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"La passione per i numeri e quella per le leggende metropolitane", da Tuttoscuola

Prima che la questione dei 41 mila docenti che non insegnano potesse diventare una mina vagante per il Miur oppure una leggenda metropolitana dura da contrastare, il ministero è corso ai ripari con un comunicato stampa, accompagnato da tabelle di approfondimento, per chiarire in dettaglio (come aveva suggerito questa mattina anche Tuttoscuola) la composizione di quel numero straordinario e, per certi aspetti, piuttosto sorprendente.

Va detto che quel numero era apparso sul Corriere della Sera in una intervista della dott.ssa Stellacci, neo Capo dipartimento per l’istruzione al Miur.

Questo il testo del comunicato stampa in linea, con tempestività quanto mai opportuna, sul sito del Miur (www.istruzione.it).

“Quanti sono in Italia gli insegnanti pagati dallo Stato per non fare lezione? Esistono decine di migliaia di “imboscati” nella nostra Amministrazione? Il Miur desidera rassicurare tutti i cittadini: si tratta di una leggenda metropolitana. Forse nata dalla difficoltà di dover distinguere con tirannica sintesi tra “cattedre” (posto in organico) e “persone”: nella stragrande maggioranza dei casi le due cose coincidono. Talvolta però una singola cattedra può avere più di un docente che, a tempo parziale, presta il proprio servizio insieme ad altri colleghi.

La cifra di 41.503 docenti citata da alcuni organi di stampa deriva dunque da un’operazione di sottrazione tra “pere” (numero degli insegnanti) e “mele” (numero dei posti). Cioè dalla differenza tra il numero dei docenti che risultano in servizio, 765.017, e il numero dei posti in organico complessivo (comuni e di sostegno) pari a 723.514. Ma come abbiamo tutti imparato sin dalle elementari, “mele” e “pere” non possono sommarsi o sottrarsi.

Da questa impropria sottrazione deriva l’oramai leggendario numero di 41.503. A sua volta questo numero contiene due diverse tipologie: chi effettivamente insegna e chi svolge altre attività.

A questo punto siamo in grado di rassicurare di nuovo tutti i cittadini e gli organi di stampa: questi ultimi sono meno di diecimila.

Nel dettaglio, e per gli amanti della statistica della PA: quasi il 50% di questi diecimila è composto da insegnanti non più idonei all’insegnamento in classe. Questi sono infatti ben 4.502, e tra i motivi di inidoneità ci sono purtroppo anche malattie professionali, per esempio alle corde vocali. Si tratta però di lavoratori che, pur non insegnando più, sono comunque collocati professionalmente nel Ministero, anche se non più in classe. Abbiamo poi addirittura un certo numero di insegnanti non più retribuiti da questa amministrazione, tra cui 400 dottorandi di ricerca – che rappresentano un investimento in formazione professionale – e circa mille docenti comandati presso enti, università o organizzazioni politiche statali o regionali. Così come non percepiscono busta paga dall’amministrazione i circa 450 insegnanti che ricoprono attualmente un mandato politico o amministrativo. A carico del Ministero ci sono poi 300 insegnanti comandati per l’autonomia – cioè esperti a servizio dell’intero sistema – e circa mille docenti che insegnano all’estero. A questi si aggiungono infine i “famigerati” insegnanti che usufruiscono in tutto il territorio nazionale del distacco sindacale: sono un po’ meno di mille, dunque una cifra assolutamente congrua con i numeri di questa amministrazione, che peraltro assicura l’esercizio di un diritto costituzionale del personale ad organizzarsi in sindacato.

I docenti che esercitano il loro mestiere didattico senza che ad ognuno di essi corrisponda una singola cattedra sono quindi circa 30mila. Ciò avviene perché sono a tempo parziale, con un orario di cattedra inferiore a 18 ore settimanali. Possono esserci, ad esempio, fino a 3 docenti che “coprono” una cattedra di 18 ore e che, quindi, prestano servizio per 6 ore o docenti che coprono ore di insegnamento lasciate libere da titolari di part-time. In questi casi ci vogliono dunque più docenti per comporre una cattedra, cioè uno stipendio.

Questo è quanto dovuto per amore di chiarezza”.

da Tuttoscuola 14.03.12

“La passione per i numeri e quella per le leggende metropolitane”, da Tuttoscuola

Prima che la questione dei 41 mila docenti che non insegnano potesse diventare una mina vagante per il Miur oppure una leggenda metropolitana dura da contrastare, il ministero è corso ai ripari con un comunicato stampa, accompagnato da tabelle di approfondimento, per chiarire in dettaglio (come aveva suggerito questa mattina anche Tuttoscuola) la composizione di quel numero straordinario e, per certi aspetti, piuttosto sorprendente.

Va detto che quel numero era apparso sul Corriere della Sera in una intervista della dott.ssa Stellacci, neo Capo dipartimento per l’istruzione al Miur.

Questo il testo del comunicato stampa in linea, con tempestività quanto mai opportuna, sul sito del Miur (www.istruzione.it).

“Quanti sono in Italia gli insegnanti pagati dallo Stato per non fare lezione? Esistono decine di migliaia di “imboscati” nella nostra Amministrazione? Il Miur desidera rassicurare tutti i cittadini: si tratta di una leggenda metropolitana. Forse nata dalla difficoltà di dover distinguere con tirannica sintesi tra “cattedre” (posto in organico) e “persone”: nella stragrande maggioranza dei casi le due cose coincidono. Talvolta però una singola cattedra può avere più di un docente che, a tempo parziale, presta il proprio servizio insieme ad altri colleghi.

La cifra di 41.503 docenti citata da alcuni organi di stampa deriva dunque da un’operazione di sottrazione tra “pere” (numero degli insegnanti) e “mele” (numero dei posti). Cioè dalla differenza tra il numero dei docenti che risultano in servizio, 765.017, e il numero dei posti in organico complessivo (comuni e di sostegno) pari a 723.514. Ma come abbiamo tutti imparato sin dalle elementari, “mele” e “pere” non possono sommarsi o sottrarsi.

Da questa impropria sottrazione deriva l’oramai leggendario numero di 41.503. A sua volta questo numero contiene due diverse tipologie: chi effettivamente insegna e chi svolge altre attività.

A questo punto siamo in grado di rassicurare di nuovo tutti i cittadini e gli organi di stampa: questi ultimi sono meno di diecimila.

Nel dettaglio, e per gli amanti della statistica della PA: quasi il 50% di questi diecimila è composto da insegnanti non più idonei all’insegnamento in classe. Questi sono infatti ben 4.502, e tra i motivi di inidoneità ci sono purtroppo anche malattie professionali, per esempio alle corde vocali. Si tratta però di lavoratori che, pur non insegnando più, sono comunque collocati professionalmente nel Ministero, anche se non più in classe. Abbiamo poi addirittura un certo numero di insegnanti non più retribuiti da questa amministrazione, tra cui 400 dottorandi di ricerca – che rappresentano un investimento in formazione professionale – e circa mille docenti comandati presso enti, università o organizzazioni politiche statali o regionali. Così come non percepiscono busta paga dall’amministrazione i circa 450 insegnanti che ricoprono attualmente un mandato politico o amministrativo. A carico del Ministero ci sono poi 300 insegnanti comandati per l’autonomia – cioè esperti a servizio dell’intero sistema – e circa mille docenti che insegnano all’estero. A questi si aggiungono infine i “famigerati” insegnanti che usufruiscono in tutto il territorio nazionale del distacco sindacale: sono un po’ meno di mille, dunque una cifra assolutamente congrua con i numeri di questa amministrazione, che peraltro assicura l’esercizio di un diritto costituzionale del personale ad organizzarsi in sindacato.

I docenti che esercitano il loro mestiere didattico senza che ad ognuno di essi corrisponda una singola cattedra sono quindi circa 30mila. Ciò avviene perché sono a tempo parziale, con un orario di cattedra inferiore a 18 ore settimanali. Possono esserci, ad esempio, fino a 3 docenti che “coprono” una cattedra di 18 ore e che, quindi, prestano servizio per 6 ore o docenti che coprono ore di insegnamento lasciate libere da titolari di part-time. In questi casi ci vogliono dunque più docenti per comporre una cattedra, cioè uno stipendio.

Questo è quanto dovuto per amore di chiarezza”.

da Tuttoscuola 14.03.12

“La passione per i numeri e quella per le leggende metropolitane”, da Tuttoscuola

Prima che la questione dei 41 mila docenti che non insegnano potesse diventare una mina vagante per il Miur oppure una leggenda metropolitana dura da contrastare, il ministero è corso ai ripari con un comunicato stampa, accompagnato da tabelle di approfondimento, per chiarire in dettaglio (come aveva suggerito questa mattina anche Tuttoscuola) la composizione di quel numero straordinario e, per certi aspetti, piuttosto sorprendente.

Va detto che quel numero era apparso sul Corriere della Sera in una intervista della dott.ssa Stellacci, neo Capo dipartimento per l’istruzione al Miur.

Questo il testo del comunicato stampa in linea, con tempestività quanto mai opportuna, sul sito del Miur (www.istruzione.it).

“Quanti sono in Italia gli insegnanti pagati dallo Stato per non fare lezione? Esistono decine di migliaia di “imboscati” nella nostra Amministrazione? Il Miur desidera rassicurare tutti i cittadini: si tratta di una leggenda metropolitana. Forse nata dalla difficoltà di dover distinguere con tirannica sintesi tra “cattedre” (posto in organico) e “persone”: nella stragrande maggioranza dei casi le due cose coincidono. Talvolta però una singola cattedra può avere più di un docente che, a tempo parziale, presta il proprio servizio insieme ad altri colleghi.

La cifra di 41.503 docenti citata da alcuni organi di stampa deriva dunque da un’operazione di sottrazione tra “pere” (numero degli insegnanti) e “mele” (numero dei posti). Cioè dalla differenza tra il numero dei docenti che risultano in servizio, 765.017, e il numero dei posti in organico complessivo (comuni e di sostegno) pari a 723.514. Ma come abbiamo tutti imparato sin dalle elementari, “mele” e “pere” non possono sommarsi o sottrarsi.

Da questa impropria sottrazione deriva l’oramai leggendario numero di 41.503. A sua volta questo numero contiene due diverse tipologie: chi effettivamente insegna e chi svolge altre attività.

A questo punto siamo in grado di rassicurare di nuovo tutti i cittadini e gli organi di stampa: questi ultimi sono meno di diecimila.

Nel dettaglio, e per gli amanti della statistica della PA: quasi il 50% di questi diecimila è composto da insegnanti non più idonei all’insegnamento in classe. Questi sono infatti ben 4.502, e tra i motivi di inidoneità ci sono purtroppo anche malattie professionali, per esempio alle corde vocali. Si tratta però di lavoratori che, pur non insegnando più, sono comunque collocati professionalmente nel Ministero, anche se non più in classe. Abbiamo poi addirittura un certo numero di insegnanti non più retribuiti da questa amministrazione, tra cui 400 dottorandi di ricerca – che rappresentano un investimento in formazione professionale – e circa mille docenti comandati presso enti, università o organizzazioni politiche statali o regionali. Così come non percepiscono busta paga dall’amministrazione i circa 450 insegnanti che ricoprono attualmente un mandato politico o amministrativo. A carico del Ministero ci sono poi 300 insegnanti comandati per l’autonomia – cioè esperti a servizio dell’intero sistema – e circa mille docenti che insegnano all’estero. A questi si aggiungono infine i “famigerati” insegnanti che usufruiscono in tutto il territorio nazionale del distacco sindacale: sono un po’ meno di mille, dunque una cifra assolutamente congrua con i numeri di questa amministrazione, che peraltro assicura l’esercizio di un diritto costituzionale del personale ad organizzarsi in sindacato.

I docenti che esercitano il loro mestiere didattico senza che ad ognuno di essi corrisponda una singola cattedra sono quindi circa 30mila. Ciò avviene perché sono a tempo parziale, con un orario di cattedra inferiore a 18 ore settimanali. Possono esserci, ad esempio, fino a 3 docenti che “coprono” una cattedra di 18 ore e che, quindi, prestano servizio per 6 ore o docenti che coprono ore di insegnamento lasciate libere da titolari di part-time. In questi casi ci vogliono dunque più docenti per comporre una cattedra, cioè uno stipendio.

Questo è quanto dovuto per amore di chiarezza”.

da Tuttoscuola 14.03.12

"E sulle frequenze spunta l'ipotesi dell'asta low-cost", di Luca Landò

Dai regali ai saldi. È questa l`ipotesi che circola da qualche giorno a proposito del rebus frequenze e che potrebbe finire con la più celebre delle arti politiche: il compromesso. La soluzione, stando a voci sempre più insistenti, sarebbe sì la vendita di quel bene pubblico chiamato etere, ma una vendita a prezzi scontati. E, tanto per non sbagliare, una vendita a tutto vantaggio di Mediaset, Rai e probabilmente Ti Media, cioé La7.
La svendita, perché di questo si tratta, sarebbe un passo avanti dal punto di vista dei principi, ma un passo indietro per le casse dello Stato. Secondo una nota di Mediobanca, infatti, la messa all`asta di quelle autostrade digitali potrebbe portare 1-1,5 miliardi di euro: quanto porterà la vendita scontata? E soprattutto, perché rinunciare a un`asta pubblica condotta a prezzi di mercato? Il sospetto, per non dire la certezza, sono le forti pressioni esercitate da Mediaset dopo la decisione di sospendere l`assegnazione gratuita delle frequenze. Come è noto, lo scorso 20 gennaio il governo congelò per tre mesi un decreto dell`ex ministro Romani secondo il quale le frequenze liberate nel passaggio dall`analogico al digitale (sei per un totale di 30-36 canali) non sarebbero state vendute a chi offriva di più (come avvenuto in Francia, Canada e Germania) ma regalate a chi aveva più risorse e più dipendenti. Non un`asta pubblica, insomma, ma una gara di bellezza tagliata su misura per due soli concorrenti: Rai e Mediaset.

Che l`esito fosse noto, lo dimostrano alcune dichiarazioni che vale la pena ricordare. Lo scorso 8 dicembre, prima che il beauty contest venisse congelato, Berlusconi parlando con i giornalisti disse: «Temo che qualora ci fosse una gara sulle frequenze, questa potrebbe essere veramente disertata da molti», dichiarazione curiosa per chi da uomo di Stato si piccava di essere sempre molto attento ai conti pubblici. Il 22 gennaio il Giornale del fratello Paolo scriveva che, in caso di asta pubblica, Mediaset avrebbe meditato il ritiro dalla gara, confermando così tre cose: la prima che il decreto era stato ideato per fare un regalo ad aziendas (Mediaset e Rai); la seconda, che venendo meno il regalo veniva meno l`affare; la terza, più inquietante, che il decreto Romani, ministro dell`allora governo Berlusconi, favoriva di fatto un`azienda del premier Berlusconi.

Un caso? Ancora. Il 7 marzo, davanti alla commissione Bilancio della Camera e dopo aver incontrato personalmente Monti, il presidente Mediaset Fedele Confalonieri ha detto che se non ci sarà una ripresa del settore (leggi pubblicità) la sua azienda ricorrerà a tagli.

Affermazione drammatica da prendere con tutta la serietà del caso. Ma una domanda è d`obbligo: come impatta sulla raccolta pubblicitaria di Mediaset il venir meno di una frequenza (sei canali, lo ricordiamo) che sembrava ormai assegnata? È di questo che il presidente di Mediaset ha parlato con il presidente del Consiglio nell`incontro riservato del mattino? A pensare male ci si azzecca sempre, diceva Andreotti. E dopo il tavolo su Rai e giustizia fatto saltare da Alfano e la retromarcia dell`esecutivo sulla governance, i cattivi pensieri stanno proliferando. Bene ha fatto ieri Bersani a ribadire che «le frequenze tv non possono essere regalate» ma bisogna vigilare che la soluzione a cui sta lavorando il ministro delle Comunicazioni (la sospensione del beauty contest scade il 20 aprile) non stia nel chiamare vendita quello che è un mezzo regalo. Voci non confermate dicono che l`ipotesi di un`asta low-cost sarebbe giustificata dal fatto che le frequenze verranno assegnate solo fino al 2015 quando, come stabilito il mese scorso a Ginevra, dovranno venire impiegate per aumentare la banda larga della Ue. Argomento suggestivo ma poco convincente, ha detto ieri Vincenzo Vita che dal 2009 si batte per un`asta pubblica e trasparente. In un Paese dominato dalle tv e dal conflitto di interessi, siamo sicuri che fra tre anni le grandi reti saranno pronte a rimettere in discussione frequenze e business?

L’Unità 13.03.12

“E sulle frequenze spunta l’ipotesi dell’asta low-cost”, di Luca Landò

Dai regali ai saldi. È questa l`ipotesi che circola da qualche giorno a proposito del rebus frequenze e che potrebbe finire con la più celebre delle arti politiche: il compromesso. La soluzione, stando a voci sempre più insistenti, sarebbe sì la vendita di quel bene pubblico chiamato etere, ma una vendita a prezzi scontati. E, tanto per non sbagliare, una vendita a tutto vantaggio di Mediaset, Rai e probabilmente Ti Media, cioé La7.
La svendita, perché di questo si tratta, sarebbe un passo avanti dal punto di vista dei principi, ma un passo indietro per le casse dello Stato. Secondo una nota di Mediobanca, infatti, la messa all`asta di quelle autostrade digitali potrebbe portare 1-1,5 miliardi di euro: quanto porterà la vendita scontata? E soprattutto, perché rinunciare a un`asta pubblica condotta a prezzi di mercato? Il sospetto, per non dire la certezza, sono le forti pressioni esercitate da Mediaset dopo la decisione di sospendere l`assegnazione gratuita delle frequenze. Come è noto, lo scorso 20 gennaio il governo congelò per tre mesi un decreto dell`ex ministro Romani secondo il quale le frequenze liberate nel passaggio dall`analogico al digitale (sei per un totale di 30-36 canali) non sarebbero state vendute a chi offriva di più (come avvenuto in Francia, Canada e Germania) ma regalate a chi aveva più risorse e più dipendenti. Non un`asta pubblica, insomma, ma una gara di bellezza tagliata su misura per due soli concorrenti: Rai e Mediaset.

Che l`esito fosse noto, lo dimostrano alcune dichiarazioni che vale la pena ricordare. Lo scorso 8 dicembre, prima che il beauty contest venisse congelato, Berlusconi parlando con i giornalisti disse: «Temo che qualora ci fosse una gara sulle frequenze, questa potrebbe essere veramente disertata da molti», dichiarazione curiosa per chi da uomo di Stato si piccava di essere sempre molto attento ai conti pubblici. Il 22 gennaio il Giornale del fratello Paolo scriveva che, in caso di asta pubblica, Mediaset avrebbe meditato il ritiro dalla gara, confermando così tre cose: la prima che il decreto era stato ideato per fare un regalo ad aziendas (Mediaset e Rai); la seconda, che venendo meno il regalo veniva meno l`affare; la terza, più inquietante, che il decreto Romani, ministro dell`allora governo Berlusconi, favoriva di fatto un`azienda del premier Berlusconi.

Un caso? Ancora. Il 7 marzo, davanti alla commissione Bilancio della Camera e dopo aver incontrato personalmente Monti, il presidente Mediaset Fedele Confalonieri ha detto che se non ci sarà una ripresa del settore (leggi pubblicità) la sua azienda ricorrerà a tagli.

Affermazione drammatica da prendere con tutta la serietà del caso. Ma una domanda è d`obbligo: come impatta sulla raccolta pubblicitaria di Mediaset il venir meno di una frequenza (sei canali, lo ricordiamo) che sembrava ormai assegnata? È di questo che il presidente di Mediaset ha parlato con il presidente del Consiglio nell`incontro riservato del mattino? A pensare male ci si azzecca sempre, diceva Andreotti. E dopo il tavolo su Rai e giustizia fatto saltare da Alfano e la retromarcia dell`esecutivo sulla governance, i cattivi pensieri stanno proliferando. Bene ha fatto ieri Bersani a ribadire che «le frequenze tv non possono essere regalate» ma bisogna vigilare che la soluzione a cui sta lavorando il ministro delle Comunicazioni (la sospensione del beauty contest scade il 20 aprile) non stia nel chiamare vendita quello che è un mezzo regalo. Voci non confermate dicono che l`ipotesi di un`asta low-cost sarebbe giustificata dal fatto che le frequenze verranno assegnate solo fino al 2015 quando, come stabilito il mese scorso a Ginevra, dovranno venire impiegate per aumentare la banda larga della Ue. Argomento suggestivo ma poco convincente, ha detto ieri Vincenzo Vita che dal 2009 si batte per un`asta pubblica e trasparente. In un Paese dominato dalle tv e dal conflitto di interessi, siamo sicuri che fra tre anni le grandi reti saranno pronte a rimettere in discussione frequenze e business?

L’Unità 13.03.12

“E sulle frequenze spunta l’ipotesi dell’asta low-cost”, di Luca Landò

Dai regali ai saldi. È questa l`ipotesi che circola da qualche giorno a proposito del rebus frequenze e che potrebbe finire con la più celebre delle arti politiche: il compromesso. La soluzione, stando a voci sempre più insistenti, sarebbe sì la vendita di quel bene pubblico chiamato etere, ma una vendita a prezzi scontati. E, tanto per non sbagliare, una vendita a tutto vantaggio di Mediaset, Rai e probabilmente Ti Media, cioé La7.
La svendita, perché di questo si tratta, sarebbe un passo avanti dal punto di vista dei principi, ma un passo indietro per le casse dello Stato. Secondo una nota di Mediobanca, infatti, la messa all`asta di quelle autostrade digitali potrebbe portare 1-1,5 miliardi di euro: quanto porterà la vendita scontata? E soprattutto, perché rinunciare a un`asta pubblica condotta a prezzi di mercato? Il sospetto, per non dire la certezza, sono le forti pressioni esercitate da Mediaset dopo la decisione di sospendere l`assegnazione gratuita delle frequenze. Come è noto, lo scorso 20 gennaio il governo congelò per tre mesi un decreto dell`ex ministro Romani secondo il quale le frequenze liberate nel passaggio dall`analogico al digitale (sei per un totale di 30-36 canali) non sarebbero state vendute a chi offriva di più (come avvenuto in Francia, Canada e Germania) ma regalate a chi aveva più risorse e più dipendenti. Non un`asta pubblica, insomma, ma una gara di bellezza tagliata su misura per due soli concorrenti: Rai e Mediaset.

Che l`esito fosse noto, lo dimostrano alcune dichiarazioni che vale la pena ricordare. Lo scorso 8 dicembre, prima che il beauty contest venisse congelato, Berlusconi parlando con i giornalisti disse: «Temo che qualora ci fosse una gara sulle frequenze, questa potrebbe essere veramente disertata da molti», dichiarazione curiosa per chi da uomo di Stato si piccava di essere sempre molto attento ai conti pubblici. Il 22 gennaio il Giornale del fratello Paolo scriveva che, in caso di asta pubblica, Mediaset avrebbe meditato il ritiro dalla gara, confermando così tre cose: la prima che il decreto era stato ideato per fare un regalo ad aziendas (Mediaset e Rai); la seconda, che venendo meno il regalo veniva meno l`affare; la terza, più inquietante, che il decreto Romani, ministro dell`allora governo Berlusconi, favoriva di fatto un`azienda del premier Berlusconi.

Un caso? Ancora. Il 7 marzo, davanti alla commissione Bilancio della Camera e dopo aver incontrato personalmente Monti, il presidente Mediaset Fedele Confalonieri ha detto che se non ci sarà una ripresa del settore (leggi pubblicità) la sua azienda ricorrerà a tagli.

Affermazione drammatica da prendere con tutta la serietà del caso. Ma una domanda è d`obbligo: come impatta sulla raccolta pubblicitaria di Mediaset il venir meno di una frequenza (sei canali, lo ricordiamo) che sembrava ormai assegnata? È di questo che il presidente di Mediaset ha parlato con il presidente del Consiglio nell`incontro riservato del mattino? A pensare male ci si azzecca sempre, diceva Andreotti. E dopo il tavolo su Rai e giustizia fatto saltare da Alfano e la retromarcia dell`esecutivo sulla governance, i cattivi pensieri stanno proliferando. Bene ha fatto ieri Bersani a ribadire che «le frequenze tv non possono essere regalate» ma bisogna vigilare che la soluzione a cui sta lavorando il ministro delle Comunicazioni (la sospensione del beauty contest scade il 20 aprile) non stia nel chiamare vendita quello che è un mezzo regalo. Voci non confermate dicono che l`ipotesi di un`asta low-cost sarebbe giustificata dal fatto che le frequenze verranno assegnate solo fino al 2015 quando, come stabilito il mese scorso a Ginevra, dovranno venire impiegate per aumentare la banda larga della Ue. Argomento suggestivo ma poco convincente, ha detto ieri Vincenzo Vita che dal 2009 si batte per un`asta pubblica e trasparente. In un Paese dominato dalle tv e dal conflitto di interessi, siamo sicuri che fra tre anni le grandi reti saranno pronte a rimettere in discussione frequenze e business?

L’Unità 13.03.12

"Asse Bersani-Vendola per il centrosinistra del dopo Monti", di Simone Collini

Insieme a Roma per presentare il libro di Federico Rampini, Bersani e Vendola sembrano ormai d’accordo nell’archiviare la «foto di Vasto» e nell’immaginare il centrosinistra del dopo Monti senza chiusure ai moderati. E se fossero Pier Luigi Bersani e Nichi Vendola ad archiviare la foto di Vasto? La notizia non è tanto nell’arrivo di una nuova istantanea limitata al leader del Pd e a quello di Sel, che ieri hanno presentato insieme a Roma il libro di Federico Rampini “Alla mia sinistra”.
Il fatto è che i due si stanno vedendo riservatamente con una frequenza che non ha precedenti. Argomento degli incontri, compreso quello della scorsa settimana, non tanto le amministrative di maggio ma le prossime politiche e la necessità di lavorare con un’altra intensità alla definizione di un’alleanza di centrosinistra in grado poi di aprire a forze moderate e di centro. Insomma, la famosa coalizione di progressisti e moderati a cui punta Bersani, il quale da Vendola avrebbe ricevuto la disponibilità a stringere i tempi sul confronto programmatico e l’impegno a non porre veti nei confronti di Pier Ferdinando Casini.
ALFANO IRRESPONSABILE
L’accelerazione non risponde tanto alle ultime mosse del Pdl e al rischio che si vada alle urne in tempi ravvicinati. Bersani ha sì visto che «Alfano solleva molti temi polemici come se fossimo in campagna elettorale».
Ma sebbene denunci che «è da irresponsabili accendere dei fuochi in un momento in cui bisogna comunque mandare avanti il governo», non reputa possibile che qualcuno si assuma la responsabilità di far cadere Monti. Che il presidente del Consiglio abbia convocato per giovedì a Palazzo Chigi i leader di Pd, Pdl e Udc, per un incontro in cui si dovrebbe discutere anche di giustizia e Rai, è per Bersani un buon segnale. Ma ce ne sono altri di segno opposto. Come il fatto che il Pdl, nel momento in cui si è aperta la discussione su una nuova legge elettorale, ha rilanciato con le riforme istituzionali, mettendo tanto materiale davanti alla riforma del Porcellum: «Se dovesse restare questa legge io non accetterò di nominare i parlamentari e il Pd farà primarie di collegio», assicura Bersani. Un’idea che piace anche al leader di Sel.
L’incontro pubblico di ieri al Tempio di Adriano si spiega meglio, alla luce degli ultimi incontri tra Bersani e Vendola. La presentazione del libro di Rampini che parte dall’illusione del liberismo progressista in voga nel decennio scorso e termina sulla necessità di recuperare gli ideali tradizionali della sinistra è l’occasione per mostrare una sintonia tra il leader del Pd e quello di Sel, che può reggere anche di fronte al diverso atteggiamento che i due partiti hanno nei confronti del governo. Sull’articolo 18 concordano che è possibile solo una “manutenzione” riguardante i tempi delle cause processuali, sull’Europa sono entrambi critici col trattato riguardante la disciplina di bilancio (il cosiddetto Fiscal compact) e sottolineano invece la necessità di investimenti e politiche per la crescita, sulla crisi italiana concordano che il pericolo viene non tanto dai dati della finanza (lo spread) quanto da quelli dell’economia, a cominciare dalla perdita di diversi punti percentuali nella produzione industriale. Vendola promette che nei prossimi mesi «non farà sconti» a Monti, ma assicura anche che questo non determinerà «un elemento di crisi nei rapporti col Pd, che ha fatto una scelta dettata dalla generosità». Dice il leader di Sel: «Noi siamo divisi in questa stagione ma speriamo che la stagione sia breve». Perché poi si concretizzerà la foto di Vasto? No: «Quella non può essere la foto dell’alternativa. Era solo la foto dell’incontro tra tre leader di partito che sono peraltro tutti maschi. E non c’è alternativa se non mettiamo in discussione il maschilismo».
L’AGENDA
Bersani e Vendola concordano anche sul fatto che si debba iniziare a lavorare con un ritmo più accelerato alla definizione di un’agenda del centrosinistra. Il primo parla della necessità di una «scossa civica», di una «politica economica di crescita sostenibile», di un’azione di «redistribuzione».
Il leader del Pd chiede però anche patti chiari ai futuri alleati: «Se diciamo centrosinistra di governo, dobbiamo fare un patto esigibile che comprenda il programma, ma anche dei vincoli reciproci di governabilità, di stabilità del sostegno parlamentare. Se abbiamo un dissenso su un punto, si vota in assemblea congiunta dei gruppi e quel che viene deciso si fa». Vendola è d’accordo, ed esplicita anche che da lui non verrà nessun veto nei confronti di Casini: «Discutiamo nel merito dell’agenda, non dividiamoci prima sulle biografie».

l’Unità 13.03.12

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«Alleanza larga e patti chiari per tutti. Di Pietro si decida», di Maria Zegarelli

«Il nostro programma non potrà non partire dalla crisi economica e sociale. Impensabile allearsi e poi fare un referendum su ogni scelta». Sarebbe un errore imperdonabile per il Partito democratico chiudersi in un recinto troppo stretto», dice Andrea Orlando, responsabile Forum Giustizia, mentre lascia Napoli (in qualità di commissario Pd è stato ascoltato dalla procura come persona informata sui fatti dai magistrati che indagano sulle primarie) per raggiungere Ventimiglia.
Orlando, per il Pd le “praterie” sono a sinistra, come ha detto Dario Franceschini all’Unità, o al centro?
«Il Pd deve guardare sia a sinistra sia al centro».
Detta così sembra facile, ma nel suo partito non tutti la pensano allo stesso modo.
«Io starei molto attento a delimitare confini troppo stretti. Noi dobbiamo dialogare con tutte le forze che hanno dichiarato di voler far parte del centrosinistra, ovviamente con paletti precisi, sulla base di un programma di governo che sia chiaro, percepibile. Non si può pensare di allearsi e poi andare al referendum ogni volta che si devono prendere decisioni. Il programma di governo non potrà non occuparsi dei temi che sta mettendo in primo piano questa crisi e che riguardano le fasce più deboli ed esposte della società, dalla questione economico-sociale a quella occupazionale. Si tratta di temi su cui dobbiamo confrontarci con le forze che stanno a sinistra e tutti insieme dobbiamo avere una capacità di critica sul modello di sviluppo che immaginiamo per il Paese. Ma devo aggiungere che alla nostra sinistra io vedo soltanto una forza, Sel».
L’Idv dove la colloca?
«Sicuramente non a sinistra, ho difficoltà a farlo. L’Idv ha caratteristiche parzialmente diverse. Non dico che dobbiamo chiudere al dialogo ma non posso nascondere le distanze che ci sono con una forza che prima vota la fiducia al governo Monti e poi si pone all’opposizione, sempre, e molto spesso sembra opporsi più al Pd che al governo. I prossimi mesi saranno cruciali per dimostrarsi come forze di governo. Ogni giorno in cui l’Idv privilegia l’idea di lucrare qualche voto, smarcandosi dal Pd e non assumendosi la responsabilità di prendere decisioni per il bene del Paese, rende difficile la costruzione di un’alleanza. Non si può pensare di attaccare il Pd e poi sedersi intorno ad un tavolo in vista delle elezioni».
Vendola ha detto che la foto di Vasto non può essere la foto dell’alternativa. Era la foto di tre leader.
«Quella foto è un nucleo di partenza, che resta. Tuttavia si deve lavorare per allargare la panoramica, aprendo alle forze della società e caratterizzarla come proposta di governo. Penso che sia interesse di tutti costruire un’alleanza tra progressisti e moderati rendendola credibile per guidare il prossimo governo».
Eppure c’è chi, anche nel suo partito, accarezza l’idea di un Monti Bis. «Uno dei leit motiv di questi ultimi tempi è che dopo Monti nulla sarà più come prima. È vero, non ci sarà più la contrapposizione tra berlusconismo e antiberlusconismo, in questo senso non sarà più come prima. Si tornerà a parlare dei problemi del Paese e non di una persona, ci si confronterà sul merito delle proposte rispetto alla crisi. Sono cambiate molte cose, si è tornati ad una sobrietà di cui non c’era più traccia, ma detto questo, pur augurando a Monti tutto il successo possibile, non si può pensare che dopo il governo dei tecnici si possa prescindere dal bipolarismo europeo. Le forze politiche dovranno pronunciarsi sul ruolo dell’Europa, sulle politiche economiche, sulla crescita, rimettendo in circolo una sana competizione, come accade nel resto d’Europa, tra forze conservatrici e forze progressiste. E oltre a questo discrimine ce ne sarà un altro in entrambi gli schieramenti: nel centro sinistra tra una proposta riformista e populismi regressivi. È bene per questo che ognuno dica da che parte sta».
In realtà già adesso i toni sono da campagna elettorale. Alfano cerca di distinguersi da Pd e Terzo Polo e punta i piedi su temi non da poco come per esempio la giustizia e l’informazione.
«Io non penso si tratti soltanto dell’inizio della campagna elettorale. Credo che ci sia anche il rapporto con il governo, per come questo esecutivo sta rimettendo al centro dell’azione politica il bene del Paese, pur non senza qualche contraddizione. Il Pdl è stato e resta un partito diviso tra l’aspirazione di essere un partito liberale di massa e contemporaneamente un partito a tutela degli interessi del suo fondatore e questo governo sta facendo esplodere questa contraddizione».
Orlando, forse neanche il Pd è riuscito a risolvere le proprie. Dopo due anni dalle primarie continuate a discutere della leadership alle prossime elezioni.
«Il Pd ha dimostrato sin dalla sua nascita una certa propensione a complicarsi la vita, ma credo che un leader legittimato da tre milioni di persone sia un punto di forza di partenza sia per noi sia per la coalizione».

L’Unità 13.03.12