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“Alla festa è mancato il futuro”, di Massimo Gramellini

Siamo più o meno italiani di un anno fa? Siamo più poveri, più arrabbiati, più disorientati. Ma forse, e con qualche sorpresa, anche più italiani. Non era affatto scontato, il 17 marzo 2011. La ricorrenza dei Centocinquanta planò su un Paese distratto e cinico, ripiegato nel suo «particulare» e poco propenso a farsi sedurre dal fascino retorico della Patria. L’anniversario pareva eccitare solo gli animi dei faziosi, che ne trassero spunto per riaprire vecchie e mai chiuse ferite (in Italia i cerotti della memoria sono di pessima fattura e si staccano al primo venticello bilioso). Cavurriani contro garibaldini, borbonici contro sabaudi, secessionisti padani e autonomisti meridionali uniti nella lotta per sfasciare quel poco di coesione nazionale che in un secolo e mezzo eravamo riusciti a costruire, nonostante una dittatura, una guerra civile, le stragi di Stato, il terrorismo, la mafia e le mani leste dei tangentocrati.
Le premesse per un autogol della Storia c’erano tutte e invece, incredibilmente, i cittadini del Paese meno nazionalista del mondo hanno partecipato alla festa.

Più al Nord che al Sud e più a Torino che altrove. Ma ovunque si è registrata un’adesione superiore alle attese, un senso di appartenenza che ha stupito per primi coloro che lo manifestavano. Come se le trombe della crisi economica avessero chiamato a raccolta le paure e le incertezze di tutti, per dar loro riparo all’ombra di una comunità più ampia della famiglia e del campanile. In fondo, persino quel litigare viscerale e ossessivo sui nodi irrisolti della propria storia era un modo isterico, quindi molto italiano, di sentirsene parte.

Il sentimento nazionale è cresciuto quasi per emulazione: la bandiera al balcone, l’inno cantato a squarciagola. Sembrava un gioco, ma è diventato una cosa seria, come tutte le cose che gli italiani cominciano per gioco. Ha unito un po’ tutti, da destra a sinistra. Tranne la Lega, che aveva scommesso sul fallimento delle celebrazioni (oltre che sul crollo dell’euro) per risollevare la bandiera della secessione e si è ritrovata un boomerang tricolore sulla testa. Infatti, contro ogni previsione, gli italiani non si vergognavano di ricordare la Patria. Naturalmente la onoravano alla loro maniera: riaprendo gli album di famiglia per scovare brandelli di appartenenza nel trisnonno brigante o nel nonno partigiano. Insieme con l’interesse per l’Italia cresceva l’attaccamento alle sue istituzioni, in particolare la presidenza della Repubblica. Nel Paese delle eterne curve, Napolitano diventava il Distinto Centrale, la zona dello stadio dove gli opposti schieramenti si fondono con più senso civico di quanto avvenga talvolta nella tribuna delle autorità.

Si era a questo punto quando lo spettro ancora fragile della italianità ritrovata è stato messo alla prova da un doppio trauma: il precipitare della recessione e l’incartarsi del berlusconismo. Pungolati dagli eventi, ci siamo dimenticati di consultare la memoria degli ultimi 150 anni: vi avremmo visto quel che in effetti è poi accaduto, e cioè che sull’orlo del precipizio questo Paese riesce sempre a fare un passo indietro. E non è mai un passo normale, da torre degli scacchi, ma una mossa estrosa. La mossa del cavallo. Quella che Napolitano ha escogitato nominando Monti senatore a vita e costruendo le premesse per un cambiamento su cui nessun esperto avrebbe scommesso un euro bucato.

Dalla bandana al loden, e dal bunga bunga allo spread, il passaggio è stato brusco ma perfettamente coerente con la nostra storia di giravolte alla ricerca perenne di quel giusto mezzo, plasmato nel buon senso più che nell’eroismo, in cui va infine sempre a placarsi l’insopprimibile «democristianità» dell’italiano medio. Da un giorno all’altro il teatro del Centocinquantenario ha cambiato cartellone, con i dossier economici che sostituivano le intercettazioni e i silenzi algidi degli esperti al posto delle «boutade» grottesche dei dilettanti. Si portava così a compimento il vero paradosso di questa festa: mentre il rispetto per le istituzioni si estendeva dal Presidente al governo (di cui veniva riconosciuta, accanto alla durezza, la serietà) e persino il senso dello Stato faceva timidamente capolino incarnandosi in un sentimento inedito di ostilità verso gli evasori fiscali, evaporava il credito residuo dei partiti politici, che dalla stragrande maggioranza degli italiani vengono ormai considerati, nei casi migliori, delle associazioni a scopo di lucro gestite da personaggi inefficienti e mediocri.

Se qualcosa è mancato in questa festa tricolore che oggi ammaina le sue bandiere, non è stato il presente e nemmeno il passato. E’ stato il futuro. Non ne ha parlato nessuno, se non in termini vaghi e retorici. Dalla politica, «sollevata» da compiti di governo, ci saremmo aspettati almeno questo: che oltre ad autoimporsi una cura dimagrante per rientrare nei limiti della decenza, si sforzasse di offrire una visione sull’avvenire possibile del Paese. Invece la classe dirigente (?) non si è degnata di dirci come immagina l’Italia fra cinquant’anni: quel gigantesco parco-giochi cultural-ambientale che vorrebbe il mondo e noi ci ostiniamo a non essere, oppure qualcos’altro? Nel silenzio degli indecenti, come sempre la risposta verrà dagli italiani che non hanno potere ma istinto di sopravvivenza. E come sempre non sarà quella che ci si aspetta da loro, qualunque essa sia.

da La Stampa

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“A chiusura del 150° Napolitano indica che la missione è «continuare»”, di Stefano Folli
Il Governo Monti figlio della coesione nazionale ma resta molto da fare. È un messaggio ai partiti

Riuscire a chiudere in modo non retorico le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità era un compito non facile. Riuscire poi a legare il passato con il presente, annodando i fili della storia alle incognite dell’attualità, era ancora più insidioso. Invece la cerimonia di ieri mattina al Quirinale ha detto qualcosa di nuovo agli italiani. Questo grazie all’abilità di Benigni, certo, al magnifico coro dei bambini che hanno cantato l’inno di Mameli, alle ricostruzioni storiche di Galasso, Cazzullo e Dacia Maraini.
Ma soprattutto grazie all’intervento di Napolitano che ha dato corpo a un’impressione diffusa da tempo e non solo nelle stanze del Quirinale. L’impressione che i lunghi mesi delle celebrazioni per l’Unità, che hanno occupato tutto lo scorso anno e che avevano richiesto in precedenza altri mesi di preparazione (a opera del comitato presieduto prima da Ciampi e poi da Amato), abbiano stimolato una forma di coesione nella coscienza degli italiani. Al di là delle aspettative più ottimistiche.
Tale coesione nazionale ha rappresentato il sottofondo, si può dire, la premessa della svolta politica di novembre, quando Berlusconi si è ritirato e ha consentito – anche con i voti determinanti del Pdl – la nascita del governo Monti. Il presidente della Repubblica considera fondamentale questo passaggio e lo si è capito dalle sue parole di ieri. L’anno dell’Unità è servito a verificare che l’Italia è un paese più unito e meno fazioso di quanto si creda. Più coeso e forse persino più ottimista di quanto pretenda un certo spirito auto-flagellatorio che riaffiora sovente.
Se non fosse esistito questo sentimento unitario e solidale, questa volontà di non farsi schiacciare dalle difficoltà e di guardare avanti, l’avvento di un governo innovativo e con pochi precedenti come l’attuale non sarebbe stato possibile. Invece è accaduto. Anche perché la nazione era in grado di sostenere la svolta, per quanto tutt’altro che «indolore». E se nello scorso autunno la politica era malata e i partiti tradizionali apparivano in affanno, l’antidoto è arrivato da un senso di appartenenza vigoroso e quasi insospettato.
Questa in sostanza l’analisi di Napolitano. Con una postilla essenziale: ora bisogna «continuare». Continuare lungo la via imboccata da Monti – nonostante i sacrifici che il percorso comporta – perché i risultati sono significativi. Continuare nel segno di un’emergenza non ancora finita, come ha detto proprio ieri lo stesso presidente del Consiglio. Nella coscienza che c’è molto da fare, anche in Europa. Ma in particolare, nella visione del capo dello Stato, sono i partiti ad aver di fronte un lungo cammino per recuperare credibilità. C’è un’esigenza di moralità e di trasparenza che oggi si misura nella volontà di varare misure serie contro quella corruzione che avvelena la vita pubblica. E poi naturalmente c’è il capitolo ancora da scrivere che riguarda le riforme istituzionali (e la legge elettorale, ieri non citata ma sempre sullo sfondo).
Rinnovamento morale e riforme di sistema: un impegno non da poco per le forze politiche quando manca meno di un anno alla scadenza effettiva della legislatura. Il clima politico è discreto, come si è visto nel vertice di Palazzo Chigi dell’altra sera. Ma il tempo scorre e l’ora delle decisioni si avvicina. Per non disperdere ciò che di buono l’Italia ha mostrato nell’anno dell’Unità.

da www.ilsole24ore.com

“Alla festa è mancato il futuro”, di Massimo Gramellini

Siamo più o meno italiani di un anno fa? Siamo più poveri, più arrabbiati, più disorientati. Ma forse, e con qualche sorpresa, anche più italiani. Non era affatto scontato, il 17 marzo 2011. La ricorrenza dei Centocinquanta planò su un Paese distratto e cinico, ripiegato nel suo «particulare» e poco propenso a farsi sedurre dal fascino retorico della Patria. L’anniversario pareva eccitare solo gli animi dei faziosi, che ne trassero spunto per riaprire vecchie e mai chiuse ferite (in Italia i cerotti della memoria sono di pessima fattura e si staccano al primo venticello bilioso). Cavurriani contro garibaldini, borbonici contro sabaudi, secessionisti padani e autonomisti meridionali uniti nella lotta per sfasciare quel poco di coesione nazionale che in un secolo e mezzo eravamo riusciti a costruire, nonostante una dittatura, una guerra civile, le stragi di Stato, il terrorismo, la mafia e le mani leste dei tangentocrati.
Le premesse per un autogol della Storia c’erano tutte e invece, incredibilmente, i cittadini del Paese meno nazionalista del mondo hanno partecipato alla festa.

Più al Nord che al Sud e più a Torino che altrove. Ma ovunque si è registrata un’adesione superiore alle attese, un senso di appartenenza che ha stupito per primi coloro che lo manifestavano. Come se le trombe della crisi economica avessero chiamato a raccolta le paure e le incertezze di tutti, per dar loro riparo all’ombra di una comunità più ampia della famiglia e del campanile. In fondo, persino quel litigare viscerale e ossessivo sui nodi irrisolti della propria storia era un modo isterico, quindi molto italiano, di sentirsene parte.

Il sentimento nazionale è cresciuto quasi per emulazione: la bandiera al balcone, l’inno cantato a squarciagola. Sembrava un gioco, ma è diventato una cosa seria, come tutte le cose che gli italiani cominciano per gioco. Ha unito un po’ tutti, da destra a sinistra. Tranne la Lega, che aveva scommesso sul fallimento delle celebrazioni (oltre che sul crollo dell’euro) per risollevare la bandiera della secessione e si è ritrovata un boomerang tricolore sulla testa. Infatti, contro ogni previsione, gli italiani non si vergognavano di ricordare la Patria. Naturalmente la onoravano alla loro maniera: riaprendo gli album di famiglia per scovare brandelli di appartenenza nel trisnonno brigante o nel nonno partigiano. Insieme con l’interesse per l’Italia cresceva l’attaccamento alle sue istituzioni, in particolare la presidenza della Repubblica. Nel Paese delle eterne curve, Napolitano diventava il Distinto Centrale, la zona dello stadio dove gli opposti schieramenti si fondono con più senso civico di quanto avvenga talvolta nella tribuna delle autorità.

Si era a questo punto quando lo spettro ancora fragile della italianità ritrovata è stato messo alla prova da un doppio trauma: il precipitare della recessione e l’incartarsi del berlusconismo. Pungolati dagli eventi, ci siamo dimenticati di consultare la memoria degli ultimi 150 anni: vi avremmo visto quel che in effetti è poi accaduto, e cioè che sull’orlo del precipizio questo Paese riesce sempre a fare un passo indietro. E non è mai un passo normale, da torre degli scacchi, ma una mossa estrosa. La mossa del cavallo. Quella che Napolitano ha escogitato nominando Monti senatore a vita e costruendo le premesse per un cambiamento su cui nessun esperto avrebbe scommesso un euro bucato.

Dalla bandana al loden, e dal bunga bunga allo spread, il passaggio è stato brusco ma perfettamente coerente con la nostra storia di giravolte alla ricerca perenne di quel giusto mezzo, plasmato nel buon senso più che nell’eroismo, in cui va infine sempre a placarsi l’insopprimibile «democristianità» dell’italiano medio. Da un giorno all’altro il teatro del Centocinquantenario ha cambiato cartellone, con i dossier economici che sostituivano le intercettazioni e i silenzi algidi degli esperti al posto delle «boutade» grottesche dei dilettanti. Si portava così a compimento il vero paradosso di questa festa: mentre il rispetto per le istituzioni si estendeva dal Presidente al governo (di cui veniva riconosciuta, accanto alla durezza, la serietà) e persino il senso dello Stato faceva timidamente capolino incarnandosi in un sentimento inedito di ostilità verso gli evasori fiscali, evaporava il credito residuo dei partiti politici, che dalla stragrande maggioranza degli italiani vengono ormai considerati, nei casi migliori, delle associazioni a scopo di lucro gestite da personaggi inefficienti e mediocri.

Se qualcosa è mancato in questa festa tricolore che oggi ammaina le sue bandiere, non è stato il presente e nemmeno il passato. E’ stato il futuro. Non ne ha parlato nessuno, se non in termini vaghi e retorici. Dalla politica, «sollevata» da compiti di governo, ci saremmo aspettati almeno questo: che oltre ad autoimporsi una cura dimagrante per rientrare nei limiti della decenza, si sforzasse di offrire una visione sull’avvenire possibile del Paese. Invece la classe dirigente (?) non si è degnata di dirci come immagina l’Italia fra cinquant’anni: quel gigantesco parco-giochi cultural-ambientale che vorrebbe il mondo e noi ci ostiniamo a non essere, oppure qualcos’altro? Nel silenzio degli indecenti, come sempre la risposta verrà dagli italiani che non hanno potere ma istinto di sopravvivenza. E come sempre non sarà quella che ci si aspetta da loro, qualunque essa sia.

da La Stampa

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“A chiusura del 150° Napolitano indica che la missione è «continuare»”, di Stefano Folli
Il Governo Monti figlio della coesione nazionale ma resta molto da fare. È un messaggio ai partiti

Riuscire a chiudere in modo non retorico le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità era un compito non facile. Riuscire poi a legare il passato con il presente, annodando i fili della storia alle incognite dell’attualità, era ancora più insidioso. Invece la cerimonia di ieri mattina al Quirinale ha detto qualcosa di nuovo agli italiani. Questo grazie all’abilità di Benigni, certo, al magnifico coro dei bambini che hanno cantato l’inno di Mameli, alle ricostruzioni storiche di Galasso, Cazzullo e Dacia Maraini.
Ma soprattutto grazie all’intervento di Napolitano che ha dato corpo a un’impressione diffusa da tempo e non solo nelle stanze del Quirinale. L’impressione che i lunghi mesi delle celebrazioni per l’Unità, che hanno occupato tutto lo scorso anno e che avevano richiesto in precedenza altri mesi di preparazione (a opera del comitato presieduto prima da Ciampi e poi da Amato), abbiano stimolato una forma di coesione nella coscienza degli italiani. Al di là delle aspettative più ottimistiche.
Tale coesione nazionale ha rappresentato il sottofondo, si può dire, la premessa della svolta politica di novembre, quando Berlusconi si è ritirato e ha consentito – anche con i voti determinanti del Pdl – la nascita del governo Monti. Il presidente della Repubblica considera fondamentale questo passaggio e lo si è capito dalle sue parole di ieri. L’anno dell’Unità è servito a verificare che l’Italia è un paese più unito e meno fazioso di quanto si creda. Più coeso e forse persino più ottimista di quanto pretenda un certo spirito auto-flagellatorio che riaffiora sovente.
Se non fosse esistito questo sentimento unitario e solidale, questa volontà di non farsi schiacciare dalle difficoltà e di guardare avanti, l’avvento di un governo innovativo e con pochi precedenti come l’attuale non sarebbe stato possibile. Invece è accaduto. Anche perché la nazione era in grado di sostenere la svolta, per quanto tutt’altro che «indolore». E se nello scorso autunno la politica era malata e i partiti tradizionali apparivano in affanno, l’antidoto è arrivato da un senso di appartenenza vigoroso e quasi insospettato.
Questa in sostanza l’analisi di Napolitano. Con una postilla essenziale: ora bisogna «continuare». Continuare lungo la via imboccata da Monti – nonostante i sacrifici che il percorso comporta – perché i risultati sono significativi. Continuare nel segno di un’emergenza non ancora finita, come ha detto proprio ieri lo stesso presidente del Consiglio. Nella coscienza che c’è molto da fare, anche in Europa. Ma in particolare, nella visione del capo dello Stato, sono i partiti ad aver di fronte un lungo cammino per recuperare credibilità. C’è un’esigenza di moralità e di trasparenza che oggi si misura nella volontà di varare misure serie contro quella corruzione che avvelena la vita pubblica. E poi naturalmente c’è il capitolo ancora da scrivere che riguarda le riforme istituzionali (e la legge elettorale, ieri non citata ma sempre sullo sfondo).
Rinnovamento morale e riforme di sistema: un impegno non da poco per le forze politiche quando manca meno di un anno alla scadenza effettiva della legislatura. Il clima politico è discreto, come si è visto nel vertice di Palazzo Chigi dell’altra sera. Ma il tempo scorre e l’ora delle decisioni si avvicina. Per non disperdere ciò che di buono l’Italia ha mostrato nell’anno dell’Unità.

da www.ilsole24ore.com

"La privacy non è uno scudo", di Lorenzo Mondo

Almeno si mettessero d’accordo. Dai vertici delle massime istituzioni di controllo dello Stato sono arrivati giudizi di segno diverso se non opposto. Il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, dopo avere denunciato il peso spropositato delle tasse che gravano sui contribuenti onesti, ha chiesto interventi anche più severi di quelli in atto contro chi non paga il giusto e rappresenta una concausa nella durezza del Fisco. Il garante della «privacy», Francesco Pizzetti, sostiene invece che le indagini sull’evasione fiscale sono troppo invasive, comportano gravi strappi nel tessuto dello Stato di diritto. Afferma che bisogna uscire alla svelta dalla situazione di emergenza, smetterla di considerare i cittadini come «sudditi», come potenziali «mariuoli». Attilio Befera, il direttore di Equitalia, non ha battuto ciglio, dichiarando di muoversi sulla base di leggi varate dal governo e approvate dal Parlamento.

Ad essere stupefatti sono milioni di italiani, titolari di reddito fisso, che del governo Monti finora hanno apprezzato soprattutto la lotta contro inadempienze che, per la loro entità, non hanno riscontro nei Paesi civili. Sono cittadini che, di questi tempi, si trovano alle prese con ben altri problemi, non hanno nulla da nascondere e reputano inoffensiva l’eventuale «intrusione» nel privato dei loro soldi. In realtà, l’emergenza cui accenna il Garante non è dovuta soltanto alla generale crisi economica ma al fatto che troppi in Italia aggirano tranquillamente il Fisco. Le parole del dottor Pizzetti si attaglierebbero a chi, come il volterriano Pangloss, pensasse di vivere, dal punto di vista dell’onestà, nel migliore dei mondi possibili.

Purtroppo, come accade in mille altre circostanze, e su argomenti diversi, si astrae dalle situazioni di fatto, dalla ruvida e brutale realtà per sottilizzare sugli alti principi, proponendosi di perseguire l’ottimo anziché contentarsi del buono. Da noi spunta sempre, in modi inopportuni, un causidico, un moralista, un filosofo che tende a sottovalutare le esigenze primarie e a mortificare il senso comune. Si capisce che il Garante, come ogni altro titolare di incarichi importanti, sia affezionato al suo ruolo, voglia evidenziarne scrupolosamente la funzione. Ma la sua reprimenda, negli attuali frangenti, suona quanto meno intempestiva. Si dia una spallata al vigente sistema di ladrocinio, si metta ordine nei conti anche dal punto di vista dell’evasione fiscale, e poi ben venga un più serrato richiamo alla benedetta «privacy».

da www.lastampa.it

“La privacy non è uno scudo”, di Lorenzo Mondo

Almeno si mettessero d’accordo. Dai vertici delle massime istituzioni di controllo dello Stato sono arrivati giudizi di segno diverso se non opposto. Il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, dopo avere denunciato il peso spropositato delle tasse che gravano sui contribuenti onesti, ha chiesto interventi anche più severi di quelli in atto contro chi non paga il giusto e rappresenta una concausa nella durezza del Fisco. Il garante della «privacy», Francesco Pizzetti, sostiene invece che le indagini sull’evasione fiscale sono troppo invasive, comportano gravi strappi nel tessuto dello Stato di diritto. Afferma che bisogna uscire alla svelta dalla situazione di emergenza, smetterla di considerare i cittadini come «sudditi», come potenziali «mariuoli». Attilio Befera, il direttore di Equitalia, non ha battuto ciglio, dichiarando di muoversi sulla base di leggi varate dal governo e approvate dal Parlamento.

Ad essere stupefatti sono milioni di italiani, titolari di reddito fisso, che del governo Monti finora hanno apprezzato soprattutto la lotta contro inadempienze che, per la loro entità, non hanno riscontro nei Paesi civili. Sono cittadini che, di questi tempi, si trovano alle prese con ben altri problemi, non hanno nulla da nascondere e reputano inoffensiva l’eventuale «intrusione» nel privato dei loro soldi. In realtà, l’emergenza cui accenna il Garante non è dovuta soltanto alla generale crisi economica ma al fatto che troppi in Italia aggirano tranquillamente il Fisco. Le parole del dottor Pizzetti si attaglierebbero a chi, come il volterriano Pangloss, pensasse di vivere, dal punto di vista dell’onestà, nel migliore dei mondi possibili.

Purtroppo, come accade in mille altre circostanze, e su argomenti diversi, si astrae dalle situazioni di fatto, dalla ruvida e brutale realtà per sottilizzare sugli alti principi, proponendosi di perseguire l’ottimo anziché contentarsi del buono. Da noi spunta sempre, in modi inopportuni, un causidico, un moralista, un filosofo che tende a sottovalutare le esigenze primarie e a mortificare il senso comune. Si capisce che il Garante, come ogni altro titolare di incarichi importanti, sia affezionato al suo ruolo, voglia evidenziarne scrupolosamente la funzione. Ma la sua reprimenda, negli attuali frangenti, suona quanto meno intempestiva. Si dia una spallata al vigente sistema di ladrocinio, si metta ordine nei conti anche dal punto di vista dell’evasione fiscale, e poi ben venga un più serrato richiamo alla benedetta «privacy».

da www.lastampa.it

“La privacy non è uno scudo”, di Lorenzo Mondo

Almeno si mettessero d’accordo. Dai vertici delle massime istituzioni di controllo dello Stato sono arrivati giudizi di segno diverso se non opposto. Il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, dopo avere denunciato il peso spropositato delle tasse che gravano sui contribuenti onesti, ha chiesto interventi anche più severi di quelli in atto contro chi non paga il giusto e rappresenta una concausa nella durezza del Fisco. Il garante della «privacy», Francesco Pizzetti, sostiene invece che le indagini sull’evasione fiscale sono troppo invasive, comportano gravi strappi nel tessuto dello Stato di diritto. Afferma che bisogna uscire alla svelta dalla situazione di emergenza, smetterla di considerare i cittadini come «sudditi», come potenziali «mariuoli». Attilio Befera, il direttore di Equitalia, non ha battuto ciglio, dichiarando di muoversi sulla base di leggi varate dal governo e approvate dal Parlamento.

Ad essere stupefatti sono milioni di italiani, titolari di reddito fisso, che del governo Monti finora hanno apprezzato soprattutto la lotta contro inadempienze che, per la loro entità, non hanno riscontro nei Paesi civili. Sono cittadini che, di questi tempi, si trovano alle prese con ben altri problemi, non hanno nulla da nascondere e reputano inoffensiva l’eventuale «intrusione» nel privato dei loro soldi. In realtà, l’emergenza cui accenna il Garante non è dovuta soltanto alla generale crisi economica ma al fatto che troppi in Italia aggirano tranquillamente il Fisco. Le parole del dottor Pizzetti si attaglierebbero a chi, come il volterriano Pangloss, pensasse di vivere, dal punto di vista dell’onestà, nel migliore dei mondi possibili.

Purtroppo, come accade in mille altre circostanze, e su argomenti diversi, si astrae dalle situazioni di fatto, dalla ruvida e brutale realtà per sottilizzare sugli alti principi, proponendosi di perseguire l’ottimo anziché contentarsi del buono. Da noi spunta sempre, in modi inopportuni, un causidico, un moralista, un filosofo che tende a sottovalutare le esigenze primarie e a mortificare il senso comune. Si capisce che il Garante, come ogni altro titolare di incarichi importanti, sia affezionato al suo ruolo, voglia evidenziarne scrupolosamente la funzione. Ma la sua reprimenda, negli attuali frangenti, suona quanto meno intempestiva. Si dia una spallata al vigente sistema di ladrocinio, si metta ordine nei conti anche dal punto di vista dell’evasione fiscale, e poi ben venga un più serrato richiamo alla benedetta «privacy».

da www.lastampa.it

"Il calderone del malaffare", di Carlo Galli

Che il presidente della Repubblica Napolitano esorti i partiti a rinnovarsi e a prendere atto dell´indifferibilità della questione morale proprio nel giorno in cui si chiudono le celebrazioni del 150° anniversario dell´Unità d´Italia, ha un significato tristemente simbolico. Un significato che rinvia a una questione che il Paese si porta dietro da quando è nato – già nell´Italietta post-unitaria era ben nota, col nome di “faccenderia”, quella che oggi chiamiamo corruzione – ; una questione che ciclicamente si pone, e che costantemente rinvia.
Che il premier Monti lo stesso giorno affermi che il primo problema sollevato dai leader stranieri non è più la messa in sicurezza dei conti pubblici ma la nostra riluttanza a varare una nuova ed efficace legge anticorruzione, e che anche da questo nostro ritardo sono frenati gli investimenti esteri in Italia, significa che tutto il mondo ci sta mandando il messaggio che la corruzione è ormai oltre il livello di guardia.
E mentre il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio lanciano messaggi che si echeggiano l´uno con l´altro, le cronache registrano sempre nuovi casi di corruzione – o di indagini per corruzione – , quasi a dimostrare che le voci delle istituzioni non rimbalzano nel vuoto, ma registrano una realtà fin troppo piena di scandali, troppo folta di sospetti, straripante di illegalità. Fatta salva la presunzione d´innocenza, e le necessarie distinzioni fra le diverse gravità dei fatti e fra i diversi stili di amministrazione nelle diverse regioni d´Italia, è quasi inevitabile che all´opinione pubblica appaiano omologate le pratiche di governo locale della Lombardia e della Puglia, dell´Emilia e della Liguria (solo per parlare delle realtà locali che in questi ultimi giorni sono giunte a contendere l´onore delle cronache ad altri scandali di livello nazionale, come quello dei fondi della Margherita). E che il pesce e le cozze si confondano, in un unico calderone, con ogni altro, e ben più grave, malaffare.
Un´omologazione fatale, che non può non accrescere – semmai ce ne fosse bisogno – la delegittimazione dei partiti, e della politica in generale; e che dimostra ad abundantiam che la corruzione è un cattivo affare sia da un punto di vista economico sia da un punto di vista civile. Che, insomma, distrugge capitali d´investimento, ma anche e soprattutto quel capitale sociale e civile di fiducia reciproca fra i cittadini, e fra questi e le istituzioni, che è il patrimonio più prezioso di una democrazia e in generale delle forme politiche moderne. La cui essenza è l´impersonalità e l´imparzialità del comando legislativo e degli atti amministrativi, e il cui fine è sottrarre la vita civile all´arbitrio, all´ingiustizia, alla partigianeria, al favoritismo, e fondarla sulla prevedibilità del potere, frenato dalla legge, e sull´uguaglianza dei cittadini nella sfera pubblica. La corruzione – in quanto è appunto il prevalere delle ragioni private su quelle pubbliche, la vittoria della famiglia sulla polis, della disuguaglianza sull´uguaglianza, del vantaggio di pochi sulla pubblica utilità – di fatto riporta la politica a una logica di scambi personali, di fedeltà private, di lealtà tribali, che sono la negazione del “pubblico”. Che può ben prevedere il compromesso alla luce del sole, la trasparenza delle transazioni tra forze politiche differenti, all´interno del quadro della legalità, ma non certo l´oscuro lavorio di mercificazione della politica, di svendita sottobanco della democrazia, in cui, alla fine, consiste la corruzione.
Il cui esito, se non viene contrastata pubblicamente ed efficacemente, e sanzionata in forza di legge – di una legge che non contenga sotterfugi e regali in extremis a favore di chi ha già goduto di fin troppe leggi ad personam – , non può essere altro che la distruzione della fiducia nella politica. Un “liberi tutti” permanente, una frammentazione privatistica della vita associata, che segnerebbe, in realtà, la fine della fiducia degli italiani in se stessi. E il trionfo di una sorta di legge della giungla, divenuta la costituzione materiale di un popolo, trasformato in un insieme di cricche, che si autogiustifica con un comodo “così fan tutti”, e che, magari, crede di salvarsi l´anima con l´invettiva antipolitica, con lo sdegno a man salva – le reazioni dell´opinione pubblica a Tangentopoli, e il successivo passaggio della maggioranza degli italiani nelle schiere di Berlusconi sono un esempio non fuori luogo di queste dinamiche – .
Chi si pone il problema del dopo-Monti, del ritorno alla fisiologia di una politica che veda come protagonisti i partiti, deve anche porsi – e porre con forza – il problema della loro ri-legittimazione. E dovrà anche fare della legge anti-corruzione il banco di prova di un´autentica volontà di riscossa democratica – non populista né qualunquista – contro il degrado indecente della nostra vita civile. “Qui c´è Rodi, qui salta”: un popolo di donne e di uomini liberi sa che il proprio sviluppo passa attraverso un nuovo costume, e lo esige da se stesso ma anche, e prima di tutto, da chi lo vuole rappresentare e amministrare.

da La Repubblica

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Napolitano richiama i politici: “Più moralità”, di Umberto Rosso
E il premier cita la Merkel: senza malaffare crescerebbero gli investimenti in Italia. La corruzione

ROMA – Striglia i partiti, dopo la nuova ondata di scandali e mazzette, e chiede loro di garantire in futuro «comportamenti trasparenti sul piano della moralità». Giorgio Napolitano chiude al Quirinale un anno intero di celebrazioni sotto il segno dei 150 anni dell´Unità, e non manca di far sapere come la pensa sulla slavina giudiziaria che da nord a sud si abbatte sul paese. Invocando, anche, attenzione nelle scelte degli uomini, con «più alti livelli di qualità nelle rappresentanze istituzionali e di governo». In nome dell´interesse generale. E´ lo «spirito» emerso dalla lunga festa del tricolore che ha attraversato l´Italia, il senso di una ritrovata consapevolezza e unità nazionale, e che ha fatto da «lievito» alla stessa operazione Monti spiega il presidente della Repubblica. Una «missione» che può tornare ad essere riconosciuta alla politica, a condizione appunto di dar battaglia alla corruzione (e qui il Colle evidentemente spinge per stringere i tempi sulla legge in discussione) e a patto che «le forze più rappresentative dimostrino in questa fase di varare riforme istituzionali condivise, già per troppo tempo eluse». Da quella elettorale alla riforma del bicameralismo, in stand-by al Senato. E sul fronte politico, fra tensioni e vertici a corrente alternata, Napolitano sollecita i partiti a sostenere l´azione di risanamento finanziario dell´esecutivo «senza cadute e senza regressioni».
Mario Monti, in tempo reale, dalla platea del convegno della Confindustria, fa proprio e rilancia l´appello anti-tangenti del capo dello Stato, svelando un “retroscena” del suo incontro con la Merkel: «La cancelliera ci ha detto con molto garbo, in un discorso costruttivo, di fare passi avanti sul terreno della lotta alla corruzione». Perché così gli investitori, e non solo quelli tedeschi, evitano di fuggire a gambe levate dall´Italia. Poi il premier ringrazia Alfano, che ha accettato di accogliere nel suo ddl le nuove nome in discussione. Per la Marcegaglia, «ciò che leggiamo sui giornali e che riguarda sia il centrodestra che il centro-sinistra, non è una bella cosa».
Il capo dello Stato, nel salone dei Corazzieri, ripercorre il film dell´Unità d´Italia davanti ai vertici istituzionali e a mezzo governo, ma anche a guest star come Roberto Benigni. Una grande «esplosione» di partecipazione, e l´operazione recupero dell´identità nazionale non si fermerà, perché sta per mettersi in moto il cantiere per ricordare i cinquanta anni della Prima guerra mondiale. Napolitano poi plana sull´attualità. Grandi riconoscimenti al governo («superiori a pure possibili previsioni positive») ma i risultati «sono tutti da consolidare e integrare». In che modo? Definendo e applicando «rigorosamente» i provvedimenti ancora all´esame del Parlamento. Napolitano dettaglia. Spingere fino in fondo revisione e contenimento della spesa pubblica. Stabilizzare la prassi del pareggio di bilancio. Sostanziale riduzione, «attraverso tutte le vie percorribili», dello stock del debito pubblico. Un percorso di risanamento che non va messo in discussione ma, avverte il capo dello Stato, «integrato» con misure per il rilancio della crescita «al momento solo avviate in sede nazionale e annunciate in sede europea». Ed è sicuro che questa necessità, di andare avanti nel cammino del governo senza né cadute né regressioni, «sia ben presente alle forze politiche più responsabili». Non fa riferimenti ai temi più spinosi sul tavolo, in primo luogo alla riforma del mercato del lavoro e all´articolo 18, ma il ragionamento complessivo del capo dello Stato spinge in direzione di un accordo col governo. Il garantire la «continuità» di scelte di governo e parlamentari che stanno «palesamente giovando» alla salvezza e al prestigio dell´Italia, spiega infatti il presidente della Repubblica, «non mortifica la politica ma contribuisce a rivalutarla». Parole rivolte a chi, nel sostegno al governo tecnico, vede e teme la “fine” dei partiti. Non è così. E´ invece l´unica strada, spiega Napolitano, per riaccreditare la politica nella sua missione più autentica: espressione dell´interesse generale e del rafforzamento della compagine nazionale.

da La Repubblica

“Il calderone del malaffare”, di Carlo Galli

Che il presidente della Repubblica Napolitano esorti i partiti a rinnovarsi e a prendere atto dell´indifferibilità della questione morale proprio nel giorno in cui si chiudono le celebrazioni del 150° anniversario dell´Unità d´Italia, ha un significato tristemente simbolico. Un significato che rinvia a una questione che il Paese si porta dietro da quando è nato – già nell´Italietta post-unitaria era ben nota, col nome di “faccenderia”, quella che oggi chiamiamo corruzione – ; una questione che ciclicamente si pone, e che costantemente rinvia.
Che il premier Monti lo stesso giorno affermi che il primo problema sollevato dai leader stranieri non è più la messa in sicurezza dei conti pubblici ma la nostra riluttanza a varare una nuova ed efficace legge anticorruzione, e che anche da questo nostro ritardo sono frenati gli investimenti esteri in Italia, significa che tutto il mondo ci sta mandando il messaggio che la corruzione è ormai oltre il livello di guardia.
E mentre il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio lanciano messaggi che si echeggiano l´uno con l´altro, le cronache registrano sempre nuovi casi di corruzione – o di indagini per corruzione – , quasi a dimostrare che le voci delle istituzioni non rimbalzano nel vuoto, ma registrano una realtà fin troppo piena di scandali, troppo folta di sospetti, straripante di illegalità. Fatta salva la presunzione d´innocenza, e le necessarie distinzioni fra le diverse gravità dei fatti e fra i diversi stili di amministrazione nelle diverse regioni d´Italia, è quasi inevitabile che all´opinione pubblica appaiano omologate le pratiche di governo locale della Lombardia e della Puglia, dell´Emilia e della Liguria (solo per parlare delle realtà locali che in questi ultimi giorni sono giunte a contendere l´onore delle cronache ad altri scandali di livello nazionale, come quello dei fondi della Margherita). E che il pesce e le cozze si confondano, in un unico calderone, con ogni altro, e ben più grave, malaffare.
Un´omologazione fatale, che non può non accrescere – semmai ce ne fosse bisogno – la delegittimazione dei partiti, e della politica in generale; e che dimostra ad abundantiam che la corruzione è un cattivo affare sia da un punto di vista economico sia da un punto di vista civile. Che, insomma, distrugge capitali d´investimento, ma anche e soprattutto quel capitale sociale e civile di fiducia reciproca fra i cittadini, e fra questi e le istituzioni, che è il patrimonio più prezioso di una democrazia e in generale delle forme politiche moderne. La cui essenza è l´impersonalità e l´imparzialità del comando legislativo e degli atti amministrativi, e il cui fine è sottrarre la vita civile all´arbitrio, all´ingiustizia, alla partigianeria, al favoritismo, e fondarla sulla prevedibilità del potere, frenato dalla legge, e sull´uguaglianza dei cittadini nella sfera pubblica. La corruzione – in quanto è appunto il prevalere delle ragioni private su quelle pubbliche, la vittoria della famiglia sulla polis, della disuguaglianza sull´uguaglianza, del vantaggio di pochi sulla pubblica utilità – di fatto riporta la politica a una logica di scambi personali, di fedeltà private, di lealtà tribali, che sono la negazione del “pubblico”. Che può ben prevedere il compromesso alla luce del sole, la trasparenza delle transazioni tra forze politiche differenti, all´interno del quadro della legalità, ma non certo l´oscuro lavorio di mercificazione della politica, di svendita sottobanco della democrazia, in cui, alla fine, consiste la corruzione.
Il cui esito, se non viene contrastata pubblicamente ed efficacemente, e sanzionata in forza di legge – di una legge che non contenga sotterfugi e regali in extremis a favore di chi ha già goduto di fin troppe leggi ad personam – , non può essere altro che la distruzione della fiducia nella politica. Un “liberi tutti” permanente, una frammentazione privatistica della vita associata, che segnerebbe, in realtà, la fine della fiducia degli italiani in se stessi. E il trionfo di una sorta di legge della giungla, divenuta la costituzione materiale di un popolo, trasformato in un insieme di cricche, che si autogiustifica con un comodo “così fan tutti”, e che, magari, crede di salvarsi l´anima con l´invettiva antipolitica, con lo sdegno a man salva – le reazioni dell´opinione pubblica a Tangentopoli, e il successivo passaggio della maggioranza degli italiani nelle schiere di Berlusconi sono un esempio non fuori luogo di queste dinamiche – .
Chi si pone il problema del dopo-Monti, del ritorno alla fisiologia di una politica che veda come protagonisti i partiti, deve anche porsi – e porre con forza – il problema della loro ri-legittimazione. E dovrà anche fare della legge anti-corruzione il banco di prova di un´autentica volontà di riscossa democratica – non populista né qualunquista – contro il degrado indecente della nostra vita civile. “Qui c´è Rodi, qui salta”: un popolo di donne e di uomini liberi sa che il proprio sviluppo passa attraverso un nuovo costume, e lo esige da se stesso ma anche, e prima di tutto, da chi lo vuole rappresentare e amministrare.

da La Repubblica

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Napolitano richiama i politici: “Più moralità”, di Umberto Rosso
E il premier cita la Merkel: senza malaffare crescerebbero gli investimenti in Italia. La corruzione

ROMA – Striglia i partiti, dopo la nuova ondata di scandali e mazzette, e chiede loro di garantire in futuro «comportamenti trasparenti sul piano della moralità». Giorgio Napolitano chiude al Quirinale un anno intero di celebrazioni sotto il segno dei 150 anni dell´Unità, e non manca di far sapere come la pensa sulla slavina giudiziaria che da nord a sud si abbatte sul paese. Invocando, anche, attenzione nelle scelte degli uomini, con «più alti livelli di qualità nelle rappresentanze istituzionali e di governo». In nome dell´interesse generale. E´ lo «spirito» emerso dalla lunga festa del tricolore che ha attraversato l´Italia, il senso di una ritrovata consapevolezza e unità nazionale, e che ha fatto da «lievito» alla stessa operazione Monti spiega il presidente della Repubblica. Una «missione» che può tornare ad essere riconosciuta alla politica, a condizione appunto di dar battaglia alla corruzione (e qui il Colle evidentemente spinge per stringere i tempi sulla legge in discussione) e a patto che «le forze più rappresentative dimostrino in questa fase di varare riforme istituzionali condivise, già per troppo tempo eluse». Da quella elettorale alla riforma del bicameralismo, in stand-by al Senato. E sul fronte politico, fra tensioni e vertici a corrente alternata, Napolitano sollecita i partiti a sostenere l´azione di risanamento finanziario dell´esecutivo «senza cadute e senza regressioni».
Mario Monti, in tempo reale, dalla platea del convegno della Confindustria, fa proprio e rilancia l´appello anti-tangenti del capo dello Stato, svelando un “retroscena” del suo incontro con la Merkel: «La cancelliera ci ha detto con molto garbo, in un discorso costruttivo, di fare passi avanti sul terreno della lotta alla corruzione». Perché così gli investitori, e non solo quelli tedeschi, evitano di fuggire a gambe levate dall´Italia. Poi il premier ringrazia Alfano, che ha accettato di accogliere nel suo ddl le nuove nome in discussione. Per la Marcegaglia, «ciò che leggiamo sui giornali e che riguarda sia il centrodestra che il centro-sinistra, non è una bella cosa».
Il capo dello Stato, nel salone dei Corazzieri, ripercorre il film dell´Unità d´Italia davanti ai vertici istituzionali e a mezzo governo, ma anche a guest star come Roberto Benigni. Una grande «esplosione» di partecipazione, e l´operazione recupero dell´identità nazionale non si fermerà, perché sta per mettersi in moto il cantiere per ricordare i cinquanta anni della Prima guerra mondiale. Napolitano poi plana sull´attualità. Grandi riconoscimenti al governo («superiori a pure possibili previsioni positive») ma i risultati «sono tutti da consolidare e integrare». In che modo? Definendo e applicando «rigorosamente» i provvedimenti ancora all´esame del Parlamento. Napolitano dettaglia. Spingere fino in fondo revisione e contenimento della spesa pubblica. Stabilizzare la prassi del pareggio di bilancio. Sostanziale riduzione, «attraverso tutte le vie percorribili», dello stock del debito pubblico. Un percorso di risanamento che non va messo in discussione ma, avverte il capo dello Stato, «integrato» con misure per il rilancio della crescita «al momento solo avviate in sede nazionale e annunciate in sede europea». Ed è sicuro che questa necessità, di andare avanti nel cammino del governo senza né cadute né regressioni, «sia ben presente alle forze politiche più responsabili». Non fa riferimenti ai temi più spinosi sul tavolo, in primo luogo alla riforma del mercato del lavoro e all´articolo 18, ma il ragionamento complessivo del capo dello Stato spinge in direzione di un accordo col governo. Il garantire la «continuità» di scelte di governo e parlamentari che stanno «palesamente giovando» alla salvezza e al prestigio dell´Italia, spiega infatti il presidente della Repubblica, «non mortifica la politica ma contribuisce a rivalutarla». Parole rivolte a chi, nel sostegno al governo tecnico, vede e teme la “fine” dei partiti. Non è così. E´ invece l´unica strada, spiega Napolitano, per riaccreditare la politica nella sua missione più autentica: espressione dell´interesse generale e del rafforzamento della compagine nazionale.

da La Repubblica