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“La politica e il lessico dell’accordo”, di Nadia Urbinati

È un luogo comune che gli italiani siano esperti di retorica, un bene e un cruccio a seconda di come si voglia vedere la politica, se una questione di vittoria o anche una questione di vittoria giusta. Vincere persuadendo è certamente meglio che vincere eliminando l´avversario; ciò non toglie che si debba essere critici attenti dell´arte di far uso della persuasione per far fare agli altri ciò che altrimenti non farebbero. Anche la retorica, del resto, è capace di servire ragioni di giustizia quando riesce a fare mettere chi scrive le leggi nei panni di chi le leggi le deve obbedire.
Diceva Adam Schmitt che non è necessario vedere soffrire per sapere che cosa si provi soffrendo, proprio perché noi tutti sappiamo essere partecipi immaginativamente di quello che succede ai nostri simili. Non dovrebbe essere necessario essere un lavoratore dipendente per fare una legge sul mercato del lavoro che sia equa, anche per i lavoratori dipendenti. Il linguaggio della politica è efficace quando riesce a far sentire tutti partecipi, anche se ideologicamente (o per appartenenza di classe) distanti tra loro. Diversamente si tratta di linguaggio privato, che non consente di attuare mediazioni perché prospetta soluzioni che sono a somma zero, a vantaggio cioè di una sola parte. Ecco perché il linguaggio della politica non dovrebbe essere né solo preoccupato di vincere né avere il carattere dell´intransigenza; la prudenza non è mollezza ma saggia fermezza.
Fare accordi, cercare la via più vantaggiosa per giungere alla risoluzione di un problema di portata generale non equivale ad arrendersi né, d´altra parte, a portare a casa un bottino. Al contrario, in politica si vince quando non si vince troppo perché si vince tendendo l´avversario in gioco. Il linguaggio politico serve a incanalare le idee diverse verso uno scopo che è comune; le parole contengono quindi il senso della possibilità e della fallibilità: poiché se solo una parte è nel vero (o nel falso), non c´è proprio nulla da mediare. La verità non vuole compromessi.
L´arte del linguaggio politico non è solo una questione di stile. Il senso delle parole è altrettanto importante perché può avvicinare o allontanare gli interlocutori. Prendiamo per esemplificare tre parole in uso costante in questi mesi di trattativa sull´articolo 18: “dogma”, “privilegio” e “merito”. Tre parole che sembrano neutre e innocui, ma che hanno un bagaglio ideologico pesante. Dogma è diventato il termine usato per designare la resistenza alla flessibilità nel mercato del lavoro. Il dogma, quando non si riferisce al mistero della divinità, è uno stigma. La persona dogmatica assume che quel che pensa sia una verità insindacabile. Il dogma è indice di stupidità e irragionevolezza. Ora, il diritto di chiedere conto (e l´obbligo di rendere conto) viene dipinto come una pretesa irrazionale, anacronistica. In quanto dogma, non è più “diritto”, ma un “privilegio”.
L´uso del termine privilegio è anch´esso molto indicativo. Infatti, se c´è una cosa che in una società democratica tutti detestano è che qualcuno sia più uguale degli altri, che goda cioè di privilegi. Ovviamente ci sono molti privilegiati di fatto, ma nessuno per diritto. Per esempio, i politici godono di straordinari privilegi ma sono comunque sottoposti al giudizio dell´elettore e quindi mai inamovibili. Nemmeno il profitto è un privilegio perché sottomesso comunque ai rischi del mercato. In questa fase della storia delle democrazie occidentali, gli unici a godere di un privilegio sembrano essere i più deboli – il repubblicano americano Newt Gingrich nei suoi comizi inveisce contro il popolo della “tessera di povertà”, privilegiati assistiti che non meritano l´interesse della politica poiché sono un peso per tutti. Questo è il rovesciamento della realtà di cui la retorica è capace. Chi gode di un privilegio non ha bisogno di diritti. Perché il diritto è uno scudo che protegge il debole (perché ha meno potere) dal forte (che avendo potere non ha bisogno di diritti, mentre dovrebbe essere soggetto a obblighi). Lo Statuto dei Lavoratori è stato fatto per protegge il lavoratore dall´arbitrio di chi ha tutto il potere di decidere. Senza un limite posto dalla legge, quel potere si fa arbitrario. Se si vuole giungere a una giusta riforma si dovrebbero togliere i veri ostacoli all´attuazione di quel diritto, uno per tutti: le disfunzioni della giustizia italiana che impiega anni a risolvere un contenzioso, ed è causa di vera ingiustizia per tutti, per il lavoratore, per chi cerca un lavoro e per il datore di lavoro.
A coronamento della strategia linguistica viene infine il “merito”, che sta sia contro il privilegio che contro il dogma. John Rawls aveva tenuto fuori il merito dalle ragioni di giustizia distributiva perché condizionato dal contesto familiare, economico, scolastico, eccetera, e non traducibile in procedura imparziale. Solo un´identica (e irrealistica) condizione di partenza e identiche condizioni familiari, educative e socio-econimiche potrebbero fare del merito un criterio di giustizia distributiva. Ma le società sono dense di contingenze che sporcano questo ideale. Essere nati in un quartiere invece di un altro è condizione sufficiente per rendere il giudizio sul merito nullo, anzi ingiusto, quando si tratta di decidere come distribuire beni o oneri. Certo che le carriere devono seguire il merito! Ma questa dovrebbe essere la norma operante – senza di che c´è corruzione. La norma del merito dovrebbe semplicemente funzionare, e se non funziona il torto deve essere punito. Ma se se ne fa un ideale da perseguire è perché c´è ingiustizia e corruzione. Però, se così è, invocare il “privilegio” degli occupati come causa della disoccupazione di chi “meriterebbe” un posto di lavoro diventa davvero irrazionale.
Dogma, privilegio, merito: queste parole danno un´idea di quale direzione possa prendere il mutamento della nostra società. Non si può fare come se si tratti solo di parole. Decostruirle, riflettere sul loro significato e le loro implicazioni è una condizione preliminare importante per discutere in maniera prudente sulle decisioni da prendere, e soprattutto per prendere decisioni che siano giuste.

La Repubblica 20.03.12

"La bomba a orologeria dell’autismo ignorato", di Mario Pirani

Quasi in concomitanza con la nostra ultima rubrica sulle vicende di 400.000 bambini con salute mentale a rischio (Repubblica, 12/3), leggo su Le Monde (9/3) due pagine dedicate alle più aspre ma similari discussioni che si svolgono in Francia, un paese che non ha ancora realizzato l´integrazione scolastica per la presa in carico dei minori affetti da Ted (turbe invadenti dello sviluppo), in modo particolare l´autismo. Quanto all´Italia i messaggi ricevuti forniscono un riscontro sensibile da parte di varie regioni. Segnala, ad esempio, il presidente della Onlus Autismo Toscana, Marino Lupi, (www.autismotoscana.it), composta di familiari di bambini-ragazzi autistici, come questi ad un certo punto letteralmente “scompaiono”, in quanto non più seguiti nella vita adulta. «Pensi – mi scrive Lupi – che da un´ indagine regionale che la nostra Onlus è riuscita a fare nel 2006, le persone con autismo sopra i 18 anni risultavano in tutta la Toscana appena 75 mentre in nessuna Usl si segnalavano casi di autismo superiori ai 44 anni di età. Malgrado la cecità statistica la domanda è sempre la stessa: quale futuro per le persone cresciute con autismo? Quanto ci costerà questo disastro umano ed economico annunciato?».
Posso solo citare tra le molte altre missive quella del dott. Farrugia, segretario laziale della Società di neuropsichiatria dell´infanzia, e di due terapiste che seguono soggetti con «disabilità non visibile a livello macroscopico (disturbo specifico del linguaggio, ritardo psicomotorio, disturbo di apprendimenti o disturbo dello spettro autistico e della coordinazione) spesso considerati soggetti lenti e svogliati, immaturi o bizzarri, con scarso riconoscimento del Disturbo». Infine il prof. Stefano Seri, distaccato all´Aston University di Birmingham, Uk, sostiene anche lui una «revisione della legislazione incentrata in primo luogo sulla sostenibilità nel lungo periodo».
Il prof. Gabriel Levi, primario di psicoterapia infantile, che assieme al compianto Giovanni Bollea ha raccolto i dati tecnici per una Legge sulla Salute mentale in Età evolutiva, ci ha spiegato: «A via dei Sabelli abbiamo in fase avanzata diversi progetti di ampio respiro. Sulla riabilitazione per fasi di età dell´autismo. Sulle malattie neurologiche rare. Sulla terapia integrata delle crisi psicotiche adolescenziali. Sui disturbi specifici di apprendimento. Sulla prevenzione precoce della depressione e dei disturbi di personalità in età adulta. Abbiamo il know how per utilizzare a 360 gradi una esperienza di 5 anni, unica in Europa. Ci mancano pochi soldi. Basterebbero, per esempio, i fondi per 6 contratti o di mobilità per 6 giovani psichiatri infantili per andare ad un organico a pieno regime». Potremmo arrivare con bassissima spesa e il massimo di riordino alla nuova legge, da affiancare alla legge 170 che affronta la dislessia e l´integrazione scolastica. Un passo indispensabile anche con l´intento di impedire che la diagnosi di Dsa (disturbi specifici di apprendimento) venga attribuita a un numero eccessivo di bambini, spinti verso un riconoscimento di handicap, con l´evidente fine di ottenere l´insegnante di sostegno. Per contro la legge dovrebbe servire ad integrare i diversi interventi a francobollo con spese regionali oggi frammentate (dall´autismo al bullismo, dalle difficoltà dei minori migranti agli affetti da depressione). I disturbi vanno differenziati secondo il loro grado di gravità (spesso dovuto alla tardiva scoperta e presa in carico) e, analizzati secondo l´età dell´individuo. Comunque il dato globale che giustifica una legge ad hoc deriva dal quadro seguente: in Italia 4 bambini su 100 vengono seguiti dai Servizi di neuropsichiatria dell´età evolutiva per problemi significativi, mentre per ogni bambino che non viene visto ne esiste un altro che non è segnalato e che se non sarà preso in carico, “esploderà” da adolescente o da adulto. Una bomba già innestata.

da Repubblica 19.3.12

“La bomba a orologeria dell’autismo ignorato”, di Mario Pirani

Quasi in concomitanza con la nostra ultima rubrica sulle vicende di 400.000 bambini con salute mentale a rischio (Repubblica, 12/3), leggo su Le Monde (9/3) due pagine dedicate alle più aspre ma similari discussioni che si svolgono in Francia, un paese che non ha ancora realizzato l´integrazione scolastica per la presa in carico dei minori affetti da Ted (turbe invadenti dello sviluppo), in modo particolare l´autismo. Quanto all´Italia i messaggi ricevuti forniscono un riscontro sensibile da parte di varie regioni. Segnala, ad esempio, il presidente della Onlus Autismo Toscana, Marino Lupi, (www.autismotoscana.it), composta di familiari di bambini-ragazzi autistici, come questi ad un certo punto letteralmente “scompaiono”, in quanto non più seguiti nella vita adulta. «Pensi – mi scrive Lupi – che da un´ indagine regionale che la nostra Onlus è riuscita a fare nel 2006, le persone con autismo sopra i 18 anni risultavano in tutta la Toscana appena 75 mentre in nessuna Usl si segnalavano casi di autismo superiori ai 44 anni di età. Malgrado la cecità statistica la domanda è sempre la stessa: quale futuro per le persone cresciute con autismo? Quanto ci costerà questo disastro umano ed economico annunciato?».
Posso solo citare tra le molte altre missive quella del dott. Farrugia, segretario laziale della Società di neuropsichiatria dell´infanzia, e di due terapiste che seguono soggetti con «disabilità non visibile a livello macroscopico (disturbo specifico del linguaggio, ritardo psicomotorio, disturbo di apprendimenti o disturbo dello spettro autistico e della coordinazione) spesso considerati soggetti lenti e svogliati, immaturi o bizzarri, con scarso riconoscimento del Disturbo». Infine il prof. Stefano Seri, distaccato all´Aston University di Birmingham, Uk, sostiene anche lui una «revisione della legislazione incentrata in primo luogo sulla sostenibilità nel lungo periodo».
Il prof. Gabriel Levi, primario di psicoterapia infantile, che assieme al compianto Giovanni Bollea ha raccolto i dati tecnici per una Legge sulla Salute mentale in Età evolutiva, ci ha spiegato: «A via dei Sabelli abbiamo in fase avanzata diversi progetti di ampio respiro. Sulla riabilitazione per fasi di età dell´autismo. Sulle malattie neurologiche rare. Sulla terapia integrata delle crisi psicotiche adolescenziali. Sui disturbi specifici di apprendimento. Sulla prevenzione precoce della depressione e dei disturbi di personalità in età adulta. Abbiamo il know how per utilizzare a 360 gradi una esperienza di 5 anni, unica in Europa. Ci mancano pochi soldi. Basterebbero, per esempio, i fondi per 6 contratti o di mobilità per 6 giovani psichiatri infantili per andare ad un organico a pieno regime». Potremmo arrivare con bassissima spesa e il massimo di riordino alla nuova legge, da affiancare alla legge 170 che affronta la dislessia e l´integrazione scolastica. Un passo indispensabile anche con l´intento di impedire che la diagnosi di Dsa (disturbi specifici di apprendimento) venga attribuita a un numero eccessivo di bambini, spinti verso un riconoscimento di handicap, con l´evidente fine di ottenere l´insegnante di sostegno. Per contro la legge dovrebbe servire ad integrare i diversi interventi a francobollo con spese regionali oggi frammentate (dall´autismo al bullismo, dalle difficoltà dei minori migranti agli affetti da depressione). I disturbi vanno differenziati secondo il loro grado di gravità (spesso dovuto alla tardiva scoperta e presa in carico) e, analizzati secondo l´età dell´individuo. Comunque il dato globale che giustifica una legge ad hoc deriva dal quadro seguente: in Italia 4 bambini su 100 vengono seguiti dai Servizi di neuropsichiatria dell´età evolutiva per problemi significativi, mentre per ogni bambino che non viene visto ne esiste un altro che non è segnalato e che se non sarà preso in carico, “esploderà” da adolescente o da adulto. Una bomba già innestata.

da Repubblica 19.3.12

“La bomba a orologeria dell’autismo ignorato”, di Mario Pirani

Quasi in concomitanza con la nostra ultima rubrica sulle vicende di 400.000 bambini con salute mentale a rischio (Repubblica, 12/3), leggo su Le Monde (9/3) due pagine dedicate alle più aspre ma similari discussioni che si svolgono in Francia, un paese che non ha ancora realizzato l´integrazione scolastica per la presa in carico dei minori affetti da Ted (turbe invadenti dello sviluppo), in modo particolare l´autismo. Quanto all´Italia i messaggi ricevuti forniscono un riscontro sensibile da parte di varie regioni. Segnala, ad esempio, il presidente della Onlus Autismo Toscana, Marino Lupi, (www.autismotoscana.it), composta di familiari di bambini-ragazzi autistici, come questi ad un certo punto letteralmente “scompaiono”, in quanto non più seguiti nella vita adulta. «Pensi – mi scrive Lupi – che da un´ indagine regionale che la nostra Onlus è riuscita a fare nel 2006, le persone con autismo sopra i 18 anni risultavano in tutta la Toscana appena 75 mentre in nessuna Usl si segnalavano casi di autismo superiori ai 44 anni di età. Malgrado la cecità statistica la domanda è sempre la stessa: quale futuro per le persone cresciute con autismo? Quanto ci costerà questo disastro umano ed economico annunciato?».
Posso solo citare tra le molte altre missive quella del dott. Farrugia, segretario laziale della Società di neuropsichiatria dell´infanzia, e di due terapiste che seguono soggetti con «disabilità non visibile a livello macroscopico (disturbo specifico del linguaggio, ritardo psicomotorio, disturbo di apprendimenti o disturbo dello spettro autistico e della coordinazione) spesso considerati soggetti lenti e svogliati, immaturi o bizzarri, con scarso riconoscimento del Disturbo». Infine il prof. Stefano Seri, distaccato all´Aston University di Birmingham, Uk, sostiene anche lui una «revisione della legislazione incentrata in primo luogo sulla sostenibilità nel lungo periodo».
Il prof. Gabriel Levi, primario di psicoterapia infantile, che assieme al compianto Giovanni Bollea ha raccolto i dati tecnici per una Legge sulla Salute mentale in Età evolutiva, ci ha spiegato: «A via dei Sabelli abbiamo in fase avanzata diversi progetti di ampio respiro. Sulla riabilitazione per fasi di età dell´autismo. Sulle malattie neurologiche rare. Sulla terapia integrata delle crisi psicotiche adolescenziali. Sui disturbi specifici di apprendimento. Sulla prevenzione precoce della depressione e dei disturbi di personalità in età adulta. Abbiamo il know how per utilizzare a 360 gradi una esperienza di 5 anni, unica in Europa. Ci mancano pochi soldi. Basterebbero, per esempio, i fondi per 6 contratti o di mobilità per 6 giovani psichiatri infantili per andare ad un organico a pieno regime». Potremmo arrivare con bassissima spesa e il massimo di riordino alla nuova legge, da affiancare alla legge 170 che affronta la dislessia e l´integrazione scolastica. Un passo indispensabile anche con l´intento di impedire che la diagnosi di Dsa (disturbi specifici di apprendimento) venga attribuita a un numero eccessivo di bambini, spinti verso un riconoscimento di handicap, con l´evidente fine di ottenere l´insegnante di sostegno. Per contro la legge dovrebbe servire ad integrare i diversi interventi a francobollo con spese regionali oggi frammentate (dall´autismo al bullismo, dalle difficoltà dei minori migranti agli affetti da depressione). I disturbi vanno differenziati secondo il loro grado di gravità (spesso dovuto alla tardiva scoperta e presa in carico) e, analizzati secondo l´età dell´individuo. Comunque il dato globale che giustifica una legge ad hoc deriva dal quadro seguente: in Italia 4 bambini su 100 vengono seguiti dai Servizi di neuropsichiatria dell´età evolutiva per problemi significativi, mentre per ogni bambino che non viene visto ne esiste un altro che non è segnalato e che se non sarà preso in carico, “esploderà” da adolescente o da adulto. Una bomba già innestata.

da Repubblica 19.3.12

"Cresce il non voto. L’elettore è «in apnea» tra sfiducia e crisi", di Carlo Buttaroni

Aumenta l’area dell’astensione. E ovviamente i più colpiti sono Pd e Pdl, i partiti maggiori. Si sta perdendo il nesso tra la politica e la rappresentazione degli interessi sociali: un fenomeno iniziato da tempo che però si accentua

La curva della partecipazione continua a puntare verso il basso e l’area del consenso ai partiti si riduce sempre più. È questa, anche a marzo, la sintesi dei risultati dell’indagine realizzata da Tecnè.
Un’emorragia di consensi che riguarda innanzitutto Pd e Pdl e che si riversa, prevalentemente, verso l’area dell’astensione. Prendendo come riferimento le politiche del 2008, a fronte del 28,8% di elettori in uscita dai due principali partiti, nessuna formazione evidenzia flussi in entrata particolarmente significativi. Le performance migliori, in termini di consensi, sono quelle dei partiti che non erano presenti alle scorse elezioni politiche. Anche per queste forze, però, il saldo inevitabilmente positivo, non è tale da far presagire un sicuro successo.
Una situazione che rende azzardata qualsiasi ipotesi che riguarda gli esiti futuri di un possibile confronto elettorale. Una parte di indecisi e di elettori oggi orientati verso l’astensione potrebbe scegliere di recarsi alle urne il giorno delle elezioni. E ne basterebbero due su dieci per rovesciare la geografia politica che emerge dalle stime più recenti, realizzate (è bene tenerlo sempre presente) usando come base di calcolo soltanto chi dichiara il partito che voterebbe.
Le stime di questi ultimi mesi, quindi, più che lette come una tendenza, devono essere interpretate all’interno di uno scenario di forte cambiamento, che si distacca dalla tradizionale competizione destra/sinistra, e che ruota, prevalentemente, intorno alla scelta di votare o astenersi.
Un processo iniziato da anni, accelerato dalla crisi economica, che ha progressivamente dato corpo a uno scenario nuovo, il cui protagonista non è più «l’elettore incerto» che per anni ha ispirato la comunicazione politica dei partiti, ma «l’elettore in apnea» che non vede più i partiti tradizionali come i soli interlocutori in grado di dare risposte ai problemi legati alla sua quotidianità.
L’elettore incerto era di confine tra le diverse aree politiche e in cerca di risposte, e faceva la differenza tra un successo o una sconfitta nel momento in cui si sommava allo «zoccolo duro» del consenso più stabile e fedele. L’elettore in apnea al quale l’innalzamento della complessità sociale prima e la crisi poi, hanno tolto ossigeno non formula più domande alle quali i partiti non sembrano in grado di rispondere, soffre un deficit di riferimenti nel momento in cui i partiti hanno perso anche il tradizionale radicamento territoriale e tende ad auto-organizzarsi nel cercare le risposte più adatte ai suoi problemi contingenti.
Uno scenario completamente nuovo rispetto al passato, quindi, che si evidenzia nella progressiva trasformazione delle basi sociali dei partiti. Storicamente la sinistra aveva un consenso radicato nella classe lavoratrice di livello medio-basso, tra gli insegnanti, tra i disoccupati e tra chi viveva un disagio di natura economica e sociale. La destra, al contrario, aveva la sua base elettorale nel ceto imprenditoriale, tra i lavoratori dipendenti di fascia media e medio-alta e tra i commercianti. Per molti anni, in passato, il comportamento politico ha riflettuto, in qualche modo, il profilo sociale del Paese e quelli che erano i suoi bisogni.
Negli ultimi vent’anni la corrispondenza tra collocazione sociale e collocazione politica si è andata sempre più affievolendo, dando spazio, progressivamente, a nuove forme di relazione, determinate dalla stabilità sociale o, al contrario e più appropriatamente dall’instabilità. La dislocazione lungo l’asse centro/periferia sociale oggi non corrisponde più a una gradazione politica e al conseguente voto a un determinato partito, ma è subordinata alla scelta iniziale se andare a votare oppure no.
Le Politiche del 2008 sono indicative sotto questo punto di vista. Un’indagine realizzata da Tecnè all’indomani delle elezioni ha rilevato che la partecipazione al voto tra i cittadini con uno status sociale alto è stata del 94% mentre tra quelli con uno status sociale basso soltanto del 60%. Sempre nel 2008 il centrodestra ha avuto sostenitori soprattutto tra gli artigiani e i commercianti, tra i lavoratori autonomi e i pensionati. La base del voto del centrosinistra è stata, per molti versi, complementare: dipendenti pubblici, dirigenti, insegnanti. Per entrambi gli schieramenti, quindi, il consenso è arrivato da elettori socialmente più stabili e integrati.
Con la fine della Seconda Repubblica e l’accelerazione imposta dalla crisi economica, rispetto alle politiche, lo scenario ha preso una forma in cui la discriminante ruota quasi esclusivamente intorno all’astensione. Lo zoccolo duro dei partiti è ulteriormente assottigliato e la base del consenso ai partiti è prevalentemente rappresentata dai cittadini con uno status sociale medio-alto e alto, mentre la spinta anti-partitica, sostenuta dai disoccupati e dalle più insicure e precarie fasce di lavoratori di livello medio-basso e basso, si orienta verso l’astensione.
La crescita dell’area del non voto non è un abbandono della dimensione politica da parte dei cittadini ma la manifestazione del progressivo allontanamento tra la «società felice» e la «società delusa». E infatti gli elettori astensionisti e incerti non sono tutti di destra, così come non sono tutti di sinistra, ma li unisce una visione del futuro incerta, una forte precarietà, un’evidente contrarietà verso le diverse forme di esercizio politico espresse dai partiti ormai incapaci di intercettare le nuove istanze di stabilità sociale.
È anche per questi motivi che l’argomento che riguarda le differenze tra cultura di Destra e cultura di Sinistra almeno rispetto a come la storia, la tradizione e la società ci hanno abituati a intenderle e, pertanto, a riconoscerle ha perso interesse. La crescente complessità delle società, generando di continuo nuovi ruoli sociali, inevitabilmente favorisce il moltiplicarsi d’identità provvisorie, rendendo gli elettori meno sensibili a richiami ideologici univoci e dati una volta per sempre. Si è affermata la convinzione che alcuni ambiti siano tecnicamente neutri e dunque abbiano bisogno di un terreno altrettanto neutro all’interno del quale esprimersi. È soprattutto nell’ambito economico che le differenze sembrano sfumare peraltro molto più sulla scelta dei mezzi che nella determinazione degli obiettivi dando luogo a un’offerta politica, formata da «pacchetti di issues» variabili nel tempo e da contesto a contesto, che difficilmente possono essere ricondotti a differenti correnti di pensiero.
La crisi politica è figlia della crisi che sta investendo il nostro Paese. Ma nonostante i partiti siano al centro di una «tempesta perfetta» faticano a diventarne consapevoli e sembra che nulla sia accaduto o che tutto debba ancora accadere. In realtà tutto sta già accadendo e la fase di forte instabilità è destinata a protrarsi fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio sociale e politico. E come tutti i processi sociali ciò avviene attraverso quattro fasi: stabilità; rottura dell’equilibrio; adattamento; nuovo equilibrio. In questo momento ci troviamo nel secondo stadio e lo scenario pone questioni inedite che impone ai partiti di sapersi ripensare e riprogettare, lavorando, contestualmente, su «grandi scale» e su «piccole scale».
Finché il cittadino non smarrirà la sua natura sociale, conseguentemente la politica non finirà di svolgere il suo ruolo di governo della società. Per questo, anche se inespresso o sottaciuto, si sente il bisogno di una politica che sappia progettare e farsi carico di quell’interpretazione e rappresentazione della complessità che la società oggi richiede. E ciò è necessario proprio oggi, nel momento in cui il regno dell’economia volge al termine e la razionalità progressiva del neoliberismo si è dimostrata inadeguata. E nel cercare nuove ispirazioni e nuovi equilibri la politica non può prescindere dalla dimensione «locale», intesa come dimensione reale e vitale d’individui che muovono, scelgono, agiscono, in funzione di sé e degli altri.

da l’Unità 19.3.12

“Cresce il non voto. L’elettore è «in apnea» tra sfiducia e crisi”, di Carlo Buttaroni

Aumenta l’area dell’astensione. E ovviamente i più colpiti sono Pd e Pdl, i partiti maggiori. Si sta perdendo il nesso tra la politica e la rappresentazione degli interessi sociali: un fenomeno iniziato da tempo che però si accentua

La curva della partecipazione continua a puntare verso il basso e l’area del consenso ai partiti si riduce sempre più. È questa, anche a marzo, la sintesi dei risultati dell’indagine realizzata da Tecnè.
Un’emorragia di consensi che riguarda innanzitutto Pd e Pdl e che si riversa, prevalentemente, verso l’area dell’astensione. Prendendo come riferimento le politiche del 2008, a fronte del 28,8% di elettori in uscita dai due principali partiti, nessuna formazione evidenzia flussi in entrata particolarmente significativi. Le performance migliori, in termini di consensi, sono quelle dei partiti che non erano presenti alle scorse elezioni politiche. Anche per queste forze, però, il saldo inevitabilmente positivo, non è tale da far presagire un sicuro successo.
Una situazione che rende azzardata qualsiasi ipotesi che riguarda gli esiti futuri di un possibile confronto elettorale. Una parte di indecisi e di elettori oggi orientati verso l’astensione potrebbe scegliere di recarsi alle urne il giorno delle elezioni. E ne basterebbero due su dieci per rovesciare la geografia politica che emerge dalle stime più recenti, realizzate (è bene tenerlo sempre presente) usando come base di calcolo soltanto chi dichiara il partito che voterebbe.
Le stime di questi ultimi mesi, quindi, più che lette come una tendenza, devono essere interpretate all’interno di uno scenario di forte cambiamento, che si distacca dalla tradizionale competizione destra/sinistra, e che ruota, prevalentemente, intorno alla scelta di votare o astenersi.
Un processo iniziato da anni, accelerato dalla crisi economica, che ha progressivamente dato corpo a uno scenario nuovo, il cui protagonista non è più «l’elettore incerto» che per anni ha ispirato la comunicazione politica dei partiti, ma «l’elettore in apnea» che non vede più i partiti tradizionali come i soli interlocutori in grado di dare risposte ai problemi legati alla sua quotidianità.
L’elettore incerto era di confine tra le diverse aree politiche e in cerca di risposte, e faceva la differenza tra un successo o una sconfitta nel momento in cui si sommava allo «zoccolo duro» del consenso più stabile e fedele. L’elettore in apnea al quale l’innalzamento della complessità sociale prima e la crisi poi, hanno tolto ossigeno non formula più domande alle quali i partiti non sembrano in grado di rispondere, soffre un deficit di riferimenti nel momento in cui i partiti hanno perso anche il tradizionale radicamento territoriale e tende ad auto-organizzarsi nel cercare le risposte più adatte ai suoi problemi contingenti.
Uno scenario completamente nuovo rispetto al passato, quindi, che si evidenzia nella progressiva trasformazione delle basi sociali dei partiti. Storicamente la sinistra aveva un consenso radicato nella classe lavoratrice di livello medio-basso, tra gli insegnanti, tra i disoccupati e tra chi viveva un disagio di natura economica e sociale. La destra, al contrario, aveva la sua base elettorale nel ceto imprenditoriale, tra i lavoratori dipendenti di fascia media e medio-alta e tra i commercianti. Per molti anni, in passato, il comportamento politico ha riflettuto, in qualche modo, il profilo sociale del Paese e quelli che erano i suoi bisogni.
Negli ultimi vent’anni la corrispondenza tra collocazione sociale e collocazione politica si è andata sempre più affievolendo, dando spazio, progressivamente, a nuove forme di relazione, determinate dalla stabilità sociale o, al contrario e più appropriatamente dall’instabilità. La dislocazione lungo l’asse centro/periferia sociale oggi non corrisponde più a una gradazione politica e al conseguente voto a un determinato partito, ma è subordinata alla scelta iniziale se andare a votare oppure no.
Le Politiche del 2008 sono indicative sotto questo punto di vista. Un’indagine realizzata da Tecnè all’indomani delle elezioni ha rilevato che la partecipazione al voto tra i cittadini con uno status sociale alto è stata del 94% mentre tra quelli con uno status sociale basso soltanto del 60%. Sempre nel 2008 il centrodestra ha avuto sostenitori soprattutto tra gli artigiani e i commercianti, tra i lavoratori autonomi e i pensionati. La base del voto del centrosinistra è stata, per molti versi, complementare: dipendenti pubblici, dirigenti, insegnanti. Per entrambi gli schieramenti, quindi, il consenso è arrivato da elettori socialmente più stabili e integrati.
Con la fine della Seconda Repubblica e l’accelerazione imposta dalla crisi economica, rispetto alle politiche, lo scenario ha preso una forma in cui la discriminante ruota quasi esclusivamente intorno all’astensione. Lo zoccolo duro dei partiti è ulteriormente assottigliato e la base del consenso ai partiti è prevalentemente rappresentata dai cittadini con uno status sociale medio-alto e alto, mentre la spinta anti-partitica, sostenuta dai disoccupati e dalle più insicure e precarie fasce di lavoratori di livello medio-basso e basso, si orienta verso l’astensione.
La crescita dell’area del non voto non è un abbandono della dimensione politica da parte dei cittadini ma la manifestazione del progressivo allontanamento tra la «società felice» e la «società delusa». E infatti gli elettori astensionisti e incerti non sono tutti di destra, così come non sono tutti di sinistra, ma li unisce una visione del futuro incerta, una forte precarietà, un’evidente contrarietà verso le diverse forme di esercizio politico espresse dai partiti ormai incapaci di intercettare le nuove istanze di stabilità sociale.
È anche per questi motivi che l’argomento che riguarda le differenze tra cultura di Destra e cultura di Sinistra almeno rispetto a come la storia, la tradizione e la società ci hanno abituati a intenderle e, pertanto, a riconoscerle ha perso interesse. La crescente complessità delle società, generando di continuo nuovi ruoli sociali, inevitabilmente favorisce il moltiplicarsi d’identità provvisorie, rendendo gli elettori meno sensibili a richiami ideologici univoci e dati una volta per sempre. Si è affermata la convinzione che alcuni ambiti siano tecnicamente neutri e dunque abbiano bisogno di un terreno altrettanto neutro all’interno del quale esprimersi. È soprattutto nell’ambito economico che le differenze sembrano sfumare peraltro molto più sulla scelta dei mezzi che nella determinazione degli obiettivi dando luogo a un’offerta politica, formata da «pacchetti di issues» variabili nel tempo e da contesto a contesto, che difficilmente possono essere ricondotti a differenti correnti di pensiero.
La crisi politica è figlia della crisi che sta investendo il nostro Paese. Ma nonostante i partiti siano al centro di una «tempesta perfetta» faticano a diventarne consapevoli e sembra che nulla sia accaduto o che tutto debba ancora accadere. In realtà tutto sta già accadendo e la fase di forte instabilità è destinata a protrarsi fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio sociale e politico. E come tutti i processi sociali ciò avviene attraverso quattro fasi: stabilità; rottura dell’equilibrio; adattamento; nuovo equilibrio. In questo momento ci troviamo nel secondo stadio e lo scenario pone questioni inedite che impone ai partiti di sapersi ripensare e riprogettare, lavorando, contestualmente, su «grandi scale» e su «piccole scale».
Finché il cittadino non smarrirà la sua natura sociale, conseguentemente la politica non finirà di svolgere il suo ruolo di governo della società. Per questo, anche se inespresso o sottaciuto, si sente il bisogno di una politica che sappia progettare e farsi carico di quell’interpretazione e rappresentazione della complessità che la società oggi richiede. E ciò è necessario proprio oggi, nel momento in cui il regno dell’economia volge al termine e la razionalità progressiva del neoliberismo si è dimostrata inadeguata. E nel cercare nuove ispirazioni e nuovi equilibri la politica non può prescindere dalla dimensione «locale», intesa come dimensione reale e vitale d’individui che muovono, scelgono, agiscono, in funzione di sé e degli altri.

da l’Unità 19.3.12

“Cresce il non voto. L’elettore è «in apnea» tra sfiducia e crisi”, di Carlo Buttaroni

Aumenta l’area dell’astensione. E ovviamente i più colpiti sono Pd e Pdl, i partiti maggiori. Si sta perdendo il nesso tra la politica e la rappresentazione degli interessi sociali: un fenomeno iniziato da tempo che però si accentua

La curva della partecipazione continua a puntare verso il basso e l’area del consenso ai partiti si riduce sempre più. È questa, anche a marzo, la sintesi dei risultati dell’indagine realizzata da Tecnè.
Un’emorragia di consensi che riguarda innanzitutto Pd e Pdl e che si riversa, prevalentemente, verso l’area dell’astensione. Prendendo come riferimento le politiche del 2008, a fronte del 28,8% di elettori in uscita dai due principali partiti, nessuna formazione evidenzia flussi in entrata particolarmente significativi. Le performance migliori, in termini di consensi, sono quelle dei partiti che non erano presenti alle scorse elezioni politiche. Anche per queste forze, però, il saldo inevitabilmente positivo, non è tale da far presagire un sicuro successo.
Una situazione che rende azzardata qualsiasi ipotesi che riguarda gli esiti futuri di un possibile confronto elettorale. Una parte di indecisi e di elettori oggi orientati verso l’astensione potrebbe scegliere di recarsi alle urne il giorno delle elezioni. E ne basterebbero due su dieci per rovesciare la geografia politica che emerge dalle stime più recenti, realizzate (è bene tenerlo sempre presente) usando come base di calcolo soltanto chi dichiara il partito che voterebbe.
Le stime di questi ultimi mesi, quindi, più che lette come una tendenza, devono essere interpretate all’interno di uno scenario di forte cambiamento, che si distacca dalla tradizionale competizione destra/sinistra, e che ruota, prevalentemente, intorno alla scelta di votare o astenersi.
Un processo iniziato da anni, accelerato dalla crisi economica, che ha progressivamente dato corpo a uno scenario nuovo, il cui protagonista non è più «l’elettore incerto» che per anni ha ispirato la comunicazione politica dei partiti, ma «l’elettore in apnea» che non vede più i partiti tradizionali come i soli interlocutori in grado di dare risposte ai problemi legati alla sua quotidianità.
L’elettore incerto era di confine tra le diverse aree politiche e in cerca di risposte, e faceva la differenza tra un successo o una sconfitta nel momento in cui si sommava allo «zoccolo duro» del consenso più stabile e fedele. L’elettore in apnea al quale l’innalzamento della complessità sociale prima e la crisi poi, hanno tolto ossigeno non formula più domande alle quali i partiti non sembrano in grado di rispondere, soffre un deficit di riferimenti nel momento in cui i partiti hanno perso anche il tradizionale radicamento territoriale e tende ad auto-organizzarsi nel cercare le risposte più adatte ai suoi problemi contingenti.
Uno scenario completamente nuovo rispetto al passato, quindi, che si evidenzia nella progressiva trasformazione delle basi sociali dei partiti. Storicamente la sinistra aveva un consenso radicato nella classe lavoratrice di livello medio-basso, tra gli insegnanti, tra i disoccupati e tra chi viveva un disagio di natura economica e sociale. La destra, al contrario, aveva la sua base elettorale nel ceto imprenditoriale, tra i lavoratori dipendenti di fascia media e medio-alta e tra i commercianti. Per molti anni, in passato, il comportamento politico ha riflettuto, in qualche modo, il profilo sociale del Paese e quelli che erano i suoi bisogni.
Negli ultimi vent’anni la corrispondenza tra collocazione sociale e collocazione politica si è andata sempre più affievolendo, dando spazio, progressivamente, a nuove forme di relazione, determinate dalla stabilità sociale o, al contrario e più appropriatamente dall’instabilità. La dislocazione lungo l’asse centro/periferia sociale oggi non corrisponde più a una gradazione politica e al conseguente voto a un determinato partito, ma è subordinata alla scelta iniziale se andare a votare oppure no.
Le Politiche del 2008 sono indicative sotto questo punto di vista. Un’indagine realizzata da Tecnè all’indomani delle elezioni ha rilevato che la partecipazione al voto tra i cittadini con uno status sociale alto è stata del 94% mentre tra quelli con uno status sociale basso soltanto del 60%. Sempre nel 2008 il centrodestra ha avuto sostenitori soprattutto tra gli artigiani e i commercianti, tra i lavoratori autonomi e i pensionati. La base del voto del centrosinistra è stata, per molti versi, complementare: dipendenti pubblici, dirigenti, insegnanti. Per entrambi gli schieramenti, quindi, il consenso è arrivato da elettori socialmente più stabili e integrati.
Con la fine della Seconda Repubblica e l’accelerazione imposta dalla crisi economica, rispetto alle politiche, lo scenario ha preso una forma in cui la discriminante ruota quasi esclusivamente intorno all’astensione. Lo zoccolo duro dei partiti è ulteriormente assottigliato e la base del consenso ai partiti è prevalentemente rappresentata dai cittadini con uno status sociale medio-alto e alto, mentre la spinta anti-partitica, sostenuta dai disoccupati e dalle più insicure e precarie fasce di lavoratori di livello medio-basso e basso, si orienta verso l’astensione.
La crescita dell’area del non voto non è un abbandono della dimensione politica da parte dei cittadini ma la manifestazione del progressivo allontanamento tra la «società felice» e la «società delusa». E infatti gli elettori astensionisti e incerti non sono tutti di destra, così come non sono tutti di sinistra, ma li unisce una visione del futuro incerta, una forte precarietà, un’evidente contrarietà verso le diverse forme di esercizio politico espresse dai partiti ormai incapaci di intercettare le nuove istanze di stabilità sociale.
È anche per questi motivi che l’argomento che riguarda le differenze tra cultura di Destra e cultura di Sinistra almeno rispetto a come la storia, la tradizione e la società ci hanno abituati a intenderle e, pertanto, a riconoscerle ha perso interesse. La crescente complessità delle società, generando di continuo nuovi ruoli sociali, inevitabilmente favorisce il moltiplicarsi d’identità provvisorie, rendendo gli elettori meno sensibili a richiami ideologici univoci e dati una volta per sempre. Si è affermata la convinzione che alcuni ambiti siano tecnicamente neutri e dunque abbiano bisogno di un terreno altrettanto neutro all’interno del quale esprimersi. È soprattutto nell’ambito economico che le differenze sembrano sfumare peraltro molto più sulla scelta dei mezzi che nella determinazione degli obiettivi dando luogo a un’offerta politica, formata da «pacchetti di issues» variabili nel tempo e da contesto a contesto, che difficilmente possono essere ricondotti a differenti correnti di pensiero.
La crisi politica è figlia della crisi che sta investendo il nostro Paese. Ma nonostante i partiti siano al centro di una «tempesta perfetta» faticano a diventarne consapevoli e sembra che nulla sia accaduto o che tutto debba ancora accadere. In realtà tutto sta già accadendo e la fase di forte instabilità è destinata a protrarsi fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio sociale e politico. E come tutti i processi sociali ciò avviene attraverso quattro fasi: stabilità; rottura dell’equilibrio; adattamento; nuovo equilibrio. In questo momento ci troviamo nel secondo stadio e lo scenario pone questioni inedite che impone ai partiti di sapersi ripensare e riprogettare, lavorando, contestualmente, su «grandi scale» e su «piccole scale».
Finché il cittadino non smarrirà la sua natura sociale, conseguentemente la politica non finirà di svolgere il suo ruolo di governo della società. Per questo, anche se inespresso o sottaciuto, si sente il bisogno di una politica che sappia progettare e farsi carico di quell’interpretazione e rappresentazione della complessità che la società oggi richiede. E ciò è necessario proprio oggi, nel momento in cui il regno dell’economia volge al termine e la razionalità progressiva del neoliberismo si è dimostrata inadeguata. E nel cercare nuove ispirazioni e nuovi equilibri la politica non può prescindere dalla dimensione «locale», intesa come dimensione reale e vitale d’individui che muovono, scelgono, agiscono, in funzione di sé e degli altri.

da l’Unità 19.3.12