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“Il male oscuro dell’Europa”, di Barbara Spinelli

Tutti ci stiamo trasformando, senza quasi accorgercene, in tecnici della crisi che traversiamo: strani bipedi in mutazione, sensibili a ogni curva economica tranne che alle curve dell´animo e del crimine. L´occhio è fisso sullo spread, scruta maniacalmente titoli di Stato e Bund, guata parametri trasgrediti e discipline finanziarie da restaurare al più presto. Fino a quando, un nefasto mattino, qualcosa di enorme ci fa sobbalzare sotto le coperte del letto e ci apre gli occhi: un male oscuro, che è secrezione della crisi non meno delle cifre di bilancio ma che incide sulla carne viva, spargendo sangue umano. La carneficina alla scuola ebraica di Tolosa è questo sparo nel deserto, che ci sveglia d´un colpo e ci immette in una nuova realtà, più vasta e più notturna. Come in una gigantesca metamorfosi, siamo tramutati in animali umani costretti a vedere quello che da mesi, da anni, coltiviamo nel nostro seno senza curarcene. Il naufragio del sogno europeo, emblema di riconciliazione dopo secoli di guerre, e di vittoria sulle violenze di cui Europa è stata capace, partorisce mostri. Non stupisce che il mostro colpisca ancora una volta l´ebreo, capro espiatorio per eccellenza, modello di tutti i capri e di tutti i diversi che assillano le menti quando son catturate da allucinazioni di terrene apocalissi.
In tedesco usano la parola Amok (in indonesiano significa «uccisione-linciaggio in un impulso d´ira incontrollata»), e tale è stato l´attacco di lunedì alla scuola di Tolosa. Uno squilibrato, ma abbastanza freddo da uccidere serialmente, ammazza in 15 minuti il maestro Jonathan Sandler, due suoi figli di 4 e 5 anni (Gabriel e Arieh), una bambina di 7, Myriam. Chi cade preda dell´amok è imprevedibile e socialmente reietto, ma se ha potuto concepire il crimine (e spesso parlarne sul web) vuol dire che per lungo tempo non si è badato al pericolo, che l´ambiente da cui viene era privo di difese immunitarie. I massacri nelle scuole sono considerati episodi tipici del comportamento amok. Nella cultura malese l´assalto amok evoca lo stato di guerra, ma l´omicida seriale interiorizza la guerra. La spedizione militare è condotta da individui che vivono nel nascosto, ed escono allo scoperto in una sorta di raptus. Non dimentichiamo che il nazismo quando prese il sopravvento aveva caratteristiche affini, e assecondava la furia amok: «Marcia senza approdo, barcollamento senza ebbrezza, fede senza Dio», così lo scrittore socialdemocratico Konrad Heiden descriveva, nel 1936, la caduta di milioni di tedeschi nel nazismo e nell´«era dell´irresponsabilità». È nelle furie di quei tempi che hanno radice i contemporanei massacri palingenetici, e anche lo spavento stupefatto che scatenano. Non era stato detto, a proposito delle fobie annientatrici: «Mai più?». Invece tornano, perché un tabù infranto lo è per secoli ancora. Il piccolo racconto di Zweig (Amok è il titolo) racconta proprio questo: l´esplosione in mezzo a bonacce apparenti di una “follia rabbiosa, una specie di idrofobia umana… un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a nessun´altra intossicazione alcolica”. Un torbido passato ha fatto del medico protagonista un mutante: nella solitudine si sente «come un ragno nella sua tela, immobile da mesi». Amok è scritto nei primi anni Venti: un´epoca non meno vacillante della nostra. Già prima del ´14-18, Thomas Mann vedeva l´Europa sommersa da «nervosità estrema».
«L´amok è così – spiega Zweig nel racconto– all´improvviso balza in piedi, afferra il pugnale e corre in strada… Chi gli si para davanti, essere umano o animale, viene trafitto dal suo kris (pugnale, in malese, ndr), e l´orgia di sangue non fa che eccitarlo maggiormente… Mentre corre, ha la schiuma alle labbra e urla come un forsennato… ma continua a correre e correre, senza guardare né a destra né a sinistra, corre e basta. L´ossesso corre senza sentire… finché non lo ammazzano a fucilate come un cane rabbioso, oppure crolla da solo, sbavando». Ci furono opere profetiche, negli anni ´20-´30: i film Metropolis e Dottor Mabuse di Fritz Lang, o il racconto di Zweig. Dove sono oggi opere che abbiano quell´orrida e precisa visione del presente?
Se fosse un caso isolato non ne parleremmo come di un fatto di cultura, colmo di presagi. Ma non è un evento isolato, solo criminale. Quest´odio del diverso (dell´ebreo o del musulmano o del Rom: tre figure di capro espiatorio) pervade da tempo l´Europa, mescolando storia criminale e storia politica. E ogni volta è una fucilata subitanea, che interrompe finte normalità. Fu così anche quando nella composta Norvegia scoppiò la demenza assassina del trentaduenne Behring Breivik, il 22 luglio 2011. L´attentato che compì a Oslo fece 8 morti. Il secondo, nell´isola Utoya, uccise 69 ragazzi.
Fenomeni simili, non immediatamente mortiferi, esistono anche in politica e mimeticamente vengono imitati. Nell´America degli odii razziali, in prima linea: l´odio suscitato da Obama meteco tendiamo a sottovalutarlo, a scordarcene. Ma l´Europa è terreno non meno fertile per queste idrofobie umane, peggiori d´ogni intossicazione alcolica. Colpisce la loro banalizzazione, più ancora del delitto quando erompe. In Italia abbiamo la Lega, e banalizzati sono i suoi mai sconfessati incitamenti ai linciaggi. Nel dicembre 2007, il consigliere leghista Giorgio Bettio invita a «usare con gli immigrati lo stesso metodo delle SS: punirne dieci per ogni torto fatto a un nostro cittadino». Lo anticipa nel novembre 2003 il senatore leghista Piergiorgio Stiffoni, che menzionando un gruppo di clandestini sfrattati prorompe: «Peccato. Il forno crematorio di Santa Bona è chiuso». Il gioco di Renzo Bossi (vince chi spara su più barche d´immigrati) è stato tolto dal web ma senza autocritiche.
Com´è potuto succedere che gli italiani divenissero indifferenti a esternazioni di questa natura? Com´è possibile che l´Europa stessa guardi a quel che accade in Ungheria alzando appena le sopracciglia? Eppure il premier Viktor Orbán, trionfalmente eletto nell´aprile 2010, non potrebbe esser più chiaro di così. Il suo sogno è di creare un´isola prospera separata dal turbinio del mondo: una specie di autarchia nordcoreana. A questo scopo ha pervertito la costituzione, le leggi elettorali, l´alternanza democratica, scagliandosi al contempo contro l´etnicamente diverso. A questo scopo persegue una politica irredentista verso la diaspora ungherese in Europa. Il sacrificio di due terzi del territorio nazionale, imposto al Paese vinto dal trattato di Trianon del 1920, è definito «la più grande tragedia dell´Ungheria moderna». Ben più tragica dello sterminio di 400.000 ebrei e zigani nel 1944. Il vero scandalo dei tempi presenti è la punizione inflitta alla democrazia greca, e la non-punizione dell´Ungheria di Orbán. I parametri economici violati e gli spread troppo alti pesano infinitamente più dell´odio razzista, della banalizzazione del male che s´estende in Europa, della democrazia distrutta.
In due articoli sul Corriere della Sera, il 7 e 12 marzo, lo storico Ernesto Galli della Loggia ha difeso lo Stato-nazione oggi derubato di sovranità: lo descrive come «unico contenitore della democrazia», poiché senza di lui non c´è autogoverno dei popoli. È una verità molto discutibile, quantomeno. Lo Stato nazione è contenitore di ben altro, nella storia. Ha prodotto le moderne democrazie ma anche mali indicibili: nazionalismi, fobie verso le impurità etnico-religiose, guerre. Ha sprigionato odii razziali, che negli imperi europei (l´austro-ungarico, l´ottomano) non avevano spazio essendo questi ultimi fondati sulla mescolanza di etnie e lingue. La Shoah è figlia del trionfo dello Stato-nazione sugli imperi. Vale la pena ricordarlo, nell´ora in cui un fatto criminoso isolato, ma emblematico, forse ci risveglia un po´.

La Repubblica 21.03.12

“Il male oscuro dell’Europa”, di Barbara Spinelli

Tutti ci stiamo trasformando, senza quasi accorgercene, in tecnici della crisi che traversiamo: strani bipedi in mutazione, sensibili a ogni curva economica tranne che alle curve dell´animo e del crimine. L´occhio è fisso sullo spread, scruta maniacalmente titoli di Stato e Bund, guata parametri trasgrediti e discipline finanziarie da restaurare al più presto. Fino a quando, un nefasto mattino, qualcosa di enorme ci fa sobbalzare sotto le coperte del letto e ci apre gli occhi: un male oscuro, che è secrezione della crisi non meno delle cifre di bilancio ma che incide sulla carne viva, spargendo sangue umano. La carneficina alla scuola ebraica di Tolosa è questo sparo nel deserto, che ci sveglia d´un colpo e ci immette in una nuova realtà, più vasta e più notturna. Come in una gigantesca metamorfosi, siamo tramutati in animali umani costretti a vedere quello che da mesi, da anni, coltiviamo nel nostro seno senza curarcene. Il naufragio del sogno europeo, emblema di riconciliazione dopo secoli di guerre, e di vittoria sulle violenze di cui Europa è stata capace, partorisce mostri. Non stupisce che il mostro colpisca ancora una volta l´ebreo, capro espiatorio per eccellenza, modello di tutti i capri e di tutti i diversi che assillano le menti quando son catturate da allucinazioni di terrene apocalissi.
In tedesco usano la parola Amok (in indonesiano significa «uccisione-linciaggio in un impulso d´ira incontrollata»), e tale è stato l´attacco di lunedì alla scuola di Tolosa. Uno squilibrato, ma abbastanza freddo da uccidere serialmente, ammazza in 15 minuti il maestro Jonathan Sandler, due suoi figli di 4 e 5 anni (Gabriel e Arieh), una bambina di 7, Myriam. Chi cade preda dell´amok è imprevedibile e socialmente reietto, ma se ha potuto concepire il crimine (e spesso parlarne sul web) vuol dire che per lungo tempo non si è badato al pericolo, che l´ambiente da cui viene era privo di difese immunitarie. I massacri nelle scuole sono considerati episodi tipici del comportamento amok. Nella cultura malese l´assalto amok evoca lo stato di guerra, ma l´omicida seriale interiorizza la guerra. La spedizione militare è condotta da individui che vivono nel nascosto, ed escono allo scoperto in una sorta di raptus. Non dimentichiamo che il nazismo quando prese il sopravvento aveva caratteristiche affini, e assecondava la furia amok: «Marcia senza approdo, barcollamento senza ebbrezza, fede senza Dio», così lo scrittore socialdemocratico Konrad Heiden descriveva, nel 1936, la caduta di milioni di tedeschi nel nazismo e nell´«era dell´irresponsabilità». È nelle furie di quei tempi che hanno radice i contemporanei massacri palingenetici, e anche lo spavento stupefatto che scatenano. Non era stato detto, a proposito delle fobie annientatrici: «Mai più?». Invece tornano, perché un tabù infranto lo è per secoli ancora. Il piccolo racconto di Zweig (Amok è il titolo) racconta proprio questo: l´esplosione in mezzo a bonacce apparenti di una “follia rabbiosa, una specie di idrofobia umana… un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a nessun´altra intossicazione alcolica”. Un torbido passato ha fatto del medico protagonista un mutante: nella solitudine si sente «come un ragno nella sua tela, immobile da mesi». Amok è scritto nei primi anni Venti: un´epoca non meno vacillante della nostra. Già prima del ´14-18, Thomas Mann vedeva l´Europa sommersa da «nervosità estrema».
«L´amok è così – spiega Zweig nel racconto– all´improvviso balza in piedi, afferra il pugnale e corre in strada… Chi gli si para davanti, essere umano o animale, viene trafitto dal suo kris (pugnale, in malese, ndr), e l´orgia di sangue non fa che eccitarlo maggiormente… Mentre corre, ha la schiuma alle labbra e urla come un forsennato… ma continua a correre e correre, senza guardare né a destra né a sinistra, corre e basta. L´ossesso corre senza sentire… finché non lo ammazzano a fucilate come un cane rabbioso, oppure crolla da solo, sbavando». Ci furono opere profetiche, negli anni ´20-´30: i film Metropolis e Dottor Mabuse di Fritz Lang, o il racconto di Zweig. Dove sono oggi opere che abbiano quell´orrida e precisa visione del presente?
Se fosse un caso isolato non ne parleremmo come di un fatto di cultura, colmo di presagi. Ma non è un evento isolato, solo criminale. Quest´odio del diverso (dell´ebreo o del musulmano o del Rom: tre figure di capro espiatorio) pervade da tempo l´Europa, mescolando storia criminale e storia politica. E ogni volta è una fucilata subitanea, che interrompe finte normalità. Fu così anche quando nella composta Norvegia scoppiò la demenza assassina del trentaduenne Behring Breivik, il 22 luglio 2011. L´attentato che compì a Oslo fece 8 morti. Il secondo, nell´isola Utoya, uccise 69 ragazzi.
Fenomeni simili, non immediatamente mortiferi, esistono anche in politica e mimeticamente vengono imitati. Nell´America degli odii razziali, in prima linea: l´odio suscitato da Obama meteco tendiamo a sottovalutarlo, a scordarcene. Ma l´Europa è terreno non meno fertile per queste idrofobie umane, peggiori d´ogni intossicazione alcolica. Colpisce la loro banalizzazione, più ancora del delitto quando erompe. In Italia abbiamo la Lega, e banalizzati sono i suoi mai sconfessati incitamenti ai linciaggi. Nel dicembre 2007, il consigliere leghista Giorgio Bettio invita a «usare con gli immigrati lo stesso metodo delle SS: punirne dieci per ogni torto fatto a un nostro cittadino». Lo anticipa nel novembre 2003 il senatore leghista Piergiorgio Stiffoni, che menzionando un gruppo di clandestini sfrattati prorompe: «Peccato. Il forno crematorio di Santa Bona è chiuso». Il gioco di Renzo Bossi (vince chi spara su più barche d´immigrati) è stato tolto dal web ma senza autocritiche.
Com´è potuto succedere che gli italiani divenissero indifferenti a esternazioni di questa natura? Com´è possibile che l´Europa stessa guardi a quel che accade in Ungheria alzando appena le sopracciglia? Eppure il premier Viktor Orbán, trionfalmente eletto nell´aprile 2010, non potrebbe esser più chiaro di così. Il suo sogno è di creare un´isola prospera separata dal turbinio del mondo: una specie di autarchia nordcoreana. A questo scopo ha pervertito la costituzione, le leggi elettorali, l´alternanza democratica, scagliandosi al contempo contro l´etnicamente diverso. A questo scopo persegue una politica irredentista verso la diaspora ungherese in Europa. Il sacrificio di due terzi del territorio nazionale, imposto al Paese vinto dal trattato di Trianon del 1920, è definito «la più grande tragedia dell´Ungheria moderna». Ben più tragica dello sterminio di 400.000 ebrei e zigani nel 1944. Il vero scandalo dei tempi presenti è la punizione inflitta alla democrazia greca, e la non-punizione dell´Ungheria di Orbán. I parametri economici violati e gli spread troppo alti pesano infinitamente più dell´odio razzista, della banalizzazione del male che s´estende in Europa, della democrazia distrutta.
In due articoli sul Corriere della Sera, il 7 e 12 marzo, lo storico Ernesto Galli della Loggia ha difeso lo Stato-nazione oggi derubato di sovranità: lo descrive come «unico contenitore della democrazia», poiché senza di lui non c´è autogoverno dei popoli. È una verità molto discutibile, quantomeno. Lo Stato nazione è contenitore di ben altro, nella storia. Ha prodotto le moderne democrazie ma anche mali indicibili: nazionalismi, fobie verso le impurità etnico-religiose, guerre. Ha sprigionato odii razziali, che negli imperi europei (l´austro-ungarico, l´ottomano) non avevano spazio essendo questi ultimi fondati sulla mescolanza di etnie e lingue. La Shoah è figlia del trionfo dello Stato-nazione sugli imperi. Vale la pena ricordarlo, nell´ora in cui un fatto criminoso isolato, ma emblematico, forse ci risveglia un po´.

La Repubblica 21.03.12

“Il lutto è di tutti Un minuto di silenzio nelle nostre scuole”, di Giovanna Favro

Quando ha sentito la notizia dei bambini sterminati nella scuola di Tolosa, il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo era nel suo ufficio, a Roma. «Sono rimasto profondamente colpito e addolorato. Ho scritto, di getto, una lettera al presidente dell’Unione comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna». Però, poi, ha continuato a pensarci su. Per il ministro, quegli scolari morti «non sono figli di un’altra terra e di un’altra nazione. Quel lutto è di tutti, perché quei bambini sono stati uccisi da un mostro, l’intolleranza e l’antisemitismo, che può sempre colpire non solo la Francia, ma anche l’Italia, l’Europa, il mondo». Così, ieri, Profumo ha deciso di estendere il lutto per la strage di Tolosa a tutte le scuole italiane. Propone un minuto di silenzio, oggi alle 11, in tutte le classi, per commemorare la tragedia. Un minuto per esprimere sofferenza per quelle vite strappate, ma anche per invitare alunni e docenti «a riflettere sul tema complessivo dell’intolleranza».

Profumo fa suo l’invito del direttore de La Stampa Mario Calabresi nell’auspicare che quel minuto sia di silenzio in tutte le aule d’Europa: «Perché il tema dell’intolleranza dice il ministro – travalica i confini della Francia. È così attuale e cruciale che deve unire i Paesi dell’Ue, con un ruolo primario delle scuole nella formazione delle coscienze». Spiega che il ministero ha da tempo avviato un cammino sulla memoria. Un percorso che conduce anche ad Auschwitz: «Io stesso ho voluto accompagnare, in occasione della Giornata della memoria, un gruppo di ragazzi in quel campo di sterminio. È stato un viaggio toccante, di forte partecipazione emotiva oltre che di riflessione». Un sentimento che deve pervadere sempre di più la scuola italiana: «Esiste già una forte attenzione ai temi della tolleranza e dell’antisemitismo, e lavoro perché possa crescere ancora. Ho di recente firmato al Quirinale un protocollo d’intesa con il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche Renzo Gattegna proprio con questo scopo». Prevede l’intensificarsi di programmi di didattica per i ragazzi, e formazione per i docenti sulla memoria collettiva della Shoah. Con iniziative sull’antisemitismo, il pregiudizio, il razzismo e il negazionismo, «per promuovere la consapevolezza degli effetti abnormi che genera l’odio dell’uomo contro l’uomo».

Il ministro insiste: «La sfida educativa, a scuola come all’università, è la più difficile che abbiamo davanti, ma anche la più affascinante. Credo in una classe di docenti chiamata a non trasmettere solo contenuti didattico-culturali. Credo in una scuola capace di favorire i processi di inclusione in un’Italia multiculturale e multietnica, e di educare a una cittadinanza attiva e consapevole. Una scuola che formi le coscienze e prepari i cittadini di domani». Una scuola che davanti ai piccoli uccisi a Tolosa non può non reagire, anche solo per restare in silenzio un minuto.

La Stampa 21.03.12

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“Opporsi alla violenza è un compito quotidiano”
Parla la preside del liceo premiato per la Giornata della Memoria, di Mariateresa Martinengo

La memoria è un «esercizio» ripetuto al liceo scientifico Galileo Ferraris. Un «esercizio» che per la seconda volta in due anni ha portato una classe della sezione H a partecipare e a vincere un premio al concorso che il ministero dell’Istruzione bandisce in occasione del Giorno della Memoria. E il 27 gennaio scorso, il «Galfer», è stato rappresentato al Quirinale, davanti al Presidente della Repubblica, da una studentessa di V, Beatrice Samuele. Di quel giorno, Beatrice ha sottolineato un aspetto: «È stato impegnativo parlare soprattutto perché ad ascoltare noi ragazzi c’erano i sopravvissuti ai Lager. Dovevamo far capire loro che noi abbiamo capito». Con Beatrice, al Quirinale, c’era Stefania Barsottini, dirigente del Galileo Ferraris, istituto da 1400 studenti.

Preside Barsottini, il crimine di Tolosa mette in discussione la capacità degli europei di costruire valori e rispetto a partire dalla memoria dell’Olocausto. La sua scuola da anni lavora per costruire giovani che questa cultura la sentano propria.

«Discutere, rielaborare, riflettere sul passato per aprire prospettive di futuro nuove nel rispetto delle diversità di cultura e religione è compito della scuola. Per i ragazzi che hanno partecipato al concorso è stato importante, poi, confrontarsi e approfondire il significato di memoria e quello, contrario, di silenzio intorno alla deportazione, a partire dalla storia familiare di una nostra docente, la professoressa Avigdor. Il padre era stato internato perché ebreo. L’insegnante ha portato documenti, è stata ricostruita una vicenda personale».

Anche in questo tempo così ricco di informazione e di stimoli la scuola mantiene quindi un ruolo fondamentale nell’educazione al rispetto delle differenze?

«La scuola resta l’ambito privilegiato della costruzione della conoscenza e, di conseguenza, della persona. Ci sono valori che nell’età dell’adolescenza si assimilano con il confronto, il dialogo e la relazione con l’altro».

La famiglia, oggi, con la presenza sempre più sfumata al suo interno di persone che hanno vissuto gli anni del fascismo e del nazismo, ha meno possibilità di un tempo di portare testimonianze educative…

«Credo che oggi i giovani si possano formare soprattutto attraverso il confronto tra idee diverse, tra le culture diverse presenti anche nelle nostre scuole».

Cosa pensa della scelta del ministro Profumo di rendere reale anche nelle aule italiane il crimine di Tolosa con un minuto di silenzio, sottolineando che l’antisemitismo è un male vivo e attivo?

«È una proposta da cogliere perché non ci sono confini per questo tipo di violenza assoluta. E anche perché sollecita a riflettere sul fatto che la scuola sembra attirare episodi di violenza estrema».

La scuola è un argine…

«Sì, la scuola di fronte alla società cerca di porsi in maniera attiva per costruzione di valori giusti. Opporsi alla violenza, all’intolleranza, al razzismo è un compito quotidiano».

La Stampa 21.03.12

"Monti ha rotto il tavolo, ora rischi per tutti", di Goffredo De Marchis

“L´ira di Bersani: imporremo modifiche. Filo-premier soddisfatti, il Pd si spacca. “Se il governo accetta veti sulla Rai, ne dovrà accettare anche su questa materia”. L´insofferenza del segretario verso i dirigenti che tifano per lo strappo con la Cgil. Furibondo e deluso. «Il governo ha condotto male il confronto. E non capisco tutta questa fretta. Per un viaggio in Cina?». Chiuso nella sua stanza a Largo del Nazareno, Pier Luigi Bersani segue in tv la conferenza stampa di Mario Monti e Elsa Fornero. Sembra quasi parlare direttamente con il premier e il ministro del Lavoro. «Rompendo il tavolo, il presidente del Consiglio si è mosso non calcolando le conseguenze per il Paese, non per il sindacato, non per la Cgil». Aleggia l´accusa di di «irresponsabilità del premier» nella sede del Pd. In cima ai pensieri del segretario c´è una riforma non condivisa, l´intervento pesante sull´articolo 18. Ma anche gli effetti devastanti che avrà il nuovo mercato del lavoro sul Partito democratico. Il Pd rischia di spaccarsi? «Certo», è la risposta secca del vicesegretario Enrico Letta.
A questo punto, decreto o legge delega, cambia davvero poco per i democratici. La resa dei conti comincia subito. Bersani punta sulle modifiche in Parlamento. Con una certa irritazione si lascia sfuggire che «se il governo accetta veti sulla Rai e modifica le liberalizzazioni alle Camere, accetterà anche interventi su un provvedimento molto più serio, molto più delicato». Ma nel suo partito i filo-Monti hanno già indossato l´elmetto. «Il provvedimento del governo sarà comunque blindato», dice Paolo Gentiloni senza nascondere la sua soddisfazione. Per molti versi sugli ammortizzatori e sulla flessibilità in uscita Fornero è andata oltre Pietro Ichino, il vate della componente “riformista” del Pd: Apsi ridotta a un anno e modello tedesco, sui licenziamenti economici, che va a farsi benedire. «Ma noi non abbiamo alternative. Proveremo a cambiare, faremo le nostre proposte. Ma la strada è questa e il Pd non può tirarsi indietro». Oggi no, ma domani sì. Con una lunga agonia di partecipazioni a cortei a titolo individuale, di interviste, di minacce e di scissioni sempre annunciate. Un quadro drammatico per il segretario che dovrà cercare di tenere tutto insieme quello che insieme non è. «Circoscrivere le differenze per provare a colmarle. È la frase che ho sentito dire a Bersani – ricorda Gentiloni -. Io credo che possa farcela».
La mossa del verbale era apparsa a molti, andreottianamente, una sottile via d´uscita offerta a Monti per il sindacato e soprattutto per il partiti. Il Pd, in particolare, che si trova a dover combattere sul territorio la partita delle amministrative con due oppositori di Palazzo Chigi, Vendola e Di Pietro. Le parole di Monti in conferenza stampa hanno invece sancito, di fatto, la firma di un «accordo separato», non diverso da quelli sempre inseguiti da Berlusconi e Sacconi per piantare la loro bandierina anti-Cgil. Così il premier ha messo ancora più in difficoltà Bersani. Che adesso rischia l´isolamento nella maggioranza con Pdl e Udc, la spaccatura nel partito e sa bene di non poter contare sull´appoggio di Giorgio Napolitano. Anzi. Il presidente della Repubblica terrà fede al patto istituzionale stretto con Monti. Non offrirà sponde. Tanto più che la riforma del mercato del lavoro è materia principe del programma di emergenza.
Bersani è dunque davanti alla partita della vita. Lo è anche il Partito democratico, che si gioca la sopravvivenza. L´appuntamento è il voto in aula. Letta aiuterà il segretario a mediare. Ma cresce l´insofferenza per gli atteggiamenti di Fassina, per la scelta che secondo Francesco Boccia il partito è chiamato a compiere una volta per tutte: «Spezzare il cordone ombelicale con la Cgil, regolare i conti con il sindacato». E con i suoi voti per andare in mare aperto, alla ricerca di nuovi consensi, di altre identità. Il Parlamento è sovrano, dice Bersani. Ma nelle sue poche righe di dichiarazione ufficiale, segno di un brutto momento, non c´è quella frase magica pronunciata sulla Rai: «Non farà cadere il governo per questo». Cesare Damiano, ex sindacalista, oggi deputato democratico, non crede nemmeno un po´ che la Cgil torni indietro. O che lo faccia il governo: «È dura. Cominceranno veti incrociati e nessuno riuscirà a trovare il bandolo». E allora come voterà il Pd in Parlamento? Prima della battaglia, dei vertici, delle trattative politiche, oggi esistono due Pd. Che non si nascondono, che non fanno finta di andare d´accordo. Che sono consapevoli di un passaggio vitale. E che solo Bersani può rimettere insieme. Senza pensare alle foto di Vasto, alla grande coalizione, al dopo Monti. Ma solo a se stessi, al futuro dei democratici.

La Repubblica 21.03.12

“Monti ha rotto il tavolo, ora rischi per tutti”, di Goffredo De Marchis

“L´ira di Bersani: imporremo modifiche. Filo-premier soddisfatti, il Pd si spacca. “Se il governo accetta veti sulla Rai, ne dovrà accettare anche su questa materia”. L´insofferenza del segretario verso i dirigenti che tifano per lo strappo con la Cgil. Furibondo e deluso. «Il governo ha condotto male il confronto. E non capisco tutta questa fretta. Per un viaggio in Cina?». Chiuso nella sua stanza a Largo del Nazareno, Pier Luigi Bersani segue in tv la conferenza stampa di Mario Monti e Elsa Fornero. Sembra quasi parlare direttamente con il premier e il ministro del Lavoro. «Rompendo il tavolo, il presidente del Consiglio si è mosso non calcolando le conseguenze per il Paese, non per il sindacato, non per la Cgil». Aleggia l´accusa di di «irresponsabilità del premier» nella sede del Pd. In cima ai pensieri del segretario c´è una riforma non condivisa, l´intervento pesante sull´articolo 18. Ma anche gli effetti devastanti che avrà il nuovo mercato del lavoro sul Partito democratico. Il Pd rischia di spaccarsi? «Certo», è la risposta secca del vicesegretario Enrico Letta.
A questo punto, decreto o legge delega, cambia davvero poco per i democratici. La resa dei conti comincia subito. Bersani punta sulle modifiche in Parlamento. Con una certa irritazione si lascia sfuggire che «se il governo accetta veti sulla Rai e modifica le liberalizzazioni alle Camere, accetterà anche interventi su un provvedimento molto più serio, molto più delicato». Ma nel suo partito i filo-Monti hanno già indossato l´elmetto. «Il provvedimento del governo sarà comunque blindato», dice Paolo Gentiloni senza nascondere la sua soddisfazione. Per molti versi sugli ammortizzatori e sulla flessibilità in uscita Fornero è andata oltre Pietro Ichino, il vate della componente “riformista” del Pd: Apsi ridotta a un anno e modello tedesco, sui licenziamenti economici, che va a farsi benedire. «Ma noi non abbiamo alternative. Proveremo a cambiare, faremo le nostre proposte. Ma la strada è questa e il Pd non può tirarsi indietro». Oggi no, ma domani sì. Con una lunga agonia di partecipazioni a cortei a titolo individuale, di interviste, di minacce e di scissioni sempre annunciate. Un quadro drammatico per il segretario che dovrà cercare di tenere tutto insieme quello che insieme non è. «Circoscrivere le differenze per provare a colmarle. È la frase che ho sentito dire a Bersani – ricorda Gentiloni -. Io credo che possa farcela».
La mossa del verbale era apparsa a molti, andreottianamente, una sottile via d´uscita offerta a Monti per il sindacato e soprattutto per il partiti. Il Pd, in particolare, che si trova a dover combattere sul territorio la partita delle amministrative con due oppositori di Palazzo Chigi, Vendola e Di Pietro. Le parole di Monti in conferenza stampa hanno invece sancito, di fatto, la firma di un «accordo separato», non diverso da quelli sempre inseguiti da Berlusconi e Sacconi per piantare la loro bandierina anti-Cgil. Così il premier ha messo ancora più in difficoltà Bersani. Che adesso rischia l´isolamento nella maggioranza con Pdl e Udc, la spaccatura nel partito e sa bene di non poter contare sull´appoggio di Giorgio Napolitano. Anzi. Il presidente della Repubblica terrà fede al patto istituzionale stretto con Monti. Non offrirà sponde. Tanto più che la riforma del mercato del lavoro è materia principe del programma di emergenza.
Bersani è dunque davanti alla partita della vita. Lo è anche il Partito democratico, che si gioca la sopravvivenza. L´appuntamento è il voto in aula. Letta aiuterà il segretario a mediare. Ma cresce l´insofferenza per gli atteggiamenti di Fassina, per la scelta che secondo Francesco Boccia il partito è chiamato a compiere una volta per tutte: «Spezzare il cordone ombelicale con la Cgil, regolare i conti con il sindacato». E con i suoi voti per andare in mare aperto, alla ricerca di nuovi consensi, di altre identità. Il Parlamento è sovrano, dice Bersani. Ma nelle sue poche righe di dichiarazione ufficiale, segno di un brutto momento, non c´è quella frase magica pronunciata sulla Rai: «Non farà cadere il governo per questo». Cesare Damiano, ex sindacalista, oggi deputato democratico, non crede nemmeno un po´ che la Cgil torni indietro. O che lo faccia il governo: «È dura. Cominceranno veti incrociati e nessuno riuscirà a trovare il bandolo». E allora come voterà il Pd in Parlamento? Prima della battaglia, dei vertici, delle trattative politiche, oggi esistono due Pd. Che non si nascondono, che non fanno finta di andare d´accordo. Che sono consapevoli di un passaggio vitale. E che solo Bersani può rimettere insieme. Senza pensare alle foto di Vasto, alla grande coalizione, al dopo Monti. Ma solo a se stessi, al futuro dei democratici.

La Repubblica 21.03.12

"Il velo strappato", di Massimo Giannini

«Niente birra e panini al numero 10 di Downing Street», era il motto di Margareth Thatcher ai tempi della storica vertenza con i minatori inglesi. Nella Gran Bretagna di Iron Lady con i sindacati non si trattava. Trent´anni dopo, nell´Italia di Mario Monti le porte di Palazzo Chigi sono aperte: con le parti sociali si tratta, e si è trattato a lungo in questi giorni e in queste settimane. Ma il risultato pratico è lo stesso. Se i «corpi intermedi» della società condividono le scelte, tanto meglio. In caso contrario, il governo va avanti comunque. Lo strappo si è dunque compiuto. Il presidente del Consiglio ha deciso di scrivere la sua riforma del mercato del lavoro sacrificando la Cgil. Un sacrificio pesante, e gravido di conseguenze. È ancora una volta l´articolo 18 a segnare un decisivo cambio di fase, che modifica strutturalmente non solo le relazioni industriali, ma anche le consuetudini politiche del Paese. Dietro alla rottura tra Monti e Camusso c´è molto di più di un dissenso sulle nuove norme che regolano i licenziamenti. C´è la fine della concertazione, che ha scandito i rapporti tra politica ed economia nella Seconda Repubblica. C´è la fine di una costituzione materiale, che dal 1992 ha affiancato la Costituzione formale nelle fasi più acute della crisi italiana.

Nel passo compiuto dal governo c´è una svolta di merito. Anche nella legislazione giuslavoristica italiana cade quello che tutti consideravano l´ultimo tabù. L´articolo 18, cioè l´obbligo di reintegrare il lavoratore, resterà solo nei licenziamenti per motivi discriminatori, e varrà per tutte le aziende, comprese quelle con meno di 15 dipendenti. Ma a questa estensione «dimensionale» della tutela corrisponde una limitazione di quella «funzionale». Nei licenziamenti per motivi disciplinari soggettivi toccherà al giudice decidere se applicare la reintegra o l´indennizzo. E nei licenziamenti per motivi economici oggettivi scatterà solo l´indennizzo. Proprio quest´ultima è stata la molla che ha fatto scattare il no della Cgil.
Sarebbe ingeneroso liquidare questo no come il solito riflesso pavloviano di una deriva sindacale massimalista e conservatrice. La preoccupazione della Camusso, ancorché non del tutto condivisa da Bonanni e Angeletti, è tutt´altro che infondata. In questo nuovo schema l´articolo 18, di fatto, non viene «manutenuto», ma manomesso. I diritti si trasformano in moneta. Una forzatura paradossalmente accettabile, in un Paese che cresce a ritmi del 3% e crea un milione di posti di lavoro l´anno, o in un Paese che ha un sistema collaudato e coperto di flexsecurity scandinavo. Non nell´Italia di oggi, in piena recessione, con una disoccupazione giovanile del 29,7% e un nuovo sistema di ammortizzatori sociali che entrerà a regime solo nel 2017. In queste condizioni, la «via bassa» della produttività e della competitività scelta finora dalle imprese espone i lavoratori a un rischio oggettivo: qualunque crisi aziendale sarà regolata con i licenziamenti per motivi economici, al «prezzo» di un indennizzo che costerà poco più di un qualunque pre-pensionamento.
Questo aspetto non può essere trascurato, in un sistema produttivo che investe assai poco (negli ultimi dieci anni la quota di ammortamenti dell´industria è calato dal 6 al 3,7% rispetto al fatturato) e che già ora tende a far pagare ai più deboli il conto della crisi. È un problema serio, che indebolisce il molto di buono che pure c´è nella riforma del governo, dall´introduzione di una tutela universale per chi perde il lavoro al disincentivo alle troppe forme contrattuali che hanno perpetuato finora il massacro sociale del precariato. E stupisce che il premier giustifichi la decisione di scardinare l´articolo 18 con la necessità di far cadere un impedimento «vero o presunto» agli investimenti esteri in Italia. Non si comprime un diritto, in nome di una «presunzione». Se c´è anche solo un ragionevole dubbio che per le imprese straniere l´articolo 18 sia «un alibi» per non investire, allora le si convince con la forza dei numeri. E i numeri, oggi, dicono che su 160 mila cause di lavoro pendenti solo 300/500 sono attivate ai sensi di quella norma, che dunque è un falso problema.
Ma nel passo compiuto dal governo c´è anche una svolta di metodo. Monti lo spiega con una chiarezza esemplare. Quando riconosce il dispiacere per la rottura con la Cgil, ma aggiunge che il «potere di veto» non è più consentito a nessuno. Quando racconta di aver cercato fino all´ultimo il consenso di tutti, ma annuncia che al vertice finale di domani «non ci sarà alcuna firma» delle parti sociali su un documento del governo. Quando ammette che il dialogo con le parti sociali «è importantissimo», ma avverte che non può tradursi in una «cultura consociativa» che in passato ha scaricato il costo degli accordi sulla collettività. La cesura, culturale e politica, è chiarissima: il governo consulta, ma non concerta. Il suo unico interlocutore è il Parlamento, ripete più volte il premier. È al Parlamento che questo governo risponde, ed è in Parlamento che questo governo si andrà a cercare i numeri che servono a far passare questa riforma.
È un principio incontestabile. La sovranità del potere legislativo non è in discussione. Neanche (o meno che mai) per un governo tecnico che si regge su una convergenza tripartita, piuttosto che su una maggioranza organica. Ma anche qui ci sono due domande, che non possono essere evase. La prima domanda: il governo ha fatto davvero tutto il possibile per imbarcare anche la Camusso nell´intesa? Il dubbio è legittimo: l´impressione che in una parte del governo e del Parlamento vi siano forze che animate da una rivincita ideologica spingono per «dare una lezione» alla Cgil è forte, e non da oggi. Come è forte l´impressione che all´esecutivo, in fondo, non dispiaccia presentare a Bruxelles e ai mercati una riforma del lavoro accompagnata dallo «scalpo» del sindacato più importante, da esibire come un trofeo di «guerra».
La seconda domanda: il governo ha chiare le implicazioni politiche di questo strappo? L´accordo separato che esclude la Cgil riapre una drammatica spaccatura dentro il Pd. Il silenzio di Bersani è assordante, e rivela da solo l´enorme imbarazzo di un partito irrisolto, che sarà pure attraversato dalla faglia «socialdemocratica», ma che resta pur sempre l´«azionista di riferimento» del governo Monti. Il presidente del Consiglio non può non essere consapevole di cosa può accadere nel centrosinistra (e magari anche nella Lega) di qui al voto parlamentare sulla riforma. Caduto un tabù, può cadere anche un governo.

La Repubblica 21.03.12

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Articolo 18 ridotto al minimo Monti: “La questione è chiusa” solo Cgil dice no e prepara lo sciopero, di FRANCESCO BEI ROBERTO MANIA

L´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non c´è quasi più. Rimarrà solo per proteggere i licenziamenti discriminatori. Aveva resistito integro per oltre quarant´anni. Il governo Monti ha ottenuto il consenso di tutte le parti sociali, tranne quello della Cgil di Susanna Camusso. Per questo la riforma (che riguarda anche i contratti di entrata nel mercato del lavoro e i nuovi ammortizzatori sociali) è senza accordo, senza la firma di nessuno se non quella del governo. Sarà presentata così in Parlamento. Ci sarà poi un verbale nel quale saranno espresse le posizioni di sindacati e imprese. Dal Quirinale filtra il rammarico per la mancata intesa: «Forse – notavano ieri sera dal Colle – non tutti gli sforzi sono stati fatti da entrambe le parti».

ORE 8,30. TUTTI A PALAZZO CHIGI
Quella di ieri, dunque, è stata la lunga giornata del disaccordo con la Cgil. Cominciata presto perché il premier Mario Monti ha convocato alle 8,30 di mattina nel suo ufficio al primo piano di Palazzo Chigi i segretari generali di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, e il presidente della Confindustria. Sanno già perché stanno lì. Monti ha già comunicato loro che non ci sono le condizioni di una firma condivisa da tutti. Sull´articolo 18 la Cgil non cambia linea, ma nemmeno il governo. «Abbiamo gli occhi del mondo addosso», fa notare il premier, mentre intorno a palazzo Chigi si sistemano i pulmini attrezzati delle tv internazionali. È da sabato scorso che lo scenario è mutato. A Milano, al convegno confindustriale, si è consumato lo strappo. «Sarà la riforma del governo – spiega Monti – ce ne assumeremo tutta la responsabilità in Parlamento». Anche se il Pd preferirebbe una legge delega (dai tempi più lunghi) al momento palazzo Chigi non esclude nulla, «nemmeno un decreto legge».
La riforma del mercato del lavoro è la prova del fuoco per il governo Monti. In gioco c´è la sua credibilità. Il premier sa anche che senza la Cgil «varrà di più sui mercati». Misurerà la profondità dei provvedimenti. Ritornerà, lungo la giornata, questo ragionamento.

ORE 11,00. SI TRATTA ANCHE AL MINISTERO DEL LAVORO
“Ristretta” di Monti con i sindacati. Nelle liturgie sindacali sono le riunioni che contano, quelle durante le quali si decide il da farsi. Bonanni dice sì ma Angeletti nicchia ancora. Camusso è per il no. Al ministero del Lavoro gli sherpa di sindacati e industriali hanno ripreso a scrivere i testi sugli ammortizzatori sociali e i contratti.

ORE 12,00. CAMUSSO, BONANNI E ANGELETTI
LASCIANO PALAZZO CHIGI
È mezzogiorno quando Camusso stanca e tesa in volto e con l´ennesima sigaretta tra le dita esce da Palazzo Chigi, insieme a Bonanni e Angeletti. L´unità d´azione sindacale è durata poco più dello spazio di un mattino. Ma Bonanni e Angeletti rispettano il patto che avevano sottoscritto: nessun accordo separato sul lavoro. D´altra parte nemmeno il governo lo avrebbe voluto. Entra Emma Marcegaglia che ha quasi stravinto: il suo predecessore Antonio D´Amato finì sconfitto nel 2002 quando aprì la battaglia sull´articolo 18. La Marcegaglia, in un contesto economico radicalmente diverso, ha fatto fare la battaglia al Professore ma dietro le quinte ha giocato la sua partita con tutte le sue sponde nel governo, dal ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, al viceministro dell´Economia Vittorio Grilli. Finisce il mandato con lo scalpo dell´articolo 18. Anche nelle fabbriche del suo gruppo la Fiom sta scioperando per due ore a difesa dell´articolo 18. Ma è ininfluente.

ORE 13,00. I PICCOLI, “PRONTI ALL´ACCORDO”
Le piccole imprese avevano minacciato la rivolta a cominciare dalla disdetta dei contratti perché Fornero intendeva alzare i contributi per l´indennità di disoccupazione e per i contratti stagionali. Non passa né l´una né l´altra misura. I piccoli sono per buona parte il blocco sociale della destra. Il Pdl ha fatto pressing sul governo e ha portato a casa non poco. In cambio, però, il governo ha esteso alle aziende con meno di 15 dipendenti il diritto al reintegro in caso di licenziamento ingiustificato discriminatorio. Anche il direttore generale della Confindustria, Giampaolo Galli, protesta, dice che molte cose non vanno bene. Tatticismo negoziale. La Marcegaglia ha appena detto a Monti che la sua riforma è ok.

ORE 13,30. SI RIUNISCE LA SEGRETERIA DELLA CGIL MA CISL E UIL VANNO IN CONFINDUSTRIA
Quarto piano del palazzone di Corso d´Italia. I membri della segreteria nazionale del più grande sindacato sono già lì nella sala riunione ad aspettare la Camusso. Si fuma. C´è preoccupazione e rabbia. Per la prima volta da almeno dieci anni questo è il gruppo dirigente della Cgil che accetta di intervenire sull´articolo 18. La loro apertura però non è servita. Camusso è convinta e lo ripete ai suoi: «Il governo non voleva l´accordo. È un governo attento ai mercati e non ai lavoratori». Lo dirà anche in conferenza stampa. Gli scioperi li deciderà il Direttivo già convocato per oggi. Ma ci saranno. La Fiom di Maurizio Landini vuole lo sciopero generale. Camusso punta a una mobilitazione più lunga e articolata. «Non sarà una fiammata. Faremo di tutto per contrastare la riforma. Ci sarà tensione sociale», dice. Dal governo, in serata, si augurano tuttavia che «le modalità della mobilitazione si svolgano nel rispetto della dialettica democratica». Dura un paio d´ore la riunione. Alla fine una nota della segreteria che sancisce la rottura con il governo di professori: «L´obiettivo del governo sono i licenziamenti facili». A meno di un chilometro di distanza Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti sono con Emma Marcegaglia in via Veneto alla Foresteria della Confindustria. Monti ha chiesto alla Marcegaglia di convincere Angeletti sui licenziamenti disciplinari. Ci riuscirà. Il governo sostiene che non era scontato «recuperare la Uil e la stessa Cisl che fino a qualche giorno fa parlava di macelleria sociale».

ORE 14,00. BERSANI: «TOCCA AL GOVERNO COLMARE
LE DISTANZE»
Il segretario del Pd invita a tener conto delle proposte della Cgil. Invano. Ora palazzo Chigi spera che il Pd non si divida sul provvedimento, ma in ogni caso si fa notare come durante il vertice dei segretari “ABC” anche da Bersani fosse venuto un via libera alla riforma. «Spetta al Parlamento decidere», ricorda comunque Bersani.

ORE 14,20. IL GOVERNO: MARGINI STRETTI, PREMONO I MERCATI
Monti fa sapere che i margini per un possibile compromesso non ci sono. Premono i mercati. Dice uno dei ministri: «Le proteste della Cgil dimostrano che la riforma è vera. Le critiche sono fisiologiche ma le avevamo messe in conto». Nella conferenza stampa finale il premier ricorda ancora che la riforma viene incontro alle raccomandazione della Commissione di Bruxelles e anche dell´Ocse. È la morsa che ha stretto la Cgil. «Nessun ha più un potere di veto», dice Monti e aggiunge: «Mi aspetto che le imprese raddoppino i loro investimenti ora che non avranno l´handicap o l´alibi, a seconda del punto di vista, di avere un trattamento dei licenziamenti diverso da quello delle economie più avanzate».

ORE 17,20. RIUNIONE IN SALA VERDE
AL TERZO PIANO
È l´epilogo. Tutto già previsto. Attorno al tavolo della grande Sala Verde al terzo piano di Palazzo Chigi si consuma l´ultimo rito di quella che non è mai stata un revival della concertazione. Monti cita Napolitano («prevalga l´interesse generale») e concede l´onore delle armi al segretario Cgil: «La ringrazio, signora Camusso, perché con il suo no ha fatto capire a tutti che governare non è facile. Spero però che, nelle forme e nei modi che vorrà, possa anche dire quello che c´è di buono in questa riforma».

ore 20,15. IL PREMIER, «STRINGIAMO PER FAVORE…»
«Signori, stringiamo per favore…», Mario Monti richiama il portavoce di Rete Imprese Italia, Marco Venturi, perché esprima rapidamente il suo giudizio.

ore 20,30. MONTI TELEFONA A NAPOLITANO
Il premier chiama il Quirinale: «Abbiamo finito, lo ritengo un successo». Ma il Capo dello Stato si raccomanda di evitare che «non essendoci un accordo su tutto, non si trasformi con la Cgil in una rottura su tutto».

La Repubblica 21.03.12

“Il velo strappato”, di Massimo Giannini

«Niente birra e panini al numero 10 di Downing Street», era il motto di Margareth Thatcher ai tempi della storica vertenza con i minatori inglesi. Nella Gran Bretagna di Iron Lady con i sindacati non si trattava. Trent´anni dopo, nell´Italia di Mario Monti le porte di Palazzo Chigi sono aperte: con le parti sociali si tratta, e si è trattato a lungo in questi giorni e in queste settimane. Ma il risultato pratico è lo stesso. Se i «corpi intermedi» della società condividono le scelte, tanto meglio. In caso contrario, il governo va avanti comunque. Lo strappo si è dunque compiuto. Il presidente del Consiglio ha deciso di scrivere la sua riforma del mercato del lavoro sacrificando la Cgil. Un sacrificio pesante, e gravido di conseguenze. È ancora una volta l´articolo 18 a segnare un decisivo cambio di fase, che modifica strutturalmente non solo le relazioni industriali, ma anche le consuetudini politiche del Paese. Dietro alla rottura tra Monti e Camusso c´è molto di più di un dissenso sulle nuove norme che regolano i licenziamenti. C´è la fine della concertazione, che ha scandito i rapporti tra politica ed economia nella Seconda Repubblica. C´è la fine di una costituzione materiale, che dal 1992 ha affiancato la Costituzione formale nelle fasi più acute della crisi italiana.

Nel passo compiuto dal governo c´è una svolta di merito. Anche nella legislazione giuslavoristica italiana cade quello che tutti consideravano l´ultimo tabù. L´articolo 18, cioè l´obbligo di reintegrare il lavoratore, resterà solo nei licenziamenti per motivi discriminatori, e varrà per tutte le aziende, comprese quelle con meno di 15 dipendenti. Ma a questa estensione «dimensionale» della tutela corrisponde una limitazione di quella «funzionale». Nei licenziamenti per motivi disciplinari soggettivi toccherà al giudice decidere se applicare la reintegra o l´indennizzo. E nei licenziamenti per motivi economici oggettivi scatterà solo l´indennizzo. Proprio quest´ultima è stata la molla che ha fatto scattare il no della Cgil.
Sarebbe ingeneroso liquidare questo no come il solito riflesso pavloviano di una deriva sindacale massimalista e conservatrice. La preoccupazione della Camusso, ancorché non del tutto condivisa da Bonanni e Angeletti, è tutt´altro che infondata. In questo nuovo schema l´articolo 18, di fatto, non viene «manutenuto», ma manomesso. I diritti si trasformano in moneta. Una forzatura paradossalmente accettabile, in un Paese che cresce a ritmi del 3% e crea un milione di posti di lavoro l´anno, o in un Paese che ha un sistema collaudato e coperto di flexsecurity scandinavo. Non nell´Italia di oggi, in piena recessione, con una disoccupazione giovanile del 29,7% e un nuovo sistema di ammortizzatori sociali che entrerà a regime solo nel 2017. In queste condizioni, la «via bassa» della produttività e della competitività scelta finora dalle imprese espone i lavoratori a un rischio oggettivo: qualunque crisi aziendale sarà regolata con i licenziamenti per motivi economici, al «prezzo» di un indennizzo che costerà poco più di un qualunque pre-pensionamento.
Questo aspetto non può essere trascurato, in un sistema produttivo che investe assai poco (negli ultimi dieci anni la quota di ammortamenti dell´industria è calato dal 6 al 3,7% rispetto al fatturato) e che già ora tende a far pagare ai più deboli il conto della crisi. È un problema serio, che indebolisce il molto di buono che pure c´è nella riforma del governo, dall´introduzione di una tutela universale per chi perde il lavoro al disincentivo alle troppe forme contrattuali che hanno perpetuato finora il massacro sociale del precariato. E stupisce che il premier giustifichi la decisione di scardinare l´articolo 18 con la necessità di far cadere un impedimento «vero o presunto» agli investimenti esteri in Italia. Non si comprime un diritto, in nome di una «presunzione». Se c´è anche solo un ragionevole dubbio che per le imprese straniere l´articolo 18 sia «un alibi» per non investire, allora le si convince con la forza dei numeri. E i numeri, oggi, dicono che su 160 mila cause di lavoro pendenti solo 300/500 sono attivate ai sensi di quella norma, che dunque è un falso problema.
Ma nel passo compiuto dal governo c´è anche una svolta di metodo. Monti lo spiega con una chiarezza esemplare. Quando riconosce il dispiacere per la rottura con la Cgil, ma aggiunge che il «potere di veto» non è più consentito a nessuno. Quando racconta di aver cercato fino all´ultimo il consenso di tutti, ma annuncia che al vertice finale di domani «non ci sarà alcuna firma» delle parti sociali su un documento del governo. Quando ammette che il dialogo con le parti sociali «è importantissimo», ma avverte che non può tradursi in una «cultura consociativa» che in passato ha scaricato il costo degli accordi sulla collettività. La cesura, culturale e politica, è chiarissima: il governo consulta, ma non concerta. Il suo unico interlocutore è il Parlamento, ripete più volte il premier. È al Parlamento che questo governo risponde, ed è in Parlamento che questo governo si andrà a cercare i numeri che servono a far passare questa riforma.
È un principio incontestabile. La sovranità del potere legislativo non è in discussione. Neanche (o meno che mai) per un governo tecnico che si regge su una convergenza tripartita, piuttosto che su una maggioranza organica. Ma anche qui ci sono due domande, che non possono essere evase. La prima domanda: il governo ha fatto davvero tutto il possibile per imbarcare anche la Camusso nell´intesa? Il dubbio è legittimo: l´impressione che in una parte del governo e del Parlamento vi siano forze che animate da una rivincita ideologica spingono per «dare una lezione» alla Cgil è forte, e non da oggi. Come è forte l´impressione che all´esecutivo, in fondo, non dispiaccia presentare a Bruxelles e ai mercati una riforma del lavoro accompagnata dallo «scalpo» del sindacato più importante, da esibire come un trofeo di «guerra».
La seconda domanda: il governo ha chiare le implicazioni politiche di questo strappo? L´accordo separato che esclude la Cgil riapre una drammatica spaccatura dentro il Pd. Il silenzio di Bersani è assordante, e rivela da solo l´enorme imbarazzo di un partito irrisolto, che sarà pure attraversato dalla faglia «socialdemocratica», ma che resta pur sempre l´«azionista di riferimento» del governo Monti. Il presidente del Consiglio non può non essere consapevole di cosa può accadere nel centrosinistra (e magari anche nella Lega) di qui al voto parlamentare sulla riforma. Caduto un tabù, può cadere anche un governo.

La Repubblica 21.03.12

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Articolo 18 ridotto al minimo Monti: “La questione è chiusa” solo Cgil dice no e prepara lo sciopero, di FRANCESCO BEI ROBERTO MANIA

L´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non c´è quasi più. Rimarrà solo per proteggere i licenziamenti discriminatori. Aveva resistito integro per oltre quarant´anni. Il governo Monti ha ottenuto il consenso di tutte le parti sociali, tranne quello della Cgil di Susanna Camusso. Per questo la riforma (che riguarda anche i contratti di entrata nel mercato del lavoro e i nuovi ammortizzatori sociali) è senza accordo, senza la firma di nessuno se non quella del governo. Sarà presentata così in Parlamento. Ci sarà poi un verbale nel quale saranno espresse le posizioni di sindacati e imprese. Dal Quirinale filtra il rammarico per la mancata intesa: «Forse – notavano ieri sera dal Colle – non tutti gli sforzi sono stati fatti da entrambe le parti».

ORE 8,30. TUTTI A PALAZZO CHIGI
Quella di ieri, dunque, è stata la lunga giornata del disaccordo con la Cgil. Cominciata presto perché il premier Mario Monti ha convocato alle 8,30 di mattina nel suo ufficio al primo piano di Palazzo Chigi i segretari generali di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, e il presidente della Confindustria. Sanno già perché stanno lì. Monti ha già comunicato loro che non ci sono le condizioni di una firma condivisa da tutti. Sull´articolo 18 la Cgil non cambia linea, ma nemmeno il governo. «Abbiamo gli occhi del mondo addosso», fa notare il premier, mentre intorno a palazzo Chigi si sistemano i pulmini attrezzati delle tv internazionali. È da sabato scorso che lo scenario è mutato. A Milano, al convegno confindustriale, si è consumato lo strappo. «Sarà la riforma del governo – spiega Monti – ce ne assumeremo tutta la responsabilità in Parlamento». Anche se il Pd preferirebbe una legge delega (dai tempi più lunghi) al momento palazzo Chigi non esclude nulla, «nemmeno un decreto legge».
La riforma del mercato del lavoro è la prova del fuoco per il governo Monti. In gioco c´è la sua credibilità. Il premier sa anche che senza la Cgil «varrà di più sui mercati». Misurerà la profondità dei provvedimenti. Ritornerà, lungo la giornata, questo ragionamento.

ORE 11,00. SI TRATTA ANCHE AL MINISTERO DEL LAVORO
“Ristretta” di Monti con i sindacati. Nelle liturgie sindacali sono le riunioni che contano, quelle durante le quali si decide il da farsi. Bonanni dice sì ma Angeletti nicchia ancora. Camusso è per il no. Al ministero del Lavoro gli sherpa di sindacati e industriali hanno ripreso a scrivere i testi sugli ammortizzatori sociali e i contratti.

ORE 12,00. CAMUSSO, BONANNI E ANGELETTI
LASCIANO PALAZZO CHIGI
È mezzogiorno quando Camusso stanca e tesa in volto e con l´ennesima sigaretta tra le dita esce da Palazzo Chigi, insieme a Bonanni e Angeletti. L´unità d´azione sindacale è durata poco più dello spazio di un mattino. Ma Bonanni e Angeletti rispettano il patto che avevano sottoscritto: nessun accordo separato sul lavoro. D´altra parte nemmeno il governo lo avrebbe voluto. Entra Emma Marcegaglia che ha quasi stravinto: il suo predecessore Antonio D´Amato finì sconfitto nel 2002 quando aprì la battaglia sull´articolo 18. La Marcegaglia, in un contesto economico radicalmente diverso, ha fatto fare la battaglia al Professore ma dietro le quinte ha giocato la sua partita con tutte le sue sponde nel governo, dal ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, al viceministro dell´Economia Vittorio Grilli. Finisce il mandato con lo scalpo dell´articolo 18. Anche nelle fabbriche del suo gruppo la Fiom sta scioperando per due ore a difesa dell´articolo 18. Ma è ininfluente.

ORE 13,00. I PICCOLI, “PRONTI ALL´ACCORDO”
Le piccole imprese avevano minacciato la rivolta a cominciare dalla disdetta dei contratti perché Fornero intendeva alzare i contributi per l´indennità di disoccupazione e per i contratti stagionali. Non passa né l´una né l´altra misura. I piccoli sono per buona parte il blocco sociale della destra. Il Pdl ha fatto pressing sul governo e ha portato a casa non poco. In cambio, però, il governo ha esteso alle aziende con meno di 15 dipendenti il diritto al reintegro in caso di licenziamento ingiustificato discriminatorio. Anche il direttore generale della Confindustria, Giampaolo Galli, protesta, dice che molte cose non vanno bene. Tatticismo negoziale. La Marcegaglia ha appena detto a Monti che la sua riforma è ok.

ORE 13,30. SI RIUNISCE LA SEGRETERIA DELLA CGIL MA CISL E UIL VANNO IN CONFINDUSTRIA
Quarto piano del palazzone di Corso d´Italia. I membri della segreteria nazionale del più grande sindacato sono già lì nella sala riunione ad aspettare la Camusso. Si fuma. C´è preoccupazione e rabbia. Per la prima volta da almeno dieci anni questo è il gruppo dirigente della Cgil che accetta di intervenire sull´articolo 18. La loro apertura però non è servita. Camusso è convinta e lo ripete ai suoi: «Il governo non voleva l´accordo. È un governo attento ai mercati e non ai lavoratori». Lo dirà anche in conferenza stampa. Gli scioperi li deciderà il Direttivo già convocato per oggi. Ma ci saranno. La Fiom di Maurizio Landini vuole lo sciopero generale. Camusso punta a una mobilitazione più lunga e articolata. «Non sarà una fiammata. Faremo di tutto per contrastare la riforma. Ci sarà tensione sociale», dice. Dal governo, in serata, si augurano tuttavia che «le modalità della mobilitazione si svolgano nel rispetto della dialettica democratica». Dura un paio d´ore la riunione. Alla fine una nota della segreteria che sancisce la rottura con il governo di professori: «L´obiettivo del governo sono i licenziamenti facili». A meno di un chilometro di distanza Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti sono con Emma Marcegaglia in via Veneto alla Foresteria della Confindustria. Monti ha chiesto alla Marcegaglia di convincere Angeletti sui licenziamenti disciplinari. Ci riuscirà. Il governo sostiene che non era scontato «recuperare la Uil e la stessa Cisl che fino a qualche giorno fa parlava di macelleria sociale».

ORE 14,00. BERSANI: «TOCCA AL GOVERNO COLMARE
LE DISTANZE»
Il segretario del Pd invita a tener conto delle proposte della Cgil. Invano. Ora palazzo Chigi spera che il Pd non si divida sul provvedimento, ma in ogni caso si fa notare come durante il vertice dei segretari “ABC” anche da Bersani fosse venuto un via libera alla riforma. «Spetta al Parlamento decidere», ricorda comunque Bersani.

ORE 14,20. IL GOVERNO: MARGINI STRETTI, PREMONO I MERCATI
Monti fa sapere che i margini per un possibile compromesso non ci sono. Premono i mercati. Dice uno dei ministri: «Le proteste della Cgil dimostrano che la riforma è vera. Le critiche sono fisiologiche ma le avevamo messe in conto». Nella conferenza stampa finale il premier ricorda ancora che la riforma viene incontro alle raccomandazione della Commissione di Bruxelles e anche dell´Ocse. È la morsa che ha stretto la Cgil. «Nessun ha più un potere di veto», dice Monti e aggiunge: «Mi aspetto che le imprese raddoppino i loro investimenti ora che non avranno l´handicap o l´alibi, a seconda del punto di vista, di avere un trattamento dei licenziamenti diverso da quello delle economie più avanzate».

ORE 17,20. RIUNIONE IN SALA VERDE
AL TERZO PIANO
È l´epilogo. Tutto già previsto. Attorno al tavolo della grande Sala Verde al terzo piano di Palazzo Chigi si consuma l´ultimo rito di quella che non è mai stata un revival della concertazione. Monti cita Napolitano («prevalga l´interesse generale») e concede l´onore delle armi al segretario Cgil: «La ringrazio, signora Camusso, perché con il suo no ha fatto capire a tutti che governare non è facile. Spero però che, nelle forme e nei modi che vorrà, possa anche dire quello che c´è di buono in questa riforma».

ore 20,15. IL PREMIER, «STRINGIAMO PER FAVORE…»
«Signori, stringiamo per favore…», Mario Monti richiama il portavoce di Rete Imprese Italia, Marco Venturi, perché esprima rapidamente il suo giudizio.

ore 20,30. MONTI TELEFONA A NAPOLITANO
Il premier chiama il Quirinale: «Abbiamo finito, lo ritengo un successo». Ma il Capo dello Stato si raccomanda di evitare che «non essendoci un accordo su tutto, non si trasformi con la Cgil in una rottura su tutto».

La Repubblica 21.03.12