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"Lei è (non gentilmente) pregata di starsene a casa", di Cinzia Sasso

In Italia 800mila donne sono state costrette a dimettersi dopo aver avuto un figlio. E anche molte manager hanno gettato la spugna. Uno spreco umano e un’ingiustizia. Eccomi qua, come nella più classica delle storie, a leggere il giornale alle 9 e mezzo del mattino. Con calma, articolo per articolo. Non sono nel mio ufficio: nel mio ufficio ora c’è un collega che alla sua qualifica ha aggiunto anche la mia.
Non sono con i miei collaboratori, che ora sono i suoi.
Da due giorni sono senza computer, che mi verrà certamente restituito funzionante (prima o poi).
Non ho neanche il telefono fisso: l’apparecchio che avevo è sparito nel fulmineo svuotamento del mio vecchio ufficio (annunciato alle sei di sera e già finito alle dieci del mattino dopo) e non si capisce bene chi, come (e perché?) dovrebbe ordinarne uno nuovo.
Nessuna comunicazione ufficiale sulle ragioni e i modi di questa transizione, né tantomeno sul punto di arrivo.
Posso dire che i sintomi sono arrivati, abbastanza violenti, al settimo mese di gravidanza, quando, tra le altre cose, sono stata accusata di non restare mai in ufficio dopo le sei della sera.
La malattia è però cresciuta sotto pelle: neanche il pietoso sollievo di una diagnosi, di un chiarimento.
Ed è esplosa mentre non c’ero: stavo partorendo, stavo allattando, stavo riposando.
Oggi mio figlio ha quasi otto mesi e io sono solo un numero da statistica”.
La lettera mi piomba sullo schermo del computer alle 10.01 del mattino. È un martedì. Daria, la mia amica Daria, la più colta e intelligente pr che abbia mai conosciuto; l’instancabile manager che per anni, con mia grande invidia, viaggiava come una trottola; la splendida ragazza che parla tre lingue e fino a pochi anni fa gli head hunter corteggiavano con proposte esagerate, ha gettato la spugna, schiacciata da un peso che opprime solo le donne. Compirà 40 anni, ha due figli, ed è furibonda: ma come, mi dice, passiamo le giornate a sentire che il lavoro delle donne è importante, ci riempiamo la bocca con le pari opportunità, spendiamo risorse per costituire in ogni azienda gli organismi per la diversity, e poi cacciamo le donne in uno sgabuzzino?
Anna Maria Tarantola, vicedirettore della Banca d’Italia, che dunque di numeri qualcosa capisce, ha stimato che se l’occupazione femminile in Italia salisse fino a quel famoso obiettivo stabilito a Lisbona, il 60 per cento, ci sarebbe una crescita del 7 per cento del pil, il prodotto interno lordo. Più donne al lavoro, insomma, vorrebbe dire un paese più ricco. Il fatto è che Daria non è una donna. Daria è una mamma. E nel paese delle mamme poco è cambiato: le mamme devono starsene a casa.
L’Istat ha calcolato il fenomeno: secondo l’ultimo rapporto annuale, il 15 per cento delle donne è costretta a lasciare il lavoro dopo la gravidanza. Non perché non ce la facciano più, semplicemente perché accade a loro quello che è capitato a Daria: diventano trasparenti, la loro scrivania è vuota, il telefono muto.
Sono 800 mila le donne che affermano di essere state costrette a dimettersi dopo aver avuto un figlio, e il tasso di abbandono della vita professionale dopo la nascita di un bambino è del 27%, tra i più alti d’Europa. Implacabile, l’Istat fa i calcoli: l’8,7% delle madri smettono del tutto di essere lavoratrici. Nel mezzogiorno, dice testualmente il rapporto, “pressoché la totalità delle interruzioni dei rapporti di lavoro può ricondursi alla pratica delle dimissioni forzate”. Insomma, quasi una mamma su tre è costretta-indotta-invitata a restare a casa. A Milano il Centro Donna della Camera del Lavoro nel 2011 ha visto aumentare le sue utenti del 30%. Capita soprattutto alle donne tra i 35 e i 42 anni, inquadrate ai livelli di carriera più alti. Quando rientrano dalla maternità, le aziende le guardano come appestate: “Pensano – dice Maria Costa, responsabile del Centro – che non abbiano più la testa”. Ma dopo che le cacciano in casa, come le formiche le donne si incazzano e si inventano, o almeno ci provano, una second life.

LE due FOLGORANTI CARRIERE DI ANGELA
Angela ha 39 anni, una folgorante carriera alle spalle e un’altrettanto magnifica carriera davanti. Solo, prima era la responsabile della pianificazione strategica e dello sviluppo del business in Italtel, adesso gestisce un albergo di lusso. Dall’ufficio a grandi vetrate dell’azienda di Itc alla hall di un raffinato palazzo nel centro di Milano, trasformato nello Style Hotel. Tra la prima e la seconda vita, ci sono Alexandre, Leonardo e Brigitta, i tre figli, nati tra il 2005 e il 2009. Racconta: “Quando sono tornata in Italtel, non ho trovato più niente, il mio ufficio era vuoto. Mi hanno fatto accomodare in una stanzina senza una sedia o il telefono. Non avevo più l’assistente, il mio team era alle dipendenze di un altro, arrivavo al mattino e me ne andavo alla sera senza che nessuno mi desse da fare nulla. Non esistevo. Se provavo a fare qualcosa, rimediavo delle figure terribili: abbiamo già parlato con un suo collega, mi rispondevano”. Nell’azienda di Marisa Bellisario, la ragazza che era entrata come high flyer, dopo le maternità si era trasformata in un peso morto. “Mi sentivo sempre in colpa. In colpa a casa, per il tempo che sottraevo ai bambini; in colpa in ufficio, perché non facevo niente. Stavo male, mi chiedevo cos’avevo sbagliato, dove avevo mancato. Alla fine, per non ammalarmi di depressione ho gettato la spugna. E ho ricominciato da un’altra parte”.

partorivo il 25, il 18 ero a una riunione
Luisa, invece, era socia di una cooperativa che tra i suoi slogan ne ha uno che dice “la vita riparte da una donna”. Ma per far ripartire la sua vita, dopo l’arrivo di un figlio, Luisa ha dovuto lasciare. Sta lavorando a un progetto fantastico: creare uno spazio di coworking, dove ci siano spazi per le madri che lavorano in proprio e insieme spazi per i loro bambini. Stefania Boleso, bocconiana da 110 e lode, 39 anni, era marketing manager di una multinazionale austriaca, la Red Bull, e ha l’orgoglio di averla portata a essere una bevanda famosa anche in Italia. Dice che non potrà mai dimenticare quel che è successo il mattino del 30 settembre dell’anno passato: “Scusa, Stefania, ma per motivi di costi la tua posizione non è più prevista”. A mitigare l’imbarazzo del capo, un’offerta economica, che per orgoglio non ha potuto accettare: “Gestivo un budget di 18 milioni, rispondevano a me 28 persone, durante la maternità ero sempre stata in contatto con l’azienda, dovevo partorire il 25 dicembre e il 18 ero a una riunione… Mi sembrava una grande ingiustizia. Ma dopo che ho detto di no, è stata la fine”. Spostata in un localino al piano terreno, lontano cinque piani dal resto dell’azienda, Stefania ha resistito poche settimane: “Un giorno mi è venuto un attacco di panico, ho creduto di morire. Al pronto soccorso mi hanno detto che rischiavo l’esaurimento e alla fine ho firmato la resa”.

Sei tornata? Fai le fotocopie
E ancora: Erika ha 36 anni, una bambina. Si è laureata in Economia aziendale a Parma e lavorava come dirigente alla KPMG, la multinazionale della consulenza che nella sua home page mette quattro giovani, e tre di loro sono ragazze. Forse il messaggio è più raffinato di quello che appare: perché le ragazze vanno bene, è che i problemi cominciano quando si mettono in testa di fare dei figli. Prima di partorire hai una segretaria, un tuo ufficio, i benefit dei capi, ma quando torni dalla maternità ti chiedono di fare le fotocopie, e non puoi far finta di niente. Così adesso Erika fa la merciaia in viale Tunisia, non troppo lontano dalle vetrate della sua ex società: ha aperto Zucchero Filato, un negozio che vende spagnoletti, toppe per aggiustare o abbellire maglioni, tessuti. Là non poteva resistere. Se succede a Milano, dove il tasso di occupazione femminile è il più alto d’Italia (sopra il 59 per cento). Ma dove la percentuale di madri con due figli che lavorano è di cinque punti più bassa di quella delle donne in generale. E se dal 2009 al 2010, nel profondo nord, le dimissioni di madri che lavorano sono aumentate del 12 per cento, chissà cosa accade là dove l’Europa è più lontana.

la resa prima di cominciare
E poi c’è chi, la resa, la firma prima ancora di cominciare. Le chiamano dimissioni in bianco e sono le lettere, tutte uguali, che le giovani donne sono chiamate a firmare al momento dell’assunzione. Elsa Fornero, il ministro del lavoro, ha promesso un provvedimento a breve contro quello che ha definito un “intollerabile ricatto”. Era il 3 gennaio, e questo governo ha mostrato di non avere alcuna paura di decidere in fretta.
Sui due milioni di lavoratori che insieme al contratto di lavoro sono costretti a firmare la lettera di dimissioni, il 60 per cento è fatto di donne. E tra i motivi per i quali l’azienda passa a “riscuotere” la firma su quella lettera, il primo è una gravidanza. Perché, si chiedono le donne dell’associazione Agorà del lavoro, avere figli resta una questione privata? Perché l’esperienza delle madri non è riuscita a trasformare l’economia e l’organizzazione del lavoro in modo più sensato? Dal sindacato, sempre più in trincea, ci provano con una proposta: rendere obbligatorio il congedo di paternità. Fulvia Colombini della segreteria Cgil, rilegge la lettera di Daria: “Purtroppo è un copione che conosciamo e che nelle piccole aziende è molto diffuso”. Ecco, provare a pareggiare le condizioni di mamma e papà potrebbe essere un bel passo avanti.

Da D di Repubblica 10.03.12

“Lei è (non gentilmente) pregata di starsene a casa”, di Cinzia Sasso

In Italia 800mila donne sono state costrette a dimettersi dopo aver avuto un figlio. E anche molte manager hanno gettato la spugna. Uno spreco umano e un’ingiustizia. Eccomi qua, come nella più classica delle storie, a leggere il giornale alle 9 e mezzo del mattino. Con calma, articolo per articolo. Non sono nel mio ufficio: nel mio ufficio ora c’è un collega che alla sua qualifica ha aggiunto anche la mia.
Non sono con i miei collaboratori, che ora sono i suoi.
Da due giorni sono senza computer, che mi verrà certamente restituito funzionante (prima o poi).
Non ho neanche il telefono fisso: l’apparecchio che avevo è sparito nel fulmineo svuotamento del mio vecchio ufficio (annunciato alle sei di sera e già finito alle dieci del mattino dopo) e non si capisce bene chi, come (e perché?) dovrebbe ordinarne uno nuovo.
Nessuna comunicazione ufficiale sulle ragioni e i modi di questa transizione, né tantomeno sul punto di arrivo.
Posso dire che i sintomi sono arrivati, abbastanza violenti, al settimo mese di gravidanza, quando, tra le altre cose, sono stata accusata di non restare mai in ufficio dopo le sei della sera.
La malattia è però cresciuta sotto pelle: neanche il pietoso sollievo di una diagnosi, di un chiarimento.
Ed è esplosa mentre non c’ero: stavo partorendo, stavo allattando, stavo riposando.
Oggi mio figlio ha quasi otto mesi e io sono solo un numero da statistica”.
La lettera mi piomba sullo schermo del computer alle 10.01 del mattino. È un martedì. Daria, la mia amica Daria, la più colta e intelligente pr che abbia mai conosciuto; l’instancabile manager che per anni, con mia grande invidia, viaggiava come una trottola; la splendida ragazza che parla tre lingue e fino a pochi anni fa gli head hunter corteggiavano con proposte esagerate, ha gettato la spugna, schiacciata da un peso che opprime solo le donne. Compirà 40 anni, ha due figli, ed è furibonda: ma come, mi dice, passiamo le giornate a sentire che il lavoro delle donne è importante, ci riempiamo la bocca con le pari opportunità, spendiamo risorse per costituire in ogni azienda gli organismi per la diversity, e poi cacciamo le donne in uno sgabuzzino?
Anna Maria Tarantola, vicedirettore della Banca d’Italia, che dunque di numeri qualcosa capisce, ha stimato che se l’occupazione femminile in Italia salisse fino a quel famoso obiettivo stabilito a Lisbona, il 60 per cento, ci sarebbe una crescita del 7 per cento del pil, il prodotto interno lordo. Più donne al lavoro, insomma, vorrebbe dire un paese più ricco. Il fatto è che Daria non è una donna. Daria è una mamma. E nel paese delle mamme poco è cambiato: le mamme devono starsene a casa.
L’Istat ha calcolato il fenomeno: secondo l’ultimo rapporto annuale, il 15 per cento delle donne è costretta a lasciare il lavoro dopo la gravidanza. Non perché non ce la facciano più, semplicemente perché accade a loro quello che è capitato a Daria: diventano trasparenti, la loro scrivania è vuota, il telefono muto.
Sono 800 mila le donne che affermano di essere state costrette a dimettersi dopo aver avuto un figlio, e il tasso di abbandono della vita professionale dopo la nascita di un bambino è del 27%, tra i più alti d’Europa. Implacabile, l’Istat fa i calcoli: l’8,7% delle madri smettono del tutto di essere lavoratrici. Nel mezzogiorno, dice testualmente il rapporto, “pressoché la totalità delle interruzioni dei rapporti di lavoro può ricondursi alla pratica delle dimissioni forzate”. Insomma, quasi una mamma su tre è costretta-indotta-invitata a restare a casa. A Milano il Centro Donna della Camera del Lavoro nel 2011 ha visto aumentare le sue utenti del 30%. Capita soprattutto alle donne tra i 35 e i 42 anni, inquadrate ai livelli di carriera più alti. Quando rientrano dalla maternità, le aziende le guardano come appestate: “Pensano – dice Maria Costa, responsabile del Centro – che non abbiano più la testa”. Ma dopo che le cacciano in casa, come le formiche le donne si incazzano e si inventano, o almeno ci provano, una second life.

LE due FOLGORANTI CARRIERE DI ANGELA
Angela ha 39 anni, una folgorante carriera alle spalle e un’altrettanto magnifica carriera davanti. Solo, prima era la responsabile della pianificazione strategica e dello sviluppo del business in Italtel, adesso gestisce un albergo di lusso. Dall’ufficio a grandi vetrate dell’azienda di Itc alla hall di un raffinato palazzo nel centro di Milano, trasformato nello Style Hotel. Tra la prima e la seconda vita, ci sono Alexandre, Leonardo e Brigitta, i tre figli, nati tra il 2005 e il 2009. Racconta: “Quando sono tornata in Italtel, non ho trovato più niente, il mio ufficio era vuoto. Mi hanno fatto accomodare in una stanzina senza una sedia o il telefono. Non avevo più l’assistente, il mio team era alle dipendenze di un altro, arrivavo al mattino e me ne andavo alla sera senza che nessuno mi desse da fare nulla. Non esistevo. Se provavo a fare qualcosa, rimediavo delle figure terribili: abbiamo già parlato con un suo collega, mi rispondevano”. Nell’azienda di Marisa Bellisario, la ragazza che era entrata come high flyer, dopo le maternità si era trasformata in un peso morto. “Mi sentivo sempre in colpa. In colpa a casa, per il tempo che sottraevo ai bambini; in colpa in ufficio, perché non facevo niente. Stavo male, mi chiedevo cos’avevo sbagliato, dove avevo mancato. Alla fine, per non ammalarmi di depressione ho gettato la spugna. E ho ricominciato da un’altra parte”.

partorivo il 25, il 18 ero a una riunione
Luisa, invece, era socia di una cooperativa che tra i suoi slogan ne ha uno che dice “la vita riparte da una donna”. Ma per far ripartire la sua vita, dopo l’arrivo di un figlio, Luisa ha dovuto lasciare. Sta lavorando a un progetto fantastico: creare uno spazio di coworking, dove ci siano spazi per le madri che lavorano in proprio e insieme spazi per i loro bambini. Stefania Boleso, bocconiana da 110 e lode, 39 anni, era marketing manager di una multinazionale austriaca, la Red Bull, e ha l’orgoglio di averla portata a essere una bevanda famosa anche in Italia. Dice che non potrà mai dimenticare quel che è successo il mattino del 30 settembre dell’anno passato: “Scusa, Stefania, ma per motivi di costi la tua posizione non è più prevista”. A mitigare l’imbarazzo del capo, un’offerta economica, che per orgoglio non ha potuto accettare: “Gestivo un budget di 18 milioni, rispondevano a me 28 persone, durante la maternità ero sempre stata in contatto con l’azienda, dovevo partorire il 25 dicembre e il 18 ero a una riunione… Mi sembrava una grande ingiustizia. Ma dopo che ho detto di no, è stata la fine”. Spostata in un localino al piano terreno, lontano cinque piani dal resto dell’azienda, Stefania ha resistito poche settimane: “Un giorno mi è venuto un attacco di panico, ho creduto di morire. Al pronto soccorso mi hanno detto che rischiavo l’esaurimento e alla fine ho firmato la resa”.

Sei tornata? Fai le fotocopie
E ancora: Erika ha 36 anni, una bambina. Si è laureata in Economia aziendale a Parma e lavorava come dirigente alla KPMG, la multinazionale della consulenza che nella sua home page mette quattro giovani, e tre di loro sono ragazze. Forse il messaggio è più raffinato di quello che appare: perché le ragazze vanno bene, è che i problemi cominciano quando si mettono in testa di fare dei figli. Prima di partorire hai una segretaria, un tuo ufficio, i benefit dei capi, ma quando torni dalla maternità ti chiedono di fare le fotocopie, e non puoi far finta di niente. Così adesso Erika fa la merciaia in viale Tunisia, non troppo lontano dalle vetrate della sua ex società: ha aperto Zucchero Filato, un negozio che vende spagnoletti, toppe per aggiustare o abbellire maglioni, tessuti. Là non poteva resistere. Se succede a Milano, dove il tasso di occupazione femminile è il più alto d’Italia (sopra il 59 per cento). Ma dove la percentuale di madri con due figli che lavorano è di cinque punti più bassa di quella delle donne in generale. E se dal 2009 al 2010, nel profondo nord, le dimissioni di madri che lavorano sono aumentate del 12 per cento, chissà cosa accade là dove l’Europa è più lontana.

la resa prima di cominciare
E poi c’è chi, la resa, la firma prima ancora di cominciare. Le chiamano dimissioni in bianco e sono le lettere, tutte uguali, che le giovani donne sono chiamate a firmare al momento dell’assunzione. Elsa Fornero, il ministro del lavoro, ha promesso un provvedimento a breve contro quello che ha definito un “intollerabile ricatto”. Era il 3 gennaio, e questo governo ha mostrato di non avere alcuna paura di decidere in fretta.
Sui due milioni di lavoratori che insieme al contratto di lavoro sono costretti a firmare la lettera di dimissioni, il 60 per cento è fatto di donne. E tra i motivi per i quali l’azienda passa a “riscuotere” la firma su quella lettera, il primo è una gravidanza. Perché, si chiedono le donne dell’associazione Agorà del lavoro, avere figli resta una questione privata? Perché l’esperienza delle madri non è riuscita a trasformare l’economia e l’organizzazione del lavoro in modo più sensato? Dal sindacato, sempre più in trincea, ci provano con una proposta: rendere obbligatorio il congedo di paternità. Fulvia Colombini della segreteria Cgil, rilegge la lettera di Daria: “Purtroppo è un copione che conosciamo e che nelle piccole aziende è molto diffuso”. Ecco, provare a pareggiare le condizioni di mamma e papà potrebbe essere un bel passo avanti.

Da D di Repubblica 10.03.12

"Ornaghi, chi l’ha visto?", di Vittorio Emiliani

Il Mibac è alla canna del gas ma il ministro non dà segni di vita: Potrebbe iniziare salvando Arcus Spa, da rivedere ma fonte di denaro preziosa. Fra gli addetti ai lavori, o alle macerie, dei beni culturali e paesaggistici gira da giorni una vignetta col ministro Lorenzo Ornaghi accompagnato da una scritta: «Chi l’ha visto? Scomparso dopo l’8 settembre». L’8 settembre del governo Berlusconi, di ministri alla Bondi che al Collegio Romano non c’era quasi mai o alla Galan la cui impresa più memorabile rimane la candidatura di Giorgio Malgara, amico caro del Cavaliere, alla presidenza della Biennale di Venezia, sonoramente bocciata da una marea di firme, veneziane, nazionali e internazionali, per la riconferma di Paolo Baratta. Il professor Ornaghi al Collegio Romano ci sta dalla mattina alla sera, fino a notte. Però da più parti gli viene chiesto di non lasciar fare tutto al capo di gabinetto, l’onnipotente e onnipresente Salvo Nastasi o al sottosegretario Roberto Cecchi. Ma, per ora, Ornaghi non dà segni di vita. Un’occasione ora ce l’ha ed è rappresentata da Arcus SpA che Corrado Passera ministro di molte cose fra cui le Infrastrutture e soprattutto il suo vice-ministro Mario Ciaccia (un tempo a capo di Arcus) paiono decisi a cancellare. E che Ornaghi per ora non difende, in un fragoroso, monastico silenzio. Premetto che Arcus anche da me attaccata in passato per le infinite pratiche clientelari così com’è stata non va proprio. Ma il dato delle sue origini, e cioè finanziare opere di restauro dei beni culturali e paesaggistici attraverso il 3 o il 5 per cento sugli appalti delle grandi opere, mi è sembrato e mi sembra utile. Più che mai oggi che il MiBac è alla canna del gas e non riesce più a far fronte ad impegni di mera sopravvivenza, a cominciare (voglio sottolinearlo) dai settori che meno «fanno notizia», cioè gli archivi e le biblioteche storiche, ormai agonizzanti o sottoposti a tagli mortali. Per risalire poi ai siti e alle aree archeologiche sempre meno difese, ai musei minacciati di chiusura, alla continua smagliatura della tutela del paesaggio esposto a ferite: cito il caso più recente, davanti alla già devastata piana di Scalea in Calabria, campo di marte di n’drangheta e camorra, si è deciso di costruire un altro porto da oltre 500 posti-barca, un’altra opera inutile che infliggerà il colpo mortale alla povera Scalea.
Ma torniamo ad Arcus SpA presieduta, dal 2010, dall’ambasciatore Ludovico Ortona che conosco come persona di qualità. Essa è stata, sin dagli inizi, stravolta nelle sue nobili funzioni originarie, da ministri alla Lunardi che destinò circa un quarto dei fondi di allora, a «Parma capitale della musica», cioè al suo collegio elettorale. O alla Matteoli che pure convogliò il flusso dei finanziamenti sulla propria area di influenza archeopolitica. Non a caso ho citato due ministri delle Infrastrutture. I loro colleghi dei Beni culturali hanno contato sempre pochino nella partita per il riparto dei fondi. Oppure hanno delegato nel caso di Bondi loro rappresentanti, come l’archeologa padovana Elisabetta Ghedini, sorella dell’avvocato del Cavaliere.
PIOGGIA DI SOLDI
In mezzo a questa pioggia di denari regolata da rubinetti assai più politico-clientelari che tecnico-scientifici, sono state finanziate anche opere degne come il restauro di Villa Adriana a Tivoli o del Bosco di San Francesco a cura del Fai, della Galleria Sabauda di Torino, della chiesa di Santa Cecilia a Roma, ecc. Per dire quanto possa essere importante mantenere questo flusso di fondi (197 milioni per il triennio 2009-2112), dando ovviamente ad esso regole e priorità di scelta inattaccabili, citerò soltanto un caso: quello del centenario della morte del più moderno dei grandi poeti italiani fra ’800 e ’900, Giovanni Pascoli. L’altro giorno si è letto che per il Comitato pascoliano di San Mauro non c’è un solo euro ministeriale, mentre Arcus ha già destinato 700.000 euro al restauro e alla catalogazione delle carte di Pascoli esistenti presso l’archivio di Castelvecchio di Barga dove visse negli ultimi anni. Senza i fondi Arcus, nulla si sarebbe fatto per il poeta nel 2012. Da sprofondare.
Insomma, Arcus va rivista, dalla testa ai piedi, riducendo a 3 componenti il suo consiglio e rafforzando il raccordo tecnico-scientifico col MiBac. Fra l’altro ci sarà da qualche parte il progetto di riforma che Paolo Baratta fu incaricato di redigere per il ministro Rutelli. Abolendo Arcus, tout court, non si risparmia un euro (essa si finanzia coi grandi appalti), ma si toglie altra acqua al già assetato, morente settore dei restauri. Vuol dare, per favore, un segno di vita e di «resistenza» il ministro Ornaghi dicendo cosa vuol fare o non fare? Essere «tecnici» non vuol dire essere muti.

L’Unità 10.03.12

“Ornaghi, chi l’ha visto?”, di Vittorio Emiliani

Il Mibac è alla canna del gas ma il ministro non dà segni di vita: Potrebbe iniziare salvando Arcus Spa, da rivedere ma fonte di denaro preziosa. Fra gli addetti ai lavori, o alle macerie, dei beni culturali e paesaggistici gira da giorni una vignetta col ministro Lorenzo Ornaghi accompagnato da una scritta: «Chi l’ha visto? Scomparso dopo l’8 settembre». L’8 settembre del governo Berlusconi, di ministri alla Bondi che al Collegio Romano non c’era quasi mai o alla Galan la cui impresa più memorabile rimane la candidatura di Giorgio Malgara, amico caro del Cavaliere, alla presidenza della Biennale di Venezia, sonoramente bocciata da una marea di firme, veneziane, nazionali e internazionali, per la riconferma di Paolo Baratta. Il professor Ornaghi al Collegio Romano ci sta dalla mattina alla sera, fino a notte. Però da più parti gli viene chiesto di non lasciar fare tutto al capo di gabinetto, l’onnipotente e onnipresente Salvo Nastasi o al sottosegretario Roberto Cecchi. Ma, per ora, Ornaghi non dà segni di vita. Un’occasione ora ce l’ha ed è rappresentata da Arcus SpA che Corrado Passera ministro di molte cose fra cui le Infrastrutture e soprattutto il suo vice-ministro Mario Ciaccia (un tempo a capo di Arcus) paiono decisi a cancellare. E che Ornaghi per ora non difende, in un fragoroso, monastico silenzio. Premetto che Arcus anche da me attaccata in passato per le infinite pratiche clientelari così com’è stata non va proprio. Ma il dato delle sue origini, e cioè finanziare opere di restauro dei beni culturali e paesaggistici attraverso il 3 o il 5 per cento sugli appalti delle grandi opere, mi è sembrato e mi sembra utile. Più che mai oggi che il MiBac è alla canna del gas e non riesce più a far fronte ad impegni di mera sopravvivenza, a cominciare (voglio sottolinearlo) dai settori che meno «fanno notizia», cioè gli archivi e le biblioteche storiche, ormai agonizzanti o sottoposti a tagli mortali. Per risalire poi ai siti e alle aree archeologiche sempre meno difese, ai musei minacciati di chiusura, alla continua smagliatura della tutela del paesaggio esposto a ferite: cito il caso più recente, davanti alla già devastata piana di Scalea in Calabria, campo di marte di n’drangheta e camorra, si è deciso di costruire un altro porto da oltre 500 posti-barca, un’altra opera inutile che infliggerà il colpo mortale alla povera Scalea.
Ma torniamo ad Arcus SpA presieduta, dal 2010, dall’ambasciatore Ludovico Ortona che conosco come persona di qualità. Essa è stata, sin dagli inizi, stravolta nelle sue nobili funzioni originarie, da ministri alla Lunardi che destinò circa un quarto dei fondi di allora, a «Parma capitale della musica», cioè al suo collegio elettorale. O alla Matteoli che pure convogliò il flusso dei finanziamenti sulla propria area di influenza archeopolitica. Non a caso ho citato due ministri delle Infrastrutture. I loro colleghi dei Beni culturali hanno contato sempre pochino nella partita per il riparto dei fondi. Oppure hanno delegato nel caso di Bondi loro rappresentanti, come l’archeologa padovana Elisabetta Ghedini, sorella dell’avvocato del Cavaliere.
PIOGGIA DI SOLDI
In mezzo a questa pioggia di denari regolata da rubinetti assai più politico-clientelari che tecnico-scientifici, sono state finanziate anche opere degne come il restauro di Villa Adriana a Tivoli o del Bosco di San Francesco a cura del Fai, della Galleria Sabauda di Torino, della chiesa di Santa Cecilia a Roma, ecc. Per dire quanto possa essere importante mantenere questo flusso di fondi (197 milioni per il triennio 2009-2112), dando ovviamente ad esso regole e priorità di scelta inattaccabili, citerò soltanto un caso: quello del centenario della morte del più moderno dei grandi poeti italiani fra ’800 e ’900, Giovanni Pascoli. L’altro giorno si è letto che per il Comitato pascoliano di San Mauro non c’è un solo euro ministeriale, mentre Arcus ha già destinato 700.000 euro al restauro e alla catalogazione delle carte di Pascoli esistenti presso l’archivio di Castelvecchio di Barga dove visse negli ultimi anni. Senza i fondi Arcus, nulla si sarebbe fatto per il poeta nel 2012. Da sprofondare.
Insomma, Arcus va rivista, dalla testa ai piedi, riducendo a 3 componenti il suo consiglio e rafforzando il raccordo tecnico-scientifico col MiBac. Fra l’altro ci sarà da qualche parte il progetto di riforma che Paolo Baratta fu incaricato di redigere per il ministro Rutelli. Abolendo Arcus, tout court, non si risparmia un euro (essa si finanzia coi grandi appalti), ma si toglie altra acqua al già assetato, morente settore dei restauri. Vuol dare, per favore, un segno di vita e di «resistenza» il ministro Ornaghi dicendo cosa vuol fare o non fare? Essere «tecnici» non vuol dire essere muti.

L’Unità 10.03.12

"Inglese obbligatorio, vantaggio per l'Italia" di Giovanni Azzone*

Caro direttore, in un articolo apparso il 7 marzo sul Corriere della Sera, Tullio Gregory affronta il tema dell’internazionalizzazione della formazione universitaria e in particolare della lingua di erogazione dei corsi. Gregory si schiera in difesa della lingua nazionale rispetto alla scelta «anglofona» del Ministero che ha raccolto il consenso «nei luoghi dedicati all’insegnamento politecnico e manageriale».
Trovo l’argomento trattato di estremo interesse, ma il dibattito a mio parere deve partire dalla definizione dell’obiettivo a cui vuole rispondere la formazione universitaria. La lingua non deve infatti essere vista come un fine, ma come un mezzo per formare non solo professionisti in grado di trovare occupazioni soddisfacenti ma, soprattutto, persone che possano svolgere un ruolo attivo nella società.
La scelta della lingua deve cioè essere funzionale a fornire opportunità di crescita umana e professionale a chi nell’università spende una parte importante della propria vita. In questo senso, credo che oggi sia necessario accompagnare alla formazione specialistica di qualità, tradizionale punto di forza della nostra università, lo sviluppo di altre competenze: tra queste, in particolare, è essenziale la capacità di operare in un ambiente «globale», di interagire con persone di culture differenti, con valori, atteggiamenti, modi di pensiero profondamente diversi dalla tradizione italiana ed europea.
La formazione universitaria è uno strumento potenzialmente formidabile per sviluppare questa apertura culturale, purché essa si svolga in contesti in cui vivono e lavorano studenti e docenti di tutto il mondo. Se questo obiettivo è condiviso, la scelta dell’inglese come mezzo di comunicazione all’interno delle nostre università, almeno ai livelli di formazione più alti (laurea magistrale e dottorato di ricerca), diventa obbligata.
L’uso dell’italiano rappresenta infatti una barriera all’accesso per gli studenti di altri Paesi, limitando la nostra capacità di intercettare i giovani di tutto il mondo che, ogni giorno di più, cercano il luogo «migliore» dove formarsi. Se riusciremo a superare questa barriera, rendendo accessibili i nostri Atenei anche a chi non conosce l’italiano, ma solo quella «lingua internazionale» che è diventato l’inglese, il nostro Paese, con la sua cultura e il suo modo di vivere, sarà in grado di manifestare tutta la propria capacità di attrazione.
Non è un caso se il Politecnico di Milano, dal momento in cui ha introdotto nelle lauree magistrali insegnamenti in inglese, ha visto crescere il numero dei propri studenti stranieri fino agli attuali 4.200, provenienti da 110 Paesi diversi. Altri atenei (Bocconi, Bologna, Trento, Politecnico di Torino, per limitarsi ad alcuni dei più attivi internazionalmente) hanno avuto dinamiche analoghe.
Mi sia consentita una riflessione finale. Oggi, sempre più ragazzi italiani considerano la possibilità di formarsi all’estero. Se il sistema universitario nazionale non fosse quindi in grado di offrire un contesto formativo «globale», rischierebbe non solo di non attrarre studenti stranieri, ma anche di perdere gli studenti italiani più motivati e aperti al mondo. Questo, il Paese non se lo può proprio permettere.

*Rettore del Politecnico di Milano

Il Corriere della Sera 11.03.12

“Inglese obbligatorio, vantaggio per l’Italia” di Giovanni Azzone*

Caro direttore, in un articolo apparso il 7 marzo sul Corriere della Sera, Tullio Gregory affronta il tema dell’internazionalizzazione della formazione universitaria e in particolare della lingua di erogazione dei corsi. Gregory si schiera in difesa della lingua nazionale rispetto alla scelta «anglofona» del Ministero che ha raccolto il consenso «nei luoghi dedicati all’insegnamento politecnico e manageriale».
Trovo l’argomento trattato di estremo interesse, ma il dibattito a mio parere deve partire dalla definizione dell’obiettivo a cui vuole rispondere la formazione universitaria. La lingua non deve infatti essere vista come un fine, ma come un mezzo per formare non solo professionisti in grado di trovare occupazioni soddisfacenti ma, soprattutto, persone che possano svolgere un ruolo attivo nella società.
La scelta della lingua deve cioè essere funzionale a fornire opportunità di crescita umana e professionale a chi nell’università spende una parte importante della propria vita. In questo senso, credo che oggi sia necessario accompagnare alla formazione specialistica di qualità, tradizionale punto di forza della nostra università, lo sviluppo di altre competenze: tra queste, in particolare, è essenziale la capacità di operare in un ambiente «globale», di interagire con persone di culture differenti, con valori, atteggiamenti, modi di pensiero profondamente diversi dalla tradizione italiana ed europea.
La formazione universitaria è uno strumento potenzialmente formidabile per sviluppare questa apertura culturale, purché essa si svolga in contesti in cui vivono e lavorano studenti e docenti di tutto il mondo. Se questo obiettivo è condiviso, la scelta dell’inglese come mezzo di comunicazione all’interno delle nostre università, almeno ai livelli di formazione più alti (laurea magistrale e dottorato di ricerca), diventa obbligata.
L’uso dell’italiano rappresenta infatti una barriera all’accesso per gli studenti di altri Paesi, limitando la nostra capacità di intercettare i giovani di tutto il mondo che, ogni giorno di più, cercano il luogo «migliore» dove formarsi. Se riusciremo a superare questa barriera, rendendo accessibili i nostri Atenei anche a chi non conosce l’italiano, ma solo quella «lingua internazionale» che è diventato l’inglese, il nostro Paese, con la sua cultura e il suo modo di vivere, sarà in grado di manifestare tutta la propria capacità di attrazione.
Non è un caso se il Politecnico di Milano, dal momento in cui ha introdotto nelle lauree magistrali insegnamenti in inglese, ha visto crescere il numero dei propri studenti stranieri fino agli attuali 4.200, provenienti da 110 Paesi diversi. Altri atenei (Bocconi, Bologna, Trento, Politecnico di Torino, per limitarsi ad alcuni dei più attivi internazionalmente) hanno avuto dinamiche analoghe.
Mi sia consentita una riflessione finale. Oggi, sempre più ragazzi italiani considerano la possibilità di formarsi all’estero. Se il sistema universitario nazionale non fosse quindi in grado di offrire un contesto formativo «globale», rischierebbe non solo di non attrarre studenti stranieri, ma anche di perdere gli studenti italiani più motivati e aperti al mondo. Questo, il Paese non se lo può proprio permettere.

*Rettore del Politecnico di Milano

Il Corriere della Sera 11.03.12