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“Tagli, saltano altri 2 mila prof”, di Alessandra Ricciardi

Con la riduzione a 27 ore delle lezioni in quarta elementare
Per ora la questione è stata posta a livello tecnico. Ma è certo che, continuando così, assumerà ben presto una connotazione politica. Al suo primo decreto sulla determinazione degli organici, il ministro dell’istruzione, Francesco Profumo, si appresta a presentare il conto, fatto in base alle ricette decise con la manovra Tremonti e poi messe in pratica con la riforma Gelmini. Un conto salato, o amaro, che dir si voglia, quello contenuto nella bozza di decreto a cui stanno lavorando a viale Trastevere: il prossimo anno gli organici di diritto degli insegnanti, quelli sui quali si possono disporre le assunzioni a tempo indeterminato, caleranno di 2 mila unità, andando sotto la soglia minima dei 600 mila posti. In controtendenza rispetto all’andamento del numero degli alunni. Le stime dello stesso ministero, secondo quanto risulta a ItaliaOggi, parlano di un aumento nazionale della popolazione studentesca dello 0,13% , che si traduce in un +0,3% alla primaria, un po’ di più alle medie e in un calo dello 0,18% alle superiori. L’andamento parla di un aumento minimo ma costante. La primaria consente di leggere la consistenza e la natura del fenomeno: soprattutto il Sud è in affanno, risente di più della crisi, della migrazione verso altre regioni e anche della minor presenza di famiglie di immigrati: le percentuali demografiche sono negative. Per esempio in Basilicata il numero degli iscritti in prima elementare è a -2,54%, in Puglia a -1,19%. Al Nord in generale il trend è positivo, con regioni come l’Umbria a +2% e l’Emilia Romagna a +1,5%, per fare qualche esempio. E ora veniamo alla manovra Tremonti: il prossimo anno scolastico dovranno entrare in vigore alcune delle riforme introdotte da Mariastella Gelmini per contenere la spesa per l’istruzione: è il caso delle quarte elementari, che dovranno ridurre gli orari a 27 ore di lezioni settimanali. Lo stesso avverrà l’anno successivo, con l’estensione del nuovo orario all’ultima classe, la quinta. La sola contrazione oraria, per un solo anno, vale due mila prof in meno, come aveva stimato, e messo a bilancio, l’art. 64 della Legge n. 133/08, a corredo del riordino del primo e del secondo ciclo. Sindacati e amministratori locali contavano che con il debutto dell’organico funzionale, introdtto da Porfumo, le consistenze del personale della scuola potessero almeno non diminuire. Ma il problema resta sempre lo stesso: convincere il ministero del Tesoro che una riduzione dell’organico non sarebbe sostenibile dalla scuola. Difficile da argomentare soprattutto per le regioni dove c’è un calo deciso di alunni.

ItaliaOggi 20.03.12

“Tagli, saltano altri 2 mila prof”, di Alessandra Ricciardi

Con la riduzione a 27 ore delle lezioni in quarta elementare
Per ora la questione è stata posta a livello tecnico. Ma è certo che, continuando così, assumerà ben presto una connotazione politica. Al suo primo decreto sulla determinazione degli organici, il ministro dell’istruzione, Francesco Profumo, si appresta a presentare il conto, fatto in base alle ricette decise con la manovra Tremonti e poi messe in pratica con la riforma Gelmini. Un conto salato, o amaro, che dir si voglia, quello contenuto nella bozza di decreto a cui stanno lavorando a viale Trastevere: il prossimo anno gli organici di diritto degli insegnanti, quelli sui quali si possono disporre le assunzioni a tempo indeterminato, caleranno di 2 mila unità, andando sotto la soglia minima dei 600 mila posti. In controtendenza rispetto all’andamento del numero degli alunni. Le stime dello stesso ministero, secondo quanto risulta a ItaliaOggi, parlano di un aumento nazionale della popolazione studentesca dello 0,13% , che si traduce in un +0,3% alla primaria, un po’ di più alle medie e in un calo dello 0,18% alle superiori. L’andamento parla di un aumento minimo ma costante. La primaria consente di leggere la consistenza e la natura del fenomeno: soprattutto il Sud è in affanno, risente di più della crisi, della migrazione verso altre regioni e anche della minor presenza di famiglie di immigrati: le percentuali demografiche sono negative. Per esempio in Basilicata il numero degli iscritti in prima elementare è a -2,54%, in Puglia a -1,19%. Al Nord in generale il trend è positivo, con regioni come l’Umbria a +2% e l’Emilia Romagna a +1,5%, per fare qualche esempio. E ora veniamo alla manovra Tremonti: il prossimo anno scolastico dovranno entrare in vigore alcune delle riforme introdotte da Mariastella Gelmini per contenere la spesa per l’istruzione: è il caso delle quarte elementari, che dovranno ridurre gli orari a 27 ore di lezioni settimanali. Lo stesso avverrà l’anno successivo, con l’estensione del nuovo orario all’ultima classe, la quinta. La sola contrazione oraria, per un solo anno, vale due mila prof in meno, come aveva stimato, e messo a bilancio, l’art. 64 della Legge n. 133/08, a corredo del riordino del primo e del secondo ciclo. Sindacati e amministratori locali contavano che con il debutto dell’organico funzionale, introdtto da Porfumo, le consistenze del personale della scuola potessero almeno non diminuire. Ma il problema resta sempre lo stesso: convincere il ministero del Tesoro che una riduzione dell’organico non sarebbe sostenibile dalla scuola. Difficile da argomentare soprattutto per le regioni dove c’è un calo deciso di alunni.

ItaliaOggi 20.03.12

"Fisco, saltano le tre aliquote", di Rosaria Talarico

Il governo Monti dice addio alla riforma fiscale immaginata da Berlusconi e Tremonti, a cominciare dalla riduzione del numero delle aliquote fiscali. Nei 17 articoli della bozza di riforma che oggi approderà in preconsiglio in vista del varo atteso venerdì al Cdm, si parla di un piano definito all’inglese «growth-friendly», che altro non è se non «l’orientamento alla crescita» invocato da tutte le parti sociali e dagli economisti.

Fondo per gli sgravi
Come prima cosa la nuova delega dice addio al progetto di ridurre a tre le aliquote Irpef (al 20%, 30% e 40%) e alla soppressione dell’Irap. Si preferirà invece «concentrare le risorse che si renderanno disponibili in apposito fondo destinato a finanziare i futuri sgravi fiscali» si legge nella relazione illustrativa del provvedimento. L’articolo 5 sancisce infatti la confluenza nel fondo del gettito che arriverà dalla lotta all’evasione, cui dovrebbero aggiungersi anche le risorse dalla «riduzione dell’erosione», ovvero degli sconti fiscali. Per quanto riguarda la soppressione dell’Irap «aprirebbe un problema molto serio di reperimento delle entrate alternative» nell’ordine di 35 miliardi. Quindi niente da fare.

Riordino agevolazioni
Il decreto precisa che il rapporto sulla razionalizzazione della spesa fiscale voluto dall’ex ministro dell’economia Giulio Tremonti e concluso nel novembre scorso «non è di pronta applicabilità. Occorre – si legge nella relazione illustrativa – individuare in modo selettivo le misure passibili di intervento» e tra queste sono escluse quelle definite «intangibili», cioè le più diffuse come quelle per i familiari a carico e per lavoratori dipendenti e pensionati (doppie imposizioni, compatibili con l’ordinamento della Ue, rispetto di accordi internazionali e principi di rilevanza costituzionale). Si potrebbe, invece, dare priorità alle spese fiscali «più obsolete, meno coerenti con l’assetto del sistema tributario, rivolte a un numero modesto di beneficiari, di modesto importo unitario». A decidere sarà «una commissione ad hoc, indipendente, con la partecipazione dell’Istat e delle altre amministrazioni coinvolte» che produca un rapporto annuale e una stima ufficiale dell’economia sommersa e dell’evasione fiscale.

Iri al posto dell’Ires
Sul fronte della tassazione per le imprese ci sarà invece un cambio di nome: arriva l’Iri, l’Imposta sul reddito imprenditoriale al posto dell’attuale Ires. La novità non è solo semantica, ma punta a favorire la capitalizzazione delle aziende «separando la tassazione dell’impresa soggetta a Ires da quella dell’imprenditore. Aliquota più bassa e proporzionale sull’utile d’impresa, tassazione Irpef del reddito che l’imprenditore ritrae dall’azienda».

Tassazione delle rendite
La relazione giudica «improponibile nell’attuale contesto l’allineamento delle aliquote a livello superiore» del 20% dall’attuale 12,5% confermato per i titoli pubblici, come i Bot.
Riforma del catasto
Arriva la revisione del catasto, ma con calma: ci vorrà qualche anno per la sua entrata in vigore e «non dovrà comportare aumenti del prelievo, le maggiori rendite saranno compensate da riduzioni di aliquote».

Carbon tax
Verrà introdotto «il principio dell’inquinatore-pagatore»: secondo uno studio di Bankitalia, un’accisa applicata al litro di carburante tra i 4 e 24 centesimi porterebbe una riduzione delle emissioni da trasporto tra 1,1 e 1,6 milioni di tonnellate e un aumento delle entrate tra i 2 e i 10 miliardi. Un gettito che potrebbe essere utilizzato per il finanziamento delle fonti rinnovabili.

Black list nel mirino
Intanto in Senato è arrivato il faldone con i 700 emendamenti al decreto fiscale in discussione presso le commissioni Bilancio e Finanze e subito scoppia il caso delle black-list dei commercianti recidivi che non emettono scontrini. La proposta del governo è quella di insistere sui controlli puntando sui commercianti già pizzicati dal Fisco. Una serie di emendamenti presentati da Pdl, Lega e Pd puntano ad eliminare questa norma, a fine giornata però è arrivato il dietro front ufficiale del Pd che parla di proposte «a titolo personale» che saranno ritirate. E quindi rilancia proponendo l’esatto contrario, ovvero un «bollino blu» per i commercianti virtuosi.

La Stampa 20.03.12

“Fisco, saltano le tre aliquote”, di Rosaria Talarico

Il governo Monti dice addio alla riforma fiscale immaginata da Berlusconi e Tremonti, a cominciare dalla riduzione del numero delle aliquote fiscali. Nei 17 articoli della bozza di riforma che oggi approderà in preconsiglio in vista del varo atteso venerdì al Cdm, si parla di un piano definito all’inglese «growth-friendly», che altro non è se non «l’orientamento alla crescita» invocato da tutte le parti sociali e dagli economisti.

Fondo per gli sgravi
Come prima cosa la nuova delega dice addio al progetto di ridurre a tre le aliquote Irpef (al 20%, 30% e 40%) e alla soppressione dell’Irap. Si preferirà invece «concentrare le risorse che si renderanno disponibili in apposito fondo destinato a finanziare i futuri sgravi fiscali» si legge nella relazione illustrativa del provvedimento. L’articolo 5 sancisce infatti la confluenza nel fondo del gettito che arriverà dalla lotta all’evasione, cui dovrebbero aggiungersi anche le risorse dalla «riduzione dell’erosione», ovvero degli sconti fiscali. Per quanto riguarda la soppressione dell’Irap «aprirebbe un problema molto serio di reperimento delle entrate alternative» nell’ordine di 35 miliardi. Quindi niente da fare.

Riordino agevolazioni
Il decreto precisa che il rapporto sulla razionalizzazione della spesa fiscale voluto dall’ex ministro dell’economia Giulio Tremonti e concluso nel novembre scorso «non è di pronta applicabilità. Occorre – si legge nella relazione illustrativa – individuare in modo selettivo le misure passibili di intervento» e tra queste sono escluse quelle definite «intangibili», cioè le più diffuse come quelle per i familiari a carico e per lavoratori dipendenti e pensionati (doppie imposizioni, compatibili con l’ordinamento della Ue, rispetto di accordi internazionali e principi di rilevanza costituzionale). Si potrebbe, invece, dare priorità alle spese fiscali «più obsolete, meno coerenti con l’assetto del sistema tributario, rivolte a un numero modesto di beneficiari, di modesto importo unitario». A decidere sarà «una commissione ad hoc, indipendente, con la partecipazione dell’Istat e delle altre amministrazioni coinvolte» che produca un rapporto annuale e una stima ufficiale dell’economia sommersa e dell’evasione fiscale.

Iri al posto dell’Ires
Sul fronte della tassazione per le imprese ci sarà invece un cambio di nome: arriva l’Iri, l’Imposta sul reddito imprenditoriale al posto dell’attuale Ires. La novità non è solo semantica, ma punta a favorire la capitalizzazione delle aziende «separando la tassazione dell’impresa soggetta a Ires da quella dell’imprenditore. Aliquota più bassa e proporzionale sull’utile d’impresa, tassazione Irpef del reddito che l’imprenditore ritrae dall’azienda».

Tassazione delle rendite
La relazione giudica «improponibile nell’attuale contesto l’allineamento delle aliquote a livello superiore» del 20% dall’attuale 12,5% confermato per i titoli pubblici, come i Bot.
Riforma del catasto
Arriva la revisione del catasto, ma con calma: ci vorrà qualche anno per la sua entrata in vigore e «non dovrà comportare aumenti del prelievo, le maggiori rendite saranno compensate da riduzioni di aliquote».

Carbon tax
Verrà introdotto «il principio dell’inquinatore-pagatore»: secondo uno studio di Bankitalia, un’accisa applicata al litro di carburante tra i 4 e 24 centesimi porterebbe una riduzione delle emissioni da trasporto tra 1,1 e 1,6 milioni di tonnellate e un aumento delle entrate tra i 2 e i 10 miliardi. Un gettito che potrebbe essere utilizzato per il finanziamento delle fonti rinnovabili.

Black list nel mirino
Intanto in Senato è arrivato il faldone con i 700 emendamenti al decreto fiscale in discussione presso le commissioni Bilancio e Finanze e subito scoppia il caso delle black-list dei commercianti recidivi che non emettono scontrini. La proposta del governo è quella di insistere sui controlli puntando sui commercianti già pizzicati dal Fisco. Una serie di emendamenti presentati da Pdl, Lega e Pd puntano ad eliminare questa norma, a fine giornata però è arrivato il dietro front ufficiale del Pd che parla di proposte «a titolo personale» che saranno ritirate. E quindi rilancia proponendo l’esatto contrario, ovvero un «bollino blu» per i commercianti virtuosi.

La Stampa 20.03.12

“Fisco, saltano le tre aliquote”, di Rosaria Talarico

Il governo Monti dice addio alla riforma fiscale immaginata da Berlusconi e Tremonti, a cominciare dalla riduzione del numero delle aliquote fiscali. Nei 17 articoli della bozza di riforma che oggi approderà in preconsiglio in vista del varo atteso venerdì al Cdm, si parla di un piano definito all’inglese «growth-friendly», che altro non è se non «l’orientamento alla crescita» invocato da tutte le parti sociali e dagli economisti.

Fondo per gli sgravi
Come prima cosa la nuova delega dice addio al progetto di ridurre a tre le aliquote Irpef (al 20%, 30% e 40%) e alla soppressione dell’Irap. Si preferirà invece «concentrare le risorse che si renderanno disponibili in apposito fondo destinato a finanziare i futuri sgravi fiscali» si legge nella relazione illustrativa del provvedimento. L’articolo 5 sancisce infatti la confluenza nel fondo del gettito che arriverà dalla lotta all’evasione, cui dovrebbero aggiungersi anche le risorse dalla «riduzione dell’erosione», ovvero degli sconti fiscali. Per quanto riguarda la soppressione dell’Irap «aprirebbe un problema molto serio di reperimento delle entrate alternative» nell’ordine di 35 miliardi. Quindi niente da fare.

Riordino agevolazioni
Il decreto precisa che il rapporto sulla razionalizzazione della spesa fiscale voluto dall’ex ministro dell’economia Giulio Tremonti e concluso nel novembre scorso «non è di pronta applicabilità. Occorre – si legge nella relazione illustrativa – individuare in modo selettivo le misure passibili di intervento» e tra queste sono escluse quelle definite «intangibili», cioè le più diffuse come quelle per i familiari a carico e per lavoratori dipendenti e pensionati (doppie imposizioni, compatibili con l’ordinamento della Ue, rispetto di accordi internazionali e principi di rilevanza costituzionale). Si potrebbe, invece, dare priorità alle spese fiscali «più obsolete, meno coerenti con l’assetto del sistema tributario, rivolte a un numero modesto di beneficiari, di modesto importo unitario». A decidere sarà «una commissione ad hoc, indipendente, con la partecipazione dell’Istat e delle altre amministrazioni coinvolte» che produca un rapporto annuale e una stima ufficiale dell’economia sommersa e dell’evasione fiscale.

Iri al posto dell’Ires
Sul fronte della tassazione per le imprese ci sarà invece un cambio di nome: arriva l’Iri, l’Imposta sul reddito imprenditoriale al posto dell’attuale Ires. La novità non è solo semantica, ma punta a favorire la capitalizzazione delle aziende «separando la tassazione dell’impresa soggetta a Ires da quella dell’imprenditore. Aliquota più bassa e proporzionale sull’utile d’impresa, tassazione Irpef del reddito che l’imprenditore ritrae dall’azienda».

Tassazione delle rendite
La relazione giudica «improponibile nell’attuale contesto l’allineamento delle aliquote a livello superiore» del 20% dall’attuale 12,5% confermato per i titoli pubblici, come i Bot.
Riforma del catasto
Arriva la revisione del catasto, ma con calma: ci vorrà qualche anno per la sua entrata in vigore e «non dovrà comportare aumenti del prelievo, le maggiori rendite saranno compensate da riduzioni di aliquote».

Carbon tax
Verrà introdotto «il principio dell’inquinatore-pagatore»: secondo uno studio di Bankitalia, un’accisa applicata al litro di carburante tra i 4 e 24 centesimi porterebbe una riduzione delle emissioni da trasporto tra 1,1 e 1,6 milioni di tonnellate e un aumento delle entrate tra i 2 e i 10 miliardi. Un gettito che potrebbe essere utilizzato per il finanziamento delle fonti rinnovabili.

Black list nel mirino
Intanto in Senato è arrivato il faldone con i 700 emendamenti al decreto fiscale in discussione presso le commissioni Bilancio e Finanze e subito scoppia il caso delle black-list dei commercianti recidivi che non emettono scontrini. La proposta del governo è quella di insistere sui controlli puntando sui commercianti già pizzicati dal Fisco. Una serie di emendamenti presentati da Pdl, Lega e Pd puntano ad eliminare questa norma, a fine giornata però è arrivato il dietro front ufficiale del Pd che parla di proposte «a titolo personale» che saranno ritirate. E quindi rilancia proponendo l’esatto contrario, ovvero un «bollino blu» per i commercianti virtuosi.

La Stampa 20.03.12

"La politica e il lessico dell'accordo", di Nadia Urbinati

È un luogo comune che gli italiani siano esperti di retorica, un bene e un cruccio a seconda di come si voglia vedere la politica, se una questione di vittoria o anche una questione di vittoria giusta. Vincere persuadendo è certamente meglio che vincere eliminando l´avversario; ciò non toglie che si debba essere critici attenti dell´arte di far uso della persuasione per far fare agli altri ciò che altrimenti non farebbero. Anche la retorica, del resto, è capace di servire ragioni di giustizia quando riesce a fare mettere chi scrive le leggi nei panni di chi le leggi le deve obbedire.
Diceva Adam Schmitt che non è necessario vedere soffrire per sapere che cosa si provi soffrendo, proprio perché noi tutti sappiamo essere partecipi immaginativamente di quello che succede ai nostri simili. Non dovrebbe essere necessario essere un lavoratore dipendente per fare una legge sul mercato del lavoro che sia equa, anche per i lavoratori dipendenti. Il linguaggio della politica è efficace quando riesce a far sentire tutti partecipi, anche se ideologicamente (o per appartenenza di classe) distanti tra loro. Diversamente si tratta di linguaggio privato, che non consente di attuare mediazioni perché prospetta soluzioni che sono a somma zero, a vantaggio cioè di una sola parte. Ecco perché il linguaggio della politica non dovrebbe essere né solo preoccupato di vincere né avere il carattere dell´intransigenza; la prudenza non è mollezza ma saggia fermezza.
Fare accordi, cercare la via più vantaggiosa per giungere alla risoluzione di un problema di portata generale non equivale ad arrendersi né, d´altra parte, a portare a casa un bottino. Al contrario, in politica si vince quando non si vince troppo perché si vince tendendo l´avversario in gioco. Il linguaggio politico serve a incanalare le idee diverse verso uno scopo che è comune; le parole contengono quindi il senso della possibilità e della fallibilità: poiché se solo una parte è nel vero (o nel falso), non c´è proprio nulla da mediare. La verità non vuole compromessi.
L´arte del linguaggio politico non è solo una questione di stile. Il senso delle parole è altrettanto importante perché può avvicinare o allontanare gli interlocutori. Prendiamo per esemplificare tre parole in uso costante in questi mesi di trattativa sull´articolo 18: “dogma”, “privilegio” e “merito”. Tre parole che sembrano neutre e innocui, ma che hanno un bagaglio ideologico pesante. Dogma è diventato il termine usato per designare la resistenza alla flessibilità nel mercato del lavoro. Il dogma, quando non si riferisce al mistero della divinità, è uno stigma. La persona dogmatica assume che quel che pensa sia una verità insindacabile. Il dogma è indice di stupidità e irragionevolezza. Ora, il diritto di chiedere conto (e l´obbligo di rendere conto) viene dipinto come una pretesa irrazionale, anacronistica. In quanto dogma, non è più “diritto”, ma un “privilegio”.
L´uso del termine privilegio è anch´esso molto indicativo. Infatti, se c´è una cosa che in una società democratica tutti detestano è che qualcuno sia più uguale degli altri, che goda cioè di privilegi. Ovviamente ci sono molti privilegiati di fatto, ma nessuno per diritto. Per esempio, i politici godono di straordinari privilegi ma sono comunque sottoposti al giudizio dell´elettore e quindi mai inamovibili. Nemmeno il profitto è un privilegio perché sottomesso comunque ai rischi del mercato. In questa fase della storia delle democrazie occidentali, gli unici a godere di un privilegio sembrano essere i più deboli – il repubblicano americano Newt Gingrich nei suoi comizi inveisce contro il popolo della “tessera di povertà”, privilegiati assistiti che non meritano l´interesse della politica poiché sono un peso per tutti. Questo è il rovesciamento della realtà di cui la retorica è capace. Chi gode di un privilegio non ha bisogno di diritti. Perché il diritto è uno scudo che protegge il debole (perché ha meno potere) dal forte (che avendo potere non ha bisogno di diritti, mentre dovrebbe essere soggetto a obblighi). Lo Statuto dei Lavoratori è stato fatto per protegge il lavoratore dall´arbitrio di chi ha tutto il potere di decidere. Senza un limite posto dalla legge, quel potere si fa arbitrario. Se si vuole giungere a una giusta riforma si dovrebbero togliere i veri ostacoli all´attuazione di quel diritto, uno per tutti: le disfunzioni della giustizia italiana che impiega anni a risolvere un contenzioso, ed è causa di vera ingiustizia per tutti, per il lavoratore, per chi cerca un lavoro e per il datore di lavoro.
A coronamento della strategia linguistica viene infine il “merito”, che sta sia contro il privilegio che contro il dogma. John Rawls aveva tenuto fuori il merito dalle ragioni di giustizia distributiva perché condizionato dal contesto familiare, economico, scolastico, eccetera, e non traducibile in procedura imparziale. Solo un´identica (e irrealistica) condizione di partenza e identiche condizioni familiari, educative e socio-econimiche potrebbero fare del merito un criterio di giustizia distributiva. Ma le società sono dense di contingenze che sporcano questo ideale. Essere nati in un quartiere invece di un altro è condizione sufficiente per rendere il giudizio sul merito nullo, anzi ingiusto, quando si tratta di decidere come distribuire beni o oneri. Certo che le carriere devono seguire il merito! Ma questa dovrebbe essere la norma operante – senza di che c´è corruzione. La norma del merito dovrebbe semplicemente funzionare, e se non funziona il torto deve essere punito. Ma se se ne fa un ideale da perseguire è perché c´è ingiustizia e corruzione. Però, se così è, invocare il “privilegio” degli occupati come causa della disoccupazione di chi “meriterebbe” un posto di lavoro diventa davvero irrazionale.
Dogma, privilegio, merito: queste parole danno un´idea di quale direzione possa prendere il mutamento della nostra società. Non si può fare come se si tratti solo di parole. Decostruirle, riflettere sul loro significato e le loro implicazioni è una condizione preliminare importante per discutere in maniera prudente sulle decisioni da prendere, e soprattutto per prendere decisioni che siano giuste.

La Repubblica 20.03.12

“La politica e il lessico dell’accordo”, di Nadia Urbinati

È un luogo comune che gli italiani siano esperti di retorica, un bene e un cruccio a seconda di come si voglia vedere la politica, se una questione di vittoria o anche una questione di vittoria giusta. Vincere persuadendo è certamente meglio che vincere eliminando l´avversario; ciò non toglie che si debba essere critici attenti dell´arte di far uso della persuasione per far fare agli altri ciò che altrimenti non farebbero. Anche la retorica, del resto, è capace di servire ragioni di giustizia quando riesce a fare mettere chi scrive le leggi nei panni di chi le leggi le deve obbedire.
Diceva Adam Schmitt che non è necessario vedere soffrire per sapere che cosa si provi soffrendo, proprio perché noi tutti sappiamo essere partecipi immaginativamente di quello che succede ai nostri simili. Non dovrebbe essere necessario essere un lavoratore dipendente per fare una legge sul mercato del lavoro che sia equa, anche per i lavoratori dipendenti. Il linguaggio della politica è efficace quando riesce a far sentire tutti partecipi, anche se ideologicamente (o per appartenenza di classe) distanti tra loro. Diversamente si tratta di linguaggio privato, che non consente di attuare mediazioni perché prospetta soluzioni che sono a somma zero, a vantaggio cioè di una sola parte. Ecco perché il linguaggio della politica non dovrebbe essere né solo preoccupato di vincere né avere il carattere dell´intransigenza; la prudenza non è mollezza ma saggia fermezza.
Fare accordi, cercare la via più vantaggiosa per giungere alla risoluzione di un problema di portata generale non equivale ad arrendersi né, d´altra parte, a portare a casa un bottino. Al contrario, in politica si vince quando non si vince troppo perché si vince tendendo l´avversario in gioco. Il linguaggio politico serve a incanalare le idee diverse verso uno scopo che è comune; le parole contengono quindi il senso della possibilità e della fallibilità: poiché se solo una parte è nel vero (o nel falso), non c´è proprio nulla da mediare. La verità non vuole compromessi.
L´arte del linguaggio politico non è solo una questione di stile. Il senso delle parole è altrettanto importante perché può avvicinare o allontanare gli interlocutori. Prendiamo per esemplificare tre parole in uso costante in questi mesi di trattativa sull´articolo 18: “dogma”, “privilegio” e “merito”. Tre parole che sembrano neutre e innocui, ma che hanno un bagaglio ideologico pesante. Dogma è diventato il termine usato per designare la resistenza alla flessibilità nel mercato del lavoro. Il dogma, quando non si riferisce al mistero della divinità, è uno stigma. La persona dogmatica assume che quel che pensa sia una verità insindacabile. Il dogma è indice di stupidità e irragionevolezza. Ora, il diritto di chiedere conto (e l´obbligo di rendere conto) viene dipinto come una pretesa irrazionale, anacronistica. In quanto dogma, non è più “diritto”, ma un “privilegio”.
L´uso del termine privilegio è anch´esso molto indicativo. Infatti, se c´è una cosa che in una società democratica tutti detestano è che qualcuno sia più uguale degli altri, che goda cioè di privilegi. Ovviamente ci sono molti privilegiati di fatto, ma nessuno per diritto. Per esempio, i politici godono di straordinari privilegi ma sono comunque sottoposti al giudizio dell´elettore e quindi mai inamovibili. Nemmeno il profitto è un privilegio perché sottomesso comunque ai rischi del mercato. In questa fase della storia delle democrazie occidentali, gli unici a godere di un privilegio sembrano essere i più deboli – il repubblicano americano Newt Gingrich nei suoi comizi inveisce contro il popolo della “tessera di povertà”, privilegiati assistiti che non meritano l´interesse della politica poiché sono un peso per tutti. Questo è il rovesciamento della realtà di cui la retorica è capace. Chi gode di un privilegio non ha bisogno di diritti. Perché il diritto è uno scudo che protegge il debole (perché ha meno potere) dal forte (che avendo potere non ha bisogno di diritti, mentre dovrebbe essere soggetto a obblighi). Lo Statuto dei Lavoratori è stato fatto per protegge il lavoratore dall´arbitrio di chi ha tutto il potere di decidere. Senza un limite posto dalla legge, quel potere si fa arbitrario. Se si vuole giungere a una giusta riforma si dovrebbero togliere i veri ostacoli all´attuazione di quel diritto, uno per tutti: le disfunzioni della giustizia italiana che impiega anni a risolvere un contenzioso, ed è causa di vera ingiustizia per tutti, per il lavoratore, per chi cerca un lavoro e per il datore di lavoro.
A coronamento della strategia linguistica viene infine il “merito”, che sta sia contro il privilegio che contro il dogma. John Rawls aveva tenuto fuori il merito dalle ragioni di giustizia distributiva perché condizionato dal contesto familiare, economico, scolastico, eccetera, e non traducibile in procedura imparziale. Solo un´identica (e irrealistica) condizione di partenza e identiche condizioni familiari, educative e socio-econimiche potrebbero fare del merito un criterio di giustizia distributiva. Ma le società sono dense di contingenze che sporcano questo ideale. Essere nati in un quartiere invece di un altro è condizione sufficiente per rendere il giudizio sul merito nullo, anzi ingiusto, quando si tratta di decidere come distribuire beni o oneri. Certo che le carriere devono seguire il merito! Ma questa dovrebbe essere la norma operante – senza di che c´è corruzione. La norma del merito dovrebbe semplicemente funzionare, e se non funziona il torto deve essere punito. Ma se se ne fa un ideale da perseguire è perché c´è ingiustizia e corruzione. Però, se così è, invocare il “privilegio” degli occupati come causa della disoccupazione di chi “meriterebbe” un posto di lavoro diventa davvero irrazionale.
Dogma, privilegio, merito: queste parole danno un´idea di quale direzione possa prendere il mutamento della nostra società. Non si può fare come se si tratti solo di parole. Decostruirle, riflettere sul loro significato e le loro implicazioni è una condizione preliminare importante per discutere in maniera prudente sulle decisioni da prendere, e soprattutto per prendere decisioni che siano giuste.

La Repubblica 20.03.12