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"Perchè bisogna difendere il modello del welfare", di Massimo Giannini

La voglia di dimostrare con la forza della ragione e il rigore dei numeri che ci si può sempre opporre a tutti i conformismi
Un saggio di Luciano Gallino illustra le conseguenze economiche di un sistema creato dai più ricchi e che ha elevato la diseguaglianza a ideale di sviluppo. L´unico antidoto è il cuore dell´Europa: lo stato sociale. Nel 1974, quando uscì la prima edizione del Saggio sulle classi sociali, avevo dodici anni. Un ragazzino, in effetti. Ma sei anni dopo, già sufficientemente affamato di politica, trasformai quel libro straordinario di Paolo Sylos Labini nella mia Bibbia. Me lo consigliò il professore di storia e filosofia che mi preparava all´esame di maturità: «Lo devi leggere assolutamente, se vuoi capire qualcosa della società italiana». Aveva ragione. Sono passati quasi trent´anni. Ho perso le tracce di quel professore. E quel grande economista di Sylos Labini purtroppo non c´è più. Ma appena ho finito di leggere l´ultimo libro-intervista di Luciano Gallino (La lotta di classe-Dopo la lotta di classe, scritto insieme a Paola Borgna per Laterza) mi è tornato subito in mente il vecchio Saggio sulle classi sociali, che tanto ha spiegato dell´Italia più profonda, tra fascismo e Prima Repubblica.
Anche questa Lotta di classe spiega molto della crisi globale e della curvatura egemonica e tendenzialmente anti-democratica del capitalismo contemporaneo. Ma rispetto al suo saggio precedente Finanzcapitalismo, non si limita a descriverne i principi “costitutivi”, ma ne approfondisce gli effetti sui mercati globali e sugli assetti produttivi, sulle classi lavoratrici e sulla distribuzione del reddito, sulle politiche fiscali e sull´organizzazione del lavoro. Si può condividere o meno. A me convince molto la critica alla cultura dominante, che ruota intorno a pochi, ossessivi assiomi neo-liberisti. In giro c´è davvero una “unanimità totalitaria” sugli slogan imposti da quella che Leslie Sklair, dalla London School of Economics, definisce “la classe capitalistica trans-nazionale” dei banchieri e dei proprietari di grandi patrimoni, dei top manager e degli azionisti delle grandi multinazionali. Insomma, l´élite oggi al potere, che comanda il Super-Stato al momento più forte del mondo: “Richistan”, il paese dei ricchi che, secondo la definizione di Robert Frank, «sono ormai un popolo e una nazione a sé». Questa élite condiziona Parlamenti e manovra politici. Influenza università e fonda Think-tank. Con alcuni obiettivi di fondo, per altro raggiunti: trasformare il mercato in un idolo, e il denaro in un´ideologia. Creare le condizioni, culturali e poi anche legislative, per un gigantesco processo di trasferimento della ricchezza globale, dal lavoro alla rendita. Da almeno un ventennio, il colossale inganno confezionato da questa classe dominante è aver fatto credere che le classi non esistono più. E che dunque la lotta di classe è un “residuo arcaico” del vetero-marxismo. Niente di più falso. Su questo Gallino ha ragione da vendere. Oggi è più difficile sezionare un corpo sociale con la precisione chirurgica di Sylos Labini, in quei primi Anni Settanta: borghesia vera e propria, borghesia impiegatizia, piccola borghesia, classe operaia, sottoproletariato. È vero che dal dopoguerra in poi, in Italia come nel resto delle democrazie occidentali, l´accesso al lavoro ha consentito a milioni di individui di trasformarsi in cittadini, e di accedere a una piramide sociale con una base sempre più ampia e più solida. Di comprare ieri il frigorifero, oggi il telefonino. Ma nonostante l´omogeneizzazione dei consumi e degli stili di vita, a marcare il perimetro di una classe che resiste c´è la qualità e la quantità del lavoro. A dettare i tempi della storia non ci sono più solo le avanguardie orgogliose della classe operaia, ma le retroguardie silenziose di una “working class” sempre più estesa, precaria e impoverita. Adam Smith sosteneva che la lotta di classe esiste perché operai e padroni non possono essere “complici”, visto che i primi lottano per aumentare i salari, mentre i secondi lottano per aumentare i profitti.
Gallino aggiorna lo schema: «la lotta di classe, oggi, è quella di chi non è soddisfatto del proprio destino, e vuole cambiarlo, e quella di chi invece è soddisfatto del proprio destino, e vuole difenderlo». Il conflitto è durissimo. La classe dei “capitalisti per procura” che gestiscono trilioni di miliardi di denaro altrui, sta consumando la sua rivincita ai danni della “classe dei perdenti”. Le politiche dei governi assecondano la “reconquista” del capitale ai danni del lavoro. Da Bush a Sarkozy a Berlusconi, si riducono le tasse ai ceti più abbienti e alle società, e si sposta il carico tributario a vantaggio della rendita. Così in Italia può succedere che un lavoratore con un imponibile di 28 mila euro e 1.500 ore lavorate paga 6.960 euro di tasse, mentre un redditiere con un capitale dello stesso importo, senza muovere un dito, ne paga 5.600. Nel mondo può succedere che lo 0,5% della popolazione più ricca detenga 69 trilioni di dollari, mentre il 68% della popolazione detenga solo 8 trilioni di dollari. È la disuguaglianza elevata a “modello di sviluppo”, che oggi domina la scena. Il “forgotten man” di cui scriveva qualche giorno fa Guido Rossi sul Sole 24 Ore. La globalizzazione degenera in delocalizzazione selvaggia fondata sul dumping sociale: Apple assembla un iPhone in 140 pezzi, e nessuno di questi è fabbricato in America. La ricerca di competitività delle merci dal solo lato dei costi svalorizza il lavoro e immiserisce il salario: un lavoratore americano o europeo che guadagna 25/30 dollari l´ora viene licenziato, perché al suo posto lavorano poveri cristi indiani o vietnamiti a 36 centesimi l´ora. La legislazione del lavoro diventa funzionale all´obiettivo di rendere l´occupazione tanto flessibile quanto lo sono i capitali: così nascono i moderni “salariati della precarietà”, e così (nonostante l´inutile spargimento di parole sull´articolo 18) tra il 1996 e il 2008 l´Italia ha registrato un calo dal 3,57 all´1,89% nell´indice Ocse sulla rigidità della protezione del lavoro. L´austerità dei bilanci pubblici diventa lo strumento di una “economia politica dell´insicurezza”, dove l´isteria del deficit si traduce in tagli sempre più massicci alla spesa sociale: governi miopi, di destra e di sinistra, predicano “ideologia liberista, incompetenza e ipocrisia”, mentre istituzioni europee e trans-europee prive di legittimazione politica praticano l´ingiustizia sociale e perpetuano la gramsciana egemonia del “partito di Davos”.
Anche nella Lotta di classe di Gallino ci sono aspetti che non condivido. Qualche schematismo nel valutare il salvataggio delle banche (che è un modo per salvare anche i nostri soldi) o il signoraggio delle tecnocrazie (che suggeriscono decisioni comunque ratificate da governi votati e da Parlamenti eletti). Qualche cedimento alla deriva movimentista (per esempio sull´inutilità della Tav in Val di Susa). Ma Gallino ha il merito di non perdere mai di vista la vera posta in gioco: la salvaguardia del modello sociale europeo, senza il quale la stessa Europa non ha più ragione di esistere in quanto “comunità di destino”. Se questo modello è ora sotto attacco, la colpa è di tanti. Una politica degradata e vittima della “cattura cognitiva” dominante e un´opposizione parlamentare ovunque inesistente. Un sindacato distratto che subisce a sua volta la “low road” delle relazioni industriali e un ceto intellettuale che non sa vedere, sentire e interpretare i disagi della “classe dei perdenti”.
La conclusione è sconfortante, e non lascia troppe vie d´uscita: l´Occidente sfiorisce tra democrazie “in stato comatoso”. Ma quello che apprezzo di questo professore piemontese ostinato e “indignado” è la sua voglia di dimostrare, con la forza della ragione e il rigore dei numeri, che ci si può ancora opporre ai conformismi e ai pensieri unici. E ci si può ancora battere, ciascuno nel proprio ambito, per “un´altra democrazia”. Senza mitizzare Zuccotti Park, sarebbe la missione di una sinistra riformista, capace di essere al tempo stesso liberale nelle politiche e radicale nei valori. Come scrive Slavoj Zizek, il comunismo è un´immane tragedia da condannare, ma in quella tragedia c´è tuttora un frammento importante, da non buttare via: «la speranza dell´emancipazione, l´idea che si potesse essere un po´ più uguali, che la società potesse essere un po´ più giusta». Quel frammento è ancora qui. Ed è la ragione stessa della Storia.

La Repubblica 14.03.12

“Perchè bisogna difendere il modello del welfare”, di Massimo Giannini

La voglia di dimostrare con la forza della ragione e il rigore dei numeri che ci si può sempre opporre a tutti i conformismi
Un saggio di Luciano Gallino illustra le conseguenze economiche di un sistema creato dai più ricchi e che ha elevato la diseguaglianza a ideale di sviluppo. L´unico antidoto è il cuore dell´Europa: lo stato sociale. Nel 1974, quando uscì la prima edizione del Saggio sulle classi sociali, avevo dodici anni. Un ragazzino, in effetti. Ma sei anni dopo, già sufficientemente affamato di politica, trasformai quel libro straordinario di Paolo Sylos Labini nella mia Bibbia. Me lo consigliò il professore di storia e filosofia che mi preparava all´esame di maturità: «Lo devi leggere assolutamente, se vuoi capire qualcosa della società italiana». Aveva ragione. Sono passati quasi trent´anni. Ho perso le tracce di quel professore. E quel grande economista di Sylos Labini purtroppo non c´è più. Ma appena ho finito di leggere l´ultimo libro-intervista di Luciano Gallino (La lotta di classe-Dopo la lotta di classe, scritto insieme a Paola Borgna per Laterza) mi è tornato subito in mente il vecchio Saggio sulle classi sociali, che tanto ha spiegato dell´Italia più profonda, tra fascismo e Prima Repubblica.
Anche questa Lotta di classe spiega molto della crisi globale e della curvatura egemonica e tendenzialmente anti-democratica del capitalismo contemporaneo. Ma rispetto al suo saggio precedente Finanzcapitalismo, non si limita a descriverne i principi “costitutivi”, ma ne approfondisce gli effetti sui mercati globali e sugli assetti produttivi, sulle classi lavoratrici e sulla distribuzione del reddito, sulle politiche fiscali e sull´organizzazione del lavoro. Si può condividere o meno. A me convince molto la critica alla cultura dominante, che ruota intorno a pochi, ossessivi assiomi neo-liberisti. In giro c´è davvero una “unanimità totalitaria” sugli slogan imposti da quella che Leslie Sklair, dalla London School of Economics, definisce “la classe capitalistica trans-nazionale” dei banchieri e dei proprietari di grandi patrimoni, dei top manager e degli azionisti delle grandi multinazionali. Insomma, l´élite oggi al potere, che comanda il Super-Stato al momento più forte del mondo: “Richistan”, il paese dei ricchi che, secondo la definizione di Robert Frank, «sono ormai un popolo e una nazione a sé». Questa élite condiziona Parlamenti e manovra politici. Influenza università e fonda Think-tank. Con alcuni obiettivi di fondo, per altro raggiunti: trasformare il mercato in un idolo, e il denaro in un´ideologia. Creare le condizioni, culturali e poi anche legislative, per un gigantesco processo di trasferimento della ricchezza globale, dal lavoro alla rendita. Da almeno un ventennio, il colossale inganno confezionato da questa classe dominante è aver fatto credere che le classi non esistono più. E che dunque la lotta di classe è un “residuo arcaico” del vetero-marxismo. Niente di più falso. Su questo Gallino ha ragione da vendere. Oggi è più difficile sezionare un corpo sociale con la precisione chirurgica di Sylos Labini, in quei primi Anni Settanta: borghesia vera e propria, borghesia impiegatizia, piccola borghesia, classe operaia, sottoproletariato. È vero che dal dopoguerra in poi, in Italia come nel resto delle democrazie occidentali, l´accesso al lavoro ha consentito a milioni di individui di trasformarsi in cittadini, e di accedere a una piramide sociale con una base sempre più ampia e più solida. Di comprare ieri il frigorifero, oggi il telefonino. Ma nonostante l´omogeneizzazione dei consumi e degli stili di vita, a marcare il perimetro di una classe che resiste c´è la qualità e la quantità del lavoro. A dettare i tempi della storia non ci sono più solo le avanguardie orgogliose della classe operaia, ma le retroguardie silenziose di una “working class” sempre più estesa, precaria e impoverita. Adam Smith sosteneva che la lotta di classe esiste perché operai e padroni non possono essere “complici”, visto che i primi lottano per aumentare i salari, mentre i secondi lottano per aumentare i profitti.
Gallino aggiorna lo schema: «la lotta di classe, oggi, è quella di chi non è soddisfatto del proprio destino, e vuole cambiarlo, e quella di chi invece è soddisfatto del proprio destino, e vuole difenderlo». Il conflitto è durissimo. La classe dei “capitalisti per procura” che gestiscono trilioni di miliardi di denaro altrui, sta consumando la sua rivincita ai danni della “classe dei perdenti”. Le politiche dei governi assecondano la “reconquista” del capitale ai danni del lavoro. Da Bush a Sarkozy a Berlusconi, si riducono le tasse ai ceti più abbienti e alle società, e si sposta il carico tributario a vantaggio della rendita. Così in Italia può succedere che un lavoratore con un imponibile di 28 mila euro e 1.500 ore lavorate paga 6.960 euro di tasse, mentre un redditiere con un capitale dello stesso importo, senza muovere un dito, ne paga 5.600. Nel mondo può succedere che lo 0,5% della popolazione più ricca detenga 69 trilioni di dollari, mentre il 68% della popolazione detenga solo 8 trilioni di dollari. È la disuguaglianza elevata a “modello di sviluppo”, che oggi domina la scena. Il “forgotten man” di cui scriveva qualche giorno fa Guido Rossi sul Sole 24 Ore. La globalizzazione degenera in delocalizzazione selvaggia fondata sul dumping sociale: Apple assembla un iPhone in 140 pezzi, e nessuno di questi è fabbricato in America. La ricerca di competitività delle merci dal solo lato dei costi svalorizza il lavoro e immiserisce il salario: un lavoratore americano o europeo che guadagna 25/30 dollari l´ora viene licenziato, perché al suo posto lavorano poveri cristi indiani o vietnamiti a 36 centesimi l´ora. La legislazione del lavoro diventa funzionale all´obiettivo di rendere l´occupazione tanto flessibile quanto lo sono i capitali: così nascono i moderni “salariati della precarietà”, e così (nonostante l´inutile spargimento di parole sull´articolo 18) tra il 1996 e il 2008 l´Italia ha registrato un calo dal 3,57 all´1,89% nell´indice Ocse sulla rigidità della protezione del lavoro. L´austerità dei bilanci pubblici diventa lo strumento di una “economia politica dell´insicurezza”, dove l´isteria del deficit si traduce in tagli sempre più massicci alla spesa sociale: governi miopi, di destra e di sinistra, predicano “ideologia liberista, incompetenza e ipocrisia”, mentre istituzioni europee e trans-europee prive di legittimazione politica praticano l´ingiustizia sociale e perpetuano la gramsciana egemonia del “partito di Davos”.
Anche nella Lotta di classe di Gallino ci sono aspetti che non condivido. Qualche schematismo nel valutare il salvataggio delle banche (che è un modo per salvare anche i nostri soldi) o il signoraggio delle tecnocrazie (che suggeriscono decisioni comunque ratificate da governi votati e da Parlamenti eletti). Qualche cedimento alla deriva movimentista (per esempio sull´inutilità della Tav in Val di Susa). Ma Gallino ha il merito di non perdere mai di vista la vera posta in gioco: la salvaguardia del modello sociale europeo, senza il quale la stessa Europa non ha più ragione di esistere in quanto “comunità di destino”. Se questo modello è ora sotto attacco, la colpa è di tanti. Una politica degradata e vittima della “cattura cognitiva” dominante e un´opposizione parlamentare ovunque inesistente. Un sindacato distratto che subisce a sua volta la “low road” delle relazioni industriali e un ceto intellettuale che non sa vedere, sentire e interpretare i disagi della “classe dei perdenti”.
La conclusione è sconfortante, e non lascia troppe vie d´uscita: l´Occidente sfiorisce tra democrazie “in stato comatoso”. Ma quello che apprezzo di questo professore piemontese ostinato e “indignado” è la sua voglia di dimostrare, con la forza della ragione e il rigore dei numeri, che ci si può ancora opporre ai conformismi e ai pensieri unici. E ci si può ancora battere, ciascuno nel proprio ambito, per “un´altra democrazia”. Senza mitizzare Zuccotti Park, sarebbe la missione di una sinistra riformista, capace di essere al tempo stesso liberale nelle politiche e radicale nei valori. Come scrive Slavoj Zizek, il comunismo è un´immane tragedia da condannare, ma in quella tragedia c´è tuttora un frammento importante, da non buttare via: «la speranza dell´emancipazione, l´idea che si potesse essere un po´ più uguali, che la società potesse essere un po´ più giusta». Quel frammento è ancora qui. Ed è la ragione stessa della Storia.

La Repubblica 14.03.12

"Dirigente Scolastico: cinque tratti per un profilo da ripensare", di Antonio Valentino

Tra nuove emergenze e complessità più elevate. Le disposizione della L. 111 del luglio scorso, che generalizza il modello degli istituti comprensivi, fissa, com’è noto, nuovi parametri per il dimensionamento degli stessi, portando lo standard a 1000 allievi. D’altra parte, le esperienze delle reggenze degli ultimi anni (che hanno interessato gran parte delle nostre scuole, con aggregazioni di istituti diversi e per un numero complessivo di studenti parecchio superiore ai 500-900 previsti dalle disposizioni per l’autonomia), prefigurano situazioni generalizzate di un modello scolastico con numeri molto oltre la soglia massima indicata.

Queste sono, al riguardo, le disposizioni e le linee di tendenza con le quali dobbiamo fare i conti.

Tra l’altro, gli interrogativi, come si sa, non riguardano tanto il numero degli allievi, quanto il livello di complessità collegato, nella scuola di base, alle verticalizzazioni e al numero dei plessi coinvolti, e, negli istituti del secondo ciclo, alla presenza di indirizzi afferenti a settori diversi e al numero di scuole aggregate.

In ogni caso, i problemi si moltiplicheranno e richiederanno di fare i conti con un modello organizzativo che non può essere più uguale a quello di adesso, anche perché nuove emergenze e nuove questioni sono all’ordine del giorno. E che si aggiungono alle difficoltà organizzative e didattiche derivanti da problemi che ci trasciniamo da qualche decennio (tra tutte, il fatto di una scuola diventata di massa che funziona ancora con un modello per molti versi gentiliano.

Il quadro si fa ancora più complesso ove si considerino le nuove consapevolezze, urgenze e attese maturate in questi anni.

Mi riferisco all’affermazione, sempre più evidente dei principi di trasparenza, responsabilità, rendicontazione e controllo e della necessità di una nuova idea di governance interna; ma anche all’esigenza, di una offerta formativa territoriale coordinata, integrata e partecipata.

Ma preoccupa anche – e forse soprattutto – il fatto che la scuola è sempre meno fattore di uguaglianza, di emancipazione e di mobilità sociale, anche a motivo di una formazione degli studenti sempre più povera e inadeguata.

È da questo insieme di trasformazioni, problemi, aspettative che nasce il bisogno e la necessità di ripensare l’identikit del dirigente scolastico (ds) come figura chiave e soggetto motore delle necessarie innovazioni.

Nessuno può ovviamente illudersi che questo ripensamento del profilo possa nascere da impeto missionario o disponibilità soggettiva e buona volontà.

Ciò premesso, si tratta di capire qual è la parte che il mondo della scuola può giocare su quest’insieme di questioni e, per quanto riguarda la funzione dirigente in questa fase, quali sono le linee di riflessione per un aggiornamento del profilo ds.

Dirigente di una istituzione della Repubblica

A quest’ultimo proposito, penso che, mai come in questo momento, l’offuscarsi delle ragioni sociali della scuola facciano emergere un primo tratto volto a caratterizzare il lavoro e l’impegno del ds: quello cioè di dirigente di una istituzione della Repubblica, che assuma a riferimento un’idea di scuola come strumento e presidio di uguaglianza delle opportunità e di equità sui temi dell’istruzione e della formazione.

E quindi figura di snodo tra le esigenze e i bisogni del territorio, che egli condivide e rappresenta, e il disegno di una scuola e di una società coerenti con la “visione” della nostra Costituzione.

In quest’ottica dovrebbe essere riletto l’autonomo compito della “gestione unitaria” dell’Istituto (D.Lvo 165, art. 25) che il ds è tenuto ad assicurare.

Per evidenziare come, attraverso di esso, si debba tendere sia a contrastare, a tutti i livelli – ma non in modo isolato – la mala scuola che si alimenta di disfunzioni e di prestazioni professionali insoddisfacenti; sia a valorizzare / promuovere, contestualmente, professionalità competenti e motivate.

Quello che qui, della funzione ds, si vuole riportare in primo piano è il suo intreccio con la ragione sociale del fare scuola e quindi la specifica attenzione, che ne dovrebbe derivare, a ridare centralità alla scuola come luogo di apprendimenti e relazioni sensate.

È questo, penso, un secondo tratto da enfatizzare nella ricerca di un nuovo “corso” per la funzione ds.

Il problema qui è come fare, dal momento che le “distrazioni” e le emergenze sono diventate le costanti di questa professione.

Per una leadership inclusiva “centrata sull’apprendimento”

La soluzione del problema non penso comunque che vada ricercata in nuovi improbabili “poteri” per il DS.

C’è in primo luogo un sistema complessivo da resettare.

Ma una attenzione non occasionale o improvvisata alle tematiche organizzative – ancorate ad una idea di scuola più moderna e partecipata e a forme di governo interno e di responsabilità più precise e meglio distribuite – può forse aiutare a ridare senso e smalto ad una attività sempre più difficile e complicata.

Tra queste tematiche, la più interessante e promettente mi sembra quella di una leadership da ripensare in termini di più coerente funzionalità ai temi della complessità.

Stimolanti suggerimenti al riguardo vengono, come è noto, dalla ricerca internazionale.

Tra le elaborazioni più recenti, quella più degna di attenzione mi sembra la teoria della “Leadership (L.) centrata sull’apprendimento” che si caratterizza per alcuni aspetti in parte nuovi.

Il primo è che, rispetto alla teoria ora prevalente di” leadership” (detta, “trasformazionale”: ma io non ne ho colpa), che pone l’accento sulla costruzione della ‘visione’ e sulla capacità di favorire l’impegno delle persone), la “L. centrata sull’apprendimento” non ruota più sul leader carismatico.

In altri termini, la L. “non è concepita come un tratto della personalità di un individuo”[1] e poggia soprattutto sulla condivisione del governo interno all’organizzazione. Si tratta pertanto di una leadership distribuita, e quindi plurale e inclusiva, ‘centrata’ sulle questioni dell’apprendere per formarsi e “crescere”.

Secondo aspetto: la centratura sull’apprendimento, riguarda, allo stesso modo e contestualmente, gli alunni, gli adulti (ds, insegnanti) e la scuola tutta, vista come learning organizzation.

DS come promotore di leadership condivisa

Messa in questi termini, la L. non è questione o tema che interessa quindi esclusivamente la Dirigenza scolastica (e le associazioni o organizzazioni di riferimento). Essa riguarda – dovrebbe riguardare – anche il mondo dei docenti (e quindi le loro associazioni professionali e organizzazioni sindacali) e la scuola in generale.

E ciò anche a motivo delle possibili relazioni con la ricerca di nuove e più efficaci forme di governo interno (e quindi con la riforma degli OOCC).

In questa visione, è comunque proprio del capo di istituto sviluppare prioritariamente capacità di leadership, imparando – attraverso percorsi di decisioni meditate, azioni e riflessione –

· a distribuire o disseminare le responsabilità

· a rafforzare professionalmente gli altri, perché facciano del loro meglio

· a tenere l’apprendimento al centro di tutte le attività.

Potrebbe essere questo il terzo tratto di una Dirigenza Sscolastica impegnata a garantire una qualità organizzativa più coinvolgente ed efficace.

Molti a questo punto sono gli interrogativi che vengono fuori.

Consideriamo quelli di più evidente problematicità.

Quello più immediato riguarda la fattibilità di un’idea di questo tipo nella situazione data.

Un secondo, non meno impegnativo, riguarda il rapporto di questa forma di L., con gli autonomi poteri del ds, di cui all’art. 25 del D.Lvo 165, che corrono il rischio di essere messi in discussione.

Il DS tra leadership e compiti di direzione

Senza dubbio, su quest’ultimo interrogativo ci vorrebbero analisi e approfondimenti ad hoc e una cultura giuridica più attrezzata di quella di chi scrive, per capirne possibilità, rischi, eventuali vie d’uscita.

Comunque, quella di raccordi sensati tra – da una parte – compiti di direzione e responsabilità prefigurate nella normativa vigente e – dall’altra – forme di L. come quella prospettata, è una ipotesi di lavoro che, opportunamente circoscritta, potrebbe essere tentata sperimentalmente con buone probabilità di riuscita. Anche perché non partiamo da zero.

Condizione prima però è che direzione e gestione siano vissute dal DS con il giusto equilibro e la necessaria autorevolezza che da sempre poggiano – anche se non in toto – su preparazione e competenza.

E’ con riferimento a questa idea di L. che un quarto tratto di un più caratterizzato profilo ds potrebbe essere individuato in un ‘agire professionale volto a ricercare un equilibrio tra due dimensioni tra loro apparentemente divaricate’: direzione, attraverso poteri autonomi, e leadership distribuita, “centrata sull’apprendimento”.

Gli autonomi ed esclusivi compiti – rispetto all’adeguatezza del servizio, alle sue priorità (equità e livelli essenziali di prestazione e di comptetenze) e ai suoi risultati – vanno visti, in questa ottica, come l’altra faccia della L. di cui il ds è soggetto motore.

Anche sulle condizioni di fattibilità andrebbero condotti approfondimenti e prodotte sperimentazioni. Si tratta comunque di una sfida. Che può forse valere la pena di prendere in considerazione.

Se questa può essere l’ottica, allora la domanda diventa: come dare gambe a questa visione della L. , nonostante siano ancora aperte questioni cruciali, come la progressione di carriera dei docenti e un riconoscimento formale delle figure di funzionamento e di presidio.

Per una risposta positiva, i ragionamenti dovrebbero prendere in considerazione le esperienze più avanzate di utilizzo sia delle Funzioni Strumentali, viste come figure di presidio di aree strategiche degli istituti, che delle figure di coordinamento e di collaborazione gestionale (i due collaboratori, il DSGA).

E dovrebbero – i ragionamenti – considerare altresì le strategie del ds volte a socializzare e condividere una visione comune di L. e interrogarsi sulla consistenza quantitativa e qualitativa del team coinvolto.

Ritengo infatti che se la L. non ha la consistenza di una “massa critica” – capace cioè di incidere in modo efficace e duraturo – il senso dell’operazione approderebbe a poco e comunque produrrebbe cambiamenti apparenti.

Ma condizioni importanti per una utile sperimentazione al riguardo dovrebbero essere considerate anche, ovviamente,

– L’uso prioritario del fondo di istituto – e di altre eventuali risorse ad hoc – per riconoscere l’impegno e i risultati di quanti sono impegnati nella leadeship di istituto

– La rendicontazione su azioni e risultati della L..

L’”esserci” come presupposto

Il riferimento infine alle questioni del dimensionamento – e al suo elevamento – da cui siamo partiti, ci rende inoltre avverti del fatto che numeri troppo elevati e una complessità di difficile governo – per numero di plessi e pluralità di sedi – possono realisticamente essere di ostacolo ad una leadership efficace.

Se non altro perchè una leadership come quella prima configurata, per dare frutti, necessita di un dirigente ‘che ci sia’, e come presenza fisica e come ascolto attivo e intelligenza vigile: tratto questo, quello dell’”esserci”, preliminare, penso, di un profilo ds funzionale ad una scuola che punti sul miglioramento continuo.

Perciò i numeri contano. E se la soglia si sposta troppo in là (per esempio, oltre i 1200-1300 alunni e preveda più di 3 sedi lontane tra di loro), il rischio vero è che risulti alla fine molto difficile che i tratti richiamati come importanti in un nuovo profilo ds possano considerarsi credibili. A meno che non pensiano al ds come a un superman.

E forse qualche collega ci pensa e si sente. Ma non credo siano tanti[2].

[1] V. Peter Earley, “Lo sviluppo di leader con capacità di leadership in ambito educativo e centrati sull’apprendimento”, in Leadership educativa e autonomia scolastica (a cura di G. Domenici – G. Moretti)), Armando editore, 2011

[2] L’intervento è tratto dall’articolo: Il profilo del Dirigente Scolastico tra emergenze e nuove
complessità, in fase di pubblicazione in “Rivista dell’istruzione”, n. 2, marzo-aprile 2012,
Maggioli, Rimini (RN).,

da ScuolaOggi 14.03.12

“Dirigente Scolastico: cinque tratti per un profilo da ripensare”, di Antonio Valentino

Tra nuove emergenze e complessità più elevate. Le disposizione della L. 111 del luglio scorso, che generalizza il modello degli istituti comprensivi, fissa, com’è noto, nuovi parametri per il dimensionamento degli stessi, portando lo standard a 1000 allievi. D’altra parte, le esperienze delle reggenze degli ultimi anni (che hanno interessato gran parte delle nostre scuole, con aggregazioni di istituti diversi e per un numero complessivo di studenti parecchio superiore ai 500-900 previsti dalle disposizioni per l’autonomia), prefigurano situazioni generalizzate di un modello scolastico con numeri molto oltre la soglia massima indicata.

Queste sono, al riguardo, le disposizioni e le linee di tendenza con le quali dobbiamo fare i conti.

Tra l’altro, gli interrogativi, come si sa, non riguardano tanto il numero degli allievi, quanto il livello di complessità collegato, nella scuola di base, alle verticalizzazioni e al numero dei plessi coinvolti, e, negli istituti del secondo ciclo, alla presenza di indirizzi afferenti a settori diversi e al numero di scuole aggregate.

In ogni caso, i problemi si moltiplicheranno e richiederanno di fare i conti con un modello organizzativo che non può essere più uguale a quello di adesso, anche perché nuove emergenze e nuove questioni sono all’ordine del giorno. E che si aggiungono alle difficoltà organizzative e didattiche derivanti da problemi che ci trasciniamo da qualche decennio (tra tutte, il fatto di una scuola diventata di massa che funziona ancora con un modello per molti versi gentiliano.

Il quadro si fa ancora più complesso ove si considerino le nuove consapevolezze, urgenze e attese maturate in questi anni.

Mi riferisco all’affermazione, sempre più evidente dei principi di trasparenza, responsabilità, rendicontazione e controllo e della necessità di una nuova idea di governance interna; ma anche all’esigenza, di una offerta formativa territoriale coordinata, integrata e partecipata.

Ma preoccupa anche – e forse soprattutto – il fatto che la scuola è sempre meno fattore di uguaglianza, di emancipazione e di mobilità sociale, anche a motivo di una formazione degli studenti sempre più povera e inadeguata.

È da questo insieme di trasformazioni, problemi, aspettative che nasce il bisogno e la necessità di ripensare l’identikit del dirigente scolastico (ds) come figura chiave e soggetto motore delle necessarie innovazioni.

Nessuno può ovviamente illudersi che questo ripensamento del profilo possa nascere da impeto missionario o disponibilità soggettiva e buona volontà.

Ciò premesso, si tratta di capire qual è la parte che il mondo della scuola può giocare su quest’insieme di questioni e, per quanto riguarda la funzione dirigente in questa fase, quali sono le linee di riflessione per un aggiornamento del profilo ds.

Dirigente di una istituzione della Repubblica

A quest’ultimo proposito, penso che, mai come in questo momento, l’offuscarsi delle ragioni sociali della scuola facciano emergere un primo tratto volto a caratterizzare il lavoro e l’impegno del ds: quello cioè di dirigente di una istituzione della Repubblica, che assuma a riferimento un’idea di scuola come strumento e presidio di uguaglianza delle opportunità e di equità sui temi dell’istruzione e della formazione.

E quindi figura di snodo tra le esigenze e i bisogni del territorio, che egli condivide e rappresenta, e il disegno di una scuola e di una società coerenti con la “visione” della nostra Costituzione.

In quest’ottica dovrebbe essere riletto l’autonomo compito della “gestione unitaria” dell’Istituto (D.Lvo 165, art. 25) che il ds è tenuto ad assicurare.

Per evidenziare come, attraverso di esso, si debba tendere sia a contrastare, a tutti i livelli – ma non in modo isolato – la mala scuola che si alimenta di disfunzioni e di prestazioni professionali insoddisfacenti; sia a valorizzare / promuovere, contestualmente, professionalità competenti e motivate.

Quello che qui, della funzione ds, si vuole riportare in primo piano è il suo intreccio con la ragione sociale del fare scuola e quindi la specifica attenzione, che ne dovrebbe derivare, a ridare centralità alla scuola come luogo di apprendimenti e relazioni sensate.

È questo, penso, un secondo tratto da enfatizzare nella ricerca di un nuovo “corso” per la funzione ds.

Il problema qui è come fare, dal momento che le “distrazioni” e le emergenze sono diventate le costanti di questa professione.

Per una leadership inclusiva “centrata sull’apprendimento”

La soluzione del problema non penso comunque che vada ricercata in nuovi improbabili “poteri” per il DS.

C’è in primo luogo un sistema complessivo da resettare.

Ma una attenzione non occasionale o improvvisata alle tematiche organizzative – ancorate ad una idea di scuola più moderna e partecipata e a forme di governo interno e di responsabilità più precise e meglio distribuite – può forse aiutare a ridare senso e smalto ad una attività sempre più difficile e complicata.

Tra queste tematiche, la più interessante e promettente mi sembra quella di una leadership da ripensare in termini di più coerente funzionalità ai temi della complessità.

Stimolanti suggerimenti al riguardo vengono, come è noto, dalla ricerca internazionale.

Tra le elaborazioni più recenti, quella più degna di attenzione mi sembra la teoria della “Leadership (L.) centrata sull’apprendimento” che si caratterizza per alcuni aspetti in parte nuovi.

Il primo è che, rispetto alla teoria ora prevalente di” leadership” (detta, “trasformazionale”: ma io non ne ho colpa), che pone l’accento sulla costruzione della ‘visione’ e sulla capacità di favorire l’impegno delle persone), la “L. centrata sull’apprendimento” non ruota più sul leader carismatico.

In altri termini, la L. “non è concepita come un tratto della personalità di un individuo”[1] e poggia soprattutto sulla condivisione del governo interno all’organizzazione. Si tratta pertanto di una leadership distribuita, e quindi plurale e inclusiva, ‘centrata’ sulle questioni dell’apprendere per formarsi e “crescere”.

Secondo aspetto: la centratura sull’apprendimento, riguarda, allo stesso modo e contestualmente, gli alunni, gli adulti (ds, insegnanti) e la scuola tutta, vista come learning organizzation.

DS come promotore di leadership condivisa

Messa in questi termini, la L. non è questione o tema che interessa quindi esclusivamente la Dirigenza scolastica (e le associazioni o organizzazioni di riferimento). Essa riguarda – dovrebbe riguardare – anche il mondo dei docenti (e quindi le loro associazioni professionali e organizzazioni sindacali) e la scuola in generale.

E ciò anche a motivo delle possibili relazioni con la ricerca di nuove e più efficaci forme di governo interno (e quindi con la riforma degli OOCC).

In questa visione, è comunque proprio del capo di istituto sviluppare prioritariamente capacità di leadership, imparando – attraverso percorsi di decisioni meditate, azioni e riflessione –

· a distribuire o disseminare le responsabilità

· a rafforzare professionalmente gli altri, perché facciano del loro meglio

· a tenere l’apprendimento al centro di tutte le attività.

Potrebbe essere questo il terzo tratto di una Dirigenza Sscolastica impegnata a garantire una qualità organizzativa più coinvolgente ed efficace.

Molti a questo punto sono gli interrogativi che vengono fuori.

Consideriamo quelli di più evidente problematicità.

Quello più immediato riguarda la fattibilità di un’idea di questo tipo nella situazione data.

Un secondo, non meno impegnativo, riguarda il rapporto di questa forma di L., con gli autonomi poteri del ds, di cui all’art. 25 del D.Lvo 165, che corrono il rischio di essere messi in discussione.

Il DS tra leadership e compiti di direzione

Senza dubbio, su quest’ultimo interrogativo ci vorrebbero analisi e approfondimenti ad hoc e una cultura giuridica più attrezzata di quella di chi scrive, per capirne possibilità, rischi, eventuali vie d’uscita.

Comunque, quella di raccordi sensati tra – da una parte – compiti di direzione e responsabilità prefigurate nella normativa vigente e – dall’altra – forme di L. come quella prospettata, è una ipotesi di lavoro che, opportunamente circoscritta, potrebbe essere tentata sperimentalmente con buone probabilità di riuscita. Anche perché non partiamo da zero.

Condizione prima però è che direzione e gestione siano vissute dal DS con il giusto equilibro e la necessaria autorevolezza che da sempre poggiano – anche se non in toto – su preparazione e competenza.

E’ con riferimento a questa idea di L. che un quarto tratto di un più caratterizzato profilo ds potrebbe essere individuato in un ‘agire professionale volto a ricercare un equilibrio tra due dimensioni tra loro apparentemente divaricate’: direzione, attraverso poteri autonomi, e leadership distribuita, “centrata sull’apprendimento”.

Gli autonomi ed esclusivi compiti – rispetto all’adeguatezza del servizio, alle sue priorità (equità e livelli essenziali di prestazione e di comptetenze) e ai suoi risultati – vanno visti, in questa ottica, come l’altra faccia della L. di cui il ds è soggetto motore.

Anche sulle condizioni di fattibilità andrebbero condotti approfondimenti e prodotte sperimentazioni. Si tratta comunque di una sfida. Che può forse valere la pena di prendere in considerazione.

Se questa può essere l’ottica, allora la domanda diventa: come dare gambe a questa visione della L. , nonostante siano ancora aperte questioni cruciali, come la progressione di carriera dei docenti e un riconoscimento formale delle figure di funzionamento e di presidio.

Per una risposta positiva, i ragionamenti dovrebbero prendere in considerazione le esperienze più avanzate di utilizzo sia delle Funzioni Strumentali, viste come figure di presidio di aree strategiche degli istituti, che delle figure di coordinamento e di collaborazione gestionale (i due collaboratori, il DSGA).

E dovrebbero – i ragionamenti – considerare altresì le strategie del ds volte a socializzare e condividere una visione comune di L. e interrogarsi sulla consistenza quantitativa e qualitativa del team coinvolto.

Ritengo infatti che se la L. non ha la consistenza di una “massa critica” – capace cioè di incidere in modo efficace e duraturo – il senso dell’operazione approderebbe a poco e comunque produrrebbe cambiamenti apparenti.

Ma condizioni importanti per una utile sperimentazione al riguardo dovrebbero essere considerate anche, ovviamente,

– L’uso prioritario del fondo di istituto – e di altre eventuali risorse ad hoc – per riconoscere l’impegno e i risultati di quanti sono impegnati nella leadeship di istituto

– La rendicontazione su azioni e risultati della L..

L’”esserci” come presupposto

Il riferimento infine alle questioni del dimensionamento – e al suo elevamento – da cui siamo partiti, ci rende inoltre avverti del fatto che numeri troppo elevati e una complessità di difficile governo – per numero di plessi e pluralità di sedi – possono realisticamente essere di ostacolo ad una leadership efficace.

Se non altro perchè una leadership come quella prima configurata, per dare frutti, necessita di un dirigente ‘che ci sia’, e come presenza fisica e come ascolto attivo e intelligenza vigile: tratto questo, quello dell’”esserci”, preliminare, penso, di un profilo ds funzionale ad una scuola che punti sul miglioramento continuo.

Perciò i numeri contano. E se la soglia si sposta troppo in là (per esempio, oltre i 1200-1300 alunni e preveda più di 3 sedi lontane tra di loro), il rischio vero è che risulti alla fine molto difficile che i tratti richiamati come importanti in un nuovo profilo ds possano considerarsi credibili. A meno che non pensiano al ds come a un superman.

E forse qualche collega ci pensa e si sente. Ma non credo siano tanti[2].

[1] V. Peter Earley, “Lo sviluppo di leader con capacità di leadership in ambito educativo e centrati sull’apprendimento”, in Leadership educativa e autonomia scolastica (a cura di G. Domenici – G. Moretti)), Armando editore, 2011

[2] L’intervento è tratto dall’articolo: Il profilo del Dirigente Scolastico tra emergenze e nuove
complessità, in fase di pubblicazione in “Rivista dell’istruzione”, n. 2, marzo-aprile 2012,
Maggioli, Rimini (RN).,

da ScuolaOggi 14.03.12

“Dirigente Scolastico: cinque tratti per un profilo da ripensare”, di Antonio Valentino

Tra nuove emergenze e complessità più elevate. Le disposizione della L. 111 del luglio scorso, che generalizza il modello degli istituti comprensivi, fissa, com’è noto, nuovi parametri per il dimensionamento degli stessi, portando lo standard a 1000 allievi. D’altra parte, le esperienze delle reggenze degli ultimi anni (che hanno interessato gran parte delle nostre scuole, con aggregazioni di istituti diversi e per un numero complessivo di studenti parecchio superiore ai 500-900 previsti dalle disposizioni per l’autonomia), prefigurano situazioni generalizzate di un modello scolastico con numeri molto oltre la soglia massima indicata.

Queste sono, al riguardo, le disposizioni e le linee di tendenza con le quali dobbiamo fare i conti.

Tra l’altro, gli interrogativi, come si sa, non riguardano tanto il numero degli allievi, quanto il livello di complessità collegato, nella scuola di base, alle verticalizzazioni e al numero dei plessi coinvolti, e, negli istituti del secondo ciclo, alla presenza di indirizzi afferenti a settori diversi e al numero di scuole aggregate.

In ogni caso, i problemi si moltiplicheranno e richiederanno di fare i conti con un modello organizzativo che non può essere più uguale a quello di adesso, anche perché nuove emergenze e nuove questioni sono all’ordine del giorno. E che si aggiungono alle difficoltà organizzative e didattiche derivanti da problemi che ci trasciniamo da qualche decennio (tra tutte, il fatto di una scuola diventata di massa che funziona ancora con un modello per molti versi gentiliano.

Il quadro si fa ancora più complesso ove si considerino le nuove consapevolezze, urgenze e attese maturate in questi anni.

Mi riferisco all’affermazione, sempre più evidente dei principi di trasparenza, responsabilità, rendicontazione e controllo e della necessità di una nuova idea di governance interna; ma anche all’esigenza, di una offerta formativa territoriale coordinata, integrata e partecipata.

Ma preoccupa anche – e forse soprattutto – il fatto che la scuola è sempre meno fattore di uguaglianza, di emancipazione e di mobilità sociale, anche a motivo di una formazione degli studenti sempre più povera e inadeguata.

È da questo insieme di trasformazioni, problemi, aspettative che nasce il bisogno e la necessità di ripensare l’identikit del dirigente scolastico (ds) come figura chiave e soggetto motore delle necessarie innovazioni.

Nessuno può ovviamente illudersi che questo ripensamento del profilo possa nascere da impeto missionario o disponibilità soggettiva e buona volontà.

Ciò premesso, si tratta di capire qual è la parte che il mondo della scuola può giocare su quest’insieme di questioni e, per quanto riguarda la funzione dirigente in questa fase, quali sono le linee di riflessione per un aggiornamento del profilo ds.

Dirigente di una istituzione della Repubblica

A quest’ultimo proposito, penso che, mai come in questo momento, l’offuscarsi delle ragioni sociali della scuola facciano emergere un primo tratto volto a caratterizzare il lavoro e l’impegno del ds: quello cioè di dirigente di una istituzione della Repubblica, che assuma a riferimento un’idea di scuola come strumento e presidio di uguaglianza delle opportunità e di equità sui temi dell’istruzione e della formazione.

E quindi figura di snodo tra le esigenze e i bisogni del territorio, che egli condivide e rappresenta, e il disegno di una scuola e di una società coerenti con la “visione” della nostra Costituzione.

In quest’ottica dovrebbe essere riletto l’autonomo compito della “gestione unitaria” dell’Istituto (D.Lvo 165, art. 25) che il ds è tenuto ad assicurare.

Per evidenziare come, attraverso di esso, si debba tendere sia a contrastare, a tutti i livelli – ma non in modo isolato – la mala scuola che si alimenta di disfunzioni e di prestazioni professionali insoddisfacenti; sia a valorizzare / promuovere, contestualmente, professionalità competenti e motivate.

Quello che qui, della funzione ds, si vuole riportare in primo piano è il suo intreccio con la ragione sociale del fare scuola e quindi la specifica attenzione, che ne dovrebbe derivare, a ridare centralità alla scuola come luogo di apprendimenti e relazioni sensate.

È questo, penso, un secondo tratto da enfatizzare nella ricerca di un nuovo “corso” per la funzione ds.

Il problema qui è come fare, dal momento che le “distrazioni” e le emergenze sono diventate le costanti di questa professione.

Per una leadership inclusiva “centrata sull’apprendimento”

La soluzione del problema non penso comunque che vada ricercata in nuovi improbabili “poteri” per il DS.

C’è in primo luogo un sistema complessivo da resettare.

Ma una attenzione non occasionale o improvvisata alle tematiche organizzative – ancorate ad una idea di scuola più moderna e partecipata e a forme di governo interno e di responsabilità più precise e meglio distribuite – può forse aiutare a ridare senso e smalto ad una attività sempre più difficile e complicata.

Tra queste tematiche, la più interessante e promettente mi sembra quella di una leadership da ripensare in termini di più coerente funzionalità ai temi della complessità.

Stimolanti suggerimenti al riguardo vengono, come è noto, dalla ricerca internazionale.

Tra le elaborazioni più recenti, quella più degna di attenzione mi sembra la teoria della “Leadership (L.) centrata sull’apprendimento” che si caratterizza per alcuni aspetti in parte nuovi.

Il primo è che, rispetto alla teoria ora prevalente di” leadership” (detta, “trasformazionale”: ma io non ne ho colpa), che pone l’accento sulla costruzione della ‘visione’ e sulla capacità di favorire l’impegno delle persone), la “L. centrata sull’apprendimento” non ruota più sul leader carismatico.

In altri termini, la L. “non è concepita come un tratto della personalità di un individuo”[1] e poggia soprattutto sulla condivisione del governo interno all’organizzazione. Si tratta pertanto di una leadership distribuita, e quindi plurale e inclusiva, ‘centrata’ sulle questioni dell’apprendere per formarsi e “crescere”.

Secondo aspetto: la centratura sull’apprendimento, riguarda, allo stesso modo e contestualmente, gli alunni, gli adulti (ds, insegnanti) e la scuola tutta, vista come learning organizzation.

DS come promotore di leadership condivisa

Messa in questi termini, la L. non è questione o tema che interessa quindi esclusivamente la Dirigenza scolastica (e le associazioni o organizzazioni di riferimento). Essa riguarda – dovrebbe riguardare – anche il mondo dei docenti (e quindi le loro associazioni professionali e organizzazioni sindacali) e la scuola in generale.

E ciò anche a motivo delle possibili relazioni con la ricerca di nuove e più efficaci forme di governo interno (e quindi con la riforma degli OOCC).

In questa visione, è comunque proprio del capo di istituto sviluppare prioritariamente capacità di leadership, imparando – attraverso percorsi di decisioni meditate, azioni e riflessione –

· a distribuire o disseminare le responsabilità

· a rafforzare professionalmente gli altri, perché facciano del loro meglio

· a tenere l’apprendimento al centro di tutte le attività.

Potrebbe essere questo il terzo tratto di una Dirigenza Sscolastica impegnata a garantire una qualità organizzativa più coinvolgente ed efficace.

Molti a questo punto sono gli interrogativi che vengono fuori.

Consideriamo quelli di più evidente problematicità.

Quello più immediato riguarda la fattibilità di un’idea di questo tipo nella situazione data.

Un secondo, non meno impegnativo, riguarda il rapporto di questa forma di L., con gli autonomi poteri del ds, di cui all’art. 25 del D.Lvo 165, che corrono il rischio di essere messi in discussione.

Il DS tra leadership e compiti di direzione

Senza dubbio, su quest’ultimo interrogativo ci vorrebbero analisi e approfondimenti ad hoc e una cultura giuridica più attrezzata di quella di chi scrive, per capirne possibilità, rischi, eventuali vie d’uscita.

Comunque, quella di raccordi sensati tra – da una parte – compiti di direzione e responsabilità prefigurate nella normativa vigente e – dall’altra – forme di L. come quella prospettata, è una ipotesi di lavoro che, opportunamente circoscritta, potrebbe essere tentata sperimentalmente con buone probabilità di riuscita. Anche perché non partiamo da zero.

Condizione prima però è che direzione e gestione siano vissute dal DS con il giusto equilibro e la necessaria autorevolezza che da sempre poggiano – anche se non in toto – su preparazione e competenza.

E’ con riferimento a questa idea di L. che un quarto tratto di un più caratterizzato profilo ds potrebbe essere individuato in un ‘agire professionale volto a ricercare un equilibrio tra due dimensioni tra loro apparentemente divaricate’: direzione, attraverso poteri autonomi, e leadership distribuita, “centrata sull’apprendimento”.

Gli autonomi ed esclusivi compiti – rispetto all’adeguatezza del servizio, alle sue priorità (equità e livelli essenziali di prestazione e di comptetenze) e ai suoi risultati – vanno visti, in questa ottica, come l’altra faccia della L. di cui il ds è soggetto motore.

Anche sulle condizioni di fattibilità andrebbero condotti approfondimenti e prodotte sperimentazioni. Si tratta comunque di una sfida. Che può forse valere la pena di prendere in considerazione.

Se questa può essere l’ottica, allora la domanda diventa: come dare gambe a questa visione della L. , nonostante siano ancora aperte questioni cruciali, come la progressione di carriera dei docenti e un riconoscimento formale delle figure di funzionamento e di presidio.

Per una risposta positiva, i ragionamenti dovrebbero prendere in considerazione le esperienze più avanzate di utilizzo sia delle Funzioni Strumentali, viste come figure di presidio di aree strategiche degli istituti, che delle figure di coordinamento e di collaborazione gestionale (i due collaboratori, il DSGA).

E dovrebbero – i ragionamenti – considerare altresì le strategie del ds volte a socializzare e condividere una visione comune di L. e interrogarsi sulla consistenza quantitativa e qualitativa del team coinvolto.

Ritengo infatti che se la L. non ha la consistenza di una “massa critica” – capace cioè di incidere in modo efficace e duraturo – il senso dell’operazione approderebbe a poco e comunque produrrebbe cambiamenti apparenti.

Ma condizioni importanti per una utile sperimentazione al riguardo dovrebbero essere considerate anche, ovviamente,

– L’uso prioritario del fondo di istituto – e di altre eventuali risorse ad hoc – per riconoscere l’impegno e i risultati di quanti sono impegnati nella leadeship di istituto

– La rendicontazione su azioni e risultati della L..

L’”esserci” come presupposto

Il riferimento infine alle questioni del dimensionamento – e al suo elevamento – da cui siamo partiti, ci rende inoltre avverti del fatto che numeri troppo elevati e una complessità di difficile governo – per numero di plessi e pluralità di sedi – possono realisticamente essere di ostacolo ad una leadership efficace.

Se non altro perchè una leadership come quella prima configurata, per dare frutti, necessita di un dirigente ‘che ci sia’, e come presenza fisica e come ascolto attivo e intelligenza vigile: tratto questo, quello dell’”esserci”, preliminare, penso, di un profilo ds funzionale ad una scuola che punti sul miglioramento continuo.

Perciò i numeri contano. E se la soglia si sposta troppo in là (per esempio, oltre i 1200-1300 alunni e preveda più di 3 sedi lontane tra di loro), il rischio vero è che risulti alla fine molto difficile che i tratti richiamati come importanti in un nuovo profilo ds possano considerarsi credibili. A meno che non pensiano al ds come a un superman.

E forse qualche collega ci pensa e si sente. Ma non credo siano tanti[2].

[1] V. Peter Earley, “Lo sviluppo di leader con capacità di leadership in ambito educativo e centrati sull’apprendimento”, in Leadership educativa e autonomia scolastica (a cura di G. Domenici – G. Moretti)), Armando editore, 2011

[2] L’intervento è tratto dall’articolo: Il profilo del Dirigente Scolastico tra emergenze e nuove
complessità, in fase di pubblicazione in “Rivista dell’istruzione”, n. 2, marzo-aprile 2012,
Maggioli, Rimini (RN).,

da ScuolaOggi 14.03.12

"Quei toni non aiutano", di Pietro Spataro

Con le battute di ieri Elsa Fornero dimostra di aver perduto la sobrietà che Monti voleva fosse la cifra del suo governo. Con le offese però non si fanno accordi, semmai si alimentano tensioni. Quelle frasi infelici sono il segno di una difficoltà politica e tradiscono un nervosismo che un ministro dovrebbe saper controllare. La politica è capacità di mediazione e ostinata ricerca delle soluzioni. La sensazione diffusa invece è che siamo finiti in una empasse. Eppure l’accordo con sindacati e imprese è indispensabile. Ed è anche possibile. Senza di esso non solo non ci sarà decisione che tenga,ma il «patto sociale,» che resta l’unica chiave per la ricostruzione, può subire un colpo pesante. Alcuni elementi, per fortuna, dimostrano che la porta non è chiusa. Ma occorrono chiare scelte di merito e di stile che consentano di spalancarla. Se infatti è positivo prevedere una tassazione maggiore per i contratti a termine, tuttavia il piano Fornero presenta fragilità che rischiano di aumentare il disagio sociale. Bisogna sapere che ci sono lavoratori che, senza più la «mobilità », resteranno privi di sostegno e di pensione. Che la protezione sociale non può essere preclusa ai giovani finiti nel labirinto di Cococo e Cocopro. E che per i nuovi ammortizzatori servono molte risorse. La migliore tecnica per salvare la trattativa, quindi, è abbandonare sia le visioni ideologiche che i toni sprezzanti. Sulla vita e sui diritti delle persone non si può giocare a braccio di ferro. Anche perché alla fine della disputa non vincerebbe nessuno.

L’Unità 14.03.12

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Lavoro, Fornero sfida i sindacati “Senza sì, niente paccata di miliardi”, di VALENTINA CONTE

Il governo non è disposto a mettere una «paccata di miliardi» per finanziare gli ammortizzatori sociali, se i sindacati opporranno un “no” alla riforma del lavoro nel suo complesso. Si inaspriscono i toni del confronto ed è scontro aperto tra il ministro del Lavoro e le parti sociali. «Vecchi atteggiamenti di pressione per ottenere quello che si vuole. Di quali risorse parliamo, visto che la cifra non è mai stata indicata?», reagisce Camusso (Cgil). «Il governo deve stare attento perché, dopo la vicenda delle pensioni, il tavolo può saltare», rincara Bonanni (Cisl). «Il problema sta tutto nella volontà del governo di mettere a disposizione le risorse necessarie», puntualizza Angeletti (Uil). Ma la Fornero insiste: «Risulterebbe molto difficile capire il no dei sindacati» a una riforma «buona». «Confido nell´accordo e lavoro per questo», rilancia. Ma intanto artigiani e commercianti minacciano di non firmare, «se non ci saranno modifiche sostanziali», dice Marco Venturi, presidente di Rete Imprese Italia, perché «l´aggravio dei costi è inaccettabile» (l´aumento dei contributi a carico anche delle piccole imprese per finanziare il nuovo ammortizzatore, l´Aspi).
Accordo in salita, dunque. Il ministro rimarca la linea del governo di chiudere «molto in fretta» (entro 10 giorni), di «smantellare» protezioni e «privilegi», di prevedere «maggiore facilità in entrata e in uscita». Poi sfida i sindacati. «È chiaro che se c´è un accordo, io mi impegno a trovare risorse più adeguate e a fare in modo che il meccanismo degli ammortizzatori funzioni bene», premette la Fornero. Ma «se uno comincia con il dire no, perché dovremmo mettere lì una paccata di miliardi e poi dire: voi diteci di sì? No, non si fa così». Prima l´accordo, poi i soldi, sembra intendere il ministro, piuttosto risentita: «Mi sono impegnata a non togliere le risorse dall´assistenza. Avrei voluto sentire una piccola parola di apprezzamento. Neanche mezza». Posizioni che scatenano una bufera politica. «Nessuno mi ha riferito di aver visto una “paccata di miliardi”. Forse si sono dimenticati di dirmelo», ironizza Bersani (Pd). «La battuta del ministro è grossolana e offende in maniera pesante i lavoratori che pagano la crisi», incalza Di Pietro (Ivd).

La Repubblica 14.03.12

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Lavoro, Fornero sfida i sindacati:”Senza sì niente paccata di miliardi Stop ai privilegi e uscite più facili”, di Roberto Giovannini

È scontro aperto sulla riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali. Il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, conferma i tempi, rimarca la linea del governo di andare avanti e chiudere «molto in fretta», di smantellare i «privilegi» prevedendo «più facilità in uscita», e sfida il «sindacato italiano»: «È chiaro che se uno comincia a dire no, perchè dovremmo mettere una paccata di miliardi e dire ’poi voi ci dite di sì? Non si fa così».

Replica, ironizzando, il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani: «Non ero al tavolo» con il governo, «però nessuno mi ha riferito di aver visto una paccata di miliardi. Forse si sono dimenticati di dirmelo». Del resto è lo stesso vice-ministro per l’Economia, Vittorio Grilli a spiegare che «non c’è alcun tesoretto» e «le risorse sono scarse» ma che la riforma è essenziale per la competitività. La riforma – dice anche la Fornero – è «buona» e per questo il ministro dice che le «risulterebbe molto difficile capire il no» dei sindacati.

Ma i sindacati, questa volta anche la Cisl, e le imprese, a partire dalle piccole, ribattono e avvertono: o si cambia o salta il tavolo. Mentre la Cgil respinge «le pressioni»: sarà il merito – replica – a decidere.

Il nodo, ora, prima ancora dell’articolo 18 è il nuovo sistema di ammortizzatori sul tavolo della trattativa, che anticipa lo stop alla mobilità riducendone la durata (a 12-18 mesi dal massimo di 36-48 mesi oggi), e che alle organizzazioni sindacali non piace perchè – dicono – non allarga la platea e rischia di lasciare per strada molti lavoratori per l’effetto combinato con l’innalzamento dell’età di pensione. Alle imprese, quelle piccole, non piace perchè ne aumenta i costi, con l’aggravio sui contributi; alle grandi perchè devono fare i conti con le ristrutturazioni aziendali.

La strada è stretta. La tensione è alta. Se il governo non modifica la proposta sulla mobilità il tavolo salta, «deve stare attento», è il messaggio che manda a chiare lettere il leader della Cisl, Raffaele Bonanni: e, aggiunge, «il governo si prende la responsabilità di una rottura sociale che noi non vogliamo». Per il leader della Cgil, Susanna Camusso, «siamo di nuovo di fronte», dopo le pensioni, «a una riforma che non allarga le tutele a tutti ma anzi riduce quelle esistenti. Se non ci saranno le risposte e le risorse decideremo cosa fare». Per il numero uno della Uil, Luigi Angeletti, «si può arrivare a una conclusione. Il problema sta tutto nella volontà del Governo di mettere a disposizione le risorse necessarie, così come accade negli altri Paesi europei».

Di traverso gli artigiani e i commercianti: «L’aggravio di costi previsto dalla riforma del lavoro presentata dal governo è inaccettabile. Se non ci saranno modifiche sostanziali, non firmeremo l’accordo», è la linea dura indicata dal presidente di Rete Imprese Italia, Marco Venturi.

Ma il ministro insiste sulla bontà della riforma che si basa sui principi dell’ «inclusione e universalità»: «Confido nell’accordo e lavoro per questo», assicura. E sulle risorse, ripete: «Mi sono impegnata a che non vengano tolte dall’assistenza. Mi sembra sia un buon impegno. Avrei voluto sentire una piccola parola di apprezzamento». In un mercato del lavoro dinamico «c’è maggiore facilità di entrata e un pò più di facilità di uscita». Perchè la parola chiave è «inclusione invece di segmentazione», e questo «significa smantellare le protezioni che si sono costituite, che spesso sono state motivate da buoni principi ma che hanno implicazioni di conservatorismo molto forte fino alla difesa dei privilegi». L’articolo 18 è sul tavolo.

La Stampa 14.03.12

“Quei toni non aiutano”, di Pietro Spataro

Con le battute di ieri Elsa Fornero dimostra di aver perduto la sobrietà che Monti voleva fosse la cifra del suo governo. Con le offese però non si fanno accordi, semmai si alimentano tensioni. Quelle frasi infelici sono il segno di una difficoltà politica e tradiscono un nervosismo che un ministro dovrebbe saper controllare. La politica è capacità di mediazione e ostinata ricerca delle soluzioni. La sensazione diffusa invece è che siamo finiti in una empasse. Eppure l’accordo con sindacati e imprese è indispensabile. Ed è anche possibile. Senza di esso non solo non ci sarà decisione che tenga,ma il «patto sociale,» che resta l’unica chiave per la ricostruzione, può subire un colpo pesante. Alcuni elementi, per fortuna, dimostrano che la porta non è chiusa. Ma occorrono chiare scelte di merito e di stile che consentano di spalancarla. Se infatti è positivo prevedere una tassazione maggiore per i contratti a termine, tuttavia il piano Fornero presenta fragilità che rischiano di aumentare il disagio sociale. Bisogna sapere che ci sono lavoratori che, senza più la «mobilità », resteranno privi di sostegno e di pensione. Che la protezione sociale non può essere preclusa ai giovani finiti nel labirinto di Cococo e Cocopro. E che per i nuovi ammortizzatori servono molte risorse. La migliore tecnica per salvare la trattativa, quindi, è abbandonare sia le visioni ideologiche che i toni sprezzanti. Sulla vita e sui diritti delle persone non si può giocare a braccio di ferro. Anche perché alla fine della disputa non vincerebbe nessuno.

L’Unità 14.03.12

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Lavoro, Fornero sfida i sindacati “Senza sì, niente paccata di miliardi”, di VALENTINA CONTE

Il governo non è disposto a mettere una «paccata di miliardi» per finanziare gli ammortizzatori sociali, se i sindacati opporranno un “no” alla riforma del lavoro nel suo complesso. Si inaspriscono i toni del confronto ed è scontro aperto tra il ministro del Lavoro e le parti sociali. «Vecchi atteggiamenti di pressione per ottenere quello che si vuole. Di quali risorse parliamo, visto che la cifra non è mai stata indicata?», reagisce Camusso (Cgil). «Il governo deve stare attento perché, dopo la vicenda delle pensioni, il tavolo può saltare», rincara Bonanni (Cisl). «Il problema sta tutto nella volontà del governo di mettere a disposizione le risorse necessarie», puntualizza Angeletti (Uil). Ma la Fornero insiste: «Risulterebbe molto difficile capire il no dei sindacati» a una riforma «buona». «Confido nell´accordo e lavoro per questo», rilancia. Ma intanto artigiani e commercianti minacciano di non firmare, «se non ci saranno modifiche sostanziali», dice Marco Venturi, presidente di Rete Imprese Italia, perché «l´aggravio dei costi è inaccettabile» (l´aumento dei contributi a carico anche delle piccole imprese per finanziare il nuovo ammortizzatore, l´Aspi).
Accordo in salita, dunque. Il ministro rimarca la linea del governo di chiudere «molto in fretta» (entro 10 giorni), di «smantellare» protezioni e «privilegi», di prevedere «maggiore facilità in entrata e in uscita». Poi sfida i sindacati. «È chiaro che se c´è un accordo, io mi impegno a trovare risorse più adeguate e a fare in modo che il meccanismo degli ammortizzatori funzioni bene», premette la Fornero. Ma «se uno comincia con il dire no, perché dovremmo mettere lì una paccata di miliardi e poi dire: voi diteci di sì? No, non si fa così». Prima l´accordo, poi i soldi, sembra intendere il ministro, piuttosto risentita: «Mi sono impegnata a non togliere le risorse dall´assistenza. Avrei voluto sentire una piccola parola di apprezzamento. Neanche mezza». Posizioni che scatenano una bufera politica. «Nessuno mi ha riferito di aver visto una “paccata di miliardi”. Forse si sono dimenticati di dirmelo», ironizza Bersani (Pd). «La battuta del ministro è grossolana e offende in maniera pesante i lavoratori che pagano la crisi», incalza Di Pietro (Ivd).

La Repubblica 14.03.12

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Lavoro, Fornero sfida i sindacati:”Senza sì niente paccata di miliardi Stop ai privilegi e uscite più facili”, di Roberto Giovannini

È scontro aperto sulla riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali. Il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, conferma i tempi, rimarca la linea del governo di andare avanti e chiudere «molto in fretta», di smantellare i «privilegi» prevedendo «più facilità in uscita», e sfida il «sindacato italiano»: «È chiaro che se uno comincia a dire no, perchè dovremmo mettere una paccata di miliardi e dire ’poi voi ci dite di sì? Non si fa così».

Replica, ironizzando, il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani: «Non ero al tavolo» con il governo, «però nessuno mi ha riferito di aver visto una paccata di miliardi. Forse si sono dimenticati di dirmelo». Del resto è lo stesso vice-ministro per l’Economia, Vittorio Grilli a spiegare che «non c’è alcun tesoretto» e «le risorse sono scarse» ma che la riforma è essenziale per la competitività. La riforma – dice anche la Fornero – è «buona» e per questo il ministro dice che le «risulterebbe molto difficile capire il no» dei sindacati.

Ma i sindacati, questa volta anche la Cisl, e le imprese, a partire dalle piccole, ribattono e avvertono: o si cambia o salta il tavolo. Mentre la Cgil respinge «le pressioni»: sarà il merito – replica – a decidere.

Il nodo, ora, prima ancora dell’articolo 18 è il nuovo sistema di ammortizzatori sul tavolo della trattativa, che anticipa lo stop alla mobilità riducendone la durata (a 12-18 mesi dal massimo di 36-48 mesi oggi), e che alle organizzazioni sindacali non piace perchè – dicono – non allarga la platea e rischia di lasciare per strada molti lavoratori per l’effetto combinato con l’innalzamento dell’età di pensione. Alle imprese, quelle piccole, non piace perchè ne aumenta i costi, con l’aggravio sui contributi; alle grandi perchè devono fare i conti con le ristrutturazioni aziendali.

La strada è stretta. La tensione è alta. Se il governo non modifica la proposta sulla mobilità il tavolo salta, «deve stare attento», è il messaggio che manda a chiare lettere il leader della Cisl, Raffaele Bonanni: e, aggiunge, «il governo si prende la responsabilità di una rottura sociale che noi non vogliamo». Per il leader della Cgil, Susanna Camusso, «siamo di nuovo di fronte», dopo le pensioni, «a una riforma che non allarga le tutele a tutti ma anzi riduce quelle esistenti. Se non ci saranno le risposte e le risorse decideremo cosa fare». Per il numero uno della Uil, Luigi Angeletti, «si può arrivare a una conclusione. Il problema sta tutto nella volontà del Governo di mettere a disposizione le risorse necessarie, così come accade negli altri Paesi europei».

Di traverso gli artigiani e i commercianti: «L’aggravio di costi previsto dalla riforma del lavoro presentata dal governo è inaccettabile. Se non ci saranno modifiche sostanziali, non firmeremo l’accordo», è la linea dura indicata dal presidente di Rete Imprese Italia, Marco Venturi.

Ma il ministro insiste sulla bontà della riforma che si basa sui principi dell’ «inclusione e universalità»: «Confido nell’accordo e lavoro per questo», assicura. E sulle risorse, ripete: «Mi sono impegnata a che non vengano tolte dall’assistenza. Mi sembra sia un buon impegno. Avrei voluto sentire una piccola parola di apprezzamento». In un mercato del lavoro dinamico «c’è maggiore facilità di entrata e un pò più di facilità di uscita». Perchè la parola chiave è «inclusione invece di segmentazione», e questo «significa smantellare le protezioni che si sono costituite, che spesso sono state motivate da buoni principi ma che hanno implicazioni di conservatorismo molto forte fino alla difesa dei privilegi». L’articolo 18 è sul tavolo.

La Stampa 14.03.12