 22.03.12
“Corruzione: dalle mazzette alle cozze pelose i diversi gradi della questione morale”, di Miguel Gotor, Donatella Della Porta e Filippo Ceccarelli
La vita pubblica delle ultime settimane è stata punteggiata da una serie di episodi di corruzione e, più in generale, di malcostume politico che rendono sempre più urgente il varo di una rigorosa legge di contrasto al fenomeno: dalle vicende del leghista Davide Boni a quelle del tesoriere della Margherita Luigi Lusi, dalle inchieste su Romano La Russa alle cozze pelose del sindaco Michele Emiliano. Si tratta di una costante di lungo periodo della storia italiana, ma il peso del passato, con i suoi luoghi comuni e inevitabili fatalismi, non è una buona ragione per relativizzare la necessità di un impegno a cui ogni cittadino e ogni generazione sono chiamati a offrire il loro contributo.
Cambiano i contesti, i protagonisti, le modalità e le finalità, ma il tasso di inquinamento della nostra vita pubblica resta elevato, superiore a quello della media europea. Secondo il Global corruption barometer, nel 2010, il 13 per cento degli italiani ha dichiarato di avere pagato una tangente, quando la media continentale è del 5 per cento. Inoltre, il contrasto giudiziario è clamorosamente diminuito negli ultimi anni, mentre la percezione del fenomeno è andata aumentando: nel 1996 le condanne per reati di corruzione furono 1700, dieci anni dopo sono state 239. Nell’affrontare l’argomento è opportuno evitare la fiera dell’ovvio, in fondo una forma di corruzione intellettuale anch’essa. E dunque non è possibile limitarsi a esecrare il malcostume perché tra le file di quel coro i primi a levare alti lai di indignazione sono di solito proprio i malfattori. Così come non funziona l’atteggiamento di quanti, pur animati dalle migliori intenzioni rigeneratrici, scaricano ogni responsabilità sulla politica e sui partiti, postulando l’esistenza di una società civile vittima o pregiudizialmente incontaminata. Una chiave di lettura che in Italia riscuote uno straordinario successo anche perché serve da copertura per gli autori di comportamenti illeciti, in base al principio che se tutti i politici sono ladri, nessuno è ladro. Infine, è bene differenziare la condotta morale dall’attitudine moralistica, ossia dall’uso strumentale della postura etica, un filone che, non a caso, trova da secoli negli intellettuali del Belpaese degli interpreti insuperabili. Ci si scava così una nicchia di supposta superiorità morale ove trova riparo nobilitante una sterile miscela di radicalismo e indifferentismo. Purtroppo, anche in questo caso, il moralismo consente al ladro di travestirsi da santo, all’amministratore corrotto di vestire i panni del fustigatore dei pubblici costumi in nome del rinnovamento della politica e al mafioso di diventare un sostenitore della battaglia antimafia.
Di conseguenza l’unica strada percorribile è quella di esercitare l’arte della distinzione e della responsabilità, sviluppando un atteggiamento critico che impedisce di fare di ogni erba un fascio. Anzitutto, al di là dei pronunciamenti giudiziari, bisogna individuare diversi livelli di colpevolezza che in concreto significa ricordare come le spigole di Emiliano non siano paragonabili ai 12 milioni di euro sottratti da Lusi. In secondo luogo, vuol dire valorizzare la diversità delle reazioni delle parti politiche sotto accusa, un dato di fatto che impedisce di considerarle uguali:a destra, di norma, si resiste incollati alla propria poltrona e si accusa la magistratura di politicizzazione,a sinistra si fa un passo indietro e si esprime fiducia nell’azione giudiziaria.
Si diceva che la corruzione costituisce il cuore antico di un problema economico e di cittadinanza sempre attuale. Essa costa moltissimo alla collettività poiché altera la libera concorrenza dei mercati e lede i principi di uguaglianza, allontanando gli investitori e diminuendo la fiducia nelle istituzioni. Alcuni fattori rivelano che la corruzione in Italia è sistemica e per questa ragione richiede una grande battaglia civile e politica non solo sul terreno della repressione, ma su quello della prevenzione, a partire dalla famiglia e dalla scuola. Il primo problema riguarda la credibilità dell’azione giudiziaria, ossia la capacità di contrastare il fenomeno a causa della lentezza del sistema e della inadeguatezza della legislazione. C’è poco da fare ma gli standard italiani sono più bassi di quelli europei. Ad esempio, per responsabilità della legge 251/2005 (ex Cirielli) voluta dal governo Berlusconi, oggi in Italia il delitto di corruzione si prescrive in sei anni e non in dieci.
Inoltre nel nostro Paese l’87 per cento delle condanne per concussione e corruzione produce pene al di sotto dei due anni, il che significa una sostanziale impunità del reo, a causa del meccanismo di sospensione condizionale della pena.
La seconda specificità nazionale, come racconta la battaglia di Roberto Saviano, è la saldatura della corruzione con la criminalità organizzata. Essa prospera soltanto dove c’è una zona grigia di passività, fatalismo, consenso che le fornisce l’ossigeno per affermarsi e apparire invincibile. Pertanto il problema non riguarda soltanto la grande corruzione, ma quella piccola e persino inconsapevole, di carattere ambientale, che si manifesta nel tollerare le regole di un sistema fuorilegge. Il nodo della corruzione riconduce al deficit di riformismo che caratterizza la nostra democrazia, refrattaria ad adottare condotte di trasparenza, integrità e tutela per chi denuncia il malaffare: il sentiero è stretto, ma è l’unico percorribile per vedere un po’ di luce. Altrimenti prevarrà sempre la delega purificatrice alla magistratura, oppure la scorciatoia giustizialista, accompagnata dall’eterna tenzone fra anti-italiani e arci-italiani, esterofili e strapaesani. Tra una mazzetta e l’altra, mentre contempliamo la nostra decadenza.
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I PEGGIORI D’EUROPA, di DONATELLA DELLA PORTA
Se le indagini giudiziarie sulla corruzione e le trasformazioni politiche ad esse seguite avevano fatto parlare ottimisticamente di un passaggio a una seconda (e migliore) repubblica, alcuni indicatori confermano la percezione diffusa (sia fra gli esperti che nella opinione pubblica più in generale) di una corruzione ancora rampante.
Si può iniziare dai dati elaborati da una associazione internazionale, Transparency International, fondata proprio con lo scopo di contribuire alla diffusione di politiche anti-corruzione. Il Corruption perception index di Trasparency International è basato sulle opinioni di osservatori privilegiati, combinando le analisi di 13 organizzazioni indipendenti che valutano il livello di trasparenza su una scala dove 10 rappresenta assenza di corruzione e 0 massima corruzione. Nel 2010, l’Italia si colloca al 67° posto, il livello più basso da quando l’indice ha cominciato ad essere usato alla fine degli anni Novanta. In una comparazione internazionale, l’Italia è considerata come più corrotta degli altri paesi europei (esclusi Grecia, Bulgaria e Romania), ottenendo un punteggio peggiore anche rispetto Rwanda, Ghana, Tunisia, Namibia, Malesia, Giordania. la percentuale dei cittadini italiani che dichiarano di avere ricevuto o offerto una tangente è, nel 2009, del 17% in Italia, contro il 9% della media europea. Dati simili sono riportati dal Global corruption barometer: il 13% degli intervistati in Italia ha dichiarato di avere pagato almeno una tangente, contro il 5 per cento della media della Ue. Nel tempo, la percezione che vi sia in Italia una corruzione diffusa tende a crescere. Secondo Transparency International, nel 2010, l’Italia con il 3,9 totalizza il peggior punteggio dalla prima rilevazione del 1998.
Questi dati mettono in evidenza che la percepita causa della crisi della così detta “Prima repubblica” appare ancora pienamente caratterizzare il panorama politico italiano di quelli che alcuni si sono affrettati a definire “Seconda repubblica”. La ricerca sul caso italiano segnala l’anomalia di un paese liberal-democratico industrializzato che presenta livelli di corruzione paragonabili a quelli dei paesi in via di sviluppo, segnalando la presenza di condizioni particolarmente vantaggiose per gli aspiranti corrotti e corruttori.
In Italia i fattori che orientano le scelte dei potenziali corrotti e corruttori, tanto a livello di occasioni economiche che di vincoli morali, pongono deboli barriere alla diffusione del fenomeno. Come ha osservato Alessandro Pizzorno, si è sviluppata una conventio ad consociandum, con residui di conflitto ideologico nella sfera visibile della politica, e invece accordi di reciproca connivenza in una sfera occulta della politica. Accanto alla politica, anche il mercato appare storicamente permeabile alle pressioni partitiche, data la tradizione di imprese familiari, il controllo politico delle fonti di credito, il debole sviluppo della borsa.
Se gli scandali di “tangentopoli” riguardano gli anni Ottanta e Novanta, le condizioni di quei fenomeni di corruzione della democrazia sono storicamente radicate. Proprio la bassa trasparenza della politica e della amministrazione è una chiave di lettura delle radici storiche profonde della corruzione in Italia. Sei nomi dei partiti sono cambiati dopo il terremoto di Tangentopoli, non sembra però che i partiti siano riusciti a riconquistare legittimazione tra la popolazione, che anzi assegna ai partiti percentuali di fiducia sempre più basse. Senza una riforma della politica, la corruzione appare in vigorosa crescita.
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LA BUSTARELLA NELLE MUTANDE, di FILIPPO CECCARELLI
Pensi ai preziosi molluschi del sindaco Emiliano e in cortocircuito di scomodi omaggi e necessitati appetiti ritorna alla memoria la leggenda di quel presidente socialdemocratico dell’Inail che alla fine degli anni 80 durante una perquisizione afferrò un documento, se lo mise in bocca e se lo inghiottì, glòp.
Ah, la corruzione di una volta! La prontezza sacrificale di Mario Chiesa che butta i quattrini nel cesso e tira lo sciacquone, la furia tesaurizzante di Poggiolini e dei suoi puff a doppio fondo ricolmi di dobloni, i metal-detector, la radaristicae la geofonia per scoprire l’oro nelle fioriere di Licio Gelli. Ma si stava peggio, in realtà, anche quando si stava peggio, nel senso che ieri e oggi e sempre in Italia il malaffare si porta appresso un eccesso di immaginazione, un costante aggiornamento fantasmagorico. E se vent’anni orsono Tangentopoli si annunciò con la saga delle “mutande col pizzo”, cioè bustarelle nascoste nell’intimo,e semprea Roma la moglie indignata di un tangentista gettò dalla finestra il maltolto – che sembra la scena di un film: grida nel silenzio della notte, pioggia di banconote come coriandoli, carnevale di rabbia e di vergogna – ecco che anche in questo tempo nell’albo nero della commedia si possono inscrivere le cozze pelose e rivelatrici, gli sciagurati spaghetti al caviale da 180 euri, la casa “a sua insaputa” di Scajola e perfino i massaggi nel Centro del Benessere notturno, per l’occasione rifornito di champagne e costumini da ballo brasiliani, da cui peraltro l’illustre ed eroico beneficiato non riusciva più a venir fuori, prigioniero dell’omaggio dei suoi amici ricchi e cattivi.E così anche nelle mazzette, altrimenti dette “stecche”, “cresta”, “malloppo”, come pure più pudicamente “provvigioni” o “risorse”, o più prosaicamente “merluzzi”, “biscotti”, “fischioni”, “zucchine”, ecco che in tutto questo si rivela qualcosa che ondeggia tra l’inferno dantesco e il cinepanettone. Vedi la torva pratica dello “scaricamorto”, le tangenti dell’oltretomba, da addebitare ai defunti, ma vedi anche il farsesco vitalismo del braccio destro del compunto ministro dell’Economia che distribuisce orologioni, scorrazza con la Ferrari e per Natale si fa pagare il viaggetto a New York con De Sica e la Ferillona.
E comunque, pure al netto di pruriti estetici, viene da chiedersi su che cosa, su quali comparti della società in questi anni non sono passati quattrini sporchi! E vale quasi l’elenco alfabetico: acqua, aids, anziani, quindi “vecchietti d’oro”, lenzuola “d’oro”, perfino carceri – e ce ne voleva! – “d’oro”.
Con il risultato che un’immane pubblicistica disorientai più scrupolosi collezionisti di ritagli in una girandola di inaudite scorrerie, perché si è rubato sul pane e sulle tombe, sugli aerei da guerra e sulle dentiere, sui casinò e sul palco del Papa (in Campania, costò un miliardo e 500 milioni).
Il tutto a colpi di valigette, buste policrome, scatole da scarpe o di cioccolatini, fascette, elastici, pacchetti di sigarette, custodie di cd. Intanto il ragioniere della Parmalat prende a martellate il pc per cancellare le tracce del conto “Epicurus”. E pare di riascoltare le risate di sciacalleschi costruttori la notte del terremoto dell’Aquila.E ci si scoprea immaginare l’inaudito, ma ritenendolo possibile solo qui in Italia. Le partitelle di calcetto con Previti. La ” Guida al carcere” di Zamorani. Lo yacht di Comunione liberazione. I macachi e lo zoo di don Verzè. L’arresto in diretta telefonica di Prosperini: «Non posso parlare, ma sono qui tranquillo e bello pacciarotto… però devo mettere giù».
La Repubblica 22.03.12
Bersani a Monti: pretendo lealtà «Prendere o lasciare? Non ci sto», di Simone Collini
Bersani vuole modifiche sui licenziamenti per motivi economici. Colloquio con Monti, restano le tensioni. «Il Pd è il partito più leale col governo, pretendo lealtà. Inaccettabile il prendere o lasciare». «Ecco un titolo onesto». Pier Luigi Bersani ha davanti la prima pagina del “Sole 24 Ore”. Indica il titolo d’apertura: «Articolo 18, addio per tutti. No Cgil». E sotto: «La regola generale diventa l’indennizzo». Il leader del Pd scuote la testa. «Noi siamo il partito più leale e più coraggioso con il governo Monti, e per questo pretendo lealtà». La notte appena trascorsa è stata tutt’altro che tranquilla. I dubbi su perché l’esecutivo abbia scelto di chiudere sulla riforma del lavoro senza aver trovato un accordo con tutte le parti sociali non sono dissipati dopo una discussione telefonica con il presidente del Consiglio. Anzi.
La scorsa settimana, al vertice a Palazzo Chigi con anche Alfano e Casini, Bersani aveva avuto da Monti l’assicurazione che il governo avrebbe ricercato non «una rottura da offrire ai mercati» ma in tutti i modi e fino all’ultimo l’intesa. «Così non è stato». E sul tavolo ora c’è un testo fortemente discusso, soprattutto nella parte sull’articolo 18 e i licenziamenti per motivi economici. «È inaccettabile mettermi di fronte a un prendere o lasciare», si sfoga Bersani nei colloqui che ha nel corso della giornata. «Se così fosse si aprirebbe un problema molto serio». Sarà un caso ma per la prima volta da quando Monti è in carica, il leader del Pd non mette in chiaro di fronte ai suoi interlocutori che il suo partito garantirà in ogni caso il sostegno all’esecutivo. «Aspettiamo di sentire il governo, poi valuteremo e diremo la nostra». Una formulazione che in serata, nel corso di “Porta a porta”, si modifica di poco: «Monti non può dire al Pd prendere o lasciare. Voteremo quando saremo convinti».
Il forum Lavoro del Pd ieri si è riunito e già si stanno studiando gli emendamenti da presentare in Parlamento. A cominciare da una norma che preveda il ricorso al giudice per decidere tra reintegro o indennizzo non solo per i licenziamenti discriminatori ma anche per quelli giustificati con motivi economici (per i quali il governo propone il solo indennizzo). «Noi non siamo per creare problemi, siamo per creare soluzioni», dice Bersani. Che in serata in tv annuncia che« il Pd si prende l’impegno di correggere» la parte sui licenziamenti economici e non accetterà il ricorso al decreto legge («non esiste in natura su una materia come questa»).
MODELLO TEDESCO, NON AMERICANO
Bersani vede aspetti positivi nella riforma «ma anche cose che vanno cambiate», e punta tutto sul fatto che in Parlamento le norme che di fatto decreterebbero l’addio all’articolo 18 saranno modificate. «La scelta di fondo è tra il modello americano e quello tedesco», fa notare il leader del Pd. Nel testo presentato da Monti e Fornero alle parti sociali si guarda più al di là dell’Atlantico (o del Pacifico, ironizzano amaramente al Nazareno facendo notare che si rischia il modello di lavoro cinese). «L’addio per tutti al reintegro è una regola non adatta al nostro paese. In Europa il modello migliore è il tedesco». In Germania la decisione è affidata al giudice. Una soluzione che era stata proposta anche dalla Cisl. E quando in Parlamento il Pd presenterà emendamenti che puntano al modello tedesco, è il ragionamento che si fa in queste ore al Nazareno, ai voti democratici si aggiungeranno sicuramente quelli dell’Idv e della Lega, in stabile opposizione a Monti, ma anche del Terzo polo, visto che anche Raffaele Bonanni ha detto che «se il Parlamento ci dà una mano a migliorare il compromesso sull’articolo 18 ben venga».
La cautela però è d’obbligo, in queste ore. Parlando a piazza Montecitorio di fronte al presidente della Regione, ai sindaci e ai presidenti di Provincia delle zone terremotate delle Marche, Bersani insiste sul fatto che «nell’emergenza così come nella crisi, solo con la solidarietà e la coesione si può andare avanti». Parole tutt’altro che casuali. E risponde così ai giornalisti che gli chiedono un commento sulla riforma del lavoro: «Parlo stasera dell’accordo dice facendo riferimento alla puntata di “Porta a porta” se di accordo si può parlare». Un sorriso amaro, che scompare quando poco dopo in Trasatlantico si sfoga con Cesare Damiano: «Chiediamo un passo avanti, deve sparire la distinzione procedurale tra licenziamenti disciplinari ed economici. Lasciamo che sia il giudice a decidere, in entrambi i casi. Se devo concludere la vita dando via libera alla monetizzazione del lavoro, non lo faccio. Per me è una roba inconcepibile». Dice a sera in tv: «Quando non so come decidere mi ispiro a una frase di Berlinguer, essere fedeli agli ideali della propria gioventù. I diritti del lavoro vanno modernizzati, ma devono restare in piedi».
L’Unità 22.03.12
“La battaglia per cambiare”, di Claudio Sardo
Mario Monti ha deciso lo strappo. Non era obbligato a farlo. Anzi, il suo mandato di affrontare l’emergenza economica nel segno della massima unità possibile suggeriva un’altra strada: quella che Ciampi seguì per il «patto sociale» nel ’93. Monti ha compiuto una scelta politica, non tecnica. E ora politica deve essere la risposta: questa riforma dell’art. 18 non è accettabile e va cambiata.
Non è accettabile anzitutto per una ragione di giustizia: se un lavoratore viene licenziato illecitamente, perché il giudice non può comunque disporre il reintegro e deve limitarsi a fissare l’indennizzo? Così il datore di lavoro è nelle condizioni di decidere in modo arbitrario la fine di un rapporto, rischiando al massimo qualche mensilità aggiuntiva.
̀ chiaro che ciò modificherebbe in profondità le relazioni interne a un’impresa, in senso sfavorevole alla dignità e ai diritti del lavoratore: e si può sostenere credibilmente che questo sacrificio sia davvero funzionale a una crescita della produttività, o della competitività del sistema, o degli investimenti esteri, o della fiducia dei mercati, o delle assunzioni dei giovani? Tutti gli indicatori dicono di no. Del resto, su basi molto empiriche, siamo già testimoni del fatto che nelle piccole imprese italiane, nonostante la piena libertà di licenziamento per motivi economici, non ci sia alcuna corsa a nuove assunzioni, né migliore reattività alla crisi.
Tuttavia lo strappo del governo è grave anche sul piano politico, perché sul suo tavolo era possibile comporre un accordo innovativo di grande valore, paragonabile a quello del ’93 sul superamento della scala mobile. In questo complesso negoziato sul mercato del lavoro dove, va detto, accanto a questa soluzione pericolosa, a problemi e lacune, ci sono anche interventi promettenti sugli ammortizzatori sociali e sulla riduzione della precarietà Monti e la ministra Fornero si sono trovati di fronte a una disponibilità inedita dei sindacati, pure in tema di flessibilità in uscita. La disponibilità riguardava l’adozione del «modello tedesco», affidando appunto al giudice la scelta tra reintegro e indennizzo, qualora il licenziamento per motivi economici si rivelasse immotivato. Chi può negare il valore di questa apertura, giunta anche dalla Cgil? Attualmente l’articolo 18 prevede il reintegro nel posto di lavoro come unica sanzione al licenziamento senza giusta causa (e ciò talvolta finisce per essere una limitazione per lo stesso lavoratore, soprattutto quando le cause si protraggono a lungo nel tempo). Se dunque i «mercati» volevano il segno di un cambiamento, il governo avrebbe potuto esibirlo comunque. Anzi, poteva mostrarlo con il rafforzativo della coesione sociale.
Invece Monti ha voluto forzare, scegliendo la soluzione che avrebbe portato alla rottura certa almeno con la Cgil. Come si giustifica il governo? Che il «patto sociale» non ci sarebbe stato in ogni caso nelle forme del ’93, perché difficilmente le parti sociali avrebbero firmato un documento comune. Purtroppo è vero che la mancata definizione di una proposta unitaria Cgil-Cisl-Uil sull’articolo 18 è stata un colpo per gli interessi del mondo del lavoro. Tuttavia queste difficoltà non possono costituire un alibi «tecnico» per il premier. Se i sindacati non sono stati capaci, per varie ragioni (non ultima la pesante eredità della stagione berlusconiana), di rispondere a pieno all’appello del Capo dello Stato, non per questo Monti doveva sottrarsi al proprio dovere di cercare fin dove possibile l’accordo. O comunque di ridurre al minimo le distanze. Il modello tedesco cioè la soluzione giuridica che la Germania adotta in tema di licenziamenti ingiusti era a portata di mano. Per questo la ragione politica della scelta prevale su ogni altra.
E per lo stesso motivo la questione non può considerarsi chiusa. Quella norma va cambiata. Prima che arrivi in Parlamento. O in Parlamento. Non sarà soltanto una battaglia sindacale. Le forze di centrosinistra possono ritrovare un feeling con il loro popolo: e dimostrare così il segno reazionario delle tesi su «i tecnici buoni e i partiti cattivi». Peraltro è in gioco il profilo del governo: se la sua natura sia ancora riconducibile a un impegno di unità nazionale oppure se stia prevalendo la forza di attrazione dei governi europei di centrodestra (che oggi temono l’emergere di un’alternativa progressista a partire dalle elezioni francesi). Nessuno può sostenere in buona fede che una simile battaglia per riportare il governo Monti dalla linea dello strappo a quella della coesione avrebbe un esito di conservazione. Fino a ieri il modello tedesco era la bandiera dei riformisti: fare come in Germania (magari non solo in tema di flessibilità) è un buon obiettivo per un centrosinistra che voglia difendere il modello sociale europeo. Se Monti invece intende compiere il salto dalla Germania ai modelli anglosassoni, in nome di un maggior tasso di liberismo, lo dica. Sarà tutto più chiaro. Il centrosinistra è stato molto leale con lui. Ora tocca al premier.
L’Unità 22.03.12