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"La frenata tattica della Camusso", di Gianni Del Vecchio

I tre motivi per cui il capo della Cgil ha raffreddato l’entusiasmo sull’accordo. Dopo l’accordo notturno di giovedì fra il premier Monti e i tre segretari della maggioranza che sostiene il governo (Alfano, Bersani e Casini), la riforma del mercato del lavoro sembrava ormai cosa fatta. Ma a gettare acqua fredda sui facili entusiasmi ci ha pensato il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso: «Se il governo ha fatto un accordo con i partiti la cosa ci lascia preoccupati. Le cose che abbiamo sentito finora non ci convincono».
I motivi della brusca frenata della Camusso sono sostanzialmente tre, ovviamente intrecciati fra loro. Prima di tutto, il leader di corso d’Italia non ci sta a vedere calata sulla sua testa un’intesa su cui sarà poi lei, assieme agli altri partecipanti al tavolo, a dover mettere firma e faccia. Lo ha detto chiaramente: «C’è un tavolo aperto con le parti sociali e quella è la sede opportuna per parlarne». Una posizione che rivendica un certo grado di autonomia dalla politica.
Il secondo motivo invece ha a che fare meno con la comunicazione e più con la trattativa in corso. Lo stop della Cgil è fondamentalmente tattico: siccome vuole portare a casa quanto più possibile nell’accordo finale, la Camusso ha deciso di calcare la mano su quanto la sua confederazione non può accettare (soprattutto il nuovo articolo 18 sul modello tedesco) rispetto alle cose che vanno bene. Del resto è la stessa tattica che stanno portando avanti le imprese. Ieri sera Abi, Alleanza delle cooperative, Ania, Confindustria, Rete imprese Italia hanno fatto sapere che nella bozza d’accordo finora sul tavolo ci sono diversi punti critici: la riduzione delle forme contrattuali, l’aumento dei costi per i contratti a tempo determinato, l’aggravio dei costi per le aziende derivante dal nuovo sistema di ammortizzatori sociali.
Guarda caso, proprio quelle cose che non dispiacciono alla Cgil e gli altri sindacati. In altri termini la trattativa è ancora in corso, e ogni parte spinge per incassare quanto più possibile. Il terzo motivo infine è tutto interno alla confederazione. Nella lunga riunione (otto ore) della segreteria allargata di giovedì, la Camusso ha ribadito ai suoi che firme separate o intese siglate solo in parte non ce ne saranno. O si firma tutti e tutto, oppure niente.
Del resto di fronte a un governo molto forte nei consensi, nonostante i provvedimenti impopolari presi finora, la Cgil non si può permettere il lusso di sfilarsi e diventare marginale – è il ragionamento fatto dal capo di corso d’Italia. Quindi si starà al tavolo fino alla fine, cercando di strappare il massimo. Una posizione che ovviamente ha mandato su tutte le furie il segretario della Fiom, Maurizio Landini, che durante la riunione si è scagliato contro, dicendo che non ha nessun mandato a negoziare sull’articolo 18.
Ma se l’opposizione dei metalmeccanici era da mettere in conto, la Camusso ha dovuto fare i conti anche con i rilievi “tecnici” di alcune aree della sua maggioranza. Ad esempio, in diversi hanno fatto notare i rischi di una modifica della norma sui licenziamenti: col modello tedesco ci sarebbe il rischio che l’imprenditore potrebbe far passare per economico un licenziamento per altri motivi o la possibilità che sia il lavoratore a dover provare la sua correttezza sul lavoro e non viceversa come avviene oggi.
Queste perplessità, secondo fonti sindacali, sarebbero state sollevate da Carla Cantone (capo dei pensionati), Mimmo Pantaleo (scuola) e Donata Canta (Cgil di Torino). Mentre Franco Martini della Filcams ha fatto presente i contraccolpi per le piccole imprese dei nuovi ammortizzatori. Insomma, la Camusso ha ancora da trattare al tavolo per poter firmare un documento presentabile ai suoi.

da Europa Quotidiano 17.03.12

“La frenata tattica della Camusso”, di Gianni Del Vecchio

I tre motivi per cui il capo della Cgil ha raffreddato l’entusiasmo sull’accordo. Dopo l’accordo notturno di giovedì fra il premier Monti e i tre segretari della maggioranza che sostiene il governo (Alfano, Bersani e Casini), la riforma del mercato del lavoro sembrava ormai cosa fatta. Ma a gettare acqua fredda sui facili entusiasmi ci ha pensato il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso: «Se il governo ha fatto un accordo con i partiti la cosa ci lascia preoccupati. Le cose che abbiamo sentito finora non ci convincono».
I motivi della brusca frenata della Camusso sono sostanzialmente tre, ovviamente intrecciati fra loro. Prima di tutto, il leader di corso d’Italia non ci sta a vedere calata sulla sua testa un’intesa su cui sarà poi lei, assieme agli altri partecipanti al tavolo, a dover mettere firma e faccia. Lo ha detto chiaramente: «C’è un tavolo aperto con le parti sociali e quella è la sede opportuna per parlarne». Una posizione che rivendica un certo grado di autonomia dalla politica.
Il secondo motivo invece ha a che fare meno con la comunicazione e più con la trattativa in corso. Lo stop della Cgil è fondamentalmente tattico: siccome vuole portare a casa quanto più possibile nell’accordo finale, la Camusso ha deciso di calcare la mano su quanto la sua confederazione non può accettare (soprattutto il nuovo articolo 18 sul modello tedesco) rispetto alle cose che vanno bene. Del resto è la stessa tattica che stanno portando avanti le imprese. Ieri sera Abi, Alleanza delle cooperative, Ania, Confindustria, Rete imprese Italia hanno fatto sapere che nella bozza d’accordo finora sul tavolo ci sono diversi punti critici: la riduzione delle forme contrattuali, l’aumento dei costi per i contratti a tempo determinato, l’aggravio dei costi per le aziende derivante dal nuovo sistema di ammortizzatori sociali.
Guarda caso, proprio quelle cose che non dispiacciono alla Cgil e gli altri sindacati. In altri termini la trattativa è ancora in corso, e ogni parte spinge per incassare quanto più possibile. Il terzo motivo infine è tutto interno alla confederazione. Nella lunga riunione (otto ore) della segreteria allargata di giovedì, la Camusso ha ribadito ai suoi che firme separate o intese siglate solo in parte non ce ne saranno. O si firma tutti e tutto, oppure niente.
Del resto di fronte a un governo molto forte nei consensi, nonostante i provvedimenti impopolari presi finora, la Cgil non si può permettere il lusso di sfilarsi e diventare marginale – è il ragionamento fatto dal capo di corso d’Italia. Quindi si starà al tavolo fino alla fine, cercando di strappare il massimo. Una posizione che ovviamente ha mandato su tutte le furie il segretario della Fiom, Maurizio Landini, che durante la riunione si è scagliato contro, dicendo che non ha nessun mandato a negoziare sull’articolo 18.
Ma se l’opposizione dei metalmeccanici era da mettere in conto, la Camusso ha dovuto fare i conti anche con i rilievi “tecnici” di alcune aree della sua maggioranza. Ad esempio, in diversi hanno fatto notare i rischi di una modifica della norma sui licenziamenti: col modello tedesco ci sarebbe il rischio che l’imprenditore potrebbe far passare per economico un licenziamento per altri motivi o la possibilità che sia il lavoratore a dover provare la sua correttezza sul lavoro e non viceversa come avviene oggi.
Queste perplessità, secondo fonti sindacali, sarebbero state sollevate da Carla Cantone (capo dei pensionati), Mimmo Pantaleo (scuola) e Donata Canta (Cgil di Torino). Mentre Franco Martini della Filcams ha fatto presente i contraccolpi per le piccole imprese dei nuovi ammortizzatori. Insomma, la Camusso ha ancora da trattare al tavolo per poter firmare un documento presentabile ai suoi.

da Europa Quotidiano 17.03.12

“La frenata tattica della Camusso”, di Gianni Del Vecchio

I tre motivi per cui il capo della Cgil ha raffreddato l’entusiasmo sull’accordo. Dopo l’accordo notturno di giovedì fra il premier Monti e i tre segretari della maggioranza che sostiene il governo (Alfano, Bersani e Casini), la riforma del mercato del lavoro sembrava ormai cosa fatta. Ma a gettare acqua fredda sui facili entusiasmi ci ha pensato il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso: «Se il governo ha fatto un accordo con i partiti la cosa ci lascia preoccupati. Le cose che abbiamo sentito finora non ci convincono».
I motivi della brusca frenata della Camusso sono sostanzialmente tre, ovviamente intrecciati fra loro. Prima di tutto, il leader di corso d’Italia non ci sta a vedere calata sulla sua testa un’intesa su cui sarà poi lei, assieme agli altri partecipanti al tavolo, a dover mettere firma e faccia. Lo ha detto chiaramente: «C’è un tavolo aperto con le parti sociali e quella è la sede opportuna per parlarne». Una posizione che rivendica un certo grado di autonomia dalla politica.
Il secondo motivo invece ha a che fare meno con la comunicazione e più con la trattativa in corso. Lo stop della Cgil è fondamentalmente tattico: siccome vuole portare a casa quanto più possibile nell’accordo finale, la Camusso ha deciso di calcare la mano su quanto la sua confederazione non può accettare (soprattutto il nuovo articolo 18 sul modello tedesco) rispetto alle cose che vanno bene. Del resto è la stessa tattica che stanno portando avanti le imprese. Ieri sera Abi, Alleanza delle cooperative, Ania, Confindustria, Rete imprese Italia hanno fatto sapere che nella bozza d’accordo finora sul tavolo ci sono diversi punti critici: la riduzione delle forme contrattuali, l’aumento dei costi per i contratti a tempo determinato, l’aggravio dei costi per le aziende derivante dal nuovo sistema di ammortizzatori sociali.
Guarda caso, proprio quelle cose che non dispiacciono alla Cgil e gli altri sindacati. In altri termini la trattativa è ancora in corso, e ogni parte spinge per incassare quanto più possibile. Il terzo motivo infine è tutto interno alla confederazione. Nella lunga riunione (otto ore) della segreteria allargata di giovedì, la Camusso ha ribadito ai suoi che firme separate o intese siglate solo in parte non ce ne saranno. O si firma tutti e tutto, oppure niente.
Del resto di fronte a un governo molto forte nei consensi, nonostante i provvedimenti impopolari presi finora, la Cgil non si può permettere il lusso di sfilarsi e diventare marginale – è il ragionamento fatto dal capo di corso d’Italia. Quindi si starà al tavolo fino alla fine, cercando di strappare il massimo. Una posizione che ovviamente ha mandato su tutte le furie il segretario della Fiom, Maurizio Landini, che durante la riunione si è scagliato contro, dicendo che non ha nessun mandato a negoziare sull’articolo 18.
Ma se l’opposizione dei metalmeccanici era da mettere in conto, la Camusso ha dovuto fare i conti anche con i rilievi “tecnici” di alcune aree della sua maggioranza. Ad esempio, in diversi hanno fatto notare i rischi di una modifica della norma sui licenziamenti: col modello tedesco ci sarebbe il rischio che l’imprenditore potrebbe far passare per economico un licenziamento per altri motivi o la possibilità che sia il lavoratore a dover provare la sua correttezza sul lavoro e non viceversa come avviene oggi.
Queste perplessità, secondo fonti sindacali, sarebbero state sollevate da Carla Cantone (capo dei pensionati), Mimmo Pantaleo (scuola) e Donata Canta (Cgil di Torino). Mentre Franco Martini della Filcams ha fatto presente i contraccolpi per le piccole imprese dei nuovi ammortizzatori. Insomma, la Camusso ha ancora da trattare al tavolo per poter firmare un documento presentabile ai suoi.

da Europa Quotidiano 17.03.12

"Dispersi e disoccupati", di Fabrizio Dacrema

Due recenti indagini ci forniscono un quadro decisamente allarmante per il futuro del paese: aumentano contemporaneamente i giovani che abbandonano gli studi senza aver conseguito un diploma o una qualifica e i laureati che non trovano lavoro. I dati Istat sulla dispersione scolastica attestano la crescita della dispersione scolastica e la distanza dell’Italia dagli obiettivi di Europa 2020. Il 18,8 per cento dei giovani 18-24enni abbandona gli studi senza conseguire un titolo di scuola media superiore o una qualifica professionale (la media europea è pari al 14,1 per cento). Vanno peggio i maschi che sono il 22 per cento, il mezzogiorno e le periferie delle metropoli. Secondo i dati in possesso del Ministero dell’Istruzione con la crisi economica si è interrotto il progressivo miglioramento che dal 2004 al 2010 aveva ridotto di quattro punti la dispersione scolastica. Secondo l’agenda di Lisbona già nel 2010 avremmo dovuto ridurre a non più del 10 per cento gli abbandoni e ora viene riproposto lo stesso obiettivo per il 2020.

La stessa agenda europea ci chiede di portare al 40 per cento il numero dei laureati, mentre oggi i giovani italiani tra i 30 e i 34 anni che ha conseguito un titolo di studio universitario è pari al 19,8% (la media Ocse è pari al 37 per cento).

A questo proposito l’ultima indagine Almalaurea conferma che in Italia, rispetto agli altri paesi europei, abbiamo meno giovani e meno laureati e, tuttavia, i nostri pochi laureati faticano più degli altri a trovare lavoro e, quando lo trovano, sono meno retribuiti e i rapporti di lavoro sono più precari. Non solo, gli ultimi dati Almalaurea ci dicono che la situazione sta anche peggiorando perché negli ultimi quattro anni i laureati disoccupati sono raddoppiati, è cresciuta la precarietà, è diminuito il potere d’acquisto degli stipendi.

Ovviamente un laureato continua ad avere più opportunità di lavoro di un non laureato: se un terzo dei giovani tra 18 e 25 anni è senza lavoro, i neo laureati disoccupati a un anno dalla laurea triennale nel 2011 sono il 19,4 per cento (11,2 nel 2008) e il 19,6 per cento quelli con laurea magistrale quinquennale (10,4 nel 2008).

Peggiora il divario tra nord e sud (da 13,5 punti di maggiore disoccupazione nel sud nel 2008 a 17 punti nel 2011), peggiorano le retribuzioni (da 1300 euro nel 2008 a 1100 nel 2011), cresce la precarietà (solo il 34 per cento degli assunti nel 2011 è a tempo indeterminato). Rimane pesante la discriminazione di genere: tra i laureati specialistici a un anno dal conseguimento della laurea lavora il 61 per cento degli uomini e il 54 per cento delle donne, il 37 per cento degli uomini ha un lavoro stabile contro il 31 per cento delle donne, gli uomini guadagnano il 29% in più delle donne e la situazione rimane simile anche a tre anni dalla laurea.

I limiti del sistema formativo e del sistema produttivo

Le due indagini, oltre a confermare i limiti strutturali del sistema formativo italiano, mettono in luce l’esistenza di un circolo vizioso con il sistema produttivo, il quale domanda meno conoscenze e competenze di quelle, già scarse, offerte dal sistema formativo.

Il sistema formativo, a sua volta, è inefficace perché perde troppi giovani rispetto all’obiettivo minimo di assicurare a tutti i giovani almeno un diploma o una qualifica professionale e perché riesce a far pervenire alla laurea troppi pochi giovani.

Tuttavia non è responsabilità del sistema formativo se i giovani con alti livelli di formazione non trovano lavoro. Secondo le tesi sostenute da molta parte del mondo imprenditoriale la responsabilità prioritaria della disoccupazione intellettuale italiana sarebbe del mismatch tra domanda e offerta di laureati, le cui competenze non sarebbero quelle ricercate dalle imprese italiane. In realtà i dati a disposizione smentiscono questa tesi: è innanzi tutto la domanda di laureati a essere bassa (solo 12,5 per cento contro il 31 USA), molto inferiore a quella dei paesi avanzati. Ciò è confermato anche dalle difficoltà incontrate a trovare occupazione anche dalle lauree più forti dal punto di vista occupazionale come ingegneria ed economia. La scarsa propensione del nostro sistema economico e produttivo ad assumere personale altamente qualificato è anche attestata dalla crescente tendenza dei giovani italiani a emigrare e dalla bassa attrattività del nostro paese nei confronti dei laureati stranieri. Infine precarietà e basse retribuzioni dimostrano ulteriormente lo scarso interesse del sistema produttivo italiano a valorizzare i giovani con alti livelli formativi.

Sono quindi i limiti strutturali del nostro sistema economico e produttivo (troppo frammentato, scarsamente innovativo e poco hi-tech) a tenere bassa la domanda di lavoro qualificato delle imprese.

Senza decisi interventi di svolta nelle politiche formative, economiche e industriali, è evidente che sono disincentivati gli investimenti in formazione, sia individuali (negli ultimi anni sono diminuite le immatricolazioni) che collettivi (riforme per migliorare efficacia e qualità del sistema formativo), mentre il sistema economico continuerà a perdere competitività e a declinare, aumentando il gap tecnologico che ci divide dai paesi avanzati e, ormai, anche da non pochi paesi emergenti.

Invertire la tendenza al declino

Il primo segnale di inversione di tendenza non può non venire dalla fine della stagione dei tagli e dalla una ripresa degli investimenti nel sistema formativo. I dati Istat confermano che l’Italia investe poco in istruzione: l’incidenza sul Pil del settore istruzione è pari al 4,8% (dati risalenti al 2009 e quindi precedenti all’andata a regime dei tagli Tremonti-Gelmini) un valore inferiore rispetto a quello medio dell’Unione europea che è pari al 5,6%.

Occorre innanzi tutto rilanciare l’autonomia responsabile di scuole e università riattivando progressivamente i flussi di risorse professionali e finanziarie. Dopo i passi falsi del decreto semplificazioni, il Governo Monti deve dare segnali concreti di novità nelle politiche della conoscenza, in assenza dei quali non sono possibili per la crescita.

Sempre i dati Istat ci ricordano il deficit formativo della popolazione italiana tra i 25 e i 64 anni, il cui 45% ha la licenza media come titolo di studio più elevato, dato distante dalla media europea che è del 27,3% (dato del 2010) e ancor più preoccupante a fronte del misero 6,2 per cento di adulti impegnati in attività formative (15 per cento è l’obiettivo Europa 2020): ogni politica per l’innovazione e la crescita non può che aggredire questo limite strutturale attraverso diffusi interventi per l’apprendimento permanente. Di qui l’urgenza politica per una legge per il diritto apprendimento permanente (proposta di legge di iniziativa popolare) e di scelte rispondenti alle “10 proposte per i diritto all’apprendimento permanente” presentate dalla Cgil insieme a Flc Cgil, Spi Cgil, Agenquadri, Auser, Edaforum.

da ScuolaOggi 17.03.12

“Dispersi e disoccupati”, di Fabrizio Dacrema

Due recenti indagini ci forniscono un quadro decisamente allarmante per il futuro del paese: aumentano contemporaneamente i giovani che abbandonano gli studi senza aver conseguito un diploma o una qualifica e i laureati che non trovano lavoro. I dati Istat sulla dispersione scolastica attestano la crescita della dispersione scolastica e la distanza dell’Italia dagli obiettivi di Europa 2020. Il 18,8 per cento dei giovani 18-24enni abbandona gli studi senza conseguire un titolo di scuola media superiore o una qualifica professionale (la media europea è pari al 14,1 per cento). Vanno peggio i maschi che sono il 22 per cento, il mezzogiorno e le periferie delle metropoli. Secondo i dati in possesso del Ministero dell’Istruzione con la crisi economica si è interrotto il progressivo miglioramento che dal 2004 al 2010 aveva ridotto di quattro punti la dispersione scolastica. Secondo l’agenda di Lisbona già nel 2010 avremmo dovuto ridurre a non più del 10 per cento gli abbandoni e ora viene riproposto lo stesso obiettivo per il 2020.

La stessa agenda europea ci chiede di portare al 40 per cento il numero dei laureati, mentre oggi i giovani italiani tra i 30 e i 34 anni che ha conseguito un titolo di studio universitario è pari al 19,8% (la media Ocse è pari al 37 per cento).

A questo proposito l’ultima indagine Almalaurea conferma che in Italia, rispetto agli altri paesi europei, abbiamo meno giovani e meno laureati e, tuttavia, i nostri pochi laureati faticano più degli altri a trovare lavoro e, quando lo trovano, sono meno retribuiti e i rapporti di lavoro sono più precari. Non solo, gli ultimi dati Almalaurea ci dicono che la situazione sta anche peggiorando perché negli ultimi quattro anni i laureati disoccupati sono raddoppiati, è cresciuta la precarietà, è diminuito il potere d’acquisto degli stipendi.

Ovviamente un laureato continua ad avere più opportunità di lavoro di un non laureato: se un terzo dei giovani tra 18 e 25 anni è senza lavoro, i neo laureati disoccupati a un anno dalla laurea triennale nel 2011 sono il 19,4 per cento (11,2 nel 2008) e il 19,6 per cento quelli con laurea magistrale quinquennale (10,4 nel 2008).

Peggiora il divario tra nord e sud (da 13,5 punti di maggiore disoccupazione nel sud nel 2008 a 17 punti nel 2011), peggiorano le retribuzioni (da 1300 euro nel 2008 a 1100 nel 2011), cresce la precarietà (solo il 34 per cento degli assunti nel 2011 è a tempo indeterminato). Rimane pesante la discriminazione di genere: tra i laureati specialistici a un anno dal conseguimento della laurea lavora il 61 per cento degli uomini e il 54 per cento delle donne, il 37 per cento degli uomini ha un lavoro stabile contro il 31 per cento delle donne, gli uomini guadagnano il 29% in più delle donne e la situazione rimane simile anche a tre anni dalla laurea.

I limiti del sistema formativo e del sistema produttivo

Le due indagini, oltre a confermare i limiti strutturali del sistema formativo italiano, mettono in luce l’esistenza di un circolo vizioso con il sistema produttivo, il quale domanda meno conoscenze e competenze di quelle, già scarse, offerte dal sistema formativo.

Il sistema formativo, a sua volta, è inefficace perché perde troppi giovani rispetto all’obiettivo minimo di assicurare a tutti i giovani almeno un diploma o una qualifica professionale e perché riesce a far pervenire alla laurea troppi pochi giovani.

Tuttavia non è responsabilità del sistema formativo se i giovani con alti livelli di formazione non trovano lavoro. Secondo le tesi sostenute da molta parte del mondo imprenditoriale la responsabilità prioritaria della disoccupazione intellettuale italiana sarebbe del mismatch tra domanda e offerta di laureati, le cui competenze non sarebbero quelle ricercate dalle imprese italiane. In realtà i dati a disposizione smentiscono questa tesi: è innanzi tutto la domanda di laureati a essere bassa (solo 12,5 per cento contro il 31 USA), molto inferiore a quella dei paesi avanzati. Ciò è confermato anche dalle difficoltà incontrate a trovare occupazione anche dalle lauree più forti dal punto di vista occupazionale come ingegneria ed economia. La scarsa propensione del nostro sistema economico e produttivo ad assumere personale altamente qualificato è anche attestata dalla crescente tendenza dei giovani italiani a emigrare e dalla bassa attrattività del nostro paese nei confronti dei laureati stranieri. Infine precarietà e basse retribuzioni dimostrano ulteriormente lo scarso interesse del sistema produttivo italiano a valorizzare i giovani con alti livelli formativi.

Sono quindi i limiti strutturali del nostro sistema economico e produttivo (troppo frammentato, scarsamente innovativo e poco hi-tech) a tenere bassa la domanda di lavoro qualificato delle imprese.

Senza decisi interventi di svolta nelle politiche formative, economiche e industriali, è evidente che sono disincentivati gli investimenti in formazione, sia individuali (negli ultimi anni sono diminuite le immatricolazioni) che collettivi (riforme per migliorare efficacia e qualità del sistema formativo), mentre il sistema economico continuerà a perdere competitività e a declinare, aumentando il gap tecnologico che ci divide dai paesi avanzati e, ormai, anche da non pochi paesi emergenti.

Invertire la tendenza al declino

Il primo segnale di inversione di tendenza non può non venire dalla fine della stagione dei tagli e dalla una ripresa degli investimenti nel sistema formativo. I dati Istat confermano che l’Italia investe poco in istruzione: l’incidenza sul Pil del settore istruzione è pari al 4,8% (dati risalenti al 2009 e quindi precedenti all’andata a regime dei tagli Tremonti-Gelmini) un valore inferiore rispetto a quello medio dell’Unione europea che è pari al 5,6%.

Occorre innanzi tutto rilanciare l’autonomia responsabile di scuole e università riattivando progressivamente i flussi di risorse professionali e finanziarie. Dopo i passi falsi del decreto semplificazioni, il Governo Monti deve dare segnali concreti di novità nelle politiche della conoscenza, in assenza dei quali non sono possibili per la crescita.

Sempre i dati Istat ci ricordano il deficit formativo della popolazione italiana tra i 25 e i 64 anni, il cui 45% ha la licenza media come titolo di studio più elevato, dato distante dalla media europea che è del 27,3% (dato del 2010) e ancor più preoccupante a fronte del misero 6,2 per cento di adulti impegnati in attività formative (15 per cento è l’obiettivo Europa 2020): ogni politica per l’innovazione e la crescita non può che aggredire questo limite strutturale attraverso diffusi interventi per l’apprendimento permanente. Di qui l’urgenza politica per una legge per il diritto apprendimento permanente (proposta di legge di iniziativa popolare) e di scelte rispondenti alle “10 proposte per i diritto all’apprendimento permanente” presentate dalla Cgil insieme a Flc Cgil, Spi Cgil, Agenquadri, Auser, Edaforum.

da ScuolaOggi 17.03.12

“Dispersi e disoccupati”, di Fabrizio Dacrema

Due recenti indagini ci forniscono un quadro decisamente allarmante per il futuro del paese: aumentano contemporaneamente i giovani che abbandonano gli studi senza aver conseguito un diploma o una qualifica e i laureati che non trovano lavoro. I dati Istat sulla dispersione scolastica attestano la crescita della dispersione scolastica e la distanza dell’Italia dagli obiettivi di Europa 2020. Il 18,8 per cento dei giovani 18-24enni abbandona gli studi senza conseguire un titolo di scuola media superiore o una qualifica professionale (la media europea è pari al 14,1 per cento). Vanno peggio i maschi che sono il 22 per cento, il mezzogiorno e le periferie delle metropoli. Secondo i dati in possesso del Ministero dell’Istruzione con la crisi economica si è interrotto il progressivo miglioramento che dal 2004 al 2010 aveva ridotto di quattro punti la dispersione scolastica. Secondo l’agenda di Lisbona già nel 2010 avremmo dovuto ridurre a non più del 10 per cento gli abbandoni e ora viene riproposto lo stesso obiettivo per il 2020.

La stessa agenda europea ci chiede di portare al 40 per cento il numero dei laureati, mentre oggi i giovani italiani tra i 30 e i 34 anni che ha conseguito un titolo di studio universitario è pari al 19,8% (la media Ocse è pari al 37 per cento).

A questo proposito l’ultima indagine Almalaurea conferma che in Italia, rispetto agli altri paesi europei, abbiamo meno giovani e meno laureati e, tuttavia, i nostri pochi laureati faticano più degli altri a trovare lavoro e, quando lo trovano, sono meno retribuiti e i rapporti di lavoro sono più precari. Non solo, gli ultimi dati Almalaurea ci dicono che la situazione sta anche peggiorando perché negli ultimi quattro anni i laureati disoccupati sono raddoppiati, è cresciuta la precarietà, è diminuito il potere d’acquisto degli stipendi.

Ovviamente un laureato continua ad avere più opportunità di lavoro di un non laureato: se un terzo dei giovani tra 18 e 25 anni è senza lavoro, i neo laureati disoccupati a un anno dalla laurea triennale nel 2011 sono il 19,4 per cento (11,2 nel 2008) e il 19,6 per cento quelli con laurea magistrale quinquennale (10,4 nel 2008).

Peggiora il divario tra nord e sud (da 13,5 punti di maggiore disoccupazione nel sud nel 2008 a 17 punti nel 2011), peggiorano le retribuzioni (da 1300 euro nel 2008 a 1100 nel 2011), cresce la precarietà (solo il 34 per cento degli assunti nel 2011 è a tempo indeterminato). Rimane pesante la discriminazione di genere: tra i laureati specialistici a un anno dal conseguimento della laurea lavora il 61 per cento degli uomini e il 54 per cento delle donne, il 37 per cento degli uomini ha un lavoro stabile contro il 31 per cento delle donne, gli uomini guadagnano il 29% in più delle donne e la situazione rimane simile anche a tre anni dalla laurea.

I limiti del sistema formativo e del sistema produttivo

Le due indagini, oltre a confermare i limiti strutturali del sistema formativo italiano, mettono in luce l’esistenza di un circolo vizioso con il sistema produttivo, il quale domanda meno conoscenze e competenze di quelle, già scarse, offerte dal sistema formativo.

Il sistema formativo, a sua volta, è inefficace perché perde troppi giovani rispetto all’obiettivo minimo di assicurare a tutti i giovani almeno un diploma o una qualifica professionale e perché riesce a far pervenire alla laurea troppi pochi giovani.

Tuttavia non è responsabilità del sistema formativo se i giovani con alti livelli di formazione non trovano lavoro. Secondo le tesi sostenute da molta parte del mondo imprenditoriale la responsabilità prioritaria della disoccupazione intellettuale italiana sarebbe del mismatch tra domanda e offerta di laureati, le cui competenze non sarebbero quelle ricercate dalle imprese italiane. In realtà i dati a disposizione smentiscono questa tesi: è innanzi tutto la domanda di laureati a essere bassa (solo 12,5 per cento contro il 31 USA), molto inferiore a quella dei paesi avanzati. Ciò è confermato anche dalle difficoltà incontrate a trovare occupazione anche dalle lauree più forti dal punto di vista occupazionale come ingegneria ed economia. La scarsa propensione del nostro sistema economico e produttivo ad assumere personale altamente qualificato è anche attestata dalla crescente tendenza dei giovani italiani a emigrare e dalla bassa attrattività del nostro paese nei confronti dei laureati stranieri. Infine precarietà e basse retribuzioni dimostrano ulteriormente lo scarso interesse del sistema produttivo italiano a valorizzare i giovani con alti livelli formativi.

Sono quindi i limiti strutturali del nostro sistema economico e produttivo (troppo frammentato, scarsamente innovativo e poco hi-tech) a tenere bassa la domanda di lavoro qualificato delle imprese.

Senza decisi interventi di svolta nelle politiche formative, economiche e industriali, è evidente che sono disincentivati gli investimenti in formazione, sia individuali (negli ultimi anni sono diminuite le immatricolazioni) che collettivi (riforme per migliorare efficacia e qualità del sistema formativo), mentre il sistema economico continuerà a perdere competitività e a declinare, aumentando il gap tecnologico che ci divide dai paesi avanzati e, ormai, anche da non pochi paesi emergenti.

Invertire la tendenza al declino

Il primo segnale di inversione di tendenza non può non venire dalla fine della stagione dei tagli e dalla una ripresa degli investimenti nel sistema formativo. I dati Istat confermano che l’Italia investe poco in istruzione: l’incidenza sul Pil del settore istruzione è pari al 4,8% (dati risalenti al 2009 e quindi precedenti all’andata a regime dei tagli Tremonti-Gelmini) un valore inferiore rispetto a quello medio dell’Unione europea che è pari al 5,6%.

Occorre innanzi tutto rilanciare l’autonomia responsabile di scuole e università riattivando progressivamente i flussi di risorse professionali e finanziarie. Dopo i passi falsi del decreto semplificazioni, il Governo Monti deve dare segnali concreti di novità nelle politiche della conoscenza, in assenza dei quali non sono possibili per la crescita.

Sempre i dati Istat ci ricordano il deficit formativo della popolazione italiana tra i 25 e i 64 anni, il cui 45% ha la licenza media come titolo di studio più elevato, dato distante dalla media europea che è del 27,3% (dato del 2010) e ancor più preoccupante a fronte del misero 6,2 per cento di adulti impegnati in attività formative (15 per cento è l’obiettivo Europa 2020): ogni politica per l’innovazione e la crescita non può che aggredire questo limite strutturale attraverso diffusi interventi per l’apprendimento permanente. Di qui l’urgenza politica per una legge per il diritto apprendimento permanente (proposta di legge di iniziativa popolare) e di scelte rispondenti alle “10 proposte per i diritto all’apprendimento permanente” presentate dalla Cgil insieme a Flc Cgil, Spi Cgil, Agenquadri, Auser, Edaforum.

da ScuolaOggi 17.03.12

“La nemesi della Lega, nata da tangentopoli e finita tra le mazzette”, di Curzio Maltese

La storia politica è piena di nemesi, ma una crudele e grottesca come quella della Lega non s’era mai vista. I forcaioli della prima Tangentopoli sono diventati i nuovi socialisti della seconda. Precisi. In una settimana sono passati dalle manifestazioni in piazza contro la giunta Formigoni, “perché non si può andare avanti con un arresto al giorno”, alla teoria del complotto dei magistrati. Tutto perché stavolta hanno pizzicato uno dei loro e uno grosso, il Davide Boni, a trafficare mazzette di milioni di euro, altro che Mario Chiesa, in cambio di licenze per nuovi centri commerciali.
In uno studio televisivo sento la difesa di Attilio Fontana, sindaco di Varese, e mi sembra di riascoltare Carlo Tognoli, vent’anni dopo. Boni ne uscirà pulito, non si fanno i processi in piazza. Ma certo, salvo che la Lega sui processi in piazza, nel ’92 e dintorni, ha costruito tutte le sue fortune. Bossi e Maroni sono una riedizione più mesta del duo Craxi-Martelli, che litigavano su tutto, ma si ritrovavano all’unisono nella difesa dei tangentisti. È soltanto l’ultimo testacoda di una serie ormai infinita di giravolte e tradimenti del Carroccio. Era il movimento dell’antipartitocrazia e risulta ora il più “romano” di tutti. Era quello della lotta agli sprechi, dell’abolizione degli enti inutili, “a cominciare dalle Province”, ed è diventato il fiero paladino delle Province e della lottizzazione selvaggia. Era il baluardo della difesa del martoriato territorio del Nord Est dagli scempi ambientali, “mai più capannoni”, “basta Tir”, ed è diventato il padrino politico della peggior cementificazione privata e pubblica mai conosciuta dalla Padania dal Dopoguerra, il principale sponsor del raddoppio della rete di autostrade nella regione più asfaltata d’Europa, la Lombardia, il nemico giurato dei No Tav, contro i quali invoca l’esercito.
Alle ultime elezioni ha giurato al popolo lombardo di risolvere “in quattro e quattr’otto” la questione Malpensa e il risultato è che Malpensa è andata in rovina. Perfino la minaccia della secessione alla fine si era ridotta alla pagliacciata dei tre uffici ministeriali trasferiti e Monza e chiusi, con pietosa decenza, dal governo Monti.
I sondaggi dicono che la Lega, nonostante tutto, regge ancora. Ma la Lega non c’è più, si sta dissolvendo. Il passo indietro di Berlusconi mette in imbarazzo Bossi, la cui parabola politica è finita da un pezzo. D’altra parte, una leadership di Maroni scatenerebbe una guerra interna fra gli altri caporioni. E poi, che cosa andranno a raccontare la prossima volta agli elettori Bossi o Maroni? Che vanno a Roma da soli, o magari alleati ad Alfano, per portare a casa un federalismo mai pervenuto in dieci anni di governo con Berlusconi? Mi sbaglierò, ma la Lega rischia davvero la stessa fine del Psi di Craxi. E, anche stavolta, senza nessun rimpianto.

da Venerdì di Repubblica 17.03.12