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“Profumo nella palude dell’università”, di Tito Boeri

Un tecnico al governo diventa inevitabilmente un politico. Ma dovrebbe essere un politico che non ha l´ansia di essere rieletto, che perciò guarda molto più in là delle prossime elezioni, preoccupandosi di lasciare in eredità al Paese riforme che daranno i loro frutti fra cinque, dieci, anche vent´anni. Ci auguriamo tutti, in Italia e fuori (l´editoriale del Financial Times di ieri era dedicato proprio all´ Italian Job) che la riforma del lavoro abbia queste caratteristiche. Speriamo che pensi davvero anche a chi non è oggi rappresentato al tavolo della trattativa, a partire dai giovani del cosiddetto parasubordinato. L´unico modo per proteggerli e valorizzare al contempo il loro capitale umano è trasformare i loro contratti in rapporti di lavoro subordinato non solo nella sostanza, ma anche nella forma. Solo così saranno coperti contro il rischio di licenziamento, quale che sia la riforma degli ammortizzatori, e potranno ricevere la formazione che normalmente viene fornita ai giovani sul posto di lavoro.
Ma c´è anche un altro terreno su cui è fondamentale allungare gli orizzonti dell´azione di governo e pensare ai giovani. È quello degli investimenti nella scuola e nell´università. Anche su questo piano è fondamentale imprimere una svolta decisa rispetto alla miopia della classe politica e alle scelte suicide del governo precedente, che hanno sistematicamente disinvestito nel capitale umano. Purtroppo sin qui di questa svolta non c´è traccia.
Il governo precedente ha ridotto l´obbligo scolastico da 16 a 15 anni. La prima cosa che ci si sarebbe aspettata da un governo che, a partire dal discorso programmatico di Monti al Senato, ha posto al centro della sua azione il problema giovanile e l´innalzamento del livello di istruzione della forza lavoro, è la riconsiderazione di questa scelta dissennata, che va in senso diametralmente opposto a quanto avviene nel resto del mondo. Come mostrato da Daniele Checchi, c´è un picco negli abbandoni in Italia appena espletato l´obbligo scolastico: le famiglie si adattano immediatamente a questi cambiamenti normativi, pianificando diversamente il percorso di studi. Quindi ridurre l´obbligo scolastico significa ridurre programmaticamente il livello di istruzione della nostra forza lavoro, il contrario di quanto il nuovo governo dichiara di volere fare. Come minimo, avremmo perciò pensato di vedere nei primi 100 giorni del nuovo esecutivo il ripristino dell´obbligo scolastico a 16 anni. Come massimo, avremmo voluto sentire proporre il suo graduale innalzamento fino a 18 anni. Questo contribuisce grandemente alla crescita di un paese, man mano che le generazioni più istruite escono dalla scuola. Di quanto? Secondo le stime più recenti basate sull´esperienza internazionale, l´allungamento di tre anni dell´istruzione media della forza lavoro è associata a un incremento del tasso di crescita di un paese di circa l´1 per cento ogni anno. Significa essere di quasi un quarto più ricchi nel corso di venti anni. Non poco per un´economia come la nostra rimasta al palo del 1999 e che, ai tassi di crescita attuali tornerà solo nel 2020 ai livelli di reddito precedenti la Grande Recessione.
Non c´è traccia di questa lungimiranza neanche quando il governo parla di infrastrutture. Dimentica sistematicamente che la prima infrastruttura da modernizzare è l´edilizia scolastica. Da anni ci è stata promessa l´anagrafe degli edifici in cui i nostri figli vanno a scuola. Secondo i dati sin qui disponibili, due edifici su tre hanno più di 30 anni. Di questi solo il 22 per cento è stato ristrutturato. Mille scuole sono state costruite prima dell´Ottocento e più di tremila tra il 1800 e il 1920. Di quasi 7mila edifici non si sa neanche la data di costruzione. Fatichiamo a vedere infrastruttura più urgente e più importante al tempo stesso di un´edilizia scolastica che garantisca sicurezza e aule adeguate per l´insegnamento ai nostri figli.
Il ministro Profumo conosce a fondo l´università. Potrebbe davvero imprimerle una svolta. Invece sin qui si è limitato ad assecondare la paralisi impostaci dal suo predecessore. L´Università italiana rimarrà bloccata, nella migliore delle ipotesi, per altri tre anni, nella peggiore per altri cinque anni. Questo perché la cosiddetta riforma Gelmini (non bisognerebbe mai chiamare riforme provvedimenti che al 90 per cento sono indefiniti) richiede qualcosa come 45 tra decreti legislativi, decreti ministeriali, regolamenti e decreti di natura non regolamentari e almeno 14 atti regolamentari da parte di ciascuna università. Prima di allora tutto rimarrà bloccato. Peggio ancora, è sempre più forte il rischio che nella transizione entri ancora di più la politica nelle università. Ieri abbiamo saputo che sono stati prorogati di un altro anno i Rettori degli atenei che hanno sin qui approvato gli statuti in seconda lettura. È la seconda proroga dopo quella già decisa l´anno scorso. Questo significa che persone che hanno orizzonti molto brevi e che in non pochi casi hanno un´agenda politica, potranno nominare i componenti dei consigli d´amministrazione delle Università. Il ministro Profumo dovrebbe chiedere a questi Rettori di dimettersi. Certo, avrebbe dovuto dare fin dall´inizio il buon esempio dimettendosi lui stesso dalla presidenza del Cnr, non appena ricevuta la nomina di ministro.

La Repubblica 15.03.12

“Profumo nella palude dell’università”, di Tito Boeri

Un tecnico al governo diventa inevitabilmente un politico. Ma dovrebbe essere un politico che non ha l´ansia di essere rieletto, che perciò guarda molto più in là delle prossime elezioni, preoccupandosi di lasciare in eredità al Paese riforme che daranno i loro frutti fra cinque, dieci, anche vent´anni. Ci auguriamo tutti, in Italia e fuori (l´editoriale del Financial Times di ieri era dedicato proprio all´ Italian Job) che la riforma del lavoro abbia queste caratteristiche. Speriamo che pensi davvero anche a chi non è oggi rappresentato al tavolo della trattativa, a partire dai giovani del cosiddetto parasubordinato. L´unico modo per proteggerli e valorizzare al contempo il loro capitale umano è trasformare i loro contratti in rapporti di lavoro subordinato non solo nella sostanza, ma anche nella forma. Solo così saranno coperti contro il rischio di licenziamento, quale che sia la riforma degli ammortizzatori, e potranno ricevere la formazione che normalmente viene fornita ai giovani sul posto di lavoro.
Ma c´è anche un altro terreno su cui è fondamentale allungare gli orizzonti dell´azione di governo e pensare ai giovani. È quello degli investimenti nella scuola e nell´università. Anche su questo piano è fondamentale imprimere una svolta decisa rispetto alla miopia della classe politica e alle scelte suicide del governo precedente, che hanno sistematicamente disinvestito nel capitale umano. Purtroppo sin qui di questa svolta non c´è traccia.
Il governo precedente ha ridotto l´obbligo scolastico da 16 a 15 anni. La prima cosa che ci si sarebbe aspettata da un governo che, a partire dal discorso programmatico di Monti al Senato, ha posto al centro della sua azione il problema giovanile e l´innalzamento del livello di istruzione della forza lavoro, è la riconsiderazione di questa scelta dissennata, che va in senso diametralmente opposto a quanto avviene nel resto del mondo. Come mostrato da Daniele Checchi, c´è un picco negli abbandoni in Italia appena espletato l´obbligo scolastico: le famiglie si adattano immediatamente a questi cambiamenti normativi, pianificando diversamente il percorso di studi. Quindi ridurre l´obbligo scolastico significa ridurre programmaticamente il livello di istruzione della nostra forza lavoro, il contrario di quanto il nuovo governo dichiara di volere fare. Come minimo, avremmo perciò pensato di vedere nei primi 100 giorni del nuovo esecutivo il ripristino dell´obbligo scolastico a 16 anni. Come massimo, avremmo voluto sentire proporre il suo graduale innalzamento fino a 18 anni. Questo contribuisce grandemente alla crescita di un paese, man mano che le generazioni più istruite escono dalla scuola. Di quanto? Secondo le stime più recenti basate sull´esperienza internazionale, l´allungamento di tre anni dell´istruzione media della forza lavoro è associata a un incremento del tasso di crescita di un paese di circa l´1 per cento ogni anno. Significa essere di quasi un quarto più ricchi nel corso di venti anni. Non poco per un´economia come la nostra rimasta al palo del 1999 e che, ai tassi di crescita attuali tornerà solo nel 2020 ai livelli di reddito precedenti la Grande Recessione.
Non c´è traccia di questa lungimiranza neanche quando il governo parla di infrastrutture. Dimentica sistematicamente che la prima infrastruttura da modernizzare è l´edilizia scolastica. Da anni ci è stata promessa l´anagrafe degli edifici in cui i nostri figli vanno a scuola. Secondo i dati sin qui disponibili, due edifici su tre hanno più di 30 anni. Di questi solo il 22 per cento è stato ristrutturato. Mille scuole sono state costruite prima dell´Ottocento e più di tremila tra il 1800 e il 1920. Di quasi 7mila edifici non si sa neanche la data di costruzione. Fatichiamo a vedere infrastruttura più urgente e più importante al tempo stesso di un´edilizia scolastica che garantisca sicurezza e aule adeguate per l´insegnamento ai nostri figli.
Il ministro Profumo conosce a fondo l´università. Potrebbe davvero imprimerle una svolta. Invece sin qui si è limitato ad assecondare la paralisi impostaci dal suo predecessore. L´Università italiana rimarrà bloccata, nella migliore delle ipotesi, per altri tre anni, nella peggiore per altri cinque anni. Questo perché la cosiddetta riforma Gelmini (non bisognerebbe mai chiamare riforme provvedimenti che al 90 per cento sono indefiniti) richiede qualcosa come 45 tra decreti legislativi, decreti ministeriali, regolamenti e decreti di natura non regolamentari e almeno 14 atti regolamentari da parte di ciascuna università. Prima di allora tutto rimarrà bloccato. Peggio ancora, è sempre più forte il rischio che nella transizione entri ancora di più la politica nelle università. Ieri abbiamo saputo che sono stati prorogati di un altro anno i Rettori degli atenei che hanno sin qui approvato gli statuti in seconda lettura. È la seconda proroga dopo quella già decisa l´anno scorso. Questo significa che persone che hanno orizzonti molto brevi e che in non pochi casi hanno un´agenda politica, potranno nominare i componenti dei consigli d´amministrazione delle Università. Il ministro Profumo dovrebbe chiedere a questi Rettori di dimettersi. Certo, avrebbe dovuto dare fin dall´inizio il buon esempio dimettendosi lui stesso dalla presidenza del Cnr, non appena ricevuta la nomina di ministro.

La Repubblica 15.03.12

"L´ita(g)liano a scuola sempre più sconosciuto", di Marco Lodoli

I dati sono chiari, spietati nella loro oggettività, incontestabili, e ci rivelano una verità che purtroppo conoscevo già da tempo: gli studenti italiani non sanno più scrivere. In tanti anni di insegnamento, dopo aver letto e corretto migliaia di temi, posso affermare con triste sicurezza che sono pochissimi i ragazzi capaci di sviluppare un ragionamento scritto.
Capaci di argomentare, esemplificare, cucire le parole e le frasi tra di loro secondo logica e fantasia. Gli errori sono tanti, le concatenazioni sono slabbrate, il periodare è sgretolato, il lessico poverissimo. Sembra quasi che traducano pensieri ed emozioni in una lingua straniera, come quando cerchiamo di farci capire in inglese o in francese, già contenti se qualcuno più o meno ha compreso di cosa stiamo parlando, cosa ci serve, dove siamo diretti.
Resta da capire da dove nasce questo smarrimento linguistico, come mai un diciottenne italiano fatica tanto ad esprimersi nella sua lingua. Certo, si legge poco, i libri sono considerati una noia mortale e anche i giornali sono visti come forme di un´altra epoca, reperti storici che misteriosamente continuano a uscire tutti i giorni. Ma forse la magagna sta ancora prima, nelle modalità del pensiero. Si scrive male perché non c´è più fiducia e confidenza nel pensiero, perché sono saltati i nessi logici, la capacità di legare una riflessione a un´altra, un aneddoto a una considerazione, un prima a un poi.
La lingua in fondo è soprattutto l´arte di annodare, incollare, saldare, è lo strumento fondamentale per dare un ordine al caos delle sensazioni e delle esperienze. Scrivendo ogni strappo si ricuce, ogni attimo si connette all´attimo seguente, l´informe trova una forma e quindi una possibile spiegazione. Ma i ragazzi della scuola non sentono più il bisogno di mettere a punto questo strumento: dicono qualcosa e poi il contrario, avanzano a salti, per intuizioni immediate, senza più la voglia di mettere le cosa in fila nel pensiero e nella scrittura. Ridono, piangono, si arrabbiano, sono felici, vivono il caos senza credere più nella logica, vivono la vita senza parole e senza sintassi.

La Repubblica 15.03.12

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“Da aerio a manovrazione l´italiano sfregiato nei temi della maturità”, di Salvo Intravaia

Allarme del ministero: “E uno su tre sbaglia i verbi”.”Sembra quasi che traducano i pensieri in una lingua straniera. Resta da capire perché un diciottenne faccia così fatica a esprimersi”. “Nell´antichità, in molte grotte o caverne, erano presenti molti graffiti che rappresentavano la presenza degli alieni. È difficile pensare che le persone di quel tempo si inventassero delle fandonie solo per andare in televisione, come accade molto spesso al giorno d´oggi, anche perché non ne avevano il motivo”.
Non si tratta dell´improbabile fantasia di un bambino di scuola elementare, ma di una frase estrapolata da un tema dell´esame di maturità di due anni fa. Per passare in rassegna «gli errori più diffusi nella padronanza della lingua italiana nella prima prova di Italiano», l´Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) ha infatti messo sotto la lente d´ingrandimento gli elaborati dell´anno scolastico 2009/2010. E gli studenti ne escono male. Molto male.
Fanno sempre più fatica a scrivere in italiano corretto e incontrano difficoltà anche nell´organizzare un testo «complessivamente coerente». Non paragonabili agli strafalcioni degli alunni del maestro Marcello D´Orta (“Io speriamo che me la cavo”) ma comunque deludenti e allarmanti, trattandosi appunto di temi elaborati da ragazzi e ragazze oltretutto in occasione di un esame importante. Il più importante della loro carriera scolastica, fino a quel momento.
Per studiare le competenze linguistiche dei maturandi, gli esperti dell´Invalsi hanno valutato, correggendoli nuovamente, 499 elaborati: campione rappresentativo del mezzo milione di studenti diplomati in Italia nell´estate 2010. Per farlo hanno usato una scheda di valutazione elaborata in base alle indicazioni dell´Accademia della Crusca. Quattro le “aree” scandagliate: testuale, grammaticale, lessicale-semantica e ideativa. E 34 gli “indicatori”: dall´uso appropriato dei termini a quello di verbi e punteggiatura. E il risultato, numeri a parte, è purtroppo assai negativo: tante, troppe “perle”, dovute a scarsa conoscenza del significato delle parole utilizzate e ignoranza degli argomenti affrontati soprattutto. Tra le affermazioni che lasciano più perplessi: “Leopardi è un poeta del primo Settecento”; piuttosto che “lanciarsi da un aerio”; oppure “se gli Ufo non esistessero i nostri studi su di essi sarebbero vaghi”. Non vani, “vaghi”…
«È convinzione diffusa – sostiene il linguista Luca Serianni, consulente scientifico dell´Invalsi – che lo studente possa arrivare alla fine delle scuole superiori facendo ancora strafalcioni di ortografia», ma in realtà sono altre le lacune rilevate dal gruppo di esperti. Quali? «Scarsa capacità di organizzazione e gerarchizzazione delle idee, tecniche di argomentazione di volta in volta elementari o fallaci, modesta padronanza del lessico astratto o comunque di quello che esula dal patrimonio abitualmente impiegato nell´oralità quotidiana». Ragazzi e ragazze insomma che tendono a scrivere come parlano, con tecnica carente e linguaggio piuttosto povero. Tanto che, tra le competenze grammaticali più evanescenti, c´è l´uso corretto della punteggiatura. Secondo lo studio, nel 78,5 per cento dei 465 compiti con almeno un errore nell´area grammaticale «manca l´uso corretto dei segni interpuntivi». Al punto da indurre Eva Pulcini, dell´università La Sapienza, a parlare di «emergenza della punteggiatura».
«Tirando le somme – aggiunge il collega Fabrizio Papitto – si evince come anche il lessico sia un settore molto lacunoso, un puzzle pieno di caselle vuote e di pezzi inseriti forzosamente o male tagliati, su cui occorre che gli insegnanti concentrino le loro attenzioni». Ma l´area dove si registrano più errori è quella cosiddetta “ideativa”, con studenti che sovente – nell´80 per cento dei casi – inciampano in affermazioni errate, imprecise o estemporanee. «A livello puramente celebrale», s´intende.

La Repubblica 15.03.12

“L´ita(g)liano a scuola sempre più sconosciuto”, di Marco Lodoli

I dati sono chiari, spietati nella loro oggettività, incontestabili, e ci rivelano una verità che purtroppo conoscevo già da tempo: gli studenti italiani non sanno più scrivere. In tanti anni di insegnamento, dopo aver letto e corretto migliaia di temi, posso affermare con triste sicurezza che sono pochissimi i ragazzi capaci di sviluppare un ragionamento scritto.
Capaci di argomentare, esemplificare, cucire le parole e le frasi tra di loro secondo logica e fantasia. Gli errori sono tanti, le concatenazioni sono slabbrate, il periodare è sgretolato, il lessico poverissimo. Sembra quasi che traducano pensieri ed emozioni in una lingua straniera, come quando cerchiamo di farci capire in inglese o in francese, già contenti se qualcuno più o meno ha compreso di cosa stiamo parlando, cosa ci serve, dove siamo diretti.
Resta da capire da dove nasce questo smarrimento linguistico, come mai un diciottenne italiano fatica tanto ad esprimersi nella sua lingua. Certo, si legge poco, i libri sono considerati una noia mortale e anche i giornali sono visti come forme di un´altra epoca, reperti storici che misteriosamente continuano a uscire tutti i giorni. Ma forse la magagna sta ancora prima, nelle modalità del pensiero. Si scrive male perché non c´è più fiducia e confidenza nel pensiero, perché sono saltati i nessi logici, la capacità di legare una riflessione a un´altra, un aneddoto a una considerazione, un prima a un poi.
La lingua in fondo è soprattutto l´arte di annodare, incollare, saldare, è lo strumento fondamentale per dare un ordine al caos delle sensazioni e delle esperienze. Scrivendo ogni strappo si ricuce, ogni attimo si connette all´attimo seguente, l´informe trova una forma e quindi una possibile spiegazione. Ma i ragazzi della scuola non sentono più il bisogno di mettere a punto questo strumento: dicono qualcosa e poi il contrario, avanzano a salti, per intuizioni immediate, senza più la voglia di mettere le cosa in fila nel pensiero e nella scrittura. Ridono, piangono, si arrabbiano, sono felici, vivono il caos senza credere più nella logica, vivono la vita senza parole e senza sintassi.

La Repubblica 15.03.12

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“Da aerio a manovrazione l´italiano sfregiato nei temi della maturità”, di Salvo Intravaia

Allarme del ministero: “E uno su tre sbaglia i verbi”.”Sembra quasi che traducano i pensieri in una lingua straniera. Resta da capire perché un diciottenne faccia così fatica a esprimersi”. “Nell´antichità, in molte grotte o caverne, erano presenti molti graffiti che rappresentavano la presenza degli alieni. È difficile pensare che le persone di quel tempo si inventassero delle fandonie solo per andare in televisione, come accade molto spesso al giorno d´oggi, anche perché non ne avevano il motivo”.
Non si tratta dell´improbabile fantasia di un bambino di scuola elementare, ma di una frase estrapolata da un tema dell´esame di maturità di due anni fa. Per passare in rassegna «gli errori più diffusi nella padronanza della lingua italiana nella prima prova di Italiano», l´Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) ha infatti messo sotto la lente d´ingrandimento gli elaborati dell´anno scolastico 2009/2010. E gli studenti ne escono male. Molto male.
Fanno sempre più fatica a scrivere in italiano corretto e incontrano difficoltà anche nell´organizzare un testo «complessivamente coerente». Non paragonabili agli strafalcioni degli alunni del maestro Marcello D´Orta (“Io speriamo che me la cavo”) ma comunque deludenti e allarmanti, trattandosi appunto di temi elaborati da ragazzi e ragazze oltretutto in occasione di un esame importante. Il più importante della loro carriera scolastica, fino a quel momento.
Per studiare le competenze linguistiche dei maturandi, gli esperti dell´Invalsi hanno valutato, correggendoli nuovamente, 499 elaborati: campione rappresentativo del mezzo milione di studenti diplomati in Italia nell´estate 2010. Per farlo hanno usato una scheda di valutazione elaborata in base alle indicazioni dell´Accademia della Crusca. Quattro le “aree” scandagliate: testuale, grammaticale, lessicale-semantica e ideativa. E 34 gli “indicatori”: dall´uso appropriato dei termini a quello di verbi e punteggiatura. E il risultato, numeri a parte, è purtroppo assai negativo: tante, troppe “perle”, dovute a scarsa conoscenza del significato delle parole utilizzate e ignoranza degli argomenti affrontati soprattutto. Tra le affermazioni che lasciano più perplessi: “Leopardi è un poeta del primo Settecento”; piuttosto che “lanciarsi da un aerio”; oppure “se gli Ufo non esistessero i nostri studi su di essi sarebbero vaghi”. Non vani, “vaghi”…
«È convinzione diffusa – sostiene il linguista Luca Serianni, consulente scientifico dell´Invalsi – che lo studente possa arrivare alla fine delle scuole superiori facendo ancora strafalcioni di ortografia», ma in realtà sono altre le lacune rilevate dal gruppo di esperti. Quali? «Scarsa capacità di organizzazione e gerarchizzazione delle idee, tecniche di argomentazione di volta in volta elementari o fallaci, modesta padronanza del lessico astratto o comunque di quello che esula dal patrimonio abitualmente impiegato nell´oralità quotidiana». Ragazzi e ragazze insomma che tendono a scrivere come parlano, con tecnica carente e linguaggio piuttosto povero. Tanto che, tra le competenze grammaticali più evanescenti, c´è l´uso corretto della punteggiatura. Secondo lo studio, nel 78,5 per cento dei 465 compiti con almeno un errore nell´area grammaticale «manca l´uso corretto dei segni interpuntivi». Al punto da indurre Eva Pulcini, dell´università La Sapienza, a parlare di «emergenza della punteggiatura».
«Tirando le somme – aggiunge il collega Fabrizio Papitto – si evince come anche il lessico sia un settore molto lacunoso, un puzzle pieno di caselle vuote e di pezzi inseriti forzosamente o male tagliati, su cui occorre che gli insegnanti concentrino le loro attenzioni». Ma l´area dove si registrano più errori è quella cosiddetta “ideativa”, con studenti che sovente – nell´80 per cento dei casi – inciampano in affermazioni errate, imprecise o estemporanee. «A livello puramente celebrale», s´intende.

La Repubblica 15.03.12

“L´ita(g)liano a scuola sempre più sconosciuto”, di Marco Lodoli

I dati sono chiari, spietati nella loro oggettività, incontestabili, e ci rivelano una verità che purtroppo conoscevo già da tempo: gli studenti italiani non sanno più scrivere. In tanti anni di insegnamento, dopo aver letto e corretto migliaia di temi, posso affermare con triste sicurezza che sono pochissimi i ragazzi capaci di sviluppare un ragionamento scritto.
Capaci di argomentare, esemplificare, cucire le parole e le frasi tra di loro secondo logica e fantasia. Gli errori sono tanti, le concatenazioni sono slabbrate, il periodare è sgretolato, il lessico poverissimo. Sembra quasi che traducano pensieri ed emozioni in una lingua straniera, come quando cerchiamo di farci capire in inglese o in francese, già contenti se qualcuno più o meno ha compreso di cosa stiamo parlando, cosa ci serve, dove siamo diretti.
Resta da capire da dove nasce questo smarrimento linguistico, come mai un diciottenne italiano fatica tanto ad esprimersi nella sua lingua. Certo, si legge poco, i libri sono considerati una noia mortale e anche i giornali sono visti come forme di un´altra epoca, reperti storici che misteriosamente continuano a uscire tutti i giorni. Ma forse la magagna sta ancora prima, nelle modalità del pensiero. Si scrive male perché non c´è più fiducia e confidenza nel pensiero, perché sono saltati i nessi logici, la capacità di legare una riflessione a un´altra, un aneddoto a una considerazione, un prima a un poi.
La lingua in fondo è soprattutto l´arte di annodare, incollare, saldare, è lo strumento fondamentale per dare un ordine al caos delle sensazioni e delle esperienze. Scrivendo ogni strappo si ricuce, ogni attimo si connette all´attimo seguente, l´informe trova una forma e quindi una possibile spiegazione. Ma i ragazzi della scuola non sentono più il bisogno di mettere a punto questo strumento: dicono qualcosa e poi il contrario, avanzano a salti, per intuizioni immediate, senza più la voglia di mettere le cosa in fila nel pensiero e nella scrittura. Ridono, piangono, si arrabbiano, sono felici, vivono il caos senza credere più nella logica, vivono la vita senza parole e senza sintassi.

La Repubblica 15.03.12

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“Da aerio a manovrazione l´italiano sfregiato nei temi della maturità”, di Salvo Intravaia

Allarme del ministero: “E uno su tre sbaglia i verbi”.”Sembra quasi che traducano i pensieri in una lingua straniera. Resta da capire perché un diciottenne faccia così fatica a esprimersi”. “Nell´antichità, in molte grotte o caverne, erano presenti molti graffiti che rappresentavano la presenza degli alieni. È difficile pensare che le persone di quel tempo si inventassero delle fandonie solo per andare in televisione, come accade molto spesso al giorno d´oggi, anche perché non ne avevano il motivo”.
Non si tratta dell´improbabile fantasia di un bambino di scuola elementare, ma di una frase estrapolata da un tema dell´esame di maturità di due anni fa. Per passare in rassegna «gli errori più diffusi nella padronanza della lingua italiana nella prima prova di Italiano», l´Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) ha infatti messo sotto la lente d´ingrandimento gli elaborati dell´anno scolastico 2009/2010. E gli studenti ne escono male. Molto male.
Fanno sempre più fatica a scrivere in italiano corretto e incontrano difficoltà anche nell´organizzare un testo «complessivamente coerente». Non paragonabili agli strafalcioni degli alunni del maestro Marcello D´Orta (“Io speriamo che me la cavo”) ma comunque deludenti e allarmanti, trattandosi appunto di temi elaborati da ragazzi e ragazze oltretutto in occasione di un esame importante. Il più importante della loro carriera scolastica, fino a quel momento.
Per studiare le competenze linguistiche dei maturandi, gli esperti dell´Invalsi hanno valutato, correggendoli nuovamente, 499 elaborati: campione rappresentativo del mezzo milione di studenti diplomati in Italia nell´estate 2010. Per farlo hanno usato una scheda di valutazione elaborata in base alle indicazioni dell´Accademia della Crusca. Quattro le “aree” scandagliate: testuale, grammaticale, lessicale-semantica e ideativa. E 34 gli “indicatori”: dall´uso appropriato dei termini a quello di verbi e punteggiatura. E il risultato, numeri a parte, è purtroppo assai negativo: tante, troppe “perle”, dovute a scarsa conoscenza del significato delle parole utilizzate e ignoranza degli argomenti affrontati soprattutto. Tra le affermazioni che lasciano più perplessi: “Leopardi è un poeta del primo Settecento”; piuttosto che “lanciarsi da un aerio”; oppure “se gli Ufo non esistessero i nostri studi su di essi sarebbero vaghi”. Non vani, “vaghi”…
«È convinzione diffusa – sostiene il linguista Luca Serianni, consulente scientifico dell´Invalsi – che lo studente possa arrivare alla fine delle scuole superiori facendo ancora strafalcioni di ortografia», ma in realtà sono altre le lacune rilevate dal gruppo di esperti. Quali? «Scarsa capacità di organizzazione e gerarchizzazione delle idee, tecniche di argomentazione di volta in volta elementari o fallaci, modesta padronanza del lessico astratto o comunque di quello che esula dal patrimonio abitualmente impiegato nell´oralità quotidiana». Ragazzi e ragazze insomma che tendono a scrivere come parlano, con tecnica carente e linguaggio piuttosto povero. Tanto che, tra le competenze grammaticali più evanescenti, c´è l´uso corretto della punteggiatura. Secondo lo studio, nel 78,5 per cento dei 465 compiti con almeno un errore nell´area grammaticale «manca l´uso corretto dei segni interpuntivi». Al punto da indurre Eva Pulcini, dell´università La Sapienza, a parlare di «emergenza della punteggiatura».
«Tirando le somme – aggiunge il collega Fabrizio Papitto – si evince come anche il lessico sia un settore molto lacunoso, un puzzle pieno di caselle vuote e di pezzi inseriti forzosamente o male tagliati, su cui occorre che gli insegnanti concentrino le loro attenzioni». Ma l´area dove si registrano più errori è quella cosiddetta “ideativa”, con studenti che sovente – nell´80 per cento dei casi – inciampano in affermazioni errate, imprecise o estemporanee. «A livello puramente celebrale», s´intende.

La Repubblica 15.03.12

"Quel litro di benzina misura il malumore", di Gianni Riotta

Oggi la benzina è rincarata. È l’estate del quarantasei. Un litro vale un chilo d’insalata…» canta Paolo Conte nella sua vecchia ballata dedicata alla Topolino amaranto. E da allora il prezzo della benzina è per gli italiani l’indicatore economico primo. Rozzo, simbolico, casalingo, quel che volete, ma prima che tutti ci avvezzassimo allo spread BundBtp, quando Standard&Poor’s erano meno familiari dei grandi magazzini Standa, ora Billa, e quando nulla sapevamo del trading online, bene, che un litro di super valesse un chilo di insalata, o giù di lì, lo sapevano tutti. Non siamo i soli a ragionare così, per generazioni di americani il biglietto, prima ancora il gettone, della metropolitana di New York doveva avere lo stesso costo della fetta di pizza e il «New York Times» calcolava il costo della vita comparando subway e Napoletana.

Ancora oggi, del resto, il raffinato settimanale d’affari «The Economist» pubblica un indice McDonald’s stimando le metropoli più esose con un borsino che confronta il prezzo locale del Big Mac. Non c’è dunque da stupirsi se, appena lenite le ansie per la crisi europea del debito, dalla Grecia all’Italia, la gente si fissi sulla benzina come totem delle paure. Una scuola di economisti Usa già definisce i nostri giorni «era dell’ansietà» e se uno studio di Banca Intesa-Sanpaolo conferma che la famiglia media italiana spende ormai al mese 470 euro per benzina e carburanti contro 467 euro per il cibo, la realtà è chiara. I consumi alimentari sono tornati al livello del 1980, quando la Nazionale di Enzo Bearzot si apprestava a diventare invincibile e Urss, Dc, Psi e Pci sembravano eterni.

La benzina rincarata frena gli altri consumi, e sul bidone di petrolio greggio Brent la nostra fobia del futuro si appalesa come sul lettino psicoanalitico del dottor Freud. A un seminario di «The Ruling Companies», lunedì, l’amministatore delegato Eni Paolo Scaroni ha calcolato che sui 125 dollari del prezzo del greggio oggi, la paura di una guerra con l’Iran pesa per ben 20 dollari. Se Obama, Israele e gli ayatollah si rappacificassero oggi stesso il greggio scenderebbe di botto a 100 dollari. L’irrazionalità dei mercati globali pesa in casa nostra con la paranoia sul riscaldamento, il pieno per la gita fuori porta, il motorino dei figli: benzina che rincara e noi a scegliere, come Paolo Conte, tra super senza piombo e insalata.

Il presidente americano Barack Obama ha colto questo clima teso, perché nel paese che era abituato a pagare un dollaro per un gallone, quattro litri, di benzina vedere oggi al distributore prezzi «europei» rischia di essere un handicap verso la Casa Bianca. Se Obama lancia un caso internazionale contro la Cina sulle Terre Rare, preziosi minerali indispensabili allo sviluppo, lo fa solo per dire agli operai e al ceto medio furioso per la benzina: vedete? Alzo la voce con Pechino! Tutti noi, quando i numerini girano come un flipper al distributore, dobbiamo ricordarci del mondo che, come nel Quarantasei, ci impone i suoi prezzi. Nella stessa conferenza Scaroni ricordava che, al netto dei profitti Eni e delle imposte, il prezzo del gas e i suoi rincari vengono decisi in poche, e lontane, capitali. Ma il governo dei tecnici di Mario Monti, che ha evitato la crisi peggiore con le scelte d’inverno, non deve sottovalutare il cattivo umore popolare sulla benzina di chi non legge il «Wall Street Journal» e non ha mai aperto Forbes.

Il rigore senza consenso costante può innescare populismo e le scelte migliori possono essere male interpretate da chi deve arrivare a fine mese. Raghuram Rajan, il grande economista, ci indica nel suo saggio appena tradotto da Einaudi come il ceto medio stenti molto dopo la crisi 2008, pressato dalla nuova economia del lavoro sempre precario. Allora occhio alla benzina e occhio alla paura e al malumore che si possono diffondere. Non bacchettiamo mai nessuno, spieghiamo ogni scelta, proviamo a non bloccare neppure i consumi più elementari. Non è solo un gran bene per la nostra economia, è un gran bene per la nostra politica, società e democrazia, oggi come nel Quarantasei.

La Stampa 14.03.12

“Quel litro di benzina misura il malumore”, di Gianni Riotta

Oggi la benzina è rincarata. È l’estate del quarantasei. Un litro vale un chilo d’insalata…» canta Paolo Conte nella sua vecchia ballata dedicata alla Topolino amaranto. E da allora il prezzo della benzina è per gli italiani l’indicatore economico primo. Rozzo, simbolico, casalingo, quel che volete, ma prima che tutti ci avvezzassimo allo spread BundBtp, quando Standard&Poor’s erano meno familiari dei grandi magazzini Standa, ora Billa, e quando nulla sapevamo del trading online, bene, che un litro di super valesse un chilo di insalata, o giù di lì, lo sapevano tutti. Non siamo i soli a ragionare così, per generazioni di americani il biglietto, prima ancora il gettone, della metropolitana di New York doveva avere lo stesso costo della fetta di pizza e il «New York Times» calcolava il costo della vita comparando subway e Napoletana.

Ancora oggi, del resto, il raffinato settimanale d’affari «The Economist» pubblica un indice McDonald’s stimando le metropoli più esose con un borsino che confronta il prezzo locale del Big Mac. Non c’è dunque da stupirsi se, appena lenite le ansie per la crisi europea del debito, dalla Grecia all’Italia, la gente si fissi sulla benzina come totem delle paure. Una scuola di economisti Usa già definisce i nostri giorni «era dell’ansietà» e se uno studio di Banca Intesa-Sanpaolo conferma che la famiglia media italiana spende ormai al mese 470 euro per benzina e carburanti contro 467 euro per il cibo, la realtà è chiara. I consumi alimentari sono tornati al livello del 1980, quando la Nazionale di Enzo Bearzot si apprestava a diventare invincibile e Urss, Dc, Psi e Pci sembravano eterni.

La benzina rincarata frena gli altri consumi, e sul bidone di petrolio greggio Brent la nostra fobia del futuro si appalesa come sul lettino psicoanalitico del dottor Freud. A un seminario di «The Ruling Companies», lunedì, l’amministatore delegato Eni Paolo Scaroni ha calcolato che sui 125 dollari del prezzo del greggio oggi, la paura di una guerra con l’Iran pesa per ben 20 dollari. Se Obama, Israele e gli ayatollah si rappacificassero oggi stesso il greggio scenderebbe di botto a 100 dollari. L’irrazionalità dei mercati globali pesa in casa nostra con la paranoia sul riscaldamento, il pieno per la gita fuori porta, il motorino dei figli: benzina che rincara e noi a scegliere, come Paolo Conte, tra super senza piombo e insalata.

Il presidente americano Barack Obama ha colto questo clima teso, perché nel paese che era abituato a pagare un dollaro per un gallone, quattro litri, di benzina vedere oggi al distributore prezzi «europei» rischia di essere un handicap verso la Casa Bianca. Se Obama lancia un caso internazionale contro la Cina sulle Terre Rare, preziosi minerali indispensabili allo sviluppo, lo fa solo per dire agli operai e al ceto medio furioso per la benzina: vedete? Alzo la voce con Pechino! Tutti noi, quando i numerini girano come un flipper al distributore, dobbiamo ricordarci del mondo che, come nel Quarantasei, ci impone i suoi prezzi. Nella stessa conferenza Scaroni ricordava che, al netto dei profitti Eni e delle imposte, il prezzo del gas e i suoi rincari vengono decisi in poche, e lontane, capitali. Ma il governo dei tecnici di Mario Monti, che ha evitato la crisi peggiore con le scelte d’inverno, non deve sottovalutare il cattivo umore popolare sulla benzina di chi non legge il «Wall Street Journal» e non ha mai aperto Forbes.

Il rigore senza consenso costante può innescare populismo e le scelte migliori possono essere male interpretate da chi deve arrivare a fine mese. Raghuram Rajan, il grande economista, ci indica nel suo saggio appena tradotto da Einaudi come il ceto medio stenti molto dopo la crisi 2008, pressato dalla nuova economia del lavoro sempre precario. Allora occhio alla benzina e occhio alla paura e al malumore che si possono diffondere. Non bacchettiamo mai nessuno, spieghiamo ogni scelta, proviamo a non bloccare neppure i consumi più elementari. Non è solo un gran bene per la nostra economia, è un gran bene per la nostra politica, società e democrazia, oggi come nel Quarantasei.

La Stampa 14.03.12