Latest Posts

Democrazia paritaria con le parlamentari Sesa Amici ed Emilia De Biasi

Incontro fissato per venerdì 23 marzo e promosso dalla Conferenza delle donne Pd. Venerdì 23 marzo, alle ore 21.00, a Palazzo Europa si parla di “Democrazia paritaria, una buona legge elettorale per una buona politica” con le deputate Sesa Amici e Emilia De Biasi, due delle firmatarie di una proposta di legge per la promozione della rappresentanza di genere nei Consigli regionali e negli enti locali. L’iniziativa, promossa dalla Conferenza delle donne, segna l’avvio dell’impegno politico del Pd per introdurre regole di democrazia paritaria nella legge regionale dell’Emilia-Romagna.

Le donne sono in maggioranza nel corpo elettorale, hanno già dimostrato il loro valore nel mondo del lavoro, delle professioni e delle imprese, eppure faticano ancora ad avere una adeguata rappresentanza di genere nelle istituzioni: insomma, a livello locale, ma soprattutto a livello nazionale, ad avere in mano le leve del comando e del potere politico sono ancora gli uomini. In Italia, solo per citare gli esempi più clamorosi, non abbiamo mai avuto un Presidente della Repubblica donna, né un Primo ministro donna. Se guardiamo, poi, a questa legislatura, sono donne solo il 21 % dei deputati e il 18% dei senatori. Ci collochiamo pari merito con la Cina, seguiti a breve distanza dalla Cambogia. Eppure non solo il sentire delle persone è cambiato, anche la legislazione, il dettato costituzionale e, di conseguenza, gli orientamenti della Corte Costituzionale stanno progressivamente mutando aprendosi alla necessità di un riequilibrio nella rappresentanza dei generi (come dimostrano le recenti sentenze del Tar sulle Giunte del Comune di Roma e della Regione Campania). Nel 2010 alla Camera dei Deputati è stata presentata una specifica proposta di legge che si propone di incentivare una maggiore presenza femminile nelle istituzioni ad ogni livello, partendo da quelli territoriali. Prima firmataria Sesa Amici, insieme a parlamentari modenesi del Pd come Manuela Ghizzoni, Laura Garavini e Ivano Miglioli. Ebbene proprio Sesa Amici e un’altra parlamentare firmataria del progetto di legge Emilia De Biasi sono le protagoniste della serata organizzata per venerdì 23 marzo dal Coordinamento provinciale di Modena della Conferenza delle donne del Pd. L’appuntamento è a Palazzo Europa a partire dalle ore 21.00: ad aprire i lavori Caterina liotti, coordinatrice della Conferenza provinciale delle Democratiche. Intervisterà le deputate Sesa e De Biasi la giornalista di Trc-Telemodena Cristina Provenzano. All’iniziativa saranno, inoltre, presenti il segretario provinciale del Pd Davide Baruffi, il senatore Giuliano Barbolini, la senatrice Mariangela Bastico, la deputata Manuela Ghizzoni e il deputato Ivano Miglioli. “La serata – sottolinea Caterina Liotti – è la prima tappa del percorso politico tracciato dall’Assemblea regionale delle Democratiche per promuovere la modifica della legge elettorale della Regione Emilia-Romagna introducendo regole che garantiscano una rappresentanza paritaria di genere nelle liste e nelle Giunte”.

"Welfare e donne", di Giuliana Ferraino

Norma contro le dimissioni in bianco e una sperimentazione dei congedi di paternità obbligatori per tre anni, finanziata del ministero del Lavoro. Sono le due novità uscite ieri dall’incontro tra governo e parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro. Insieme all’accordo raggiunto sulla data: i nuovi ammortizzatori sociali, uno dei pilastri della riforma, entreranno in vigore, a regime, dal 2017, come avevano chiesto le parti sociali al ministro del Welfare, Elsa Fornero, che invece aveva proposto il 2015 come data d’inizio. E’ un fatto non da poco. Significa che si avrà una fase transitoria, con un’applicazione graduale dei nuovi strumenti di sostegno al reddito in caso di perdita del lavoro.
La sperimentazione dei congedi di paternità obbligatori «è un modo per far cambiare la mentalità: la maternità non è un fatto solo di donne. Bisogna conciliare i tempi del lavoro con quelli della famiglia», ha spiegato il ministro Fornero.
Ma è il capitolo sugli ammortizzatori sociali a rappresentare un cambiamento «rivoluzionario», almeno per il nostro Paese: invece di difendere il posto di lavoro, con il nuovo sistema di ammortizzatori si punta a proteggere il lavoratore. E’ un salto culturale indispensabile per aumentare flessibilità in entrata e in uscita e favorire l’ingresso dei giovani. Non a caso la discussione sugli ammortizzatori è avvenuta prima di qualsiasi altro tema e ha messo d’accordo le parti. L’obiettivo è che «il lavoratore non sia lasciato solo nel deserto», afferma Fornero aggiungendo che la quantificazione delle risorse addizionali per l’estensione degli ammortizzatori sociali è stata fatta crescere fino a 1,7-1,8 miliardi di euro e che non manca la copertura.
Anche il sindacato ha apprezzato: «Siamo soddisfatti sugli ammortizzatori che sono stati confermati», ha commentato ieri il leader della Cisl Raffaele Bonanni. Anche se «serve il mantenimento dei contratti di solidarietà come avviene in Germania e occorrono maggiori politiche attive per il reimpiego», ha poi aggiunto. Insomma, la strada è giusta, ma può essere ancora migliorata. La trattativa tra le parti sociali riprenderà domani alle 16.
Alla base del nuovo sistema di sostegno al reddito c’è l’Aspi, l’acronimo sta per Assicurazione sociale per l’impiego. La nuova assicurazione andrà a sostituire l’indennità di mobilità, di disoccupazione ordinaria, con requisiti ridotti e quella speciale edili. Con gli attuali strumenti, secondo il governo, prevale la tutela nel posto di lavoro anche nei casi in cui la ripresa dell’attività lavorativa è altamente improbabile. E dunque la tutela si configura soprattutto come uno scovolo assai lungo verso la pensione.
L’Aspi dovrebbe essere uno strumento universale di assicurazione del rischio di disoccupazione involontaria, che possa coprire in proporzione anche i lavoratori con minore esperienza lavorativa. Uno dei punti deboli degli attuali ammortizzatori è che non includono i lavoratori che hanno contratti atipici e, dunque, la maggioranza dei giovani. La riforma punta invece ad allargare l’ombrello anche su di loro.
Per poter accedere all’Aspi si devono avere gli stessi requisiti che attualmente permettono di fruire dell’indennità di disoccupazione ordinaria: due anni di anzianità assicurativa e almeno 52 settimane nell’ultimo biennio. Più ampio invece l’ambito di applicazione, che sarà esteso anche agli apprendisti e agli artisti dipendenti che oggi sono esclusi da ogni strumento di sostegno del reddito.
L’assegno avrà un importo massimo di 1.119,32 euro, con abbattimento dell’indennità del 15% dopo i primi 6 mesi e un ulteriore 15% di abbattimento dopo altri 6 mesi. Durerà fino a 12 mesi per i lavoratori con meno di 55 anni di età; 18 mesi per chi avrà almeno 55 anni. Tutti i lavoratori dovranno contribuire all’Aspi, con modalità diverse a seconda della forma contrattuale: l’aliquota sarà dell’1,3% per chi è assunto a tempo indeterminato; incrementata di un’aliquota aggiuntiva dell’1,4% per gli altri.
La scomparsa della mobilità rischia di penalizzare soprattutto i lavoratori over 50. Se i giovani con l’Aspi guadagnano in termini di copertura e di soldi, si indebolisce la protezione dei lavoratori anziani, cioè quelli con maggiori difficoltà a reinserisi nel mondo del lavoro. Con l’Aspi le aziende perderanno infatti lo sgravio fiscale di cui beneficiano se assumono i lavoratori in mobilità.
L’introduzione graduale degli ammortizzatori sociali darebbe più tempo ai lavoratori anziani in mobilità di arrivare alla pensione, anche grazie al sostegno dei contributi aziendali. Oggi in caso di licenziamenti collettivi la mobilità può arrivare fino a 48 mesi per gli ultracinquantenni al Sud. Con la proposta del governo questo istituto verrebbe cancellato, ma potrebbe essere sostituito da un fondo di solidarietà, dal quale attingere un sussidio per i lavoratori che raggiungerebbero la pensione entro i 4 anni dal licenziamento. Salterebbe quindi il contributo previsto dal governo, dello 0,3% della retribuzione per la mobilità a carico delle aziende che possono usufruire di questo strumento (le imprese industriali con almeno 15 dipendenti o quelle commerciali con almeno 200 lavoratori). Le aziende però si troverebbero a pagare un «contributo di licenziamento»: mezza mensilità ogni anno per gli ultimi 3 anni.
La riforma degli ammortizzatori sociali non tocca la cassa integrazione ordinaria e straordinaria, ma introduce fondi di solidarietà per superare la cassa integrazione in deroga, attualmente a carico dello Stato e che è stata introdotta dall’ex ministro del Welfare Maurizio Sacconi nel 2009, per estendere il sussidio anche alle piccole imprese e ai settori esclusi dalla Cig.

Il Corriere della Sera 21.03.12

“Welfare e donne”, di Giuliana Ferraino

Norma contro le dimissioni in bianco e una sperimentazione dei congedi di paternità obbligatori per tre anni, finanziata del ministero del Lavoro. Sono le due novità uscite ieri dall’incontro tra governo e parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro. Insieme all’accordo raggiunto sulla data: i nuovi ammortizzatori sociali, uno dei pilastri della riforma, entreranno in vigore, a regime, dal 2017, come avevano chiesto le parti sociali al ministro del Welfare, Elsa Fornero, che invece aveva proposto il 2015 come data d’inizio. E’ un fatto non da poco. Significa che si avrà una fase transitoria, con un’applicazione graduale dei nuovi strumenti di sostegno al reddito in caso di perdita del lavoro.
La sperimentazione dei congedi di paternità obbligatori «è un modo per far cambiare la mentalità: la maternità non è un fatto solo di donne. Bisogna conciliare i tempi del lavoro con quelli della famiglia», ha spiegato il ministro Fornero.
Ma è il capitolo sugli ammortizzatori sociali a rappresentare un cambiamento «rivoluzionario», almeno per il nostro Paese: invece di difendere il posto di lavoro, con il nuovo sistema di ammortizzatori si punta a proteggere il lavoratore. E’ un salto culturale indispensabile per aumentare flessibilità in entrata e in uscita e favorire l’ingresso dei giovani. Non a caso la discussione sugli ammortizzatori è avvenuta prima di qualsiasi altro tema e ha messo d’accordo le parti. L’obiettivo è che «il lavoratore non sia lasciato solo nel deserto», afferma Fornero aggiungendo che la quantificazione delle risorse addizionali per l’estensione degli ammortizzatori sociali è stata fatta crescere fino a 1,7-1,8 miliardi di euro e che non manca la copertura.
Anche il sindacato ha apprezzato: «Siamo soddisfatti sugli ammortizzatori che sono stati confermati», ha commentato ieri il leader della Cisl Raffaele Bonanni. Anche se «serve il mantenimento dei contratti di solidarietà come avviene in Germania e occorrono maggiori politiche attive per il reimpiego», ha poi aggiunto. Insomma, la strada è giusta, ma può essere ancora migliorata. La trattativa tra le parti sociali riprenderà domani alle 16.
Alla base del nuovo sistema di sostegno al reddito c’è l’Aspi, l’acronimo sta per Assicurazione sociale per l’impiego. La nuova assicurazione andrà a sostituire l’indennità di mobilità, di disoccupazione ordinaria, con requisiti ridotti e quella speciale edili. Con gli attuali strumenti, secondo il governo, prevale la tutela nel posto di lavoro anche nei casi in cui la ripresa dell’attività lavorativa è altamente improbabile. E dunque la tutela si configura soprattutto come uno scovolo assai lungo verso la pensione.
L’Aspi dovrebbe essere uno strumento universale di assicurazione del rischio di disoccupazione involontaria, che possa coprire in proporzione anche i lavoratori con minore esperienza lavorativa. Uno dei punti deboli degli attuali ammortizzatori è che non includono i lavoratori che hanno contratti atipici e, dunque, la maggioranza dei giovani. La riforma punta invece ad allargare l’ombrello anche su di loro.
Per poter accedere all’Aspi si devono avere gli stessi requisiti che attualmente permettono di fruire dell’indennità di disoccupazione ordinaria: due anni di anzianità assicurativa e almeno 52 settimane nell’ultimo biennio. Più ampio invece l’ambito di applicazione, che sarà esteso anche agli apprendisti e agli artisti dipendenti che oggi sono esclusi da ogni strumento di sostegno del reddito.
L’assegno avrà un importo massimo di 1.119,32 euro, con abbattimento dell’indennità del 15% dopo i primi 6 mesi e un ulteriore 15% di abbattimento dopo altri 6 mesi. Durerà fino a 12 mesi per i lavoratori con meno di 55 anni di età; 18 mesi per chi avrà almeno 55 anni. Tutti i lavoratori dovranno contribuire all’Aspi, con modalità diverse a seconda della forma contrattuale: l’aliquota sarà dell’1,3% per chi è assunto a tempo indeterminato; incrementata di un’aliquota aggiuntiva dell’1,4% per gli altri.
La scomparsa della mobilità rischia di penalizzare soprattutto i lavoratori over 50. Se i giovani con l’Aspi guadagnano in termini di copertura e di soldi, si indebolisce la protezione dei lavoratori anziani, cioè quelli con maggiori difficoltà a reinserisi nel mondo del lavoro. Con l’Aspi le aziende perderanno infatti lo sgravio fiscale di cui beneficiano se assumono i lavoratori in mobilità.
L’introduzione graduale degli ammortizzatori sociali darebbe più tempo ai lavoratori anziani in mobilità di arrivare alla pensione, anche grazie al sostegno dei contributi aziendali. Oggi in caso di licenziamenti collettivi la mobilità può arrivare fino a 48 mesi per gli ultracinquantenni al Sud. Con la proposta del governo questo istituto verrebbe cancellato, ma potrebbe essere sostituito da un fondo di solidarietà, dal quale attingere un sussidio per i lavoratori che raggiungerebbero la pensione entro i 4 anni dal licenziamento. Salterebbe quindi il contributo previsto dal governo, dello 0,3% della retribuzione per la mobilità a carico delle aziende che possono usufruire di questo strumento (le imprese industriali con almeno 15 dipendenti o quelle commerciali con almeno 200 lavoratori). Le aziende però si troverebbero a pagare un «contributo di licenziamento»: mezza mensilità ogni anno per gli ultimi 3 anni.
La riforma degli ammortizzatori sociali non tocca la cassa integrazione ordinaria e straordinaria, ma introduce fondi di solidarietà per superare la cassa integrazione in deroga, attualmente a carico dello Stato e che è stata introdotta dall’ex ministro del Welfare Maurizio Sacconi nel 2009, per estendere il sussidio anche alle piccole imprese e ai settori esclusi dalla Cig.

Il Corriere della Sera 21.03.12

"Se i cinesi ammirano l'università italiana", di Maria Chiara Carozza*

L’intervistatrice di un giornale cinese nella megalopoli di Chongqing, dove mi trovavo,mi ha posto pochi giorni questa domanda: perché molti giovani cinesi vengono volentieri a studiare a Pisa, nonostante la grave crisi economica che ha colpito Italia ed Europa? A questa domanda ho risposto con quella che mi sembra un’elementare verità: l’istruzione universitaria italiana, checché se ne obbietti da destra e da sinistra, ha un rapporto fra costo e qualità ancora assai buono. Si può diventare medico o ingegnere in una Università pubblica, e sottolineo pubblica, con una preparazione competitiva a livello internazionale, senza sostenere costi elevati come in altri Paesi, che hanno di fatto scelto la strada della sostenibilità attraverso l’innalzamento incontrollato delle tasse universitarie. Questa è la sostanziale differenza fra un’impostazione che punta all’equità e alle pari opportunità piuttosto che al prevalente interesse di singoli individui o di particolari élites. Certo, la nostra Università ha bisogno di una vera modernizzazione, ma partendo da queste basi, non distruggendole. Intanto, si pone il problema dei costi. È necessario alzare le tasse? Ma gli studenti universitari non sono «clienti», bensì cittadini in formazione per inserirsi nel sistema produttivo e culturale. Dunque, piuttosto che l’innalzamento indiscriminato del prezzo dell’istruzione, serve avviare una politica fiscale equa che consenta una tassazione progressiva equilibrata. Valore legale del titolo di studio? Questione importante e forse giusta, ma in sé mal posta, che non entra mai nel merito delle singole professionalità e destinazioni. Mal posta come molte altre che prescindono da una visione generale del sistema universitario e della ricerca: non esiste il singolo provvedimento risolutivo, anzi c’è il rischio di ritocchi apparentemente innovativi, ma che possono dar luogo a fenomeni di instabilità o desertificazione. Aumento delle tasse più abolizione valore legale? Cioè affidamento al cosiddetto mercato della esistenza stessa e della distribuzione sul territorio delle Università e dei centri di ricerca?O non è necessario, tanto più in fase di evoluzione in senso federalista, un disegno di coesione sociale e di sviluppo territoriale equilibrato nell’interesse nazionale, dal quale far conseguire provvedimenti mirati di razionalizzazione, ricambio generazionale, investimenti in aree e settori strategici? Anche in campo universitario i provvedimenti tecnici devono ispirarsi alle scelte politiche. La tecnica può essere utilizzata quando si deve fare la «spending review», ma quandosi deve programmare la crescita non si può fare a meno della politica.

*Rettore Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa
L’Unità 21.03.12

“Se i cinesi ammirano l’università italiana”, di Maria Chiara Carozza*

L’intervistatrice di un giornale cinese nella megalopoli di Chongqing, dove mi trovavo,mi ha posto pochi giorni questa domanda: perché molti giovani cinesi vengono volentieri a studiare a Pisa, nonostante la grave crisi economica che ha colpito Italia ed Europa? A questa domanda ho risposto con quella che mi sembra un’elementare verità: l’istruzione universitaria italiana, checché se ne obbietti da destra e da sinistra, ha un rapporto fra costo e qualità ancora assai buono. Si può diventare medico o ingegnere in una Università pubblica, e sottolineo pubblica, con una preparazione competitiva a livello internazionale, senza sostenere costi elevati come in altri Paesi, che hanno di fatto scelto la strada della sostenibilità attraverso l’innalzamento incontrollato delle tasse universitarie. Questa è la sostanziale differenza fra un’impostazione che punta all’equità e alle pari opportunità piuttosto che al prevalente interesse di singoli individui o di particolari élites. Certo, la nostra Università ha bisogno di una vera modernizzazione, ma partendo da queste basi, non distruggendole. Intanto, si pone il problema dei costi. È necessario alzare le tasse? Ma gli studenti universitari non sono «clienti», bensì cittadini in formazione per inserirsi nel sistema produttivo e culturale. Dunque, piuttosto che l’innalzamento indiscriminato del prezzo dell’istruzione, serve avviare una politica fiscale equa che consenta una tassazione progressiva equilibrata. Valore legale del titolo di studio? Questione importante e forse giusta, ma in sé mal posta, che non entra mai nel merito delle singole professionalità e destinazioni. Mal posta come molte altre che prescindono da una visione generale del sistema universitario e della ricerca: non esiste il singolo provvedimento risolutivo, anzi c’è il rischio di ritocchi apparentemente innovativi, ma che possono dar luogo a fenomeni di instabilità o desertificazione. Aumento delle tasse più abolizione valore legale? Cioè affidamento al cosiddetto mercato della esistenza stessa e della distribuzione sul territorio delle Università e dei centri di ricerca?O non è necessario, tanto più in fase di evoluzione in senso federalista, un disegno di coesione sociale e di sviluppo territoriale equilibrato nell’interesse nazionale, dal quale far conseguire provvedimenti mirati di razionalizzazione, ricambio generazionale, investimenti in aree e settori strategici? Anche in campo universitario i provvedimenti tecnici devono ispirarsi alle scelte politiche. La tecnica può essere utilizzata quando si deve fare la «spending review», ma quandosi deve programmare la crescita non si può fare a meno della politica.

*Rettore Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa
L’Unità 21.03.12

“Se i cinesi ammirano l’università italiana”, di Maria Chiara Carozza*

L’intervistatrice di un giornale cinese nella megalopoli di Chongqing, dove mi trovavo,mi ha posto pochi giorni questa domanda: perché molti giovani cinesi vengono volentieri a studiare a Pisa, nonostante la grave crisi economica che ha colpito Italia ed Europa? A questa domanda ho risposto con quella che mi sembra un’elementare verità: l’istruzione universitaria italiana, checché se ne obbietti da destra e da sinistra, ha un rapporto fra costo e qualità ancora assai buono. Si può diventare medico o ingegnere in una Università pubblica, e sottolineo pubblica, con una preparazione competitiva a livello internazionale, senza sostenere costi elevati come in altri Paesi, che hanno di fatto scelto la strada della sostenibilità attraverso l’innalzamento incontrollato delle tasse universitarie. Questa è la sostanziale differenza fra un’impostazione che punta all’equità e alle pari opportunità piuttosto che al prevalente interesse di singoli individui o di particolari élites. Certo, la nostra Università ha bisogno di una vera modernizzazione, ma partendo da queste basi, non distruggendole. Intanto, si pone il problema dei costi. È necessario alzare le tasse? Ma gli studenti universitari non sono «clienti», bensì cittadini in formazione per inserirsi nel sistema produttivo e culturale. Dunque, piuttosto che l’innalzamento indiscriminato del prezzo dell’istruzione, serve avviare una politica fiscale equa che consenta una tassazione progressiva equilibrata. Valore legale del titolo di studio? Questione importante e forse giusta, ma in sé mal posta, che non entra mai nel merito delle singole professionalità e destinazioni. Mal posta come molte altre che prescindono da una visione generale del sistema universitario e della ricerca: non esiste il singolo provvedimento risolutivo, anzi c’è il rischio di ritocchi apparentemente innovativi, ma che possono dar luogo a fenomeni di instabilità o desertificazione. Aumento delle tasse più abolizione valore legale? Cioè affidamento al cosiddetto mercato della esistenza stessa e della distribuzione sul territorio delle Università e dei centri di ricerca?O non è necessario, tanto più in fase di evoluzione in senso federalista, un disegno di coesione sociale e di sviluppo territoriale equilibrato nell’interesse nazionale, dal quale far conseguire provvedimenti mirati di razionalizzazione, ricambio generazionale, investimenti in aree e settori strategici? Anche in campo universitario i provvedimenti tecnici devono ispirarsi alle scelte politiche. La tecnica può essere utilizzata quando si deve fare la «spending review», ma quandosi deve programmare la crescita non si può fare a meno della politica.

*Rettore Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa
L’Unità 21.03.12

"Il male oscuro dell'Europa", di Barbara Spinelli

Tutti ci stiamo trasformando, senza quasi accorgercene, in tecnici della crisi che traversiamo: strani bipedi in mutazione, sensibili a ogni curva economica tranne che alle curve dell´animo e del crimine. L´occhio è fisso sullo spread, scruta maniacalmente titoli di Stato e Bund, guata parametri trasgrediti e discipline finanziarie da restaurare al più presto. Fino a quando, un nefasto mattino, qualcosa di enorme ci fa sobbalzare sotto le coperte del letto e ci apre gli occhi: un male oscuro, che è secrezione della crisi non meno delle cifre di bilancio ma che incide sulla carne viva, spargendo sangue umano. La carneficina alla scuola ebraica di Tolosa è questo sparo nel deserto, che ci sveglia d´un colpo e ci immette in una nuova realtà, più vasta e più notturna. Come in una gigantesca metamorfosi, siamo tramutati in animali umani costretti a vedere quello che da mesi, da anni, coltiviamo nel nostro seno senza curarcene. Il naufragio del sogno europeo, emblema di riconciliazione dopo secoli di guerre, e di vittoria sulle violenze di cui Europa è stata capace, partorisce mostri. Non stupisce che il mostro colpisca ancora una volta l´ebreo, capro espiatorio per eccellenza, modello di tutti i capri e di tutti i diversi che assillano le menti quando son catturate da allucinazioni di terrene apocalissi.
In tedesco usano la parola Amok (in indonesiano significa «uccisione-linciaggio in un impulso d´ira incontrollata»), e tale è stato l´attacco di lunedì alla scuola di Tolosa. Uno squilibrato, ma abbastanza freddo da uccidere serialmente, ammazza in 15 minuti il maestro Jonathan Sandler, due suoi figli di 4 e 5 anni (Gabriel e Arieh), una bambina di 7, Myriam. Chi cade preda dell´amok è imprevedibile e socialmente reietto, ma se ha potuto concepire il crimine (e spesso parlarne sul web) vuol dire che per lungo tempo non si è badato al pericolo, che l´ambiente da cui viene era privo di difese immunitarie. I massacri nelle scuole sono considerati episodi tipici del comportamento amok. Nella cultura malese l´assalto amok evoca lo stato di guerra, ma l´omicida seriale interiorizza la guerra. La spedizione militare è condotta da individui che vivono nel nascosto, ed escono allo scoperto in una sorta di raptus. Non dimentichiamo che il nazismo quando prese il sopravvento aveva caratteristiche affini, e assecondava la furia amok: «Marcia senza approdo, barcollamento senza ebbrezza, fede senza Dio», così lo scrittore socialdemocratico Konrad Heiden descriveva, nel 1936, la caduta di milioni di tedeschi nel nazismo e nell´«era dell´irresponsabilità». È nelle furie di quei tempi che hanno radice i contemporanei massacri palingenetici, e anche lo spavento stupefatto che scatenano. Non era stato detto, a proposito delle fobie annientatrici: «Mai più?». Invece tornano, perché un tabù infranto lo è per secoli ancora. Il piccolo racconto di Zweig (Amok è il titolo) racconta proprio questo: l´esplosione in mezzo a bonacce apparenti di una “follia rabbiosa, una specie di idrofobia umana… un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a nessun´altra intossicazione alcolica”. Un torbido passato ha fatto del medico protagonista un mutante: nella solitudine si sente «come un ragno nella sua tela, immobile da mesi». Amok è scritto nei primi anni Venti: un´epoca non meno vacillante della nostra. Già prima del ´14-18, Thomas Mann vedeva l´Europa sommersa da «nervosità estrema».
«L´amok è così – spiega Zweig nel racconto– all´improvviso balza in piedi, afferra il pugnale e corre in strada… Chi gli si para davanti, essere umano o animale, viene trafitto dal suo kris (pugnale, in malese, ndr), e l´orgia di sangue non fa che eccitarlo maggiormente… Mentre corre, ha la schiuma alle labbra e urla come un forsennato… ma continua a correre e correre, senza guardare né a destra né a sinistra, corre e basta. L´ossesso corre senza sentire… finché non lo ammazzano a fucilate come un cane rabbioso, oppure crolla da solo, sbavando». Ci furono opere profetiche, negli anni ´20-´30: i film Metropolis e Dottor Mabuse di Fritz Lang, o il racconto di Zweig. Dove sono oggi opere che abbiano quell´orrida e precisa visione del presente?
Se fosse un caso isolato non ne parleremmo come di un fatto di cultura, colmo di presagi. Ma non è un evento isolato, solo criminale. Quest´odio del diverso (dell´ebreo o del musulmano o del Rom: tre figure di capro espiatorio) pervade da tempo l´Europa, mescolando storia criminale e storia politica. E ogni volta è una fucilata subitanea, che interrompe finte normalità. Fu così anche quando nella composta Norvegia scoppiò la demenza assassina del trentaduenne Behring Breivik, il 22 luglio 2011. L´attentato che compì a Oslo fece 8 morti. Il secondo, nell´isola Utoya, uccise 69 ragazzi.
Fenomeni simili, non immediatamente mortiferi, esistono anche in politica e mimeticamente vengono imitati. Nell´America degli odii razziali, in prima linea: l´odio suscitato da Obama meteco tendiamo a sottovalutarlo, a scordarcene. Ma l´Europa è terreno non meno fertile per queste idrofobie umane, peggiori d´ogni intossicazione alcolica. Colpisce la loro banalizzazione, più ancora del delitto quando erompe. In Italia abbiamo la Lega, e banalizzati sono i suoi mai sconfessati incitamenti ai linciaggi. Nel dicembre 2007, il consigliere leghista Giorgio Bettio invita a «usare con gli immigrati lo stesso metodo delle SS: punirne dieci per ogni torto fatto a un nostro cittadino». Lo anticipa nel novembre 2003 il senatore leghista Piergiorgio Stiffoni, che menzionando un gruppo di clandestini sfrattati prorompe: «Peccato. Il forno crematorio di Santa Bona è chiuso». Il gioco di Renzo Bossi (vince chi spara su più barche d´immigrati) è stato tolto dal web ma senza autocritiche.
Com´è potuto succedere che gli italiani divenissero indifferenti a esternazioni di questa natura? Com´è possibile che l´Europa stessa guardi a quel che accade in Ungheria alzando appena le sopracciglia? Eppure il premier Viktor Orbán, trionfalmente eletto nell´aprile 2010, non potrebbe esser più chiaro di così. Il suo sogno è di creare un´isola prospera separata dal turbinio del mondo: una specie di autarchia nordcoreana. A questo scopo ha pervertito la costituzione, le leggi elettorali, l´alternanza democratica, scagliandosi al contempo contro l´etnicamente diverso. A questo scopo persegue una politica irredentista verso la diaspora ungherese in Europa. Il sacrificio di due terzi del territorio nazionale, imposto al Paese vinto dal trattato di Trianon del 1920, è definito «la più grande tragedia dell´Ungheria moderna». Ben più tragica dello sterminio di 400.000 ebrei e zigani nel 1944. Il vero scandalo dei tempi presenti è la punizione inflitta alla democrazia greca, e la non-punizione dell´Ungheria di Orbán. I parametri economici violati e gli spread troppo alti pesano infinitamente più dell´odio razzista, della banalizzazione del male che s´estende in Europa, della democrazia distrutta.
In due articoli sul Corriere della Sera, il 7 e 12 marzo, lo storico Ernesto Galli della Loggia ha difeso lo Stato-nazione oggi derubato di sovranità: lo descrive come «unico contenitore della democrazia», poiché senza di lui non c´è autogoverno dei popoli. È una verità molto discutibile, quantomeno. Lo Stato nazione è contenitore di ben altro, nella storia. Ha prodotto le moderne democrazie ma anche mali indicibili: nazionalismi, fobie verso le impurità etnico-religiose, guerre. Ha sprigionato odii razziali, che negli imperi europei (l´austro-ungarico, l´ottomano) non avevano spazio essendo questi ultimi fondati sulla mescolanza di etnie e lingue. La Shoah è figlia del trionfo dello Stato-nazione sugli imperi. Vale la pena ricordarlo, nell´ora in cui un fatto criminoso isolato, ma emblematico, forse ci risveglia un po´.

La Repubblica 21.03.12