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“La battaglia per cambiare”, di Claudio Sardo

Mario Monti ha deciso lo strappo. Non era obbligato a farlo. Anzi, il suo mandato di affrontare l’emergenza economica nel segno della massima unità possibile suggeriva un’altra strada: quella che Ciampi seguì per il «patto sociale» nel ’93. Monti ha compiuto una scelta politica, non tecnica. E ora politica deve essere la risposta: questa riforma dell’art. 18 non è accettabile e va cambiata.
Non è accettabile anzitutto per una ragione di giustizia: se un lavoratore viene licenziato illecitamente, perché il giudice non può comunque disporre il reintegro e deve limitarsi a fissare l’indennizzo? Così il datore di lavoro è nelle condizioni di decidere in modo arbitrario la fine di un rapporto, rischiando al massimo qualche mensilità aggiuntiva.
̀ chiaro che ciò modificherebbe in profondità le relazioni interne a un’impresa, in senso sfavorevole alla dignità e ai diritti del lavoratore: e si può sostenere credibilmente che questo sacrificio sia davvero funzionale a una crescita della produttività, o della competitività del sistema, o degli investimenti esteri, o della fiducia dei mercati, o delle assunzioni dei giovani? Tutti gli indicatori dicono di no. Del resto, su basi molto empiriche, siamo già testimoni del fatto che nelle piccole imprese italiane, nonostante la piena libertà di licenziamento per motivi economici, non ci sia alcuna corsa a nuove assunzioni, né migliore reattività alla crisi.
Tuttavia lo strappo del governo è grave anche sul piano politico, perché sul suo tavolo era possibile comporre un accordo innovativo di grande valore, paragonabile a quello del ’93 sul superamento della scala mobile. In questo complesso negoziato sul mercato del lavoro dove, va detto, accanto a questa soluzione pericolosa, a problemi e lacune, ci sono anche interventi promettenti sugli ammortizzatori sociali e sulla riduzione della precarietà Monti e la ministra Fornero si sono trovati di fronte a una disponibilità inedita dei sindacati, pure in tema di flessibilità in uscita. La disponibilità riguardava l’adozione del «modello tedesco», affidando appunto al giudice la scelta tra reintegro e indennizzo, qualora il licenziamento per motivi economici si rivelasse immotivato. Chi può negare il valore di questa apertura, giunta anche dalla Cgil? Attualmente l’articolo 18 prevede il reintegro nel posto di lavoro come unica sanzione al licenziamento senza giusta causa (e ciò talvolta finisce per essere una limitazione per lo stesso lavoratore, soprattutto quando le cause si protraggono a lungo nel tempo). Se dunque i «mercati» volevano il segno di un cambiamento, il governo avrebbe potuto esibirlo comunque. Anzi, poteva mostrarlo con il rafforzativo della coesione sociale.
Invece Monti ha voluto forzare, scegliendo la soluzione che avrebbe portato alla rottura certa almeno con la Cgil. Come si giustifica il governo? Che il «patto sociale» non ci sarebbe stato in ogni caso nelle forme del ’93, perché difficilmente le parti sociali avrebbero firmato un documento comune. Purtroppo è vero che la mancata definizione di una proposta unitaria Cgil-Cisl-Uil sull’articolo 18 è stata un colpo per gli interessi del mondo del lavoro. Tuttavia queste difficoltà non possono costituire un alibi «tecnico» per il premier. Se i sindacati non sono stati capaci, per varie ragioni (non ultima la pesante eredità della stagione berlusconiana), di rispondere a pieno all’appello del Capo dello Stato, non per questo Monti doveva sottrarsi al proprio dovere di cercare fin dove possibile l’accordo. O comunque di ridurre al minimo le distanze. Il modello tedesco cioè la soluzione giuridica che la Germania adotta in tema di licenziamenti ingiusti era a portata di mano. Per questo la ragione politica della scelta prevale su ogni altra.
E per lo stesso motivo la questione non può considerarsi chiusa. Quella norma va cambiata. Prima che arrivi in Parlamento. O in Parlamento. Non sarà soltanto una battaglia sindacale. Le forze di centrosinistra possono ritrovare un feeling con il loro popolo: e dimostrare così il segno reazionario delle tesi su «i tecnici buoni e i partiti cattivi». Peraltro è in gioco il profilo del governo: se la sua natura sia ancora riconducibile a un impegno di unità nazionale oppure se stia prevalendo la forza di attrazione dei governi europei di centrodestra (che oggi temono l’emergere di un’alternativa progressista a partire dalle elezioni francesi). Nessuno può sostenere in buona fede che una simile battaglia per riportare il governo Monti dalla linea dello strappo a quella della coesione avrebbe un esito di conservazione. Fino a ieri il modello tedesco era la bandiera dei riformisti: fare come in Germania (magari non solo in tema di flessibilità) è un buon obiettivo per un centrosinistra che voglia difendere il modello sociale europeo. Se Monti invece intende compiere il salto dalla Germania ai modelli anglosassoni, in nome di un maggior tasso di liberismo, lo dica. Sarà tutto più chiaro. Il centrosinistra è stato molto leale con lui. Ora tocca al premier.

L’Unità 22.03.12

“La battaglia per cambiare”, di Claudio Sardo

Mario Monti ha deciso lo strappo. Non era obbligato a farlo. Anzi, il suo mandato di affrontare l’emergenza economica nel segno della massima unità possibile suggeriva un’altra strada: quella che Ciampi seguì per il «patto sociale» nel ’93. Monti ha compiuto una scelta politica, non tecnica. E ora politica deve essere la risposta: questa riforma dell’art. 18 non è accettabile e va cambiata.
Non è accettabile anzitutto per una ragione di giustizia: se un lavoratore viene licenziato illecitamente, perché il giudice non può comunque disporre il reintegro e deve limitarsi a fissare l’indennizzo? Così il datore di lavoro è nelle condizioni di decidere in modo arbitrario la fine di un rapporto, rischiando al massimo qualche mensilità aggiuntiva.
̀ chiaro che ciò modificherebbe in profondità le relazioni interne a un’impresa, in senso sfavorevole alla dignità e ai diritti del lavoratore: e si può sostenere credibilmente che questo sacrificio sia davvero funzionale a una crescita della produttività, o della competitività del sistema, o degli investimenti esteri, o della fiducia dei mercati, o delle assunzioni dei giovani? Tutti gli indicatori dicono di no. Del resto, su basi molto empiriche, siamo già testimoni del fatto che nelle piccole imprese italiane, nonostante la piena libertà di licenziamento per motivi economici, non ci sia alcuna corsa a nuove assunzioni, né migliore reattività alla crisi.
Tuttavia lo strappo del governo è grave anche sul piano politico, perché sul suo tavolo era possibile comporre un accordo innovativo di grande valore, paragonabile a quello del ’93 sul superamento della scala mobile. In questo complesso negoziato sul mercato del lavoro dove, va detto, accanto a questa soluzione pericolosa, a problemi e lacune, ci sono anche interventi promettenti sugli ammortizzatori sociali e sulla riduzione della precarietà Monti e la ministra Fornero si sono trovati di fronte a una disponibilità inedita dei sindacati, pure in tema di flessibilità in uscita. La disponibilità riguardava l’adozione del «modello tedesco», affidando appunto al giudice la scelta tra reintegro e indennizzo, qualora il licenziamento per motivi economici si rivelasse immotivato. Chi può negare il valore di questa apertura, giunta anche dalla Cgil? Attualmente l’articolo 18 prevede il reintegro nel posto di lavoro come unica sanzione al licenziamento senza giusta causa (e ciò talvolta finisce per essere una limitazione per lo stesso lavoratore, soprattutto quando le cause si protraggono a lungo nel tempo). Se dunque i «mercati» volevano il segno di un cambiamento, il governo avrebbe potuto esibirlo comunque. Anzi, poteva mostrarlo con il rafforzativo della coesione sociale.
Invece Monti ha voluto forzare, scegliendo la soluzione che avrebbe portato alla rottura certa almeno con la Cgil. Come si giustifica il governo? Che il «patto sociale» non ci sarebbe stato in ogni caso nelle forme del ’93, perché difficilmente le parti sociali avrebbero firmato un documento comune. Purtroppo è vero che la mancata definizione di una proposta unitaria Cgil-Cisl-Uil sull’articolo 18 è stata un colpo per gli interessi del mondo del lavoro. Tuttavia queste difficoltà non possono costituire un alibi «tecnico» per il premier. Se i sindacati non sono stati capaci, per varie ragioni (non ultima la pesante eredità della stagione berlusconiana), di rispondere a pieno all’appello del Capo dello Stato, non per questo Monti doveva sottrarsi al proprio dovere di cercare fin dove possibile l’accordo. O comunque di ridurre al minimo le distanze. Il modello tedesco cioè la soluzione giuridica che la Germania adotta in tema di licenziamenti ingiusti era a portata di mano. Per questo la ragione politica della scelta prevale su ogni altra.
E per lo stesso motivo la questione non può considerarsi chiusa. Quella norma va cambiata. Prima che arrivi in Parlamento. O in Parlamento. Non sarà soltanto una battaglia sindacale. Le forze di centrosinistra possono ritrovare un feeling con il loro popolo: e dimostrare così il segno reazionario delle tesi su «i tecnici buoni e i partiti cattivi». Peraltro è in gioco il profilo del governo: se la sua natura sia ancora riconducibile a un impegno di unità nazionale oppure se stia prevalendo la forza di attrazione dei governi europei di centrodestra (che oggi temono l’emergere di un’alternativa progressista a partire dalle elezioni francesi). Nessuno può sostenere in buona fede che una simile battaglia per riportare il governo Monti dalla linea dello strappo a quella della coesione avrebbe un esito di conservazione. Fino a ieri il modello tedesco era la bandiera dei riformisti: fare come in Germania (magari non solo in tema di flessibilità) è un buon obiettivo per un centrosinistra che voglia difendere il modello sociale europeo. Se Monti invece intende compiere il salto dalla Germania ai modelli anglosassoni, in nome di un maggior tasso di liberismo, lo dica. Sarà tutto più chiaro. Il centrosinistra è stato molto leale con lui. Ora tocca al premier.

L’Unità 22.03.12

"Le lauree non saranno più tutte uguali", di Riccardo Luna

Stamattina la campanella suonerà un po’ prima. Alle otto in punto il ministro della Istruzione Francesco Profumo salirà al quarto piano della sede del MIUR, viale di Trastevere, e, in diretta televisiva con il Tg1, premerà il bottone per dare il via alla più importante, drammatica e rivoluzionaria consultazione popolare che si poteva immaginare. Quella sul valore legale del titolo di studio. Un istante dopo sul sito web del ministero compariranno 15 domande alle quali sono tutti chiamati a rispondere, perché tutti sono in qualche modo interessati al tema. Il punto è: quanto valgono davvero una laurea o un diploma? Sono tutte ugual i , a pres c i n d e r e dall’ateneo o dalla scuola dove si sono conseguite e dal tempo impiegato? Oppure quella presa in una istituzione migliore vale di più anche se il voto finale è più basso? E ancora: possono comportare avanzamenti di carriera automatici indipendentemente dalla qualità della didattica? Per sintetizzare in maniera brutale: vale più un bellissimo pezzo di carta o quel che uno sa davvero fare? Chi è per l’abolizione del valore legale, può citare tra i tanti l’esempio di Steve Jobs che ha creato la Apple pur non essendosi mai laureato. Ma, al contrario, per molte professioni la laurea o il diploma appaiono socialmente un requisito essenziale: chi si farebbe estrarre un molare da un dentista senza laurea? Come è evidente, si tratta di questioni tutt’altro che banali, che investonoi fondamenti stessi della nostra società, l’uguaglianza del diritto allo studio, il valore della meritocrazia e le regole per l’accesso al mercato del lavoro. Il tema non è nuovo, anzi: venne lanciato ben 65 anni fa da Luigi Einaudi, l’economista che l’anno seguente, nel 1948, sarebbe diventato il secondo presidente della Repubblica. In un saggio intitolato Vanità dei titoli di studio, Einaudi scriveva: “Ho l’impressione che alla Costituente, in materia di scuola, si corra dietro alle parole più che alla sostanza… Sono vissuto per quasi mezzo secolo nella scuola; ed ho imparato che quei pezzi di carta che si chiamano diplomi di laurea, certificati di licenza valgono meno della carta su cui sono scritti”. Quel saggio è stato ripreso e citato testualmente dal presidente del Consiglio Mario Monti lo scorso 27 gennaio.

Giorno in cui tutti aspettavano l’abolizione del valore legale del titolo di studio, già all’ordine del giorno del consiglio dei ministri, ma poi il dibattito della riunione sul punto era stato acceso e tutt’altro che unanime. Di qui la decisione di Monti di affidare a Profumo il varo di una consultazione pubblica. Che parte oggi nel modo più largo possibile: 15 domandea tutti, un mese di tempo per rispondere, conversazione avviata su Twittere Facebook.

E poi si vedrà. La consultazione non riguarda due aspetti, tenuti volutamente fuori: il valore del titolo di studio ai fini di andare avanti nel sistema scolastico e accademico, ovvero il fatto che serva un diploma per accedere al ciclo di studi successivo; e la sua rilevanza per l’accesso al mondo del lavoro privato, perché è già pressoché nulla. Si è così circoscritto l’obiettivo al valore del titolo di studio per accedere alle professioni o nel pubblico impiego. Anche così gli scenari che possono aprirsi sono rivoluzionari: oggi il titolo di studio è requisito essenziale per accedere all’esame di abilitazione in tante professioni.

Aprire l’esame a tutti, vorrebbe dire coinvolgere molte più persone. Discorso analogo per la pubblica amministrazione dove il titolo di studio, conseguito magari in una università modesta, non varrebbe più un automatico avanzamento di carriera. Quello sul differente valore delle università è un po’ il cuore del problema: può davvero avere lo stesso valore legale una laurea in atenei di qualità tanto diversa? Finora è stato così: negarlo aprirebbe la strada a una concorrenza fortissima fra università dove le più deboli soccomberebbero.

Il ministro Profumo vede anomalie e storture nel sistema attuale ma in questa partita gioca il ruolo di spettatore attivo: tutta la procedura di consultazione è stata resa facile e snella per favorire la massima partecipazione possibile. «Lo scopo è aprire un vero dibattito, far capire a tutti la posta in gioco”» ha detto lunedì incontrando i rappresentanti degli studenti. Intanto, su Twitter è stato annunciato per stamattina un flashmob di protesta davanti al ministero. Si parte.

La Repubblica 22.03.12

“Le lauree non saranno più tutte uguali”, di Riccardo Luna

Stamattina la campanella suonerà un po’ prima. Alle otto in punto il ministro della Istruzione Francesco Profumo salirà al quarto piano della sede del MIUR, viale di Trastevere, e, in diretta televisiva con il Tg1, premerà il bottone per dare il via alla più importante, drammatica e rivoluzionaria consultazione popolare che si poteva immaginare. Quella sul valore legale del titolo di studio. Un istante dopo sul sito web del ministero compariranno 15 domande alle quali sono tutti chiamati a rispondere, perché tutti sono in qualche modo interessati al tema. Il punto è: quanto valgono davvero una laurea o un diploma? Sono tutte ugual i , a pres c i n d e r e dall’ateneo o dalla scuola dove si sono conseguite e dal tempo impiegato? Oppure quella presa in una istituzione migliore vale di più anche se il voto finale è più basso? E ancora: possono comportare avanzamenti di carriera automatici indipendentemente dalla qualità della didattica? Per sintetizzare in maniera brutale: vale più un bellissimo pezzo di carta o quel che uno sa davvero fare? Chi è per l’abolizione del valore legale, può citare tra i tanti l’esempio di Steve Jobs che ha creato la Apple pur non essendosi mai laureato. Ma, al contrario, per molte professioni la laurea o il diploma appaiono socialmente un requisito essenziale: chi si farebbe estrarre un molare da un dentista senza laurea? Come è evidente, si tratta di questioni tutt’altro che banali, che investonoi fondamenti stessi della nostra società, l’uguaglianza del diritto allo studio, il valore della meritocrazia e le regole per l’accesso al mercato del lavoro. Il tema non è nuovo, anzi: venne lanciato ben 65 anni fa da Luigi Einaudi, l’economista che l’anno seguente, nel 1948, sarebbe diventato il secondo presidente della Repubblica. In un saggio intitolato Vanità dei titoli di studio, Einaudi scriveva: “Ho l’impressione che alla Costituente, in materia di scuola, si corra dietro alle parole più che alla sostanza… Sono vissuto per quasi mezzo secolo nella scuola; ed ho imparato che quei pezzi di carta che si chiamano diplomi di laurea, certificati di licenza valgono meno della carta su cui sono scritti”. Quel saggio è stato ripreso e citato testualmente dal presidente del Consiglio Mario Monti lo scorso 27 gennaio.

Giorno in cui tutti aspettavano l’abolizione del valore legale del titolo di studio, già all’ordine del giorno del consiglio dei ministri, ma poi il dibattito della riunione sul punto era stato acceso e tutt’altro che unanime. Di qui la decisione di Monti di affidare a Profumo il varo di una consultazione pubblica. Che parte oggi nel modo più largo possibile: 15 domandea tutti, un mese di tempo per rispondere, conversazione avviata su Twittere Facebook.

E poi si vedrà. La consultazione non riguarda due aspetti, tenuti volutamente fuori: il valore del titolo di studio ai fini di andare avanti nel sistema scolastico e accademico, ovvero il fatto che serva un diploma per accedere al ciclo di studi successivo; e la sua rilevanza per l’accesso al mondo del lavoro privato, perché è già pressoché nulla. Si è così circoscritto l’obiettivo al valore del titolo di studio per accedere alle professioni o nel pubblico impiego. Anche così gli scenari che possono aprirsi sono rivoluzionari: oggi il titolo di studio è requisito essenziale per accedere all’esame di abilitazione in tante professioni.

Aprire l’esame a tutti, vorrebbe dire coinvolgere molte più persone. Discorso analogo per la pubblica amministrazione dove il titolo di studio, conseguito magari in una università modesta, non varrebbe più un automatico avanzamento di carriera. Quello sul differente valore delle università è un po’ il cuore del problema: può davvero avere lo stesso valore legale una laurea in atenei di qualità tanto diversa? Finora è stato così: negarlo aprirebbe la strada a una concorrenza fortissima fra università dove le più deboli soccomberebbero.

Il ministro Profumo vede anomalie e storture nel sistema attuale ma in questa partita gioca il ruolo di spettatore attivo: tutta la procedura di consultazione è stata resa facile e snella per favorire la massima partecipazione possibile. «Lo scopo è aprire un vero dibattito, far capire a tutti la posta in gioco”» ha detto lunedì incontrando i rappresentanti degli studenti. Intanto, su Twitter è stato annunciato per stamattina un flashmob di protesta davanti al ministero. Si parte.

La Repubblica 22.03.12

“Le lauree non saranno più tutte uguali”, di Riccardo Luna

Stamattina la campanella suonerà un po’ prima. Alle otto in punto il ministro della Istruzione Francesco Profumo salirà al quarto piano della sede del MIUR, viale di Trastevere, e, in diretta televisiva con il Tg1, premerà il bottone per dare il via alla più importante, drammatica e rivoluzionaria consultazione popolare che si poteva immaginare. Quella sul valore legale del titolo di studio. Un istante dopo sul sito web del ministero compariranno 15 domande alle quali sono tutti chiamati a rispondere, perché tutti sono in qualche modo interessati al tema. Il punto è: quanto valgono davvero una laurea o un diploma? Sono tutte ugual i , a pres c i n d e r e dall’ateneo o dalla scuola dove si sono conseguite e dal tempo impiegato? Oppure quella presa in una istituzione migliore vale di più anche se il voto finale è più basso? E ancora: possono comportare avanzamenti di carriera automatici indipendentemente dalla qualità della didattica? Per sintetizzare in maniera brutale: vale più un bellissimo pezzo di carta o quel che uno sa davvero fare? Chi è per l’abolizione del valore legale, può citare tra i tanti l’esempio di Steve Jobs che ha creato la Apple pur non essendosi mai laureato. Ma, al contrario, per molte professioni la laurea o il diploma appaiono socialmente un requisito essenziale: chi si farebbe estrarre un molare da un dentista senza laurea? Come è evidente, si tratta di questioni tutt’altro che banali, che investonoi fondamenti stessi della nostra società, l’uguaglianza del diritto allo studio, il valore della meritocrazia e le regole per l’accesso al mercato del lavoro. Il tema non è nuovo, anzi: venne lanciato ben 65 anni fa da Luigi Einaudi, l’economista che l’anno seguente, nel 1948, sarebbe diventato il secondo presidente della Repubblica. In un saggio intitolato Vanità dei titoli di studio, Einaudi scriveva: “Ho l’impressione che alla Costituente, in materia di scuola, si corra dietro alle parole più che alla sostanza… Sono vissuto per quasi mezzo secolo nella scuola; ed ho imparato che quei pezzi di carta che si chiamano diplomi di laurea, certificati di licenza valgono meno della carta su cui sono scritti”. Quel saggio è stato ripreso e citato testualmente dal presidente del Consiglio Mario Monti lo scorso 27 gennaio.

Giorno in cui tutti aspettavano l’abolizione del valore legale del titolo di studio, già all’ordine del giorno del consiglio dei ministri, ma poi il dibattito della riunione sul punto era stato acceso e tutt’altro che unanime. Di qui la decisione di Monti di affidare a Profumo il varo di una consultazione pubblica. Che parte oggi nel modo più largo possibile: 15 domandea tutti, un mese di tempo per rispondere, conversazione avviata su Twittere Facebook.

E poi si vedrà. La consultazione non riguarda due aspetti, tenuti volutamente fuori: il valore del titolo di studio ai fini di andare avanti nel sistema scolastico e accademico, ovvero il fatto che serva un diploma per accedere al ciclo di studi successivo; e la sua rilevanza per l’accesso al mondo del lavoro privato, perché è già pressoché nulla. Si è così circoscritto l’obiettivo al valore del titolo di studio per accedere alle professioni o nel pubblico impiego. Anche così gli scenari che possono aprirsi sono rivoluzionari: oggi il titolo di studio è requisito essenziale per accedere all’esame di abilitazione in tante professioni.

Aprire l’esame a tutti, vorrebbe dire coinvolgere molte più persone. Discorso analogo per la pubblica amministrazione dove il titolo di studio, conseguito magari in una università modesta, non varrebbe più un automatico avanzamento di carriera. Quello sul differente valore delle università è un po’ il cuore del problema: può davvero avere lo stesso valore legale una laurea in atenei di qualità tanto diversa? Finora è stato così: negarlo aprirebbe la strada a una concorrenza fortissima fra università dove le più deboli soccomberebbero.

Il ministro Profumo vede anomalie e storture nel sistema attuale ma in questa partita gioca il ruolo di spettatore attivo: tutta la procedura di consultazione è stata resa facile e snella per favorire la massima partecipazione possibile. «Lo scopo è aprire un vero dibattito, far capire a tutti la posta in gioco”» ha detto lunedì incontrando i rappresentanti degli studenti. Intanto, su Twitter è stato annunciato per stamattina un flashmob di protesta davanti al ministero. Si parte.

La Repubblica 22.03.12

"Decreto semplificazioni: ok Commissione Cultura Senato", di R.P. da La Tecnica della Scuola

I senatori confermano l’ossimoro dell’articolo 50: “organico funzionale ad inviarianza di spesa”. Nessuna proposta di modifica neppure agli altri articoli relativi alla scuola. In due sedute, svoltesi il 20 e il 21 marzo, la Commissione Cultura del Senato ha esaminato e licenziato favorevolmente il decreto semplificazioni.
Il provvedimento è stato presentato in Commissione dai senatori Asciutti (Pdl), che si è soffermato soprattutto sugli aspetti riguardanti università e ricerca e Rusconi (Pd) che ha illustrato gli articoli relativi all’istruzione.
Alla fine il parere emesso dalla Commissione è sostanzialmente positivo anche se in merito all’articolo 50, i senatori esprimono “rammarico per la mancata integrazione dell’organico dell’autonomia di diecimila ulteriori posti, nonchè per il carattere incerto dei fondi destinati alla definizione della consistenza numerica massima degli organici”.
La Commissione chiede anche che si approfondisca un aspetto decisivo del provvedimento: come si potrà gestire l’aumento delle classi senza un corrispondente aumento di cattedre ?
E infatti i senatori sottolineano che “deve comunque essere fatta salva l’eventuale variazione di organico derivante dalla consistenza della popolazione scolastica”.
In merito agli stanziamenti destinati all’edilizia la Commissione evidenzia poi che
“data la scarsità di risorse statali rispetto alle reali necessità per la messa in sicurezza delle scuole, si esprime l’auspicio che i fondi stanziati a tale fine dagli enti locali siano esclusi dal patto di stabilità”.
Nei prossimi giorni il decreto dovrà passare al vaglio della Commissione Bilancio che avrebbe la possibilità di apportare qualche modifica, ma ormai sembra che i giochi siano fatti anche perché eventuali correzioni al provvedimento potrebbero mettere in discussione i delicati equilibri politici che hanno consentito di arrivare alla formulazione attuale.
Per il momento, insomma, la scuola deve rassegnarsi a fare i conti con organici funzionali ad “invarianza di spesa”.

La Tecnica della Scuola 22.03.12

“Decreto semplificazioni: ok Commissione Cultura Senato”, di R.P. da La Tecnica della Scuola

I senatori confermano l’ossimoro dell’articolo 50: “organico funzionale ad inviarianza di spesa”. Nessuna proposta di modifica neppure agli altri articoli relativi alla scuola. In due sedute, svoltesi il 20 e il 21 marzo, la Commissione Cultura del Senato ha esaminato e licenziato favorevolmente il decreto semplificazioni.
Il provvedimento è stato presentato in Commissione dai senatori Asciutti (Pdl), che si è soffermato soprattutto sugli aspetti riguardanti università e ricerca e Rusconi (Pd) che ha illustrato gli articoli relativi all’istruzione.
Alla fine il parere emesso dalla Commissione è sostanzialmente positivo anche se in merito all’articolo 50, i senatori esprimono “rammarico per la mancata integrazione dell’organico dell’autonomia di diecimila ulteriori posti, nonchè per il carattere incerto dei fondi destinati alla definizione della consistenza numerica massima degli organici”.
La Commissione chiede anche che si approfondisca un aspetto decisivo del provvedimento: come si potrà gestire l’aumento delle classi senza un corrispondente aumento di cattedre ?
E infatti i senatori sottolineano che “deve comunque essere fatta salva l’eventuale variazione di organico derivante dalla consistenza della popolazione scolastica”.
In merito agli stanziamenti destinati all’edilizia la Commissione evidenzia poi che
“data la scarsità di risorse statali rispetto alle reali necessità per la messa in sicurezza delle scuole, si esprime l’auspicio che i fondi stanziati a tale fine dagli enti locali siano esclusi dal patto di stabilità”.
Nei prossimi giorni il decreto dovrà passare al vaglio della Commissione Bilancio che avrebbe la possibilità di apportare qualche modifica, ma ormai sembra che i giochi siano fatti anche perché eventuali correzioni al provvedimento potrebbero mettere in discussione i delicati equilibri politici che hanno consentito di arrivare alla formulazione attuale.
Per il momento, insomma, la scuola deve rassegnarsi a fare i conti con organici funzionali ad “invarianza di spesa”.

La Tecnica della Scuola 22.03.12