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"La via si fa più stretta", di Guglielmo Epifani

La possibilità di un accordo sul tema del mercato del lavoro si è allontanata dopo che nei giorni scorsi si era aperto qualche spiraglio. Sono riapparsi problemi di merito tutt’altro che secondari, a partire dalle tutele in materia di licenziamenti senza giusta causa (ma non solo da queste).C’è però un’evidente questione di metodo che sta condizionando negativamente il confronto e rischia seriamente di farlo naufragare. Quando si avvia un negoziato tra governo e parti sociali c’è un punto che non può mai venir meno: la fiducia reciproca che quello che si sta facendo è una scelta impegnativa che riguarda tutti allo stesso modo. Anche quando, e può capitare, il confronto non porta a un accordo condiviso. Il governo questa scelta non l’ha mai fatta con chiarezza, di volta in volta aprendo sia a una compiuta logica negoziale sia al suo opposto: cioè procedere in modo unilaterale. Naturalmente ogni governo ha la piena libertà di questa scelta, ma non ne può fare due opposte contemporaneamente perché così, aldilà del merito, si assume la responsabilità del fallimento. Fa parte di questa contraddizione la stessa ripetuta fissazione di un termine perentorio per la fine del negoziato. Che senso ha nel quadro di oggi legare questo alla missione nei Paesi orientali del presidente del Consiglio? Tanto più che i giorni persi sono stati conseguenza di una richiesta del governo di avere tempo per trovare le risorse pubbliche necessarie per il finanziamento dei nuovi ammortizzatori sociali… L’ostacolo fondamentale per l’accordo risiede comunque nel merito che, fermo restando il bisogno di avere un quadro più compiuto delle scelte del governo sui singoli punti dell’agenda, ancora vaghi su più di un aspetto, si può riassumere così: poco rispetto all’ambizione di ridisegnare una profonda riforma degli ammortizzatori sociali di tipo europeo, soprattutto per l’assenza di risorse come era stato abbondantemente detto; poco nella riduzione della precarietà rispetto al bisogno di semplificare realmente le oltre 40 tipologie contrattuali esistenti; tanto, tantissimo, nella riduzione delle tutele contro i licenziamenti ingiustificati e nello stravolgimento dell’articolo 18. L’asimmetria è troppo evidente anche nell’ottica riformista di valorizzare ogni progresso portato nelle condizioni di precari e lavoratori oggi privi di ogni tutela, e di ragionare sulle cose che vanno aggiustate sui licenziamenti, tanto più che si fa riferimento a un modello tedesco citato da aziende e governo in modo del tutto parziale e di comodo. In questo modo la «riformetta», come è stata chiamata dall’insospettabile Corriere della sera, diventa una vera e propria controriforma in tema di licenziamenti, nel momento in cui l’innalzamento dell’età di pensione apre problemi inediti a lavoratori e aziende. C’è poi un elemento che il governo dovrebbe valutare con attenzione. Una riforma non condivisa potrà forse far gioire qualche giornale anche internazionale, ma porta inevitabilmente a conseguenze più delicate. Innanzitutto una rottura sociale che non sarà occasionale, che avrà conseguenze per le aziende, e che riguarderà sia i profili giudiziari sia nel tempo quelli contrattuali. In secondo luogo si aprirà un inevitabile contenzioso sulle forme della traduzione legislativa delle scelte del governo. Come si può giustificare un decreto legge su materie che non hanno urgenza di tempi o di provvedimenti? Ma anche la scelta della delega senza un accordo si presta a tante obiezioni di metodo e opportunità. Infine finirà la luna di miele col governo nel nome dell’emergenza e della responsabilità se la lesione ai diritti dovesse essere confermata. Nei giorni scorsi contro l’intervento del governo spagnolo in tema di licenziamenti si sono mobilitati tutti i sindacati spagnoli fino alla proclamazione dello sciopero generale. E lì governa il centrodestra che ha vinto le elezioni. In Francia dentro una campagna per le elezioni presidenziali ispirata a molta concretezza di proposte e programmi un punto chiave oppone i due candidati: per Sarkozy bisogna governare senza il coinvolgimento delle parti sociali nel nome di un’idea di democrazia referendaria e diretta; per Hollande al contrario si deve continuare a coinvolgere l’insieme dei corpi intermedi nel nome di una democrazia sociale. La scelta che Monti farà, lo si voglia o no, finirà per avere anche un significato politico.

L’Unità 19-03-12

“La via si fa più stretta”, di Guglielmo Epifani

La possibilità di un accordo sul tema del mercato del lavoro si è allontanata dopo che nei giorni scorsi si era aperto qualche spiraglio. Sono riapparsi problemi di merito tutt’altro che secondari, a partire dalle tutele in materia di licenziamenti senza giusta causa (ma non solo da queste).C’è però un’evidente questione di metodo che sta condizionando negativamente il confronto e rischia seriamente di farlo naufragare. Quando si avvia un negoziato tra governo e parti sociali c’è un punto che non può mai venir meno: la fiducia reciproca che quello che si sta facendo è una scelta impegnativa che riguarda tutti allo stesso modo. Anche quando, e può capitare, il confronto non porta a un accordo condiviso. Il governo questa scelta non l’ha mai fatta con chiarezza, di volta in volta aprendo sia a una compiuta logica negoziale sia al suo opposto: cioè procedere in modo unilaterale. Naturalmente ogni governo ha la piena libertà di questa scelta, ma non ne può fare due opposte contemporaneamente perché così, aldilà del merito, si assume la responsabilità del fallimento. Fa parte di questa contraddizione la stessa ripetuta fissazione di un termine perentorio per la fine del negoziato. Che senso ha nel quadro di oggi legare questo alla missione nei Paesi orientali del presidente del Consiglio? Tanto più che i giorni persi sono stati conseguenza di una richiesta del governo di avere tempo per trovare le risorse pubbliche necessarie per il finanziamento dei nuovi ammortizzatori sociali… L’ostacolo fondamentale per l’accordo risiede comunque nel merito che, fermo restando il bisogno di avere un quadro più compiuto delle scelte del governo sui singoli punti dell’agenda, ancora vaghi su più di un aspetto, si può riassumere così: poco rispetto all’ambizione di ridisegnare una profonda riforma degli ammortizzatori sociali di tipo europeo, soprattutto per l’assenza di risorse come era stato abbondantemente detto; poco nella riduzione della precarietà rispetto al bisogno di semplificare realmente le oltre 40 tipologie contrattuali esistenti; tanto, tantissimo, nella riduzione delle tutele contro i licenziamenti ingiustificati e nello stravolgimento dell’articolo 18. L’asimmetria è troppo evidente anche nell’ottica riformista di valorizzare ogni progresso portato nelle condizioni di precari e lavoratori oggi privi di ogni tutela, e di ragionare sulle cose che vanno aggiustate sui licenziamenti, tanto più che si fa riferimento a un modello tedesco citato da aziende e governo in modo del tutto parziale e di comodo. In questo modo la «riformetta», come è stata chiamata dall’insospettabile Corriere della sera, diventa una vera e propria controriforma in tema di licenziamenti, nel momento in cui l’innalzamento dell’età di pensione apre problemi inediti a lavoratori e aziende. C’è poi un elemento che il governo dovrebbe valutare con attenzione. Una riforma non condivisa potrà forse far gioire qualche giornale anche internazionale, ma porta inevitabilmente a conseguenze più delicate. Innanzitutto una rottura sociale che non sarà occasionale, che avrà conseguenze per le aziende, e che riguarderà sia i profili giudiziari sia nel tempo quelli contrattuali. In secondo luogo si aprirà un inevitabile contenzioso sulle forme della traduzione legislativa delle scelte del governo. Come si può giustificare un decreto legge su materie che non hanno urgenza di tempi o di provvedimenti? Ma anche la scelta della delega senza un accordo si presta a tante obiezioni di metodo e opportunità. Infine finirà la luna di miele col governo nel nome dell’emergenza e della responsabilità se la lesione ai diritti dovesse essere confermata. Nei giorni scorsi contro l’intervento del governo spagnolo in tema di licenziamenti si sono mobilitati tutti i sindacati spagnoli fino alla proclamazione dello sciopero generale. E lì governa il centrodestra che ha vinto le elezioni. In Francia dentro una campagna per le elezioni presidenziali ispirata a molta concretezza di proposte e programmi un punto chiave oppone i due candidati: per Sarkozy bisogna governare senza il coinvolgimento delle parti sociali nel nome di un’idea di democrazia referendaria e diretta; per Hollande al contrario si deve continuare a coinvolgere l’insieme dei corpi intermedi nel nome di una democrazia sociale. La scelta che Monti farà, lo si voglia o no, finirà per avere anche un significato politico.

L’Unità 19-03-12

“La via si fa più stretta”, di Guglielmo Epifani

La possibilità di un accordo sul tema del mercato del lavoro si è allontanata dopo che nei giorni scorsi si era aperto qualche spiraglio. Sono riapparsi problemi di merito tutt’altro che secondari, a partire dalle tutele in materia di licenziamenti senza giusta causa (ma non solo da queste).C’è però un’evidente questione di metodo che sta condizionando negativamente il confronto e rischia seriamente di farlo naufragare. Quando si avvia un negoziato tra governo e parti sociali c’è un punto che non può mai venir meno: la fiducia reciproca che quello che si sta facendo è una scelta impegnativa che riguarda tutti allo stesso modo. Anche quando, e può capitare, il confronto non porta a un accordo condiviso. Il governo questa scelta non l’ha mai fatta con chiarezza, di volta in volta aprendo sia a una compiuta logica negoziale sia al suo opposto: cioè procedere in modo unilaterale. Naturalmente ogni governo ha la piena libertà di questa scelta, ma non ne può fare due opposte contemporaneamente perché così, aldilà del merito, si assume la responsabilità del fallimento. Fa parte di questa contraddizione la stessa ripetuta fissazione di un termine perentorio per la fine del negoziato. Che senso ha nel quadro di oggi legare questo alla missione nei Paesi orientali del presidente del Consiglio? Tanto più che i giorni persi sono stati conseguenza di una richiesta del governo di avere tempo per trovare le risorse pubbliche necessarie per il finanziamento dei nuovi ammortizzatori sociali… L’ostacolo fondamentale per l’accordo risiede comunque nel merito che, fermo restando il bisogno di avere un quadro più compiuto delle scelte del governo sui singoli punti dell’agenda, ancora vaghi su più di un aspetto, si può riassumere così: poco rispetto all’ambizione di ridisegnare una profonda riforma degli ammortizzatori sociali di tipo europeo, soprattutto per l’assenza di risorse come era stato abbondantemente detto; poco nella riduzione della precarietà rispetto al bisogno di semplificare realmente le oltre 40 tipologie contrattuali esistenti; tanto, tantissimo, nella riduzione delle tutele contro i licenziamenti ingiustificati e nello stravolgimento dell’articolo 18. L’asimmetria è troppo evidente anche nell’ottica riformista di valorizzare ogni progresso portato nelle condizioni di precari e lavoratori oggi privi di ogni tutela, e di ragionare sulle cose che vanno aggiustate sui licenziamenti, tanto più che si fa riferimento a un modello tedesco citato da aziende e governo in modo del tutto parziale e di comodo. In questo modo la «riformetta», come è stata chiamata dall’insospettabile Corriere della sera, diventa una vera e propria controriforma in tema di licenziamenti, nel momento in cui l’innalzamento dell’età di pensione apre problemi inediti a lavoratori e aziende. C’è poi un elemento che il governo dovrebbe valutare con attenzione. Una riforma non condivisa potrà forse far gioire qualche giornale anche internazionale, ma porta inevitabilmente a conseguenze più delicate. Innanzitutto una rottura sociale che non sarà occasionale, che avrà conseguenze per le aziende, e che riguarderà sia i profili giudiziari sia nel tempo quelli contrattuali. In secondo luogo si aprirà un inevitabile contenzioso sulle forme della traduzione legislativa delle scelte del governo. Come si può giustificare un decreto legge su materie che non hanno urgenza di tempi o di provvedimenti? Ma anche la scelta della delega senza un accordo si presta a tante obiezioni di metodo e opportunità. Infine finirà la luna di miele col governo nel nome dell’emergenza e della responsabilità se la lesione ai diritti dovesse essere confermata. Nei giorni scorsi contro l’intervento del governo spagnolo in tema di licenziamenti si sono mobilitati tutti i sindacati spagnoli fino alla proclamazione dello sciopero generale. E lì governa il centrodestra che ha vinto le elezioni. In Francia dentro una campagna per le elezioni presidenziali ispirata a molta concretezza di proposte e programmi un punto chiave oppone i due candidati: per Sarkozy bisogna governare senza il coinvolgimento delle parti sociali nel nome di un’idea di democrazia referendaria e diretta; per Hollande al contrario si deve continuare a coinvolgere l’insieme dei corpi intermedi nel nome di una democrazia sociale. La scelta che Monti farà, lo si voglia o no, finirà per avere anche un significato politico.

L’Unità 19-03-12

"La mossa di Cgil, Cisl e Uil Contro-proposta sull´articolo 18 con l’appoggio a sorpresa del Pd", di Roberto Mania

Oggi vertice fra i tre leader. Bersani: la via è il modello tedesco. Ieri giornata di mediazioni con la regia di Bonanni: “Non facciamoci distruggere”. I Democratici vanno incontro alla Camusso: sbagliato aver detto che c´era l´intesa tra i partiti

Uscire dall´angolo e mettere il governo davanti a un bivio: o l´accordo con le parti sociali sul mercato del lavoro, oppure lo scontro. Di fronte a quella che si prospetta come una vera e propria débacle sindacale, Cgil, Cisl e Uil hanno deciso di provare l´ultima mossa, la “mossa del cavallo”, secondo una consumata strategia negoziale: presentarsi all´appuntamento di domani a Palazzo Chigi con un documento unitario sull´articolo 18.
Una mossa per sparigliare, per far emergere la reale volontà del governo Monti all´accordo, ma anche una resa dei conti al proprio interno. Una mossa per sopravvivere. E a favore di questa operazione ha lavorato, non solo ieri, il Partito democratico. Perché Pier Luigi Bersani sa benissimo che senza una soluzione condivisa dai sindacati su un tema socialmente esplosivo come quello dei licenziamenti il suo partito rischia un ulteriore scollamento con la base elettorale. E a maggio ci sono le amministrative.
Oggi ci sarà un vertice tra i tre leader confederali, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Non era in calendario. È stato convocato ieri sera al termine di una giornata convulsa, intensissima di contatti telefonici. Regista: Raffaele Bonanni. Mentre Susanna Camusso è rimasta molto sull´Aventino, dopo aver portato la Cgil, per la prima volta, a considerare l´ipotesi di un intervento sull´articolo 18. Si è progressivamente convinta infatti che il governo non voglia l´accordo perché consideri molto più spendibile in termini di credibilità internazionale la sconfitta dei sindacati. Tanto che al “tavolo di Milano” di sabato scorso, il segretario della Cgil ha alzato tatticamente il prezzo fino al punto di chiedere l´estensione del nuovo articolo 18 anche ai lavoratori delle piccole imprese che oggi non ce l´hanno. Emma Marcegaglia, il ministro Elsa Fornero e lo stesso Bonanni sono rimasti basiti. Il leader di Via Po, invece, è convinto che stare fuori dalla riforma del mercato del lavoro significhi «distruggere il sindacato italiano». Vorrebbe dire che dopo aver subìto, senza colpo ferire, la riscrittura del sistema pensionistico, si accetterebbe passivamente anche quella sul lavoro «la nostra prerogativa più intima», sostiene. Ed è stato lui a parlare nei giorni scorsi ripetutamente con Bersani, impegnato a Parigi con i progressisti europei; è sempre stato lui a contattare ieri il responsabile economico del Pd Stefano Fassina. Per rincollare tutti i cocci.
Si è costruito così un inedito asse Cisl-Pd per riportare dentro il gioco pure la Cgil. Sospettosa nei confronti del Pd. A Corso d´Italia si pensa che Bersani, come gli altri due leader di partito, Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini, sia andato oltre le proprie competenze politiche quando al vertice della scorsa settimana con il premier Monti ha concordato la soluzione pure sul mercato del lavoro. «Un pasticcio», dicono sottovoce gli uomini più vicini al segretario della Cgil. Al di là dei toni cortesi, una telefonata di Bersani alla Camusso non sembra affatto aver schiarito il quadro. E che questo sia il motivo del raffreddamento tra Cgil e Pd lo conferma lo stesso Bersani nei ragionamenti che ha fatto in questi giorni con diversi interlocutori: «E´ stato un errore dire che al vertice era stato fatto l´accordo sul lavoro. L´accordo si fa al tavolo negoziale».
L´errore, il leader democrat, lo imputa – va detto – al governo. Ma Bersani dice pure – abbracciando davvero l´ultima mossa di Cgil, Cisl e Uil – che «il governo si trova davanti a una alternativa: o accettare il “modello tedesco” oppure quello della deregulation americana. E l´impressione è che dentro l´esecutivo ci sia ancora qualcuno che sia tentato dallo strappo finale». Il “modello tedesco”, dunque. Dovrebbe essere questo il perno della proposta di Cgil, Cisl e Uil. Ma non è detto che la Camusso abbia tutti gli spazi di manovra giacché la sinistra cigiellina con la Fiom di Maurizio Landini in testa l´accusa di non avere alcun mandato a trattare la modifica dell´articolo 18. Sentiero strettissimo, sempre di più dopo la rottura alla Fiera di Milano. La maggioranza della Cgil aveva definito finora a una soluzione che solo parzialmente aderisce al “modello tedesco”. Una svolta comunque per la Cgil, prevedendo che di fronte a un licenziamento individuale per motivi economici o organizzativi senza giusta causa fosse il giudice a decidere tra il reintegro nel posto di lavoro o il pagamento di un indennizzo monetario al lavoratore. Ma questo è solo un aspetto perché il “modello tedesco” stabilisce che allo stesso criterio siano sottoposti i licenziamenti disciplinari. Oggetto sul quale si è consumata la rottura tra il governo e i due sindacati, la Cgil e la Uil di Luigi Angeletti, perché la Fornero ha limitato il ricorso al giudice solo per questi, stabilendo invece l´indennizzo per i licenziamenti economici. Bonanni pensa a una mediazione: inserire tra le norme che il giudice deve considerare prima di emettere la sentenza anche quelle contrattuali che sono frutto degli accordi firmati dai sindacati. E´ una strada in salita ma percorribile. Cgil, Cisl e Uil hanno 24 ore di tempo per rialzarsi dal tappeto. Ma se dovessero trovare un accordo «sarebbe allora il governo – dice il laburista Fassina – a doversi assumere la responsabilità di dirigersi verso Madrid anziché verso Berlino».

Repubblica 19.3.12

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“Il timore di Bersani: la Cgil sull’Aventino”, di Fabio Martini
Il segretario del Pd: saremmo costretti a votare una riforma più dura

Quella notte le ultime parole del presidente del Consiglio ai tre leader di partito erano state così chiare da apparire conclusive: «Sì, sul mercato del lavoro la cosa migliore è trovare un accordo». Nella notte tra giovedì e venerdì, il grande patto sociale sembrava ad un passo e invece, curiosamente, dal momento in cui Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini si sono congedati da Mario Monti, via via tutto è diventato più complicato. Certo, i tre sindacati confederali non hanno gradito l’” interferenza” dei partiti. Certo, la Fiom è tornata a far pressing sulla Cgil, insistendo sui veti a qualsiasi modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. In parole povere, è partito il gioco al rialzo dei sindacati. Ma in questo tourbillon, anche il governo non è restato immobile: nelle dichiarazioni pubbliche e nei colloqui informali, Monti e i suoi ministri di punta non hanno escluso che ci si possa spostare dal minimo comun denominatore avallato giovedì notte dai tre partiti, in particolare l’intesa sui licenziamenti, nella versione alla ” tedesca”.
Nulla di formale, ma nei pourparler tra governo e leader sindacali sono tornate a circolare ipotesi diverse e più hard, che potrebbero scattare in caso di mancato accordo: per esempio quella di cancellare la possibilità di ricorso al giudice nel caso di licenziamenti per cause disciplinari, lasciando la sola opzione dell’indennizzo economico. Di più: nelle ultime 48 ore è tornata a circolare l’ipotesi di cancellare completamente il ” 18″ per i nuovi assunti e lasciarlo intatto per coloro che sono già ” garantiti”. Vere, verosimili o fantasiose che siano, queste ipotesi hanno messo in serio allarme il partito e il leader che più rischiano in questa vicenda: il Pd e Pier Luigi Bersani, che temono lo scenario di una Cgil sull’Aventino, col partito democratico “costretto” ad avallare una riforma “tosta” del mercato del lavoro. In qualche modo la prova di questa preoccupazione sta nelle parole di un moderato come Peppe Fioroni: «Il peggiore accordo sarà sempre migliore di qualsivoglia decisione assunta in solitudine dal governo. Se il tavolo delle parti sociali dovesse rompersi, il governo può essere tentato dall’idea di non fermarsi a quanto concordato assieme ai partiti e all’80 per cento delle parti sociali. Se il governo immaginasse di fare il gioco del “più uno”, appoggiandosi su una posizione più radicale della Cgil, si comporterebbe in modo irresponsabile». Al quartier generale del Pd fanno notare che una eventuale rottura sulla questione-lavoro «aprirebbe una stagione più conflittuale su tutti gli altri dossier».
Ma è così? A palazzo Chigi assicurano che la stella polare di Monti era e resta la stessa: fare l’accordo con tutti. Monti vuole a tutti i costi una riforma di sistema, dunque degli ammortizzatori e dei contratti di lavoro, una riforma che gli consenta di presentarsi a testa alta alla prova finale dei mercati. E la vuole – ecco il punto – costi quel che costi: anche in termini finanziari, il presidente del Consiglio pare sia disposto a qualche ulteriore concessione (sul fronte degli ammortizzatori) pur di chiudere un accordo con tutti, da Confindustria fino alla Cgil. Certo, «l’ideale sarebbe che dalla Cgil arrivasse alla fine un sì con riserva, che consentirebbe alla Camusso di reggere meglio l’urto della Fiom… ». E la prova di questa volontà del governo sta nella decisione di fissare un incontro, fissato informalmente, per questa mattina tra il ministro del Welfare Elsa Fornero e i tre sindacati confederali. Un incontro particolarmente significativo, perché deciso all’ultimo momento e perché precede di 24 ore quello tra il governo e tutte le parti sociali. Nel vertice la Fornero dovrebbe chiarire senza equivoci fino a dove si vuole spingere il governo sulle diverse questioni e dunque aprire la strada all’auspicato disgelo nel vertice di domani presieduto da Monti.

La Stampa 19.3.12

“La mossa di Cgil, Cisl e Uil Contro-proposta sull´articolo 18 con l’appoggio a sorpresa del Pd”, di Roberto Mania

Oggi vertice fra i tre leader. Bersani: la via è il modello tedesco. Ieri giornata di mediazioni con la regia di Bonanni: “Non facciamoci distruggere”. I Democratici vanno incontro alla Camusso: sbagliato aver detto che c´era l´intesa tra i partiti

Uscire dall´angolo e mettere il governo davanti a un bivio: o l´accordo con le parti sociali sul mercato del lavoro, oppure lo scontro. Di fronte a quella che si prospetta come una vera e propria débacle sindacale, Cgil, Cisl e Uil hanno deciso di provare l´ultima mossa, la “mossa del cavallo”, secondo una consumata strategia negoziale: presentarsi all´appuntamento di domani a Palazzo Chigi con un documento unitario sull´articolo 18.
Una mossa per sparigliare, per far emergere la reale volontà del governo Monti all´accordo, ma anche una resa dei conti al proprio interno. Una mossa per sopravvivere. E a favore di questa operazione ha lavorato, non solo ieri, il Partito democratico. Perché Pier Luigi Bersani sa benissimo che senza una soluzione condivisa dai sindacati su un tema socialmente esplosivo come quello dei licenziamenti il suo partito rischia un ulteriore scollamento con la base elettorale. E a maggio ci sono le amministrative.
Oggi ci sarà un vertice tra i tre leader confederali, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Non era in calendario. È stato convocato ieri sera al termine di una giornata convulsa, intensissima di contatti telefonici. Regista: Raffaele Bonanni. Mentre Susanna Camusso è rimasta molto sull´Aventino, dopo aver portato la Cgil, per la prima volta, a considerare l´ipotesi di un intervento sull´articolo 18. Si è progressivamente convinta infatti che il governo non voglia l´accordo perché consideri molto più spendibile in termini di credibilità internazionale la sconfitta dei sindacati. Tanto che al “tavolo di Milano” di sabato scorso, il segretario della Cgil ha alzato tatticamente il prezzo fino al punto di chiedere l´estensione del nuovo articolo 18 anche ai lavoratori delle piccole imprese che oggi non ce l´hanno. Emma Marcegaglia, il ministro Elsa Fornero e lo stesso Bonanni sono rimasti basiti. Il leader di Via Po, invece, è convinto che stare fuori dalla riforma del mercato del lavoro significhi «distruggere il sindacato italiano». Vorrebbe dire che dopo aver subìto, senza colpo ferire, la riscrittura del sistema pensionistico, si accetterebbe passivamente anche quella sul lavoro «la nostra prerogativa più intima», sostiene. Ed è stato lui a parlare nei giorni scorsi ripetutamente con Bersani, impegnato a Parigi con i progressisti europei; è sempre stato lui a contattare ieri il responsabile economico del Pd Stefano Fassina. Per rincollare tutti i cocci.
Si è costruito così un inedito asse Cisl-Pd per riportare dentro il gioco pure la Cgil. Sospettosa nei confronti del Pd. A Corso d´Italia si pensa che Bersani, come gli altri due leader di partito, Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini, sia andato oltre le proprie competenze politiche quando al vertice della scorsa settimana con il premier Monti ha concordato la soluzione pure sul mercato del lavoro. «Un pasticcio», dicono sottovoce gli uomini più vicini al segretario della Cgil. Al di là dei toni cortesi, una telefonata di Bersani alla Camusso non sembra affatto aver schiarito il quadro. E che questo sia il motivo del raffreddamento tra Cgil e Pd lo conferma lo stesso Bersani nei ragionamenti che ha fatto in questi giorni con diversi interlocutori: «E´ stato un errore dire che al vertice era stato fatto l´accordo sul lavoro. L´accordo si fa al tavolo negoziale».
L´errore, il leader democrat, lo imputa – va detto – al governo. Ma Bersani dice pure – abbracciando davvero l´ultima mossa di Cgil, Cisl e Uil – che «il governo si trova davanti a una alternativa: o accettare il “modello tedesco” oppure quello della deregulation americana. E l´impressione è che dentro l´esecutivo ci sia ancora qualcuno che sia tentato dallo strappo finale». Il “modello tedesco”, dunque. Dovrebbe essere questo il perno della proposta di Cgil, Cisl e Uil. Ma non è detto che la Camusso abbia tutti gli spazi di manovra giacché la sinistra cigiellina con la Fiom di Maurizio Landini in testa l´accusa di non avere alcun mandato a trattare la modifica dell´articolo 18. Sentiero strettissimo, sempre di più dopo la rottura alla Fiera di Milano. La maggioranza della Cgil aveva definito finora a una soluzione che solo parzialmente aderisce al “modello tedesco”. Una svolta comunque per la Cgil, prevedendo che di fronte a un licenziamento individuale per motivi economici o organizzativi senza giusta causa fosse il giudice a decidere tra il reintegro nel posto di lavoro o il pagamento di un indennizzo monetario al lavoratore. Ma questo è solo un aspetto perché il “modello tedesco” stabilisce che allo stesso criterio siano sottoposti i licenziamenti disciplinari. Oggetto sul quale si è consumata la rottura tra il governo e i due sindacati, la Cgil e la Uil di Luigi Angeletti, perché la Fornero ha limitato il ricorso al giudice solo per questi, stabilendo invece l´indennizzo per i licenziamenti economici. Bonanni pensa a una mediazione: inserire tra le norme che il giudice deve considerare prima di emettere la sentenza anche quelle contrattuali che sono frutto degli accordi firmati dai sindacati. E´ una strada in salita ma percorribile. Cgil, Cisl e Uil hanno 24 ore di tempo per rialzarsi dal tappeto. Ma se dovessero trovare un accordo «sarebbe allora il governo – dice il laburista Fassina – a doversi assumere la responsabilità di dirigersi verso Madrid anziché verso Berlino».

Repubblica 19.3.12

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“Il timore di Bersani: la Cgil sull’Aventino”, di Fabio Martini
Il segretario del Pd: saremmo costretti a votare una riforma più dura

Quella notte le ultime parole del presidente del Consiglio ai tre leader di partito erano state così chiare da apparire conclusive: «Sì, sul mercato del lavoro la cosa migliore è trovare un accordo». Nella notte tra giovedì e venerdì, il grande patto sociale sembrava ad un passo e invece, curiosamente, dal momento in cui Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini si sono congedati da Mario Monti, via via tutto è diventato più complicato. Certo, i tre sindacati confederali non hanno gradito l’” interferenza” dei partiti. Certo, la Fiom è tornata a far pressing sulla Cgil, insistendo sui veti a qualsiasi modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. In parole povere, è partito il gioco al rialzo dei sindacati. Ma in questo tourbillon, anche il governo non è restato immobile: nelle dichiarazioni pubbliche e nei colloqui informali, Monti e i suoi ministri di punta non hanno escluso che ci si possa spostare dal minimo comun denominatore avallato giovedì notte dai tre partiti, in particolare l’intesa sui licenziamenti, nella versione alla ” tedesca”.
Nulla di formale, ma nei pourparler tra governo e leader sindacali sono tornate a circolare ipotesi diverse e più hard, che potrebbero scattare in caso di mancato accordo: per esempio quella di cancellare la possibilità di ricorso al giudice nel caso di licenziamenti per cause disciplinari, lasciando la sola opzione dell’indennizzo economico. Di più: nelle ultime 48 ore è tornata a circolare l’ipotesi di cancellare completamente il ” 18″ per i nuovi assunti e lasciarlo intatto per coloro che sono già ” garantiti”. Vere, verosimili o fantasiose che siano, queste ipotesi hanno messo in serio allarme il partito e il leader che più rischiano in questa vicenda: il Pd e Pier Luigi Bersani, che temono lo scenario di una Cgil sull’Aventino, col partito democratico “costretto” ad avallare una riforma “tosta” del mercato del lavoro. In qualche modo la prova di questa preoccupazione sta nelle parole di un moderato come Peppe Fioroni: «Il peggiore accordo sarà sempre migliore di qualsivoglia decisione assunta in solitudine dal governo. Se il tavolo delle parti sociali dovesse rompersi, il governo può essere tentato dall’idea di non fermarsi a quanto concordato assieme ai partiti e all’80 per cento delle parti sociali. Se il governo immaginasse di fare il gioco del “più uno”, appoggiandosi su una posizione più radicale della Cgil, si comporterebbe in modo irresponsabile». Al quartier generale del Pd fanno notare che una eventuale rottura sulla questione-lavoro «aprirebbe una stagione più conflittuale su tutti gli altri dossier».
Ma è così? A palazzo Chigi assicurano che la stella polare di Monti era e resta la stessa: fare l’accordo con tutti. Monti vuole a tutti i costi una riforma di sistema, dunque degli ammortizzatori e dei contratti di lavoro, una riforma che gli consenta di presentarsi a testa alta alla prova finale dei mercati. E la vuole – ecco il punto – costi quel che costi: anche in termini finanziari, il presidente del Consiglio pare sia disposto a qualche ulteriore concessione (sul fronte degli ammortizzatori) pur di chiudere un accordo con tutti, da Confindustria fino alla Cgil. Certo, «l’ideale sarebbe che dalla Cgil arrivasse alla fine un sì con riserva, che consentirebbe alla Camusso di reggere meglio l’urto della Fiom… ». E la prova di questa volontà del governo sta nella decisione di fissare un incontro, fissato informalmente, per questa mattina tra il ministro del Welfare Elsa Fornero e i tre sindacati confederali. Un incontro particolarmente significativo, perché deciso all’ultimo momento e perché precede di 24 ore quello tra il governo e tutte le parti sociali. Nel vertice la Fornero dovrebbe chiarire senza equivoci fino a dove si vuole spingere il governo sulle diverse questioni e dunque aprire la strada all’auspicato disgelo nel vertice di domani presieduto da Monti.

La Stampa 19.3.12

“La mossa di Cgil, Cisl e Uil Contro-proposta sull´articolo 18 con l’appoggio a sorpresa del Pd”, di Roberto Mania

Oggi vertice fra i tre leader. Bersani: la via è il modello tedesco. Ieri giornata di mediazioni con la regia di Bonanni: “Non facciamoci distruggere”. I Democratici vanno incontro alla Camusso: sbagliato aver detto che c´era l´intesa tra i partiti

Uscire dall´angolo e mettere il governo davanti a un bivio: o l´accordo con le parti sociali sul mercato del lavoro, oppure lo scontro. Di fronte a quella che si prospetta come una vera e propria débacle sindacale, Cgil, Cisl e Uil hanno deciso di provare l´ultima mossa, la “mossa del cavallo”, secondo una consumata strategia negoziale: presentarsi all´appuntamento di domani a Palazzo Chigi con un documento unitario sull´articolo 18.
Una mossa per sparigliare, per far emergere la reale volontà del governo Monti all´accordo, ma anche una resa dei conti al proprio interno. Una mossa per sopravvivere. E a favore di questa operazione ha lavorato, non solo ieri, il Partito democratico. Perché Pier Luigi Bersani sa benissimo che senza una soluzione condivisa dai sindacati su un tema socialmente esplosivo come quello dei licenziamenti il suo partito rischia un ulteriore scollamento con la base elettorale. E a maggio ci sono le amministrative.
Oggi ci sarà un vertice tra i tre leader confederali, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Non era in calendario. È stato convocato ieri sera al termine di una giornata convulsa, intensissima di contatti telefonici. Regista: Raffaele Bonanni. Mentre Susanna Camusso è rimasta molto sull´Aventino, dopo aver portato la Cgil, per la prima volta, a considerare l´ipotesi di un intervento sull´articolo 18. Si è progressivamente convinta infatti che il governo non voglia l´accordo perché consideri molto più spendibile in termini di credibilità internazionale la sconfitta dei sindacati. Tanto che al “tavolo di Milano” di sabato scorso, il segretario della Cgil ha alzato tatticamente il prezzo fino al punto di chiedere l´estensione del nuovo articolo 18 anche ai lavoratori delle piccole imprese che oggi non ce l´hanno. Emma Marcegaglia, il ministro Elsa Fornero e lo stesso Bonanni sono rimasti basiti. Il leader di Via Po, invece, è convinto che stare fuori dalla riforma del mercato del lavoro significhi «distruggere il sindacato italiano». Vorrebbe dire che dopo aver subìto, senza colpo ferire, la riscrittura del sistema pensionistico, si accetterebbe passivamente anche quella sul lavoro «la nostra prerogativa più intima», sostiene. Ed è stato lui a parlare nei giorni scorsi ripetutamente con Bersani, impegnato a Parigi con i progressisti europei; è sempre stato lui a contattare ieri il responsabile economico del Pd Stefano Fassina. Per rincollare tutti i cocci.
Si è costruito così un inedito asse Cisl-Pd per riportare dentro il gioco pure la Cgil. Sospettosa nei confronti del Pd. A Corso d´Italia si pensa che Bersani, come gli altri due leader di partito, Angelino Alfano e Pier Ferdinando Casini, sia andato oltre le proprie competenze politiche quando al vertice della scorsa settimana con il premier Monti ha concordato la soluzione pure sul mercato del lavoro. «Un pasticcio», dicono sottovoce gli uomini più vicini al segretario della Cgil. Al di là dei toni cortesi, una telefonata di Bersani alla Camusso non sembra affatto aver schiarito il quadro. E che questo sia il motivo del raffreddamento tra Cgil e Pd lo conferma lo stesso Bersani nei ragionamenti che ha fatto in questi giorni con diversi interlocutori: «E´ stato un errore dire che al vertice era stato fatto l´accordo sul lavoro. L´accordo si fa al tavolo negoziale».
L´errore, il leader democrat, lo imputa – va detto – al governo. Ma Bersani dice pure – abbracciando davvero l´ultima mossa di Cgil, Cisl e Uil – che «il governo si trova davanti a una alternativa: o accettare il “modello tedesco” oppure quello della deregulation americana. E l´impressione è che dentro l´esecutivo ci sia ancora qualcuno che sia tentato dallo strappo finale». Il “modello tedesco”, dunque. Dovrebbe essere questo il perno della proposta di Cgil, Cisl e Uil. Ma non è detto che la Camusso abbia tutti gli spazi di manovra giacché la sinistra cigiellina con la Fiom di Maurizio Landini in testa l´accusa di non avere alcun mandato a trattare la modifica dell´articolo 18. Sentiero strettissimo, sempre di più dopo la rottura alla Fiera di Milano. La maggioranza della Cgil aveva definito finora a una soluzione che solo parzialmente aderisce al “modello tedesco”. Una svolta comunque per la Cgil, prevedendo che di fronte a un licenziamento individuale per motivi economici o organizzativi senza giusta causa fosse il giudice a decidere tra il reintegro nel posto di lavoro o il pagamento di un indennizzo monetario al lavoratore. Ma questo è solo un aspetto perché il “modello tedesco” stabilisce che allo stesso criterio siano sottoposti i licenziamenti disciplinari. Oggetto sul quale si è consumata la rottura tra il governo e i due sindacati, la Cgil e la Uil di Luigi Angeletti, perché la Fornero ha limitato il ricorso al giudice solo per questi, stabilendo invece l´indennizzo per i licenziamenti economici. Bonanni pensa a una mediazione: inserire tra le norme che il giudice deve considerare prima di emettere la sentenza anche quelle contrattuali che sono frutto degli accordi firmati dai sindacati. E´ una strada in salita ma percorribile. Cgil, Cisl e Uil hanno 24 ore di tempo per rialzarsi dal tappeto. Ma se dovessero trovare un accordo «sarebbe allora il governo – dice il laburista Fassina – a doversi assumere la responsabilità di dirigersi verso Madrid anziché verso Berlino».

Repubblica 19.3.12

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“Il timore di Bersani: la Cgil sull’Aventino”, di Fabio Martini
Il segretario del Pd: saremmo costretti a votare una riforma più dura

Quella notte le ultime parole del presidente del Consiglio ai tre leader di partito erano state così chiare da apparire conclusive: «Sì, sul mercato del lavoro la cosa migliore è trovare un accordo». Nella notte tra giovedì e venerdì, il grande patto sociale sembrava ad un passo e invece, curiosamente, dal momento in cui Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini si sono congedati da Mario Monti, via via tutto è diventato più complicato. Certo, i tre sindacati confederali non hanno gradito l’” interferenza” dei partiti. Certo, la Fiom è tornata a far pressing sulla Cgil, insistendo sui veti a qualsiasi modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. In parole povere, è partito il gioco al rialzo dei sindacati. Ma in questo tourbillon, anche il governo non è restato immobile: nelle dichiarazioni pubbliche e nei colloqui informali, Monti e i suoi ministri di punta non hanno escluso che ci si possa spostare dal minimo comun denominatore avallato giovedì notte dai tre partiti, in particolare l’intesa sui licenziamenti, nella versione alla ” tedesca”.
Nulla di formale, ma nei pourparler tra governo e leader sindacali sono tornate a circolare ipotesi diverse e più hard, che potrebbero scattare in caso di mancato accordo: per esempio quella di cancellare la possibilità di ricorso al giudice nel caso di licenziamenti per cause disciplinari, lasciando la sola opzione dell’indennizzo economico. Di più: nelle ultime 48 ore è tornata a circolare l’ipotesi di cancellare completamente il ” 18″ per i nuovi assunti e lasciarlo intatto per coloro che sono già ” garantiti”. Vere, verosimili o fantasiose che siano, queste ipotesi hanno messo in serio allarme il partito e il leader che più rischiano in questa vicenda: il Pd e Pier Luigi Bersani, che temono lo scenario di una Cgil sull’Aventino, col partito democratico “costretto” ad avallare una riforma “tosta” del mercato del lavoro. In qualche modo la prova di questa preoccupazione sta nelle parole di un moderato come Peppe Fioroni: «Il peggiore accordo sarà sempre migliore di qualsivoglia decisione assunta in solitudine dal governo. Se il tavolo delle parti sociali dovesse rompersi, il governo può essere tentato dall’idea di non fermarsi a quanto concordato assieme ai partiti e all’80 per cento delle parti sociali. Se il governo immaginasse di fare il gioco del “più uno”, appoggiandosi su una posizione più radicale della Cgil, si comporterebbe in modo irresponsabile». Al quartier generale del Pd fanno notare che una eventuale rottura sulla questione-lavoro «aprirebbe una stagione più conflittuale su tutti gli altri dossier».
Ma è così? A palazzo Chigi assicurano che la stella polare di Monti era e resta la stessa: fare l’accordo con tutti. Monti vuole a tutti i costi una riforma di sistema, dunque degli ammortizzatori e dei contratti di lavoro, una riforma che gli consenta di presentarsi a testa alta alla prova finale dei mercati. E la vuole – ecco il punto – costi quel che costi: anche in termini finanziari, il presidente del Consiglio pare sia disposto a qualche ulteriore concessione (sul fronte degli ammortizzatori) pur di chiudere un accordo con tutti, da Confindustria fino alla Cgil. Certo, «l’ideale sarebbe che dalla Cgil arrivasse alla fine un sì con riserva, che consentirebbe alla Camusso di reggere meglio l’urto della Fiom… ». E la prova di questa volontà del governo sta nella decisione di fissare un incontro, fissato informalmente, per questa mattina tra il ministro del Welfare Elsa Fornero e i tre sindacati confederali. Un incontro particolarmente significativo, perché deciso all’ultimo momento e perché precede di 24 ore quello tra il governo e tutte le parti sociali. Nel vertice la Fornero dovrebbe chiarire senza equivoci fino a dove si vuole spingere il governo sulle diverse questioni e dunque aprire la strada all’auspicato disgelo nel vertice di domani presieduto da Monti.

La Stampa 19.3.12

Terzo polo e Pd: sì al commissariamento Rai

Gianfranco Fini ieri «ha parlato a nome di tutto il Terzo polo». Così Pier Ferdinando Casini concorda con il presidente della Camera riguardo all’ipotesi di commissariare la Rai. Ieri Fini, ribadendo il supporto di Futuro e libertà al governo Monti aveva detto, parlando della Rai: «Se lo ritiene necessario non esiti a commissariarla». Casini parlando alla manifestazione “Cambiare la politica, cambiare l’Italia” si è anche soffermato sulla riforma del lavoro: «il governo – ha detto – è determinato. Bisogna dire a Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, forza e coraggio, andiamo avanti».

Orfini (Pd): liberare la Rai dal controllo dei partiti
«Sono importanti e positive le parole del presidente Fini e di Pierferdinando Casini: l’annuncio del passo indietro del Terzo polo sulle nomine Rai va nella direzione giusta», ha commentato Matteo Orfini, responsabile cultura e informazione del Pd, che sottolinea: «Siamo certi che presto anche il Pdl farà la stessa cosa, comprendendo che il tempo della lottizzazione è finito per sempre, con buona pace di Gasparri».

L’obiettivo di liberare la Rai dal controllo dei partiti,prosegue Orfini, «si può raggiungere con una nuova governance. Il fatto che questa consapevolezza si stia diffondendo, rende ancor più indispensabile affrontare il problema. Una riforma si può fare in tempi brevissimi, così da dare alla Rai nuove regole prima che sia troppo tardi e in tempo per la scadenza del Cda. Se invece prevarrà l’ostinazione del Pdl nell’imporre veti e nell’impedire una riforma, come da tempo sosteniamo, il governo ha il dovere di intervenire e il commissariamento è uno strumento più che praticabile».

Fassina (Pd): Gasparri campione di depistaggio
«L’onorevole Gasparri si conferma campione di depistaggio. Sulla Rai, lui e i suoi fingono di non capire che, proprio per evitare lottizzazioni, il Pd chiede una riforma della governance del servizio radiotelevisivo pubblico che lui, il capo-padrone del suo partito e la Lega hanno portato, come il resto dell’Italia, sull’orlo della bancarotta. Se il Pd avesse voluto ottizzare, avrebbe assecondato la conservazione dello status quo e si sarebbe preso la sua quota di nomine», ha detto Stefano Fassina, responsabile economia del Pd.

Di Pietro: non alla spartizione delle poltrone
«Dell’accordo raggiunto a Palazzo Chigi giovedì sera tra ABC (Alfano, Bersani, Casini) e Monti io non condivido n‚ il metodo n‚ il merito. Temi importanti come il lavoro, la giustizia e la Rai vanno affrontati in modo trasparente nelle commissioni parlamentari coinvolgendo le parti sociali, non in una bicchierata notturna tra intimi. Noi dell’IdV, che non abbiamo mai voluto partecipare a spartizioni di poltrone, presenteremo una proposta di riforma al convegno che terremo il 27 marzo sulla Rai». È quanto scrive sul suo profilo facebook il presidente dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro.

Verna (Usigrai): da commissariare è la politica
La Rai è stanzialmente meno costosa e più seguita delle televisioni pubbliche di Gran Bretagna, Germania e Francia, quindi ad essere commissariata non dovrebbe essere la televisione di Stato, ma la politica e la sua invadenza. Lo afferma in un comunicato il segretario dell’Usigrai, Carlo Verna.

Giulietti-Vita: un commissario, un questore o un prefetto, ma si faccia presto
«Non sappiamo se alla fine alla Rai manderanno un commissario, un questore o un prefetto. Sia come sia bisognerà far presto perchè l’azienda rischia il collassoeditoriale, culturale, finanziario», hanno detto Beppe Giulietti, portavoce Articolo 21, e Vincenzo Vita, senatore Pd e componente della Commissione di Vigilanza Rai.

Casoli (Pdl): neanche ipotizzabile il commissariamento della Rai
«Bilanci in attivo, leggi vigenti, sentenze della Corte Costituzionale impediscono che si possa soltanto ipotizzare il commissariamento della Rai. Se qualcuno nel Governo dovesse tentare solo la mossa, rischierebbe di finire sotto processo. Scatterebbero infatti con immediatezza le opportune misure di carattere giudiziario, ai sensi delle norme vigenti», ha sottolineato il vice presidente dei senatori del Pdl, Francesco Casoli.

da www.ilsole24ore.com