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"Le pere le mele del MIUR (e i cavoli a merenda)", di Osvaldo Roman

Il MIUR ha chiarito (1) che non corrisponde al vero la notizia rilasciata dal Direttore del Dipartimento Istruzione Lucrezia Stellacci in una intervista al Corriere della Sera (2) secondo la quale sarebbero stati 41 mila i dipendenti del istruzione che non stanno a scuola e che percepiscono ugualmente lo stipendio. Le pere e le mele evocate nel comunicato ministeriale per coprire la colossale bufala c’entrano però come i cavoli a merenda.
La verità è che sui 10.075 comandati 7.085 svolgono compiti istituzionali e sono a carico del bilancio, gli altri no (3). I loro posti sono conteggiati fra quelli in organico e i docenti che li sostituiscono sono in genere docenti a tempo determinato con incarico fino al termine delle lezioni.
E’ dunque pacifico che i 41.043 docenti, risultanti dalla differenza riportata nella tabella (4) fornita dal MIUR tra i posti (723.514) e gli insegnanti in servizio (765.017) nell’anno scolastico in corso non corrispondono a quelli dei cosiddetti comandati
Invece di parlare di leggende metropolitane e di mele e di pere il MIUR avrebbe fatto il suo dovere se avesse precisato qual’è il vero numero dei docenti in servizio, numero che serve cioè a valutare se e come i tagli previsti dall’art. 64 sono stati realizzati e soprattutto stabilire a quanto ammonta realmente il 30% dei risparmi da destinare al merito e, nella fattispecie ormai definita dalla legge, al pagamento degli scatti maturati negli anni 2010-11-12 e degli organici aggiuntivi da destinare all’autonomia come stabilito dall’art 50 del decreto sulle semplificazioni. Il Miur di fronte ai 70.522 insegnanti a tempo determinato, in servizio (anche su spezzoni orari) nel 2011-12, avrebbe dovuto precisare che il conteggio di solo 27.970 posti non è statisticamente omogeneo al dato di riferimento considerato nel 2008-2009.
Infatti quello che il MIUR stenta a dichiarare é che nel 2008-09 nel valutare quel rapporto (Studenti/Insegnanti) pari a 8,84 da aumentare a 9,94 nel 2011-12, si contavano tutti i docenti in servizio.
Per la precisione gli 868.673 docenti allora in servizio erano costituiti da tre gruppi:
• i 753.683 docenti su posti normali( di cui 656.207 a tempo indeterminato e 97.476 a tempo determinato);
• gli 89.357 posti di sostegno (di cui 45.098 a tempo indeterminato e 44.259 a tempo determinato);
• i 25.633 docenti di religione cattolica (di cui 14.332 a tempo indeterminato e i 11.301 a tempo indeterminato).
A quei gruppi e a quei numeri, secondo gli stessi recenti dati ministeriali, incompleti perché omettono totalmente i docenti di religione cattolica corrispondono i 791.588 insegnanti in servizio nell’anno scolastico 2011-2012 così distribuiti:
• i 667.513 docenti su posti normali( di cui 596.991 a tempo indeterminato e 70.522 a tempo determinato);
• i 97.495 posti di sostegno (di cui 61.745 a tempo indeterminato e 35.750 a tempo determinato);
• i 26.580 docenti di religione cattolica (di cui 13.289 a tempo indeterminato e 13.291 a tempo indeterminato).
E’ cosi difficile riconoscere che l’obiettivo stabilito dal famigerato articolo 64 (comma1) della legge 133/08 secondo il quale si voleva portare a 9,94 il rapporto studenti (7.826.232 nell’ a.s. 2011-2012) /docenti è dunque oggi 9,88. Non siamo ancora al 9,94 previsto ma ci siamo molto vicini . Per arrivare a 787.347 insegnanti che oggi rappresentano quel rapporto mancano solo 3.802 unità Ma forse se si contano bene gli ATA l’obiettivo complessivo dell’art. 64 è stato, dal punto di vista economico, complessivamente raggiunto. I tagli che si dovrebbero realizzare nei prossimi due anni nella scuola primaria e in quella secondaria superiore per dare piena attuazione ai Regolamenti Gelmini e tutti quelli, previsti da Tremonti nelle varie manovre che si sono susseguite dall’estate scorsa ad oggi, dunque non sono stabiliti dall’art. 64 di quella legge!
Forse è questo il motivo per cui nessun livello di giustizia amministrativa si è voluto pronunciare sulla compatibilità dei tagli previsti dai Regolamenti con l’art. 64 e con lo stesso Piano Programmatico che lo realizzava!
Allora li pagano la Gelmini e Tremonti?

La Rosa Rossa

(2)Intervista sul Corriere della Sera del 12 marzo 2012

(3)Tabella ministeriale sui comandati

(4) Tabella ministeriale sui posti e sugli insegnanti in servizio nell’anno scolastico 2011-12

La ROsa Rossa 15.03.12

“Le pere le mele del MIUR (e i cavoli a merenda)”, di Osvaldo Roman

Il MIUR ha chiarito (1) che non corrisponde al vero la notizia rilasciata dal Direttore del Dipartimento Istruzione Lucrezia Stellacci in una intervista al Corriere della Sera (2) secondo la quale sarebbero stati 41 mila i dipendenti del istruzione che non stanno a scuola e che percepiscono ugualmente lo stipendio. Le pere e le mele evocate nel comunicato ministeriale per coprire la colossale bufala c’entrano però come i cavoli a merenda.
La verità è che sui 10.075 comandati 7.085 svolgono compiti istituzionali e sono a carico del bilancio, gli altri no (3). I loro posti sono conteggiati fra quelli in organico e i docenti che li sostituiscono sono in genere docenti a tempo determinato con incarico fino al termine delle lezioni.
E’ dunque pacifico che i 41.043 docenti, risultanti dalla differenza riportata nella tabella (4) fornita dal MIUR tra i posti (723.514) e gli insegnanti in servizio (765.017) nell’anno scolastico in corso non corrispondono a quelli dei cosiddetti comandati
Invece di parlare di leggende metropolitane e di mele e di pere il MIUR avrebbe fatto il suo dovere se avesse precisato qual’è il vero numero dei docenti in servizio, numero che serve cioè a valutare se e come i tagli previsti dall’art. 64 sono stati realizzati e soprattutto stabilire a quanto ammonta realmente il 30% dei risparmi da destinare al merito e, nella fattispecie ormai definita dalla legge, al pagamento degli scatti maturati negli anni 2010-11-12 e degli organici aggiuntivi da destinare all’autonomia come stabilito dall’art 50 del decreto sulle semplificazioni. Il Miur di fronte ai 70.522 insegnanti a tempo determinato, in servizio (anche su spezzoni orari) nel 2011-12, avrebbe dovuto precisare che il conteggio di solo 27.970 posti non è statisticamente omogeneo al dato di riferimento considerato nel 2008-2009.
Infatti quello che il MIUR stenta a dichiarare é che nel 2008-09 nel valutare quel rapporto (Studenti/Insegnanti) pari a 8,84 da aumentare a 9,94 nel 2011-12, si contavano tutti i docenti in servizio.
Per la precisione gli 868.673 docenti allora in servizio erano costituiti da tre gruppi:
• i 753.683 docenti su posti normali( di cui 656.207 a tempo indeterminato e 97.476 a tempo determinato);
• gli 89.357 posti di sostegno (di cui 45.098 a tempo indeterminato e 44.259 a tempo determinato);
• i 25.633 docenti di religione cattolica (di cui 14.332 a tempo indeterminato e i 11.301 a tempo indeterminato).
A quei gruppi e a quei numeri, secondo gli stessi recenti dati ministeriali, incompleti perché omettono totalmente i docenti di religione cattolica corrispondono i 791.588 insegnanti in servizio nell’anno scolastico 2011-2012 così distribuiti:
• i 667.513 docenti su posti normali( di cui 596.991 a tempo indeterminato e 70.522 a tempo determinato);
• i 97.495 posti di sostegno (di cui 61.745 a tempo indeterminato e 35.750 a tempo determinato);
• i 26.580 docenti di religione cattolica (di cui 13.289 a tempo indeterminato e 13.291 a tempo indeterminato).
E’ cosi difficile riconoscere che l’obiettivo stabilito dal famigerato articolo 64 (comma1) della legge 133/08 secondo il quale si voleva portare a 9,94 il rapporto studenti (7.826.232 nell’ a.s. 2011-2012) /docenti è dunque oggi 9,88. Non siamo ancora al 9,94 previsto ma ci siamo molto vicini . Per arrivare a 787.347 insegnanti che oggi rappresentano quel rapporto mancano solo 3.802 unità Ma forse se si contano bene gli ATA l’obiettivo complessivo dell’art. 64 è stato, dal punto di vista economico, complessivamente raggiunto. I tagli che si dovrebbero realizzare nei prossimi due anni nella scuola primaria e in quella secondaria superiore per dare piena attuazione ai Regolamenti Gelmini e tutti quelli, previsti da Tremonti nelle varie manovre che si sono susseguite dall’estate scorsa ad oggi, dunque non sono stabiliti dall’art. 64 di quella legge!
Forse è questo il motivo per cui nessun livello di giustizia amministrativa si è voluto pronunciare sulla compatibilità dei tagli previsti dai Regolamenti con l’art. 64 e con lo stesso Piano Programmatico che lo realizzava!
Allora li pagano la Gelmini e Tremonti?

La Rosa Rossa

(2)Intervista sul Corriere della Sera del 12 marzo 2012

(3)Tabella ministeriale sui comandati

(4) Tabella ministeriale sui posti e sugli insegnanti in servizio nell’anno scolastico 2011-12

La ROsa Rossa 15.03.12

“Le pere le mele del MIUR (e i cavoli a merenda)”, di Osvaldo Roman

Il MIUR ha chiarito (1) che non corrisponde al vero la notizia rilasciata dal Direttore del Dipartimento Istruzione Lucrezia Stellacci in una intervista al Corriere della Sera (2) secondo la quale sarebbero stati 41 mila i dipendenti del istruzione che non stanno a scuola e che percepiscono ugualmente lo stipendio. Le pere e le mele evocate nel comunicato ministeriale per coprire la colossale bufala c’entrano però come i cavoli a merenda.
La verità è che sui 10.075 comandati 7.085 svolgono compiti istituzionali e sono a carico del bilancio, gli altri no (3). I loro posti sono conteggiati fra quelli in organico e i docenti che li sostituiscono sono in genere docenti a tempo determinato con incarico fino al termine delle lezioni.
E’ dunque pacifico che i 41.043 docenti, risultanti dalla differenza riportata nella tabella (4) fornita dal MIUR tra i posti (723.514) e gli insegnanti in servizio (765.017) nell’anno scolastico in corso non corrispondono a quelli dei cosiddetti comandati
Invece di parlare di leggende metropolitane e di mele e di pere il MIUR avrebbe fatto il suo dovere se avesse precisato qual’è il vero numero dei docenti in servizio, numero che serve cioè a valutare se e come i tagli previsti dall’art. 64 sono stati realizzati e soprattutto stabilire a quanto ammonta realmente il 30% dei risparmi da destinare al merito e, nella fattispecie ormai definita dalla legge, al pagamento degli scatti maturati negli anni 2010-11-12 e degli organici aggiuntivi da destinare all’autonomia come stabilito dall’art 50 del decreto sulle semplificazioni. Il Miur di fronte ai 70.522 insegnanti a tempo determinato, in servizio (anche su spezzoni orari) nel 2011-12, avrebbe dovuto precisare che il conteggio di solo 27.970 posti non è statisticamente omogeneo al dato di riferimento considerato nel 2008-2009.
Infatti quello che il MIUR stenta a dichiarare é che nel 2008-09 nel valutare quel rapporto (Studenti/Insegnanti) pari a 8,84 da aumentare a 9,94 nel 2011-12, si contavano tutti i docenti in servizio.
Per la precisione gli 868.673 docenti allora in servizio erano costituiti da tre gruppi:
• i 753.683 docenti su posti normali( di cui 656.207 a tempo indeterminato e 97.476 a tempo determinato);
• gli 89.357 posti di sostegno (di cui 45.098 a tempo indeterminato e 44.259 a tempo determinato);
• i 25.633 docenti di religione cattolica (di cui 14.332 a tempo indeterminato e i 11.301 a tempo indeterminato).
A quei gruppi e a quei numeri, secondo gli stessi recenti dati ministeriali, incompleti perché omettono totalmente i docenti di religione cattolica corrispondono i 791.588 insegnanti in servizio nell’anno scolastico 2011-2012 così distribuiti:
• i 667.513 docenti su posti normali( di cui 596.991 a tempo indeterminato e 70.522 a tempo determinato);
• i 97.495 posti di sostegno (di cui 61.745 a tempo indeterminato e 35.750 a tempo determinato);
• i 26.580 docenti di religione cattolica (di cui 13.289 a tempo indeterminato e 13.291 a tempo indeterminato).
E’ cosi difficile riconoscere che l’obiettivo stabilito dal famigerato articolo 64 (comma1) della legge 133/08 secondo il quale si voleva portare a 9,94 il rapporto studenti (7.826.232 nell’ a.s. 2011-2012) /docenti è dunque oggi 9,88. Non siamo ancora al 9,94 previsto ma ci siamo molto vicini . Per arrivare a 787.347 insegnanti che oggi rappresentano quel rapporto mancano solo 3.802 unità Ma forse se si contano bene gli ATA l’obiettivo complessivo dell’art. 64 è stato, dal punto di vista economico, complessivamente raggiunto. I tagli che si dovrebbero realizzare nei prossimi due anni nella scuola primaria e in quella secondaria superiore per dare piena attuazione ai Regolamenti Gelmini e tutti quelli, previsti da Tremonti nelle varie manovre che si sono susseguite dall’estate scorsa ad oggi, dunque non sono stabiliti dall’art. 64 di quella legge!
Forse è questo il motivo per cui nessun livello di giustizia amministrativa si è voluto pronunciare sulla compatibilità dei tagli previsti dai Regolamenti con l’art. 64 e con lo stesso Piano Programmatico che lo realizzava!
Allora li pagano la Gelmini e Tremonti?

La Rosa Rossa

(2)Intervista sul Corriere della Sera del 12 marzo 2012

(3)Tabella ministeriale sui comandati

(4) Tabella ministeriale sui posti e sugli insegnanti in servizio nell’anno scolastico 2011-12

La ROsa Rossa 15.03.12

"L’illusione della flessibilità", di Chiara Saraceno

Sembra superata la brutta scivolata di ieri della ministra Fornero con l’infelice frase sulla “paccata di miliardi”. “Paccata di miliardi” che sarebbe disponibile solo se le parti sociali accettano preventivamente il pacchetto di riforme proposto dal governo. Per lo meno non ha fermato quel pezzo simbolicamente importante di negoziato che riguarda l´articolo 18. La voglia di arrivare ad un accordo sostenibile per tutti prevale, per fortuna, sulle irritazioni e i passi falsi. Anche se sarà bene che Elsa Fornero, come tutto il governo di cui fa parte, ricordino che l´ottica del bene comune non solo va verificata con i soggetti interessati, ma deve valere sempre, verso tutti i soggetti e interessi. Il negoziato con sindacati e Confindustria sta avvenendo in modo pubblico e trasparente, anche se con qualche insofferenza di troppo. Non così è andata sulle liberalizzazioni, dove più che di un negoziato sul bene comune si è avuta l’impressione di un cedimento agli interessi di lobby ristrette ma potenti, al riparo dagli sguardi dei cittadini che ne hanno visto solo gli esiti non sempre favorevoli per loro stessi.
Ma entriamo nel merito del pacchetto di riforme messo sul tavolo dalla ministra. Vi sono diverse cose apprezzabili, in primis l´introduzione di una indennità di disoccupazione unica, che copra diverse fattispecie di perdita del lavoro, benché sia dubbio che riguardi anche i vari co.co.pro. e finte partite Iva, ovvero tutti coloro che sono attualmente sprotetti. Continueranno ad essere esclusi anche coloro che hanno contratti così brevi e provvisori da non riuscire a maturare 52 settimane lavorative piene in due anni. Anche il rafforzamento dell´apprendistato come via di ingresso nel mercato del lavoro è un passaggio importante. Ma non risolve il problema dell´ingresso dei neo-laureati o di chi, come molte donne, si ricolloca sul mercato del lavoro in età non giovanile, o di chi perde una occupazione in età matura. Non affrontare la questione di una maggiore standardizzazione dei contratti di lavoro all´ingresso è una delle debolezze del pacchetto di riforme proposte dal governo, che sembra tutto spostato sul, certo importantissimo, tema degli ammortizzatori sociali e sulla flessibilità in uscita (articolo 18).
Questa impostazione suggerirebbe che il problema del mercato del lavoro italiano, e addirittura della mancata competitività del sistema produttivo, sia la scarsa flessibilità in uscita. Ma i modelli danesi e tedesco, spesso citati anche dalla Fornero, sono dinamici innanzitutto perché sono dinamiche le aziende, che creano posti di lavoro; per cui perdere l´occupazione non è un salto nel buio, ma un passaggio abbastanza veloce verso un altro lavoro. Non è così in Italia, nonostante ormai da diversi anni il mercato del lavoro italiano sia diventato tra i più flessibili, anche per i cosiddetti garantiti. La scarsa competitività italiana, da cui deriva anche l´alto tasso di disoccupazione, ha a che fare non con la mancanza di flessibilità in uscita, ma con la scarsa capacità di innovazione delle aziende, il basso investimento in capitale umano e in ricerca e innovazione. E se le aziende straniere non investono volentieri in Italia non è certo per timore dell´articolo 18, ma perché temono la macchinosità e la lentezza della nostra burocrazia, per altro incapace di proteggere da fenomeni di corruzione, quando non vi è coinvolta essa stessa.
Infine, in Danimarca e in Germania, come in molti altri Paesi europei, nessuno è lasciato senza protezione una volta terminato il diritto all´indennità di disoccupazione senza aver trovato una nuova occupazione. Possono accedere ad una garanzia di reddito assistenziale, destinata a chi ha perso il diritto alla indennità o a chi non ne ha mai avuto diritto, ma è povero. È una misura cui la ministra si è dichiarata più volte favorevole, trovando risposte per altro tiepide in una parte almeno dei sindacati. Ma richiede risorse consistenti che non possono che venire dal bilancio dello Stato.
In Germania, ad esempio, dopo la cosiddetta riforma Hartz del 2002, questo sussidio garantisce 350 euro al mese per una persona sola, che possono salire fino al 1240 euro circa per una coppia con due bambini, più integrazioni per l´affitto, i libri di scuola, le spese mediche. Anche chi riceve l´indennità di disoccupazione, se questa è inferiore al sussidio, può ricevere una integrazione fino ad un livello equivalente. Inoltre esistono centri per l´impiego efficienti, che accompagnano e stimolano chi riceve il sussidio a stare nel mercato del lavoro, formarsi, e così via. Accanto al dinamismo dell´economia, l´esistenza di questa rete di protezione consente di affrontare meglio le crisi vuoi nell´economia, vuoi nelle biografie personali. In assenza di entrambe queste cose, rimane solo la disoccupazione di lunga durata senza sussidi e senza speranze.

La Repubblica 15.03.12

“L´illusione della flessibilità”, di Chiara Saraceno

Sembra superata la brutta scivolata di ieri della ministra Fornero con l´infelice frase sulla “paccata di miliardi”. “Paccata di miliardi” che sarebbe disponibile solo se le parti sociali accettano preventivamente il pacchetto di riforme proposto dal governo. Per lo meno non ha fermato quel pezzo simbolicamente importante di negoziato che riguarda l´articolo 18. La voglia di arrivare ad un accordo sostenibile per tutti prevale, per fortuna, sulle irritazioni e i passi falsi. Anche se sarà bene che Elsa Fornero, come tutto il governo di cui fa parte, ricordino che l´ottica del bene comune non solo va verificata con i soggetti interessati, ma deve valere sempre, verso tutti i soggetti e interessi. Il negoziato con sindacati e Confindustria sta avvenendo in modo pubblico e trasparente, anche se con qualche insofferenza di troppo. Non così è andata sulle liberalizzazioni, dove più che di un negoziato sul bene comune si è avuta l´impressione di un cedimento agli interessi di lobby ristrette ma potenti, al riparo dagli sguardi dei cittadini che ne hanno visto solo gli esiti non sempre favorevoli per loro stessi.
Ma entriamo nel merito del pacchetto di riforme messo sul tavolo dalla ministra. Vi sono diverse cose apprezzabili, in primis l´introduzione di una indennità di disoccupazione unica, che copra diverse fattispecie di perdita del lavoro, benché sia dubbio che riguardi anche i vari co.co.pro. e finte partite Iva, ovvero tutti coloro che sono attualmente sprotetti. Continueranno ad essere esclusi anche coloro che hanno contratti così brevi e provvisori da non riuscire a maturare 52 settimane lavorative piene in due anni. Anche il rafforzamento dell´apprendistato come via di ingresso nel mercato del lavoro è un passaggio importante. Ma non risolve il problema dell´ingresso dei neo-laureati o di chi, come molte donne, si ricolloca sul mercato del lavoro in età non giovanile, o di chi perde una occupazione in età matura. Non affrontare la questione di una maggiore standardizzazione dei contratti di lavoro all´ingresso è una delle debolezze del pacchetto di riforme proposte dal governo, che sembra tutto spostato sul, certo importantissimo, tema degli ammortizzatori sociali e sulla flessibilità in uscita (articolo 18).
Questa impostazione suggerirebbe che il problema del mercato del lavoro italiano, e addirittura della mancata competitività del sistema produttivo, sia la scarsa flessibilità in uscita. Ma i modelli danesi e tedesco, spesso citati anche dalla Fornero, sono dinamici innanzitutto perché sono dinamiche le aziende, che creano posti di lavoro; per cui perdere l´occupazione non è un salto nel buio, ma un passaggio abbastanza veloce verso un altro lavoro. Non è così in Italia, nonostante ormai da diversi anni il mercato del lavoro italiano sia diventato tra i più flessibili, anche per i cosiddetti garantiti. La scarsa competitività italiana, da cui deriva anche l´alto tasso di disoccupazione, ha a che fare non con la mancanza di flessibilità in uscita, ma con la scarsa capacità di innovazione delle aziende, il basso investimento in capitale umano e in ricerca e innovazione. E se le aziende straniere non investono volentieri in Italia non è certo per timore dell´articolo 18, ma perché temono la macchinosità e la lentezza della nostra burocrazia, per altro incapace di proteggere da fenomeni di corruzione, quando non vi è coinvolta essa stessa.
Infine, in Danimarca e in Germania, come in molti altri Paesi europei, nessuno è lasciato senza protezione una volta terminato il diritto all´indennità di disoccupazione senza aver trovato una nuova occupazione. Possono accedere ad una garanzia di reddito assistenziale, destinata a chi ha perso il diritto alla indennità o a chi non ne ha mai avuto diritto, ma è povero. È una misura cui la ministra si è dichiarata più volte favorevole, trovando risposte per altro tiepide in una parte almeno dei sindacati. Ma richiede risorse consistenti che non possono che venire dal bilancio dello Stato.
In Germania, ad esempio, dopo la cosiddetta riforma Hartz del 2002, questo sussidio garantisce 350 euro al mese per una persona sola, che possono salire fino al 1240 euro circa per una coppia con due bambini, più integrazioni per l´affitto, i libri di scuola, le spese mediche. Anche chi riceve l´indennità di disoccupazione, se questa è inferiore al sussidio, può ricevere una integrazione fino ad un livello equivalente. Inoltre esistono centri per l´impiego efficienti, che accompagnano e stimolano chi riceve il sussidio a stare nel mercato del lavoro, formarsi, e così via. Accanto al dinamismo dell´economia, l´esistenza di questa rete di protezione consente di affrontare meglio le crisi vuoi nell´economia, vuoi nelle biografie personali. In assenza di entrambe queste cose, rimane solo la disoccupazione di lunga durata senza sussidi e senza speranze.

La Repubblica 15.03.12

“L´illusione della flessibilità”, di Chiara Saraceno

Sembra superata la brutta scivolata di ieri della ministra Fornero con l´infelice frase sulla “paccata di miliardi”. “Paccata di miliardi” che sarebbe disponibile solo se le parti sociali accettano preventivamente il pacchetto di riforme proposto dal governo. Per lo meno non ha fermato quel pezzo simbolicamente importante di negoziato che riguarda l´articolo 18. La voglia di arrivare ad un accordo sostenibile per tutti prevale, per fortuna, sulle irritazioni e i passi falsi. Anche se sarà bene che Elsa Fornero, come tutto il governo di cui fa parte, ricordino che l´ottica del bene comune non solo va verificata con i soggetti interessati, ma deve valere sempre, verso tutti i soggetti e interessi. Il negoziato con sindacati e Confindustria sta avvenendo in modo pubblico e trasparente, anche se con qualche insofferenza di troppo. Non così è andata sulle liberalizzazioni, dove più che di un negoziato sul bene comune si è avuta l´impressione di un cedimento agli interessi di lobby ristrette ma potenti, al riparo dagli sguardi dei cittadini che ne hanno visto solo gli esiti non sempre favorevoli per loro stessi.
Ma entriamo nel merito del pacchetto di riforme messo sul tavolo dalla ministra. Vi sono diverse cose apprezzabili, in primis l´introduzione di una indennità di disoccupazione unica, che copra diverse fattispecie di perdita del lavoro, benché sia dubbio che riguardi anche i vari co.co.pro. e finte partite Iva, ovvero tutti coloro che sono attualmente sprotetti. Continueranno ad essere esclusi anche coloro che hanno contratti così brevi e provvisori da non riuscire a maturare 52 settimane lavorative piene in due anni. Anche il rafforzamento dell´apprendistato come via di ingresso nel mercato del lavoro è un passaggio importante. Ma non risolve il problema dell´ingresso dei neo-laureati o di chi, come molte donne, si ricolloca sul mercato del lavoro in età non giovanile, o di chi perde una occupazione in età matura. Non affrontare la questione di una maggiore standardizzazione dei contratti di lavoro all´ingresso è una delle debolezze del pacchetto di riforme proposte dal governo, che sembra tutto spostato sul, certo importantissimo, tema degli ammortizzatori sociali e sulla flessibilità in uscita (articolo 18).
Questa impostazione suggerirebbe che il problema del mercato del lavoro italiano, e addirittura della mancata competitività del sistema produttivo, sia la scarsa flessibilità in uscita. Ma i modelli danesi e tedesco, spesso citati anche dalla Fornero, sono dinamici innanzitutto perché sono dinamiche le aziende, che creano posti di lavoro; per cui perdere l´occupazione non è un salto nel buio, ma un passaggio abbastanza veloce verso un altro lavoro. Non è così in Italia, nonostante ormai da diversi anni il mercato del lavoro italiano sia diventato tra i più flessibili, anche per i cosiddetti garantiti. La scarsa competitività italiana, da cui deriva anche l´alto tasso di disoccupazione, ha a che fare non con la mancanza di flessibilità in uscita, ma con la scarsa capacità di innovazione delle aziende, il basso investimento in capitale umano e in ricerca e innovazione. E se le aziende straniere non investono volentieri in Italia non è certo per timore dell´articolo 18, ma perché temono la macchinosità e la lentezza della nostra burocrazia, per altro incapace di proteggere da fenomeni di corruzione, quando non vi è coinvolta essa stessa.
Infine, in Danimarca e in Germania, come in molti altri Paesi europei, nessuno è lasciato senza protezione una volta terminato il diritto all´indennità di disoccupazione senza aver trovato una nuova occupazione. Possono accedere ad una garanzia di reddito assistenziale, destinata a chi ha perso il diritto alla indennità o a chi non ne ha mai avuto diritto, ma è povero. È una misura cui la ministra si è dichiarata più volte favorevole, trovando risposte per altro tiepide in una parte almeno dei sindacati. Ma richiede risorse consistenti che non possono che venire dal bilancio dello Stato.
In Germania, ad esempio, dopo la cosiddetta riforma Hartz del 2002, questo sussidio garantisce 350 euro al mese per una persona sola, che possono salire fino al 1240 euro circa per una coppia con due bambini, più integrazioni per l´affitto, i libri di scuola, le spese mediche. Anche chi riceve l´indennità di disoccupazione, se questa è inferiore al sussidio, può ricevere una integrazione fino ad un livello equivalente. Inoltre esistono centri per l´impiego efficienti, che accompagnano e stimolano chi riceve il sussidio a stare nel mercato del lavoro, formarsi, e così via. Accanto al dinamismo dell´economia, l´esistenza di questa rete di protezione consente di affrontare meglio le crisi vuoi nell´economia, vuoi nelle biografie personali. In assenza di entrambe queste cose, rimane solo la disoccupazione di lunga durata senza sussidi e senza speranze.

La Repubblica 15.03.12

"Il dolore che non si può sopportare", di Ferdinando Camon

Non ci sono gradazioni alla disperazione, perché la disperazione è lo stadio estremo del dolore. Ma se ci fosse una gradazione, questo sarebbe il vertice: un’ecatombe di bambini sui 12 anni, vitali e festosi, che rientrano a casa dopo una settimana bianca, in pullman, e vengono falciati in un incidente assurdo. Ventidue muoiono sul colpo, altri vanno in coma, altri ancora sono feriti gravi. È una di quelle scene che non hanno risposte sulla Terra, e ti fanno alzare gli occhi al cielo. L’uomo non è fatto per sopravvivere alla morte di un figlio, la morte di un figlio è un capovolgimento della natura. E qui è avvenuto un capovolgimento innaturale della vita di decine di famiglie, e delle famiglie a loro collegate. Non è umanamente possibile reggere questa piena di dolore. Nessuna delle esistenze toccate da questa tragedia potrà continuare come prima. Tutte le vite subiranno una deviazione, una stortura. Compiendosi in un attimo, la tragedia avrà conseguenze per sempre.

Quando si dice «figlio» non si dice tutto, perché un figlio cambia di significato per i genitori lungo le fasi della vita: se c’è una fase in cui è «più figlio» è questa, sui 12 anni. A quell’età i figli hanno ancora qualcosa di quand’erano bambini e fanno già vedere qualcosa di quando saranno uomini o, le bambine, donne. E noi padri, amandoli a quell’età, li amiamo per quel che sono, quel che erano e quel che saranno. Riempiamo la loro vita, e questo riempimento fa la nostra felicità. Loro lo sentono, e ci fan vedere che la loro vita è piena apposta per farci felici. Questi bambini tenevano un blog in cui annotavano le loro emozioni, e in questa settimana bianca scrivevano: «Papà, mamma, siamo felici ma ci mancate». È amore filiale allo stato puro, senza quelle ambiguità (rivalità, proteste, autonomia) che inveleniscono il rapporto 5-6 anni dopo. Dategli ancora 5-6 anni, a questi figli, e quelle parole non le scriveranno più. Ma adesso le scrivono. Il rapporto genitori-figli a quell’età è gioia pura, da conservare nel ricordo. Qui la gioia pura si è rovesciata nel dolore irrimediabile, che ti fa perdere la ragione. È questo il momento terribile, nella cronaca di questa disgrazia: quando i genitori vedono i figli. Mentre scrivo, i genitori sono in volo dalle Fiandre verso la Svizzera. Le cronache non lo dicono, ma in ciascuno di quei genitori si agita la speranza che suo figlio non sia tra le vittime, che fra poco avverrà il grande abbraccio che ridarà un figlio al padre e alla vita. Il bambino non sa ancora di essere mortale, lo imparerà più tardi, molto più tardi, nella terza età. In giovinezza si crede eterno. E anche i suoi genitori lo credono così. A questo livello, la disgrazia non squassa il cuore soltanto, e i nervi, ma la ragione, la fa vacillare o crollare. E non occorre essere il padre o la madre di uno di quei bambini. Basta soltanto essere un uomo o una donna che passa di lì. C’è una donna che ha visto il pullman sfracellato mentre dai suoi finestrini svolazzavano dei fogli, dunque a urto appena avvenuto, e descrive la scena come farebbe un automa: pullman sventrato, sedili tranciati, sangue dappertutto, bambini che la fissano con occhi spalancati, «non sa se vivi o morti». A quest’ora i genitori saranno arrivati, tutti. E sapranno. Le analisi per l’identificazione saranno finite o finiranno presto. I figli torneranno ai padri nell’unico modo possibile. Non ci sarà spiegazione. Sulla morte di un figlio di questa età il regista Malick ha costruito un film che ha ottenuto la Palma d’Oro nel 2011. Nel film la madre di un figlio morto in un incidente alza gli occhi e chiede: «Cosa siamo noi per te?», dall’alto scende una risposta che la gela: «Dov’eri tu quand’io creavo le galassie e gli abissi?». Mi torna sempre in mente questa botta-risposta, quando penso al problema. È nella Bibbia, Giobbe. Posto così, il problema è un rapporto di potere: noi non abbiamo alcun ruolo se non quello di sopportare l’insopportabile.

La Stampa 15.03.12