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“Per una buona modifica dell’art.18”, appello del comitato direttivo della rivista «Lavoro e diritto» *

L’appello è rivolto al presidente del Consiglio, al ministro del lavoro, ai segretari di Cgil, Cisl e Uil, al presidente di Confindustria, di Rete-impresa e delle associazioni che partecipano al confronto sulla riforma del mercato del lavoro.

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha un significato al tempo stesso reale e simbolico. Il significato reale consiste nell’estendere ai contratti di lavoro la stessa sanzione prevista per l’illegittimità di qualsiasi atto commesso tra privati. Se un licenziamento è illegittimo l’articolo18 dispone che l’atto sia rimosso, come accade quando si fa abbattere l’opera costruita da un vicino lesiva del diritto di proprietà del confinante (…) Nel diritto del lavoro tale rimozione si chiama «reintegrazione». Questa semplice previsione (annullare il licenziamento illegittimo, reintegrare il lavoratore e risarcirlo del danno subito) esercita una rilevante forza deterrente, e rende praticabili i diritti dei lavoratori nel concreto svolgersi dei rapporti di lavoro, a partire da quelli sindacali. Chi sa di poter fruire di una tutela contro il licenziamento illegittimo ha infatti molte più possibilità di agire per rendere effettivi i suoi diritti di fondo nello svolgimento del rapporto di lavoro. Ciò oggi non possono fare i lavoratori precari, a termine, somministrati, assunti con pseudocontratti di lavoro autonomo ecc., i quali, in attesa della auspicata stabilizzazione, sono indotti a subire ogni condizionamento del datore di lavoro. A ciò si aggiunga che l’obbligo di motivare il licenziamento ed il conseguente diritto alla reintegrazione costituiscono l’unico effettivo baluardo nei confronti dei licenziamenti discriminatori, per cui continuare ad affermare che la reintegrazione resterebbe solo per questi ultimi costituisce una evidente mistificazione. L’articolo 18 ha tuttavia anche rilevante significato simbolico: nel sentire comune, la reintegrazione si identifica con l’idea che tra lavoro e impresa, tra mercato e dignità del lavoro, debba esistere un equilibrio, un bilanciamento, una equa distribuzione del potere. Non può sfuggire tuttavia che nella applicazione di tale sacrosanto principio alcune cose non funzionino. Non funzionano anzitutto i tempi del processo del lavoro. Se tra primo, secondo e terzo grado i tempi di una controversia in tema di licenziamento si aggirano, mediamente tra i sei-sette anni, il giusto principio si traduce in un paradosso. Non solo non ha alcun senso una reintegrazione che avvenga a tanti anni di distanza dal licenziamento, ma in tal modo l’onere economico del datore di lavoro si amplifica a dismisura. È quindi necessario e urgente introdurre misure speciali di accelerazione delle controversie giudiziarie in materia di licenziamenti. L’altra innegabile disfunzione consiste nel campo di applicazione ora previsto, individuato nelle unità produttive con più di 15 dipendenti (…). Tale soglia, relativa alla mera dimensione occupazionale, va considerata obsoleta, a fronte dei diffusi processi di esternalizzazione del ciclo produttivo e delle previsioni relative al mancato calcolo di un numero rilevante di dipendenti (apprendisti, somministrati, lavoratori a termine ecc.). Essa andrebbe sostituita con parametri riferiti alla effettiva dimensione economica dell’impresa, secondo le indicazione già formulate dalla Ue. L’articolo 18 va quindi modificato sul piano della sua funzionalità, non del suo principio di fondo. Mutuando l’affermazione di un grande dirigente sindacale, Giuseppe Di Vittorio, si potrebbe dunque dire così: «L’articolo 18 va cambiato sul piano applicativo, non per le ragioni per cui ce lo chiedono gli avversari, ma per le nostre ragioni». Proponiamo quindi di adottare in Italia una disciplina ispirata a quella vigente nella Repubblica federale tedesca fin dalla legge sui licenziamenti del 1951, che si applica a tutte le imprese con più di 5 dipendenti. Salva restando la radicale nullità, e quindi l’obbligo di reintegrazione, per i licenziamenti di cui sia provato il carattere discriminatorio, tale disciplina dovrebbe rimettere al giudice la facoltà di chiedere, per i licenziamenti motivati da ragioni economiche e organizzative, un parere alle rappresentanze sindacali unitarie, elette da tutti i lavoratori, ovvero, in mancanza di queste, alle Rsa, o alle organizzazioni sindacali territoriali. Allo stesso giudice andrebbe poi rimessa la decisione, fatti salvi i licenziamenti discriminatori, di disporre, in tutti gli altri casi, la reintegrazione del lavoratore ovvero stabilire un equo indennizzo entro un minimo e un massimo stabilito dalla legge, in rapporto alla natura del caso, alle dimensioni dell’impresa, al comportamento delle parti. Riteniamo in conclusione che l’Italia nel riformare le regole del lavoro debba ispirarsi ai modelli forti del Nord-Europa, come quello tedesco, orientato ad una ripartizione chiara ed efficace di diritti e tutele e non a modelli deregolati dei rapporti di lavoro con l’adozione di provvedimenti di liberalizzazione dei licenziamenti e cancellazione delle garanzie. Si aggiunga che il riferimento al modello tedesco appare fecondo su molti altri piani: l’avvio di forme effettive di partecipazione dei lavoratori all’impresa, la regolazione della rappresentanza sindacale e dell’efficacia dei contratti collettivi e il più complessivo riassetto delle relazioni industriali.

* il comitato direttivo della rivista, pubblicata da Il Mulino è composto da Umberto Romagnoli Gian Guido Balandi Luigi Mariucci Maria Vittoria Ballestrero Oronzo Mazzotta Donata Gottardi Stefania Scarponi Franca Borgogelli Gisella De Simone

da L’Unità del 18/03/2012

“Per una buona modifica dell’art.18”, appello del comitato direttivo della rivista «Lavoro e diritto» *

L’appello è rivolto al presidente del Consiglio, al ministro del lavoro, ai segretari di Cgil, Cisl e Uil, al presidente di Confindustria, di Rete-impresa e delle associazioni che partecipano al confronto sulla riforma del mercato del lavoro.

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha un significato al tempo stesso reale e simbolico. Il significato reale consiste nell’estendere ai contratti di lavoro la stessa sanzione prevista per l’illegittimità di qualsiasi atto commesso tra privati. Se un licenziamento è illegittimo l’articolo18 dispone che l’atto sia rimosso, come accade quando si fa abbattere l’opera costruita da un vicino lesiva del diritto di proprietà del confinante (…) Nel diritto del lavoro tale rimozione si chiama «reintegrazione». Questa semplice previsione (annullare il licenziamento illegittimo, reintegrare il lavoratore e risarcirlo del danno subito) esercita una rilevante forza deterrente, e rende praticabili i diritti dei lavoratori nel concreto svolgersi dei rapporti di lavoro, a partire da quelli sindacali. Chi sa di poter fruire di una tutela contro il licenziamento illegittimo ha infatti molte più possibilità di agire per rendere effettivi i suoi diritti di fondo nello svolgimento del rapporto di lavoro. Ciò oggi non possono fare i lavoratori precari, a termine, somministrati, assunti con pseudocontratti di lavoro autonomo ecc., i quali, in attesa della auspicata stabilizzazione, sono indotti a subire ogni condizionamento del datore di lavoro. A ciò si aggiunga che l’obbligo di motivare il licenziamento ed il conseguente diritto alla reintegrazione costituiscono l’unico effettivo baluardo nei confronti dei licenziamenti discriminatori, per cui continuare ad affermare che la reintegrazione resterebbe solo per questi ultimi costituisce una evidente mistificazione. L’articolo 18 ha tuttavia anche rilevante significato simbolico: nel sentire comune, la reintegrazione si identifica con l’idea che tra lavoro e impresa, tra mercato e dignità del lavoro, debba esistere un equilibrio, un bilanciamento, una equa distribuzione del potere. Non può sfuggire tuttavia che nella applicazione di tale sacrosanto principio alcune cose non funzionino. Non funzionano anzitutto i tempi del processo del lavoro. Se tra primo, secondo e terzo grado i tempi di una controversia in tema di licenziamento si aggirano, mediamente tra i sei-sette anni, il giusto principio si traduce in un paradosso. Non solo non ha alcun senso una reintegrazione che avvenga a tanti anni di distanza dal licenziamento, ma in tal modo l’onere economico del datore di lavoro si amplifica a dismisura. È quindi necessario e urgente introdurre misure speciali di accelerazione delle controversie giudiziarie in materia di licenziamenti. L’altra innegabile disfunzione consiste nel campo di applicazione ora previsto, individuato nelle unità produttive con più di 15 dipendenti (…). Tale soglia, relativa alla mera dimensione occupazionale, va considerata obsoleta, a fronte dei diffusi processi di esternalizzazione del ciclo produttivo e delle previsioni relative al mancato calcolo di un numero rilevante di dipendenti (apprendisti, somministrati, lavoratori a termine ecc.). Essa andrebbe sostituita con parametri riferiti alla effettiva dimensione economica dell’impresa, secondo le indicazione già formulate dalla Ue. L’articolo 18 va quindi modificato sul piano della sua funzionalità, non del suo principio di fondo. Mutuando l’affermazione di un grande dirigente sindacale, Giuseppe Di Vittorio, si potrebbe dunque dire così: «L’articolo 18 va cambiato sul piano applicativo, non per le ragioni per cui ce lo chiedono gli avversari, ma per le nostre ragioni». Proponiamo quindi di adottare in Italia una disciplina ispirata a quella vigente nella Repubblica federale tedesca fin dalla legge sui licenziamenti del 1951, che si applica a tutte le imprese con più di 5 dipendenti. Salva restando la radicale nullità, e quindi l’obbligo di reintegrazione, per i licenziamenti di cui sia provato il carattere discriminatorio, tale disciplina dovrebbe rimettere al giudice la facoltà di chiedere, per i licenziamenti motivati da ragioni economiche e organizzative, un parere alle rappresentanze sindacali unitarie, elette da tutti i lavoratori, ovvero, in mancanza di queste, alle Rsa, o alle organizzazioni sindacali territoriali. Allo stesso giudice andrebbe poi rimessa la decisione, fatti salvi i licenziamenti discriminatori, di disporre, in tutti gli altri casi, la reintegrazione del lavoratore ovvero stabilire un equo indennizzo entro un minimo e un massimo stabilito dalla legge, in rapporto alla natura del caso, alle dimensioni dell’impresa, al comportamento delle parti. Riteniamo in conclusione che l’Italia nel riformare le regole del lavoro debba ispirarsi ai modelli forti del Nord-Europa, come quello tedesco, orientato ad una ripartizione chiara ed efficace di diritti e tutele e non a modelli deregolati dei rapporti di lavoro con l’adozione di provvedimenti di liberalizzazione dei licenziamenti e cancellazione delle garanzie. Si aggiunga che il riferimento al modello tedesco appare fecondo su molti altri piani: l’avvio di forme effettive di partecipazione dei lavoratori all’impresa, la regolazione della rappresentanza sindacale e dell’efficacia dei contratti collettivi e il più complessivo riassetto delle relazioni industriali.

* il comitato direttivo della rivista, pubblicata da Il Mulino è composto da Umberto Romagnoli Gian Guido Balandi Luigi Mariucci Maria Vittoria Ballestrero Oronzo Mazzotta Donata Gottardi Stefania Scarponi Franca Borgogelli Gisella De Simone

da L’Unità del 18/03/2012

"La riforma. Articolo 18 e ammortizzatori sociali corsa ad ostacoli per imprese e sindacati" di Paolo Griseri

Le Pmi preoccupate dell´impatto che la riforma può avere in un periodo di crisi e forti ristrutturazioni. Cgil e Uil chiedono norme chiare per il giudice chiamato a decidere sull´allontanamento del lavoratore

Dopo il vertice di ieri alla Fiera di Milano il dossier sul mercato del lavoro si è aggiornato. E cambierà ancora mano a mano che si avvicina la data in cui Monti ha annunciato l´intenzione di chiudere la partita. Ieri all´ora di pranzo i tre capitoli principali del confronto sono stati affrontati dai segretari dei sindacati, dalla presidente di Confindustria e dal ministro Fornero. L´osso più duro resta l´articolo 18. Più semplice invece una soluzione su ammortizzatori sociali e contratti atipici.

Per le aziende la mobilità non va cancellata subito
I sindacati
Sono contrari alla prevista abolizione della cassa integrazione straordinaria e della mobilità. Sostengono che sostituire la prima con l´indennità di disoccupazione (la cosiddetta “Aspi”) sia un grave errore soprattutto in periodo di crisi perché spinge le aziende a liberarsi di lavoratori e professionalità che potrebbero invece diventare utili al momento della ripresa. Temono che finanziare poco l´indennità di disoccupazione (si è parlato di due miliardi) finisca per non fornire la stessa tutela oggi garantita dalla mobilità
Le imprese
Sono contrarie all´abolizione immediata dell´indennità di mobilità. Anche ieri Emma Marcegaglia ha fatto osservare al ministro del Lavoro Elsa Fornero che nei prossimi tre anni l´Italia sarà attraversata da un duro processo di ristrutturazione e che dell´indennità di mobilità ci sarà molto bisogno. Le imprese chiedono dunque che venga allontanato il momento dell´entrata in vigere di questa parte della riforma.
Il governo
Il ministro Fornero starebbe tornando all´impostazione originaria. L´abolizione della mobilità avverrebbe entro il 2017 mentre l´Aspi, l´indennità di disoccupazione, che non supererà i 1.100 euro lordi, entrerà in vigore gradualmente. L´indennità di disoccupazione sarà sospesa a chi non accetta i posti di lavoro offerti dai Centri regionali per l´impiego.

In alto mare la definizione di “atto discriminatorio”
I licenziamenti
I sindacati
Sono contrari ad abolire una norma che punisce l´imprenditore quando licenzia ingiustamente un singolo lavoratore. Cgil, Cisl e Uil difendono il principio per cui a licenziamento ingiusto deve seguire la riparazione del danno, cioè la reintegra sul posto di lavoro. Ma negli ultimi giorni anche nel fronte sindacale comincia a radicarsi l´idea che una modifica parziale dell´articolo 18 possa essere accettata.
Le imprese
Non chiedono l´abolizione tout court dell´articolo 18, ma propongono di distinguere i licenziamenti ingiusti in due categorie: quelli discriminatori e quelli legati a necessità economiche dell´azienda. Confindustria chiede di lasciare l´obbligo di reintegro per i licenziamenti discriminatori e di abolirlo per quelli dettati da ragioni economiche. In questo secondo caso, il lavoratore ingiustamente licenziato verrebbe risarcito con una somma in denaro.
Il governo
Accoglie sostanzialmente l´impostazione degli imprenditori sottoscrivendo l´idea che anche un licenziamento ingiusto possa essere accettabile se risarcito con una congrua somma. Naturalmente questo non varrebbe in caso di licenziamenti discriminatori. Ma dove finiscano i licenziamenti ingiusti e discriminatori e dove comincino quelli ingiusti ma non discriminatori è il vero nodo da sciogliere entro martedì.

Il governo apre poco sugli impieghi a termine
I contratti
I sindacati
Chiedono che si metta un limite alla giungla dei contratti atipici sui quali è proliferato il precariato negli ultimi anni. Nel mirino i contratti a progetto, le associazioni in partecipazione e il falso lavoro autonomo delle partite Iva con un solo committente. Cgil, Cisl e Uil premono perché dopo un congruo periodo di tempo tutti i contratti diventino a tempo indeterminato. In alternativa c´è la proposta di un tetto al numero dei contratti atipici sul totale degli assunti nell´azienda. Infine i sindacati propongono che i contratti a tempo determinato siano più costosi degli altri.
Le imprese
Sono soprattutto le piccole imprese a protestare perché sostengono che la riduzione dei contratti atipici penalizza le possibilità di assunzione, quella che in gergo tecnico viene chiamata “la flessibilità in entrata”. Le piccole imprese chiedono anche che non si penalizzino i contratti a tempo determinato con aggravi fiscali o minori deduzioni.
Il governo
Il ministro Fornero sta pensando a trasformare il contratto di apprendistato nella principale porta di ingresso dei giovani al mondo del lavoro. Ma, diversamente da quanto si pensava all´inizio della trattativa, sarebbe contraria a tagliare in modo deciso i contratti atipici per evitare di chiudere, in un periodo di crisi, possibili vie d´accesso all´impiego. Rimane invece l´aggravio dell´1,4% per i contratti a termine in modo da privilegiare l´assunzione a tempo indeterminato.

da La Repubblica

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“I sindacati non ci stanno trattativa in alto mare”, di Roberto Giovannini

Per come stanno le cose, è possibile che nessuna delle parti sociali firmi l’accordo per la riforma del mercato del lavoro. Che il governo la presenti comunque, vedendosela con i partiti che lo sostengono. E che i sindacati scendano in campo (chi più convintamente, chi molto meno) per protestare. Una previsione condivisa da molti dei protagonisti del doppio incontro informale a margine del convegno di Confindustria. Il primo – dalle 10 alle 11 tra il ministro del Lavoro Fornero e i tre leader sindacali – ha registrato posizioni rigide e inconciliabili. Un clima di rottura che poi è stato registrato negli interventi dalla tribuna. Il secondo, dalle 14.30 alle 16.30, cui ha partecipato anche il presidente di Confindustria, non ha visto aprirsi spiragli. Anzi: le distanze sono aumentate. E adesso, ci sono soltanto 48 ore per cercare di evitare il «non accordo» prima dell’appuntamento in plenaria a Palazzo Chigi con il premier Mario Monti. Il ministro Fornero fa sapere che non sono previsti nuovi incontri; ma è probabile che vi siano contatti informali, per ora non ancora in programma.

Come era prevedibile a tutti sin dall’inizio del negoziato, è la modifica delle regole stabilite dall’articolo 18 in tema di licenziamenti lo scoglio su cui rischia di sbattere il vascello della trattativa tra governo e parti sociali. «Ognuno ha una sua cosa su cui recriminare», ammette uno dei protagonisti del negoziato. Ieri a Milano i commercianti e artigiani di Rete Imprese Italia non c’erano, ma i «piccoli» sono furiosi per l’aumento dei costi cui verranno sottoposti a causa dell’estensione anche ai loro settori produttivi del sistema degli ammortizzatori sociali. Rete Imprese Italia non è assolutamente d’accordo nemmeno con il giro di vite in tema di «flessibilità in entrata», ovvero delle forme di assunzione più o meno precarie che il governo avrebbe in animo di introdurre. Un tema su cui anche Confindustria – che però sostanzialmente fa capire di approvare in linea generale il pacchetto complessivo partorito dal governo – ieri ha molto battuto.

Anche la Cisl di Raffaele Bonanni insiste sulla «flessibilità in entrata», ma con intenzioni esattamente opposte: chiede che la stretta contro l’associazione in partecipazione, le false Partita Iva che nascondono lavoro dipendente e i contratti a progetto «fasulli» sia molto più drastica. Tuttavia ieri Bonanni ha detto apertamente che l’accordo va trovato, perché altrimenti «il governo farà da solo e sarà una riforma più dura». E se l’è presa con gli «estremismi» emersi durante gli incontri di ieri. Normalmente quando Bonanni utilizza questi termini, nel mirino c’è la sua collega Cgil Susanna Camusso. Non che nei due vertici Camusso abbia tenuto un atteggiamento morbido, questo no. Ma ieri una posizione di totale chiusura l’ha assunta il numero uno della Uil Luigi Angeletti. Dopo che il ministro Fornero aveva ribadito la proposta di modifica sull’articolo 18 – reintegro nel posto di lavoro soltanto per i lavoratori licenziati per motivi discriminatori, rinvio alla decisione del giudice sul reintegro o sul solo indennizzo economico per i licenziamenti disciplinari e per quelli per «motivi economici» – Angeletti ha fatto fuoco e fiamme. Perché sui licenziamenti disciplinari possa decidere un giudice, dice la Uil, è fondamentale scrivere chiaramente le causali per le quali un lavoratore possa perdere il posto. «È inaccettabile – ha detto Angeletti – una soluzione per cui se io passo col rosso non so qual è la sanzione. Devo saperlo prima se posso avere una multa di 50 euro, oppure subire il ritiro della patente. Questo viola tutti i principi del diritto».

Anche la Cgil ha le sue richieste. «Volete il modello tedesco? – ha chiesto Camusso -. A noi va bene, però dobbiamo adottarlo integralmente». Ovvero, ricordano in Cgil, le regole sui licenziamentisu cui decide il magistrato sono applicate in tutte le imprese con più di 5 dipendenti. E poi, in nome della cogestione, se il sindacato aziendale non è d’accordo, il lavoratore continua a stare in azienda al lavoro finché il giudice non si pronuncia. In ogni caso, il sindacato di Camusso chiarisce che se non condivide la riforma – che sia o meno accettata dal Partito democratico – scatenerà la protesta sociale. «E non sarà una fiammata, uno sciopero tanto per far vedere che siamo contrari – dice un autorevole dirigente -. Se ne accorgeranno».

da la Stampa

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“Nuova spaccatura sul piano-lavoro: il no di Cgil e Uil frena la Cisl”, di r.ma.
Martedì a Palazzo Chigi l´estremo tentativo di accordo. La trattativa. A Milano girandola di incontri tra governo e parti sociali: e i sindacati si dividono ancora con schieramento inedito

MILANO – Sull´articolo 18 si spacca nuovamente il sindacato. Ma questa volta lo schieramento è inedito: la Cgil e la Uil, da una parte; la Cisl dall´altra. Teatro dell´ennesimo colpo di scena sulla complessa trattativa per la riforma del mercato del lavoro, la Fiera di Milano nell´ultimo giorno del convegno biennale del Centro studi della Confindustria e anche dell´ultimo intervento pubblico di Emma Marcegaglia come presidente degli industriali. Mentre sul palco andava avanti il dibattito, nel retropalco si è svolta ieri per diverse ore una vera a propria trattativa tra governo (c´erano il premier Mario Monti e il ministro del Welfare, Elsa Fornero) e parti sociali. Alla fine la Fornero ha confermato la proposta del governo sui licenziamenti. I leader di Cgil e Uil, Susanna Camusso e Luigi Angeletti, hanno detto no; Raffaele Bonanni (Cisl) l´ha accettata. La Marcegaglia ha chiesto, però, di non cercare «compromessi al ribasso», dopo aver incassato, tuttavia, una serie di aggiustamenti sui contratti di ingresso. Con queste premesse, dunque, sembra difficile che martedì a Palazzo Chigi possa essere raggiunto un accordo. «Non è mai stato possibile che si chiudesse martedì», ha twittato la Camusso che ha aggiunto: «Siamo belli lontani dal raggiungere un accordo». E Angeletti: «Non scommetterei soldi sull´accordo».
Il governo propone di modificare l´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori lasciando il diritto al reintegro nel posto di lavoro solo per i licenziamenti discriminatori. Per quelli economici individuali considerati dal giudice illegittimi si ricorrerebbe all´indennizzo, mentre su quelli disciplinari deciderebbe (indennizzo o reintegro) il giudice. E soprattutto su quest´ultima fattispecie non ci stanno Cgil e Uil che chiedono il mantenimento del reintegro. Solo Bonanni è disposto a seguire il governo. Il segretario della Cisl ritiene che comunque l´esecutivo deciderà e che se lo farà da solo «lo farà nel peggiore dei modi come è già accaduto sulle pensioni. Sarebbe un errore storico gravissimo non accettare di modificare l´articolo 18». In questo modo – ancora secondo il leader di Via Po – sta andando in scena «una discussione tra estremisti». «E´ un gioco al massacro che vuole che decida il governo e basta». Un riferimento nemmeno tanto velato alla Cgil che, sempre con la Camusso, ha replicato: «Mi auguro che non sia una polemica contro la Cgil. Però mi pare si veda un atteggiamento non utile alla discussione. Perché se il tema è quello di inseguire, dicendo sempre che va bene tutto, mi sembra complicato trovare un´intesa. La condizione di un accordo non è che il governo ha ragione. Così è inutile».

da La Repubblica

“La riforma. Articolo 18 e ammortizzatori sociali corsa ad ostacoli per imprese e sindacati” di Paolo Griseri

Le Pmi preoccupate dell´impatto che la riforma può avere in un periodo di crisi e forti ristrutturazioni. Cgil e Uil chiedono norme chiare per il giudice chiamato a decidere sull´allontanamento del lavoratore

Dopo il vertice di ieri alla Fiera di Milano il dossier sul mercato del lavoro si è aggiornato. E cambierà ancora mano a mano che si avvicina la data in cui Monti ha annunciato l´intenzione di chiudere la partita. Ieri all´ora di pranzo i tre capitoli principali del confronto sono stati affrontati dai segretari dei sindacati, dalla presidente di Confindustria e dal ministro Fornero. L´osso più duro resta l´articolo 18. Più semplice invece una soluzione su ammortizzatori sociali e contratti atipici.

Per le aziende la mobilità non va cancellata subito
I sindacati
Sono contrari alla prevista abolizione della cassa integrazione straordinaria e della mobilità. Sostengono che sostituire la prima con l´indennità di disoccupazione (la cosiddetta “Aspi”) sia un grave errore soprattutto in periodo di crisi perché spinge le aziende a liberarsi di lavoratori e professionalità che potrebbero invece diventare utili al momento della ripresa. Temono che finanziare poco l´indennità di disoccupazione (si è parlato di due miliardi) finisca per non fornire la stessa tutela oggi garantita dalla mobilità
Le imprese
Sono contrarie all´abolizione immediata dell´indennità di mobilità. Anche ieri Emma Marcegaglia ha fatto osservare al ministro del Lavoro Elsa Fornero che nei prossimi tre anni l´Italia sarà attraversata da un duro processo di ristrutturazione e che dell´indennità di mobilità ci sarà molto bisogno. Le imprese chiedono dunque che venga allontanato il momento dell´entrata in vigere di questa parte della riforma.
Il governo
Il ministro Fornero starebbe tornando all´impostazione originaria. L´abolizione della mobilità avverrebbe entro il 2017 mentre l´Aspi, l´indennità di disoccupazione, che non supererà i 1.100 euro lordi, entrerà in vigore gradualmente. L´indennità di disoccupazione sarà sospesa a chi non accetta i posti di lavoro offerti dai Centri regionali per l´impiego.

In alto mare la definizione di “atto discriminatorio”
I licenziamenti
I sindacati
Sono contrari ad abolire una norma che punisce l´imprenditore quando licenzia ingiustamente un singolo lavoratore. Cgil, Cisl e Uil difendono il principio per cui a licenziamento ingiusto deve seguire la riparazione del danno, cioè la reintegra sul posto di lavoro. Ma negli ultimi giorni anche nel fronte sindacale comincia a radicarsi l´idea che una modifica parziale dell´articolo 18 possa essere accettata.
Le imprese
Non chiedono l´abolizione tout court dell´articolo 18, ma propongono di distinguere i licenziamenti ingiusti in due categorie: quelli discriminatori e quelli legati a necessità economiche dell´azienda. Confindustria chiede di lasciare l´obbligo di reintegro per i licenziamenti discriminatori e di abolirlo per quelli dettati da ragioni economiche. In questo secondo caso, il lavoratore ingiustamente licenziato verrebbe risarcito con una somma in denaro.
Il governo
Accoglie sostanzialmente l´impostazione degli imprenditori sottoscrivendo l´idea che anche un licenziamento ingiusto possa essere accettabile se risarcito con una congrua somma. Naturalmente questo non varrebbe in caso di licenziamenti discriminatori. Ma dove finiscano i licenziamenti ingiusti e discriminatori e dove comincino quelli ingiusti ma non discriminatori è il vero nodo da sciogliere entro martedì.

Il governo apre poco sugli impieghi a termine
I contratti
I sindacati
Chiedono che si metta un limite alla giungla dei contratti atipici sui quali è proliferato il precariato negli ultimi anni. Nel mirino i contratti a progetto, le associazioni in partecipazione e il falso lavoro autonomo delle partite Iva con un solo committente. Cgil, Cisl e Uil premono perché dopo un congruo periodo di tempo tutti i contratti diventino a tempo indeterminato. In alternativa c´è la proposta di un tetto al numero dei contratti atipici sul totale degli assunti nell´azienda. Infine i sindacati propongono che i contratti a tempo determinato siano più costosi degli altri.
Le imprese
Sono soprattutto le piccole imprese a protestare perché sostengono che la riduzione dei contratti atipici penalizza le possibilità di assunzione, quella che in gergo tecnico viene chiamata “la flessibilità in entrata”. Le piccole imprese chiedono anche che non si penalizzino i contratti a tempo determinato con aggravi fiscali o minori deduzioni.
Il governo
Il ministro Fornero sta pensando a trasformare il contratto di apprendistato nella principale porta di ingresso dei giovani al mondo del lavoro. Ma, diversamente da quanto si pensava all´inizio della trattativa, sarebbe contraria a tagliare in modo deciso i contratti atipici per evitare di chiudere, in un periodo di crisi, possibili vie d´accesso all´impiego. Rimane invece l´aggravio dell´1,4% per i contratti a termine in modo da privilegiare l´assunzione a tempo indeterminato.

da La Repubblica

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“I sindacati non ci stanno trattativa in alto mare”, di Roberto Giovannini

Per come stanno le cose, è possibile che nessuna delle parti sociali firmi l’accordo per la riforma del mercato del lavoro. Che il governo la presenti comunque, vedendosela con i partiti che lo sostengono. E che i sindacati scendano in campo (chi più convintamente, chi molto meno) per protestare. Una previsione condivisa da molti dei protagonisti del doppio incontro informale a margine del convegno di Confindustria. Il primo – dalle 10 alle 11 tra il ministro del Lavoro Fornero e i tre leader sindacali – ha registrato posizioni rigide e inconciliabili. Un clima di rottura che poi è stato registrato negli interventi dalla tribuna. Il secondo, dalle 14.30 alle 16.30, cui ha partecipato anche il presidente di Confindustria, non ha visto aprirsi spiragli. Anzi: le distanze sono aumentate. E adesso, ci sono soltanto 48 ore per cercare di evitare il «non accordo» prima dell’appuntamento in plenaria a Palazzo Chigi con il premier Mario Monti. Il ministro Fornero fa sapere che non sono previsti nuovi incontri; ma è probabile che vi siano contatti informali, per ora non ancora in programma.

Come era prevedibile a tutti sin dall’inizio del negoziato, è la modifica delle regole stabilite dall’articolo 18 in tema di licenziamenti lo scoglio su cui rischia di sbattere il vascello della trattativa tra governo e parti sociali. «Ognuno ha una sua cosa su cui recriminare», ammette uno dei protagonisti del negoziato. Ieri a Milano i commercianti e artigiani di Rete Imprese Italia non c’erano, ma i «piccoli» sono furiosi per l’aumento dei costi cui verranno sottoposti a causa dell’estensione anche ai loro settori produttivi del sistema degli ammortizzatori sociali. Rete Imprese Italia non è assolutamente d’accordo nemmeno con il giro di vite in tema di «flessibilità in entrata», ovvero delle forme di assunzione più o meno precarie che il governo avrebbe in animo di introdurre. Un tema su cui anche Confindustria – che però sostanzialmente fa capire di approvare in linea generale il pacchetto complessivo partorito dal governo – ieri ha molto battuto.

Anche la Cisl di Raffaele Bonanni insiste sulla «flessibilità in entrata», ma con intenzioni esattamente opposte: chiede che la stretta contro l’associazione in partecipazione, le false Partita Iva che nascondono lavoro dipendente e i contratti a progetto «fasulli» sia molto più drastica. Tuttavia ieri Bonanni ha detto apertamente che l’accordo va trovato, perché altrimenti «il governo farà da solo e sarà una riforma più dura». E se l’è presa con gli «estremismi» emersi durante gli incontri di ieri. Normalmente quando Bonanni utilizza questi termini, nel mirino c’è la sua collega Cgil Susanna Camusso. Non che nei due vertici Camusso abbia tenuto un atteggiamento morbido, questo no. Ma ieri una posizione di totale chiusura l’ha assunta il numero uno della Uil Luigi Angeletti. Dopo che il ministro Fornero aveva ribadito la proposta di modifica sull’articolo 18 – reintegro nel posto di lavoro soltanto per i lavoratori licenziati per motivi discriminatori, rinvio alla decisione del giudice sul reintegro o sul solo indennizzo economico per i licenziamenti disciplinari e per quelli per «motivi economici» – Angeletti ha fatto fuoco e fiamme. Perché sui licenziamenti disciplinari possa decidere un giudice, dice la Uil, è fondamentale scrivere chiaramente le causali per le quali un lavoratore possa perdere il posto. «È inaccettabile – ha detto Angeletti – una soluzione per cui se io passo col rosso non so qual è la sanzione. Devo saperlo prima se posso avere una multa di 50 euro, oppure subire il ritiro della patente. Questo viola tutti i principi del diritto».

Anche la Cgil ha le sue richieste. «Volete il modello tedesco? – ha chiesto Camusso -. A noi va bene, però dobbiamo adottarlo integralmente». Ovvero, ricordano in Cgil, le regole sui licenziamentisu cui decide il magistrato sono applicate in tutte le imprese con più di 5 dipendenti. E poi, in nome della cogestione, se il sindacato aziendale non è d’accordo, il lavoratore continua a stare in azienda al lavoro finché il giudice non si pronuncia. In ogni caso, il sindacato di Camusso chiarisce che se non condivide la riforma – che sia o meno accettata dal Partito democratico – scatenerà la protesta sociale. «E non sarà una fiammata, uno sciopero tanto per far vedere che siamo contrari – dice un autorevole dirigente -. Se ne accorgeranno».

da la Stampa

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“Nuova spaccatura sul piano-lavoro: il no di Cgil e Uil frena la Cisl”, di r.ma.
Martedì a Palazzo Chigi l´estremo tentativo di accordo. La trattativa. A Milano girandola di incontri tra governo e parti sociali: e i sindacati si dividono ancora con schieramento inedito

MILANO – Sull´articolo 18 si spacca nuovamente il sindacato. Ma questa volta lo schieramento è inedito: la Cgil e la Uil, da una parte; la Cisl dall´altra. Teatro dell´ennesimo colpo di scena sulla complessa trattativa per la riforma del mercato del lavoro, la Fiera di Milano nell´ultimo giorno del convegno biennale del Centro studi della Confindustria e anche dell´ultimo intervento pubblico di Emma Marcegaglia come presidente degli industriali. Mentre sul palco andava avanti il dibattito, nel retropalco si è svolta ieri per diverse ore una vera a propria trattativa tra governo (c´erano il premier Mario Monti e il ministro del Welfare, Elsa Fornero) e parti sociali. Alla fine la Fornero ha confermato la proposta del governo sui licenziamenti. I leader di Cgil e Uil, Susanna Camusso e Luigi Angeletti, hanno detto no; Raffaele Bonanni (Cisl) l´ha accettata. La Marcegaglia ha chiesto, però, di non cercare «compromessi al ribasso», dopo aver incassato, tuttavia, una serie di aggiustamenti sui contratti di ingresso. Con queste premesse, dunque, sembra difficile che martedì a Palazzo Chigi possa essere raggiunto un accordo. «Non è mai stato possibile che si chiudesse martedì», ha twittato la Camusso che ha aggiunto: «Siamo belli lontani dal raggiungere un accordo». E Angeletti: «Non scommetterei soldi sull´accordo».
Il governo propone di modificare l´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori lasciando il diritto al reintegro nel posto di lavoro solo per i licenziamenti discriminatori. Per quelli economici individuali considerati dal giudice illegittimi si ricorrerebbe all´indennizzo, mentre su quelli disciplinari deciderebbe (indennizzo o reintegro) il giudice. E soprattutto su quest´ultima fattispecie non ci stanno Cgil e Uil che chiedono il mantenimento del reintegro. Solo Bonanni è disposto a seguire il governo. Il segretario della Cisl ritiene che comunque l´esecutivo deciderà e che se lo farà da solo «lo farà nel peggiore dei modi come è già accaduto sulle pensioni. Sarebbe un errore storico gravissimo non accettare di modificare l´articolo 18». In questo modo – ancora secondo il leader di Via Po – sta andando in scena «una discussione tra estremisti». «E´ un gioco al massacro che vuole che decida il governo e basta». Un riferimento nemmeno tanto velato alla Cgil che, sempre con la Camusso, ha replicato: «Mi auguro che non sia una polemica contro la Cgil. Però mi pare si veda un atteggiamento non utile alla discussione. Perché se il tema è quello di inseguire, dicendo sempre che va bene tutto, mi sembra complicato trovare un´intesa. La condizione di un accordo non è che il governo ha ragione. Così è inutile».

da La Repubblica

“La riforma. Articolo 18 e ammortizzatori sociali corsa ad ostacoli per imprese e sindacati” di Paolo Griseri

Le Pmi preoccupate dell´impatto che la riforma può avere in un periodo di crisi e forti ristrutturazioni. Cgil e Uil chiedono norme chiare per il giudice chiamato a decidere sull´allontanamento del lavoratore

Dopo il vertice di ieri alla Fiera di Milano il dossier sul mercato del lavoro si è aggiornato. E cambierà ancora mano a mano che si avvicina la data in cui Monti ha annunciato l´intenzione di chiudere la partita. Ieri all´ora di pranzo i tre capitoli principali del confronto sono stati affrontati dai segretari dei sindacati, dalla presidente di Confindustria e dal ministro Fornero. L´osso più duro resta l´articolo 18. Più semplice invece una soluzione su ammortizzatori sociali e contratti atipici.

Per le aziende la mobilità non va cancellata subito
I sindacati
Sono contrari alla prevista abolizione della cassa integrazione straordinaria e della mobilità. Sostengono che sostituire la prima con l´indennità di disoccupazione (la cosiddetta “Aspi”) sia un grave errore soprattutto in periodo di crisi perché spinge le aziende a liberarsi di lavoratori e professionalità che potrebbero invece diventare utili al momento della ripresa. Temono che finanziare poco l´indennità di disoccupazione (si è parlato di due miliardi) finisca per non fornire la stessa tutela oggi garantita dalla mobilità
Le imprese
Sono contrarie all´abolizione immediata dell´indennità di mobilità. Anche ieri Emma Marcegaglia ha fatto osservare al ministro del Lavoro Elsa Fornero che nei prossimi tre anni l´Italia sarà attraversata da un duro processo di ristrutturazione e che dell´indennità di mobilità ci sarà molto bisogno. Le imprese chiedono dunque che venga allontanato il momento dell´entrata in vigere di questa parte della riforma.
Il governo
Il ministro Fornero starebbe tornando all´impostazione originaria. L´abolizione della mobilità avverrebbe entro il 2017 mentre l´Aspi, l´indennità di disoccupazione, che non supererà i 1.100 euro lordi, entrerà in vigore gradualmente. L´indennità di disoccupazione sarà sospesa a chi non accetta i posti di lavoro offerti dai Centri regionali per l´impiego.

In alto mare la definizione di “atto discriminatorio”
I licenziamenti
I sindacati
Sono contrari ad abolire una norma che punisce l´imprenditore quando licenzia ingiustamente un singolo lavoratore. Cgil, Cisl e Uil difendono il principio per cui a licenziamento ingiusto deve seguire la riparazione del danno, cioè la reintegra sul posto di lavoro. Ma negli ultimi giorni anche nel fronte sindacale comincia a radicarsi l´idea che una modifica parziale dell´articolo 18 possa essere accettata.
Le imprese
Non chiedono l´abolizione tout court dell´articolo 18, ma propongono di distinguere i licenziamenti ingiusti in due categorie: quelli discriminatori e quelli legati a necessità economiche dell´azienda. Confindustria chiede di lasciare l´obbligo di reintegro per i licenziamenti discriminatori e di abolirlo per quelli dettati da ragioni economiche. In questo secondo caso, il lavoratore ingiustamente licenziato verrebbe risarcito con una somma in denaro.
Il governo
Accoglie sostanzialmente l´impostazione degli imprenditori sottoscrivendo l´idea che anche un licenziamento ingiusto possa essere accettabile se risarcito con una congrua somma. Naturalmente questo non varrebbe in caso di licenziamenti discriminatori. Ma dove finiscano i licenziamenti ingiusti e discriminatori e dove comincino quelli ingiusti ma non discriminatori è il vero nodo da sciogliere entro martedì.

Il governo apre poco sugli impieghi a termine
I contratti
I sindacati
Chiedono che si metta un limite alla giungla dei contratti atipici sui quali è proliferato il precariato negli ultimi anni. Nel mirino i contratti a progetto, le associazioni in partecipazione e il falso lavoro autonomo delle partite Iva con un solo committente. Cgil, Cisl e Uil premono perché dopo un congruo periodo di tempo tutti i contratti diventino a tempo indeterminato. In alternativa c´è la proposta di un tetto al numero dei contratti atipici sul totale degli assunti nell´azienda. Infine i sindacati propongono che i contratti a tempo determinato siano più costosi degli altri.
Le imprese
Sono soprattutto le piccole imprese a protestare perché sostengono che la riduzione dei contratti atipici penalizza le possibilità di assunzione, quella che in gergo tecnico viene chiamata “la flessibilità in entrata”. Le piccole imprese chiedono anche che non si penalizzino i contratti a tempo determinato con aggravi fiscali o minori deduzioni.
Il governo
Il ministro Fornero sta pensando a trasformare il contratto di apprendistato nella principale porta di ingresso dei giovani al mondo del lavoro. Ma, diversamente da quanto si pensava all´inizio della trattativa, sarebbe contraria a tagliare in modo deciso i contratti atipici per evitare di chiudere, in un periodo di crisi, possibili vie d´accesso all´impiego. Rimane invece l´aggravio dell´1,4% per i contratti a termine in modo da privilegiare l´assunzione a tempo indeterminato.

da La Repubblica

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“I sindacati non ci stanno trattativa in alto mare”, di Roberto Giovannini

Per come stanno le cose, è possibile che nessuna delle parti sociali firmi l’accordo per la riforma del mercato del lavoro. Che il governo la presenti comunque, vedendosela con i partiti che lo sostengono. E che i sindacati scendano in campo (chi più convintamente, chi molto meno) per protestare. Una previsione condivisa da molti dei protagonisti del doppio incontro informale a margine del convegno di Confindustria. Il primo – dalle 10 alle 11 tra il ministro del Lavoro Fornero e i tre leader sindacali – ha registrato posizioni rigide e inconciliabili. Un clima di rottura che poi è stato registrato negli interventi dalla tribuna. Il secondo, dalle 14.30 alle 16.30, cui ha partecipato anche il presidente di Confindustria, non ha visto aprirsi spiragli. Anzi: le distanze sono aumentate. E adesso, ci sono soltanto 48 ore per cercare di evitare il «non accordo» prima dell’appuntamento in plenaria a Palazzo Chigi con il premier Mario Monti. Il ministro Fornero fa sapere che non sono previsti nuovi incontri; ma è probabile che vi siano contatti informali, per ora non ancora in programma.

Come era prevedibile a tutti sin dall’inizio del negoziato, è la modifica delle regole stabilite dall’articolo 18 in tema di licenziamenti lo scoglio su cui rischia di sbattere il vascello della trattativa tra governo e parti sociali. «Ognuno ha una sua cosa su cui recriminare», ammette uno dei protagonisti del negoziato. Ieri a Milano i commercianti e artigiani di Rete Imprese Italia non c’erano, ma i «piccoli» sono furiosi per l’aumento dei costi cui verranno sottoposti a causa dell’estensione anche ai loro settori produttivi del sistema degli ammortizzatori sociali. Rete Imprese Italia non è assolutamente d’accordo nemmeno con il giro di vite in tema di «flessibilità in entrata», ovvero delle forme di assunzione più o meno precarie che il governo avrebbe in animo di introdurre. Un tema su cui anche Confindustria – che però sostanzialmente fa capire di approvare in linea generale il pacchetto complessivo partorito dal governo – ieri ha molto battuto.

Anche la Cisl di Raffaele Bonanni insiste sulla «flessibilità in entrata», ma con intenzioni esattamente opposte: chiede che la stretta contro l’associazione in partecipazione, le false Partita Iva che nascondono lavoro dipendente e i contratti a progetto «fasulli» sia molto più drastica. Tuttavia ieri Bonanni ha detto apertamente che l’accordo va trovato, perché altrimenti «il governo farà da solo e sarà una riforma più dura». E se l’è presa con gli «estremismi» emersi durante gli incontri di ieri. Normalmente quando Bonanni utilizza questi termini, nel mirino c’è la sua collega Cgil Susanna Camusso. Non che nei due vertici Camusso abbia tenuto un atteggiamento morbido, questo no. Ma ieri una posizione di totale chiusura l’ha assunta il numero uno della Uil Luigi Angeletti. Dopo che il ministro Fornero aveva ribadito la proposta di modifica sull’articolo 18 – reintegro nel posto di lavoro soltanto per i lavoratori licenziati per motivi discriminatori, rinvio alla decisione del giudice sul reintegro o sul solo indennizzo economico per i licenziamenti disciplinari e per quelli per «motivi economici» – Angeletti ha fatto fuoco e fiamme. Perché sui licenziamenti disciplinari possa decidere un giudice, dice la Uil, è fondamentale scrivere chiaramente le causali per le quali un lavoratore possa perdere il posto. «È inaccettabile – ha detto Angeletti – una soluzione per cui se io passo col rosso non so qual è la sanzione. Devo saperlo prima se posso avere una multa di 50 euro, oppure subire il ritiro della patente. Questo viola tutti i principi del diritto».

Anche la Cgil ha le sue richieste. «Volete il modello tedesco? – ha chiesto Camusso -. A noi va bene, però dobbiamo adottarlo integralmente». Ovvero, ricordano in Cgil, le regole sui licenziamentisu cui decide il magistrato sono applicate in tutte le imprese con più di 5 dipendenti. E poi, in nome della cogestione, se il sindacato aziendale non è d’accordo, il lavoratore continua a stare in azienda al lavoro finché il giudice non si pronuncia. In ogni caso, il sindacato di Camusso chiarisce che se non condivide la riforma – che sia o meno accettata dal Partito democratico – scatenerà la protesta sociale. «E non sarà una fiammata, uno sciopero tanto per far vedere che siamo contrari – dice un autorevole dirigente -. Se ne accorgeranno».

da la Stampa

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“Nuova spaccatura sul piano-lavoro: il no di Cgil e Uil frena la Cisl”, di r.ma.
Martedì a Palazzo Chigi l´estremo tentativo di accordo. La trattativa. A Milano girandola di incontri tra governo e parti sociali: e i sindacati si dividono ancora con schieramento inedito

MILANO – Sull´articolo 18 si spacca nuovamente il sindacato. Ma questa volta lo schieramento è inedito: la Cgil e la Uil, da una parte; la Cisl dall´altra. Teatro dell´ennesimo colpo di scena sulla complessa trattativa per la riforma del mercato del lavoro, la Fiera di Milano nell´ultimo giorno del convegno biennale del Centro studi della Confindustria e anche dell´ultimo intervento pubblico di Emma Marcegaglia come presidente degli industriali. Mentre sul palco andava avanti il dibattito, nel retropalco si è svolta ieri per diverse ore una vera a propria trattativa tra governo (c´erano il premier Mario Monti e il ministro del Welfare, Elsa Fornero) e parti sociali. Alla fine la Fornero ha confermato la proposta del governo sui licenziamenti. I leader di Cgil e Uil, Susanna Camusso e Luigi Angeletti, hanno detto no; Raffaele Bonanni (Cisl) l´ha accettata. La Marcegaglia ha chiesto, però, di non cercare «compromessi al ribasso», dopo aver incassato, tuttavia, una serie di aggiustamenti sui contratti di ingresso. Con queste premesse, dunque, sembra difficile che martedì a Palazzo Chigi possa essere raggiunto un accordo. «Non è mai stato possibile che si chiudesse martedì», ha twittato la Camusso che ha aggiunto: «Siamo belli lontani dal raggiungere un accordo». E Angeletti: «Non scommetterei soldi sull´accordo».
Il governo propone di modificare l´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori lasciando il diritto al reintegro nel posto di lavoro solo per i licenziamenti discriminatori. Per quelli economici individuali considerati dal giudice illegittimi si ricorrerebbe all´indennizzo, mentre su quelli disciplinari deciderebbe (indennizzo o reintegro) il giudice. E soprattutto su quest´ultima fattispecie non ci stanno Cgil e Uil che chiedono il mantenimento del reintegro. Solo Bonanni è disposto a seguire il governo. Il segretario della Cisl ritiene che comunque l´esecutivo deciderà e che se lo farà da solo «lo farà nel peggiore dei modi come è già accaduto sulle pensioni. Sarebbe un errore storico gravissimo non accettare di modificare l´articolo 18». In questo modo – ancora secondo il leader di Via Po – sta andando in scena «una discussione tra estremisti». «E´ un gioco al massacro che vuole che decida il governo e basta». Un riferimento nemmeno tanto velato alla Cgil che, sempre con la Camusso, ha replicato: «Mi auguro che non sia una polemica contro la Cgil. Però mi pare si veda un atteggiamento non utile alla discussione. Perché se il tema è quello di inseguire, dicendo sempre che va bene tutto, mi sembra complicato trovare un´intesa. La condizione di un accordo non è che il governo ha ragione. Così è inutile».

da La Repubblica

"Ornaghi, perché L’Aquila non viene ricostruita?", di Tomaso Montanari

Uno spettro non si aggira per l’Aquila. È l’ombra-ministro per i Beni culturali, il professor Lorenzo Ornaghi.

Chissà se questo prudente assenteismo si deve al fatto che uno degli uomini più discussi della ‘ricostruzione’, il vicecommissario Antonio Cicchetti (il gentiluomo di Sua Santità che – come ha raccontato da ultimo Gian Antonio Stella – si è costruito, tra le macerie, un super-resort di lusso) è stato a lungo il direttore amministrativo di quell’Università Cattolica di cui Ornaghi è ancora il rettore, anche se temporaneamente in sonno.

Fosse andato all’Aquila, il ministro avrebbe capito in una frazione di secondo che tutte le ciance sui Leonardi perduti, sulle costituenti della cultura-che-fattura, sul ‘brand Italia’ e sulle sponsorizzazioni del Colosseo sono solo diversivi indecorosi, e che l’unico atto simbolico che in questo momento avrebbe un senso sarebbe trasferire la sede del Ministero all’Aquila, e mettersi a combattere in prima linea per la città martire del patrimonio storico e artistico della nazione italiana.

La situazione dell’Aquila supera, infatti, anche la più catastrofica immaginazione. Il centro storico è una città spettrale, dove nessun cantiere è in funzione, nessuna pietra è stata ricollocata (e anzi molte sono state rubate), e dove le meravigliose e immense chiese monumentali (a cominciare dal Duomo) sono spesso ancora a cielo aperto, o sono protette da ridicoli teli, e dunque in preda alla pioggia e alla neve.

Piero Calamandrei ha scritto che «una parte della nostra Costituzione è una polemica contro il presente»: ecco, camminare per l’Aquila permette di capire che l’articolo più polemico è, oggi, l’articolo 9. All’Aquila, infatti, la Repubblica ha sistematicamente tradito se stessa, rinunciando radicalmente a «tutelare il patrimonio storico e artistico della nazione italiana».

Ma com’è possibile che quasi nessuno denunci più che a pochi chilometri da Roma si entra in un mondo parallelo, dove la Costituzione, la legge e la civiltà semplicemente non esistono? Il vicecommissario con delega ai Beni culturali, Luciano Marchetti, risponde che i conflitti di competenze, la litigiosità degli aquilani (sic) e la mancanza di fondi bloccano la ricostruzione. Ma lo dice con tono svagato, in un ineffabile misto di rassegnazione e cinismo burocratico: e si capisce subito che, di questo passo, tra trent’anni il centro dell’Aquila sarà ancora in queste condizioni. Ha dunque ragione da vendere Italia Nostra, che chiede le dimissioni del commissario (che ci sta a fare, se da tre anni non riesce a far nulla?), il ritorno alle competenze ordinarie delle soprintendenze (a cui Ornaghi dovrebbe fare massicce trasfusioni di personale e mezzi, se solo tutti i suoi predecessori non avessero ridotto il Mibac al lumicino), e l’avvio immediato dei lavori di ricostruzione. Mancano i soldi? Ornaghi dovrebbe battere allora il pugno sul tavolo del Consiglio dei Ministri: uno dei venti capoluoghi di regione italiani è in fin di vita, e non c’è più molto tempo se vogliamo salvarlo.

Ornaghi non è l’unico che dovrebbe andare all’Aquila. Dovrebbero farlo innanzitutto gli storici dell’arte delle università e delle soprintendenze italiane. Perché magari si renderebbero conto che continuare a gettare denaro ed energia nella spensierata industria delle mostre e dei Grandi Eventi è ora doppiamente criminale: proprio come organizzare una festa da ballo mentre il cadavere di un fratello giace nella stanza accanto.

Ma è a tutti gli italiani che farebbe bene vedere l’Aquila. È terribilmente illuminante visitare nelle stesse ore un’intera città monumentale distrutta e abbandonata, e le ‘new town’ imposte da Berlusconi e Bertolaso, cioè gli insediamenti, sorti intorno alla città, che accolgono quindicimila dei quasi trentamila aquilani che vivevano in quel centro. Sono non-luoghi di cemento che sembrano immaginati da Orwell: anonimi, senza servizi, senza negozi, senza piazze. Con i mobili uguali in ogni appartamento, in comodato come tutto il resto. E con giganteschi televisori-alienatori che fanno da piazze e monumenti virtuali per un popolo che si vuole senza memoria, senza identità e senza futuro: e, dunque, senza la rabbia per ribellarsi.

Ma l’Aquila non è solo la metafora dell’Italia, rischia di rappresentarne anche il futuro: quello di un Paese che affianca all’inarrestabile stupro cementizio del territorio la distruzione, l’alienazione, la banalizzazione del patrimonio storico monumentale, condannando così all’abbrutimento morale e civile le prossime generazioni.

Nell’Epopea aquilana del popolo delle carriole (Angelus Novus Edizioni 2011), Antonio Gasbarrini racconta che la notte del 6 aprile 2009 (più o meno all’ora in cui qualcuno, a Roma, sghignazzava pensando alla pioggia di cemento e denaro), sua figlia arrivò sconvolta, dal centro della città, e gli disse solo: «L’Aquila non c’è più». A tre anni esatti, è ancora così.

L’Aquila non c’è più: ma se possiamo continuare a dormire sapendo tutto questo, allora è l’Italia a non esserci più.

da http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/17/ornaghi-trasferiamo-sede-ministero-laquila/198106/

“Ornaghi, perché L’Aquila non viene ricostruita?”, di Tomaso Montanari

Uno spettro non si aggira per l’Aquila. È l’ombra-ministro per i Beni culturali, il professor Lorenzo Ornaghi.

Chissà se questo prudente assenteismo si deve al fatto che uno degli uomini più discussi della ‘ricostruzione’, il vicecommissario Antonio Cicchetti (il gentiluomo di Sua Santità che – come ha raccontato da ultimo Gian Antonio Stella – si è costruito, tra le macerie, un super-resort di lusso) è stato a lungo il direttore amministrativo di quell’Università Cattolica di cui Ornaghi è ancora il rettore, anche se temporaneamente in sonno.

Fosse andato all’Aquila, il ministro avrebbe capito in una frazione di secondo che tutte le ciance sui Leonardi perduti, sulle costituenti della cultura-che-fattura, sul ‘brand Italia’ e sulle sponsorizzazioni del Colosseo sono solo diversivi indecorosi, e che l’unico atto simbolico che in questo momento avrebbe un senso sarebbe trasferire la sede del Ministero all’Aquila, e mettersi a combattere in prima linea per la città martire del patrimonio storico e artistico della nazione italiana.

La situazione dell’Aquila supera, infatti, anche la più catastrofica immaginazione. Il centro storico è una città spettrale, dove nessun cantiere è in funzione, nessuna pietra è stata ricollocata (e anzi molte sono state rubate), e dove le meravigliose e immense chiese monumentali (a cominciare dal Duomo) sono spesso ancora a cielo aperto, o sono protette da ridicoli teli, e dunque in preda alla pioggia e alla neve.

Piero Calamandrei ha scritto che «una parte della nostra Costituzione è una polemica contro il presente»: ecco, camminare per l’Aquila permette di capire che l’articolo più polemico è, oggi, l’articolo 9. All’Aquila, infatti, la Repubblica ha sistematicamente tradito se stessa, rinunciando radicalmente a «tutelare il patrimonio storico e artistico della nazione italiana».

Ma com’è possibile che quasi nessuno denunci più che a pochi chilometri da Roma si entra in un mondo parallelo, dove la Costituzione, la legge e la civiltà semplicemente non esistono? Il vicecommissario con delega ai Beni culturali, Luciano Marchetti, risponde che i conflitti di competenze, la litigiosità degli aquilani (sic) e la mancanza di fondi bloccano la ricostruzione. Ma lo dice con tono svagato, in un ineffabile misto di rassegnazione e cinismo burocratico: e si capisce subito che, di questo passo, tra trent’anni il centro dell’Aquila sarà ancora in queste condizioni. Ha dunque ragione da vendere Italia Nostra, che chiede le dimissioni del commissario (che ci sta a fare, se da tre anni non riesce a far nulla?), il ritorno alle competenze ordinarie delle soprintendenze (a cui Ornaghi dovrebbe fare massicce trasfusioni di personale e mezzi, se solo tutti i suoi predecessori non avessero ridotto il Mibac al lumicino), e l’avvio immediato dei lavori di ricostruzione. Mancano i soldi? Ornaghi dovrebbe battere allora il pugno sul tavolo del Consiglio dei Ministri: uno dei venti capoluoghi di regione italiani è in fin di vita, e non c’è più molto tempo se vogliamo salvarlo.

Ornaghi non è l’unico che dovrebbe andare all’Aquila. Dovrebbero farlo innanzitutto gli storici dell’arte delle università e delle soprintendenze italiane. Perché magari si renderebbero conto che continuare a gettare denaro ed energia nella spensierata industria delle mostre e dei Grandi Eventi è ora doppiamente criminale: proprio come organizzare una festa da ballo mentre il cadavere di un fratello giace nella stanza accanto.

Ma è a tutti gli italiani che farebbe bene vedere l’Aquila. È terribilmente illuminante visitare nelle stesse ore un’intera città monumentale distrutta e abbandonata, e le ‘new town’ imposte da Berlusconi e Bertolaso, cioè gli insediamenti, sorti intorno alla città, che accolgono quindicimila dei quasi trentamila aquilani che vivevano in quel centro. Sono non-luoghi di cemento che sembrano immaginati da Orwell: anonimi, senza servizi, senza negozi, senza piazze. Con i mobili uguali in ogni appartamento, in comodato come tutto il resto. E con giganteschi televisori-alienatori che fanno da piazze e monumenti virtuali per un popolo che si vuole senza memoria, senza identità e senza futuro: e, dunque, senza la rabbia per ribellarsi.

Ma l’Aquila non è solo la metafora dell’Italia, rischia di rappresentarne anche il futuro: quello di un Paese che affianca all’inarrestabile stupro cementizio del territorio la distruzione, l’alienazione, la banalizzazione del patrimonio storico monumentale, condannando così all’abbrutimento morale e civile le prossime generazioni.

Nell’Epopea aquilana del popolo delle carriole (Angelus Novus Edizioni 2011), Antonio Gasbarrini racconta che la notte del 6 aprile 2009 (più o meno all’ora in cui qualcuno, a Roma, sghignazzava pensando alla pioggia di cemento e denaro), sua figlia arrivò sconvolta, dal centro della città, e gli disse solo: «L’Aquila non c’è più». A tre anni esatti, è ancora così.

L’Aquila non c’è più: ma se possiamo continuare a dormire sapendo tutto questo, allora è l’Italia a non esserci più.

da http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/17/ornaghi-trasferiamo-sede-ministero-laquila/198106/