Latest Posts

"Terra, lotta, diritti. Parole che saranno sempre di moda", di Francesco Benigno

Perché ancora oggi, 64 anni dopo, la notizia dell’identificazione del cadavere del sindacalista e politico corleonese emoziona? La risposta è dentro la storia di quest’uomo, e della sua regione. Perché l’identificazione dei resti del corpo di Placido Rizzotto, ritrovati in un anfratto della Rocca Busambra, la montagna che sovrasta Corleone, ancor oggi colpisce ed emoziona? Perché, anche se sono passati ben 64 anni dall’ uccisione di questo dirigente socialista e segretario della Camera del lavoro, si avverte nella pubblica opinione una speciale attenzione per la sua figura? Perché la scoperta compiuta comparando il Dna dissotterrando la salma del padre di Rizzotto produce un effetto diverso da quello dei tanti cold cases cui ci hanno abituato i serial polizieschi televisivi?
Una prima importante ragione sta nel fatto che questo ritrovamento e questa identificazione sono una rivincita contro chi aveva voluto cancellare insieme col corpo gettato in un dirupo, anche la memoria di questo giovane (34 anni) dirigente del movimento contadino. Il locale capo-mafia Michele Navarra, un medico che agiva per conto degli interessi dei grandi proprietari terrieri minacciati dalla divisione dei feudi, non si era limitato solo ad ordinare di eliminare Rizzotto e fare sparire il suo cadavere, ma aveva anche con tutta probabilità provveduto ad uccidere con un’iniezione di veleno l’unico testimone dell’omicidio, Giuseppe Letizia, un ragazzo-pastore di appena 13 anni. La rivincita si estende anche alla sentenza del processo per l’omicidio Rizzotto, conclusosi clamorosamente con un nulla di fatto, dopo che le indagini avevano portato all’identificazione del gruppo di uccisori, guidato dal famigerato Luciano Liggio. Le indagini, condotte da un giovane capitano dei Carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, avevano condotto all’identificazione degli esecutori materiali, che avevano confessato il crimine, ritrattando però nel corso del procedimento giudiziario, che sfociava – in sintonia col clima politico di ritorno all’ordine promosso dal centro-destra vittorioso nelle elezioni del 18 aprile in una clamorosa assoluzione per insufficienza di prove.
La seconda ragione è che questa storia si svolge a Corleone, il paese del palermitano salito alla ribalta mondiale per essere stato il centro da cui il «capo dei capi» Totò Riina, dopo aver vinto la luttuosa guerra di mafia del 1981-82, ha lanciato negli anni ’80 la sua sanguinosa offensiva volta a rinsaldare un controllo centralistico sulle varie famiglie mafiose inaugurando al contempo quella tragica strategia terroristica diretta a colpire chiunque – magistrati, forze dell’ordine e perfino politici – si opponesse all’egemonia de «i corleonesi».
Non è però un caso se Corleone sia stato al centro di tutto ciò. Corleone non è un paese come tanti altri. Negli anni novanta dell’Ottocento proprio da Corleone era partita quella grande agitazione contadina per la riforma dei patti agrari nota come «i fasci siciliani» e proprio a Corleone il movimento socialista aveva conosciuto importanti affermazioni grazie a Bernardino Verro, capo del fascio cittadino e primo sindaco socialista, poi ucciso anche lui dalla mafia, nel 1915. E ancora di nuovo nel 1946-48, grazie a Placido Rizzotto, Corleone era ridiventato uno dei più importanti centri dell’agitazione sindacale per il diritto alla terra che era divenuta contemporaneamente agitazione politica socialista e comunista. Epicentro di un terremoto politico che portava all’affermazione della sinistra alle elezioni regionali siciliane del 1947. Ne verranno in provincia di Palermo le esecuzioni in serie di sindacalisti e di dirigenti della sinistra e, il 1 maggio del 1947, l’eccidio di Portella delle Ginestre, la prima strage dell’Italia repubblicana.
Ma soprattutto questa identificazione consente di ripensare una figura che ancora ci colpisce: partito militare e dopo aver combattuto in Carnia, Rizzotto era passato alla Resistenza, militando nelle brigate Garibaldi. Iscritto all’Anpi, la sua storia è dunque quella di uno dei tanti «ragazzi di montagna» che hanno cercato un nuovo orizzonte politico democratico e socialmente più avanzato, un riscatto nazionale dalla tragedia in cui il regime fascista aveva cacciato il paese. Ma, a differenza di tanti altri partigiani, egli aveva dovuto continuare una battaglia che in Sicilia non si combatteva solo con le ragioni della politica.
Così, ancora oggi, quelle fila di contadini che egli guidava all’alba con le zappe a spalla e le loro bandiere rosse per occupare i feudi, così come pure quella cooperativa che egli aveva creato per la gestione dei feudi occupati, chiamata suggestivamente «la madre terra», ci ricordano che i diritti, anche quelli più elementari, non fioriscono da soli, spontaneamente, come le bellissime agavi del paesaggio siciliano. Che essi hanno bisogno, per nascere e crescere, di esperienze politiche condivise; e talvolta di una lotta che non si è sviluppata solo attraverso la propaganda e il dibattito delle idee, ma purtroppo anche attraverso la violenza. La storia di Placido Rizzotto ci ricorda tutto questo.

l’Unità 11.03.12

“Terra, lotta, diritti. Parole che saranno sempre di moda”, di Francesco Benigno

Perché ancora oggi, 64 anni dopo, la notizia dell’identificazione del cadavere del sindacalista e politico corleonese emoziona? La risposta è dentro la storia di quest’uomo, e della sua regione. Perché l’identificazione dei resti del corpo di Placido Rizzotto, ritrovati in un anfratto della Rocca Busambra, la montagna che sovrasta Corleone, ancor oggi colpisce ed emoziona? Perché, anche se sono passati ben 64 anni dall’ uccisione di questo dirigente socialista e segretario della Camera del lavoro, si avverte nella pubblica opinione una speciale attenzione per la sua figura? Perché la scoperta compiuta comparando il Dna dissotterrando la salma del padre di Rizzotto produce un effetto diverso da quello dei tanti cold cases cui ci hanno abituato i serial polizieschi televisivi?
Una prima importante ragione sta nel fatto che questo ritrovamento e questa identificazione sono una rivincita contro chi aveva voluto cancellare insieme col corpo gettato in un dirupo, anche la memoria di questo giovane (34 anni) dirigente del movimento contadino. Il locale capo-mafia Michele Navarra, un medico che agiva per conto degli interessi dei grandi proprietari terrieri minacciati dalla divisione dei feudi, non si era limitato solo ad ordinare di eliminare Rizzotto e fare sparire il suo cadavere, ma aveva anche con tutta probabilità provveduto ad uccidere con un’iniezione di veleno l’unico testimone dell’omicidio, Giuseppe Letizia, un ragazzo-pastore di appena 13 anni. La rivincita si estende anche alla sentenza del processo per l’omicidio Rizzotto, conclusosi clamorosamente con un nulla di fatto, dopo che le indagini avevano portato all’identificazione del gruppo di uccisori, guidato dal famigerato Luciano Liggio. Le indagini, condotte da un giovane capitano dei Carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, avevano condotto all’identificazione degli esecutori materiali, che avevano confessato il crimine, ritrattando però nel corso del procedimento giudiziario, che sfociava – in sintonia col clima politico di ritorno all’ordine promosso dal centro-destra vittorioso nelle elezioni del 18 aprile in una clamorosa assoluzione per insufficienza di prove.
La seconda ragione è che questa storia si svolge a Corleone, il paese del palermitano salito alla ribalta mondiale per essere stato il centro da cui il «capo dei capi» Totò Riina, dopo aver vinto la luttuosa guerra di mafia del 1981-82, ha lanciato negli anni ’80 la sua sanguinosa offensiva volta a rinsaldare un controllo centralistico sulle varie famiglie mafiose inaugurando al contempo quella tragica strategia terroristica diretta a colpire chiunque – magistrati, forze dell’ordine e perfino politici – si opponesse all’egemonia de «i corleonesi».
Non è però un caso se Corleone sia stato al centro di tutto ciò. Corleone non è un paese come tanti altri. Negli anni novanta dell’Ottocento proprio da Corleone era partita quella grande agitazione contadina per la riforma dei patti agrari nota come «i fasci siciliani» e proprio a Corleone il movimento socialista aveva conosciuto importanti affermazioni grazie a Bernardino Verro, capo del fascio cittadino e primo sindaco socialista, poi ucciso anche lui dalla mafia, nel 1915. E ancora di nuovo nel 1946-48, grazie a Placido Rizzotto, Corleone era ridiventato uno dei più importanti centri dell’agitazione sindacale per il diritto alla terra che era divenuta contemporaneamente agitazione politica socialista e comunista. Epicentro di un terremoto politico che portava all’affermazione della sinistra alle elezioni regionali siciliane del 1947. Ne verranno in provincia di Palermo le esecuzioni in serie di sindacalisti e di dirigenti della sinistra e, il 1 maggio del 1947, l’eccidio di Portella delle Ginestre, la prima strage dell’Italia repubblicana.
Ma soprattutto questa identificazione consente di ripensare una figura che ancora ci colpisce: partito militare e dopo aver combattuto in Carnia, Rizzotto era passato alla Resistenza, militando nelle brigate Garibaldi. Iscritto all’Anpi, la sua storia è dunque quella di uno dei tanti «ragazzi di montagna» che hanno cercato un nuovo orizzonte politico democratico e socialmente più avanzato, un riscatto nazionale dalla tragedia in cui il regime fascista aveva cacciato il paese. Ma, a differenza di tanti altri partigiani, egli aveva dovuto continuare una battaglia che in Sicilia non si combatteva solo con le ragioni della politica.
Così, ancora oggi, quelle fila di contadini che egli guidava all’alba con le zappe a spalla e le loro bandiere rosse per occupare i feudi, così come pure quella cooperativa che egli aveva creato per la gestione dei feudi occupati, chiamata suggestivamente «la madre terra», ci ricordano che i diritti, anche quelli più elementari, non fioriscono da soli, spontaneamente, come le bellissime agavi del paesaggio siciliano. Che essi hanno bisogno, per nascere e crescere, di esperienze politiche condivise; e talvolta di una lotta che non si è sviluppata solo attraverso la propaganda e il dibattito delle idee, ma purtroppo anche attraverso la violenza. La storia di Placido Rizzotto ci ricorda tutto questo.

l’Unità 11.03.12

«L'articolo 18 non sia uno scalpo Difesa con lotte mirate e dolorose», intervista a Susanna Camusso di Antonella Baccaro

Camusso: fare la Tav è utile per l’occupazione ma serve il dialogo. Susanna Camusso, la Fiom chiama lo sciopero generale se verrà toccato l’articolo 18. Cosa risponde il segretario della Cgil?
«Ho impressione che qualcuno abbia già messo in conto un nostro sciopero generale: una fiammata e via. Ma non può essere così: si aprirà una fase non breve di lotta».
A cosa si riferisce?
«A tante cose: scioperi articolati, proteste mirate, durature, più dolorose».
Non teme che il suo messaggio venga frainteso e alimenti tensioni incontrollabili?
«So che ci sono preoccupazioni, ce le abbiamo anche noi. Ecco perché vanno date risposte».
Cosa pensa della presenza dei No Tav nella manifestazione della Fiom?
«Nessuna forma d’iniziativa legittima può prevaricare la vita degli altri e sconfinare nella violenza. Penso che la Cgil debba avere un giudizio netto. Del resto la nostra posizione favorevole alla Tav l’abbiamo espressa al congresso: il Paese ha un disperato bisogno di investimenti. Dopodiché sarebbe meglio avere regole su come si decide. E comunque va ricostruito il dialogo: è impensabile fare i lavori per anni con la valle contro».
La trattativa sul mercato del lavoro riprende domani. C’è possibilità che si arrivi a un accordo?
«Cominciamo col dire che una riforma, anche una buona riforma, non creerà occupazione: è sbagliato illudere la gente. Serve altro».
Ad esempio?
«Investimenti, politiche industriali che ancora non vedo. La “fase due” della crescita mi sembra lontana: la delega fiscale si sta traducendo in aumento dell’Iva anziché nella riduzione della pressione fiscale sul lavoro».
Questo governo l’ha delusa?
«L’esecutivo Monti ha scelto di avere il piglio di chi vuole fare riforme strutturali, ha usato termini ambiziosi, come “cambiare la mentalità degli italiani”. Ma poi questa intenzione si è tradotta nella continuità di politiche che penalizzano il lavoro».
Nel merito della riforma, ci sono punti di contatto sul tema dei contratti?
«Non c’è ancora una sintesi ma le proposte del ministro di far costare di più la flessibilità, eliminando quella cattiva, vanno nella giusta direzione».
C’è qualche novità sulla stabilizzazione dei precari?
«Al momento non ci sono risposte. Non si è mai nemmeno parlato di pubblico impiego dove la precarietà dilaga. Nè mi è piaciuto lo spettacolo del blocco dell’assunzione di 10 mila insegnanti».
Sugli ammortizzatori sociali lei dice che servono 15 miliardi. Può spiegare meglio?
«Attualmente ci sono 8,5 miliardi, tra contributi di imprese e di lavoratori, con l’estensione della contribuzione si potrebbe arrivare a 11. Mancano ancora 4 miliardi per avviare gradualmente la riforma».
Sui due pilastri voluti da Fornero? Cassa ordinaria e indennità di disoccupazione?
«No, non si può fare a meno della cassa straordinaria per le riconversioni che saranno tante dopo la crisi. E l’indennità va estesa a tutti, compreso chi vive il lavoro con discontinuità».
Veniamo all’articolo 18.
«Espungerlo dal tavolo sarebbe un atto di saggezza, limitiamoci a velocizzare i processi sul lavoro».
Ma se invece si procedesse, che farà la Cgil?
«Quando si porrà il problema ci penseremo. Vedo in giro qualche proposta di chi cerca solo uno scalpo. E poi c’è quella della Cisl, che estende le procedure dei licenziamenti collettivi a quelli individuali. Ma i licenziamenti individuali si possono già fare se non sono discriminatori».
Prenda il caso del lavoratore che, messosi in malattia, è andato a tirare il petardo al segretario della Cisl, Bonanni, ed è stato reintegrato sul posto di lavoro.
«Se il lavoratore ha violato la norma contrattuale ha ragione l’impresa, se non l’ha violata, è giusto il reintegro. Non tutte le malattie prevedono di stare a casa 24 ore su 24. Le norme ci sono: basta farle rispettare. Ad esempio, io mi chiedo perché non si impone mai al dirigente pubblico di controllare chi timbra e chi no».
Marcegaglia ha accusato il sindacato di difendere i fannulloni.
«Marcegaglia è stata presa da tentazione perché era all’assemblea di Federmeccanica… Ma non è che per evitare i problemi vadano cancellate le tutele».
Lei ha chiesto a Fornero di rivedere la riforma delle pensioni. Pensa ce ne siano i margini?
«Devono esserci. Non dispero di convincere il ministro che, con riferimento alle pensioni, non tutti i lavori sono uguali. Sul punto c’è una sensibilità fortissima e suggerirei sommessamente di tenerne conto…».
Intanto la Cgil è stata fischiata alla manifestazione della Fiom.
«Mi dicono che i fischi non erano dei lavoratori metalmeccanici. Dopodiché so che c’è una parte di movimento che ha un’idea antagonista. Ma il sindacato non è antagonista: costruisce accordi. Anche il segretario Fiom, Landini, ha detto che è per l’accordo, purché non si tocchi l’articolo 18. Che è quello che penso anch’io».
Veltroni, attaccando l’articolo 18, vi ha chiamati indirettamente «santuari del no».
«Io sento quello che dice il segretario Bersani: non mi sembra che voglia cambiare l’articolo 18. Gli altri si pongano il problema di pensare cosa proporre loro, piuttosto che dirci quello che dobbiamo fare noi».

Il Corriere della Sera 11.03.12

«L’articolo 18 non sia uno scalpo Difesa con lotte mirate e dolorose», intervista a Susanna Camusso di Antonella Baccaro

Camusso: fare la Tav è utile per l’occupazione ma serve il dialogo. Susanna Camusso, la Fiom chiama lo sciopero generale se verrà toccato l’articolo 18. Cosa risponde il segretario della Cgil?
«Ho impressione che qualcuno abbia già messo in conto un nostro sciopero generale: una fiammata e via. Ma non può essere così: si aprirà una fase non breve di lotta».
A cosa si riferisce?
«A tante cose: scioperi articolati, proteste mirate, durature, più dolorose».
Non teme che il suo messaggio venga frainteso e alimenti tensioni incontrollabili?
«So che ci sono preoccupazioni, ce le abbiamo anche noi. Ecco perché vanno date risposte».
Cosa pensa della presenza dei No Tav nella manifestazione della Fiom?
«Nessuna forma d’iniziativa legittima può prevaricare la vita degli altri e sconfinare nella violenza. Penso che la Cgil debba avere un giudizio netto. Del resto la nostra posizione favorevole alla Tav l’abbiamo espressa al congresso: il Paese ha un disperato bisogno di investimenti. Dopodiché sarebbe meglio avere regole su come si decide. E comunque va ricostruito il dialogo: è impensabile fare i lavori per anni con la valle contro».
La trattativa sul mercato del lavoro riprende domani. C’è possibilità che si arrivi a un accordo?
«Cominciamo col dire che una riforma, anche una buona riforma, non creerà occupazione: è sbagliato illudere la gente. Serve altro».
Ad esempio?
«Investimenti, politiche industriali che ancora non vedo. La “fase due” della crescita mi sembra lontana: la delega fiscale si sta traducendo in aumento dell’Iva anziché nella riduzione della pressione fiscale sul lavoro».
Questo governo l’ha delusa?
«L’esecutivo Monti ha scelto di avere il piglio di chi vuole fare riforme strutturali, ha usato termini ambiziosi, come “cambiare la mentalità degli italiani”. Ma poi questa intenzione si è tradotta nella continuità di politiche che penalizzano il lavoro».
Nel merito della riforma, ci sono punti di contatto sul tema dei contratti?
«Non c’è ancora una sintesi ma le proposte del ministro di far costare di più la flessibilità, eliminando quella cattiva, vanno nella giusta direzione».
C’è qualche novità sulla stabilizzazione dei precari?
«Al momento non ci sono risposte. Non si è mai nemmeno parlato di pubblico impiego dove la precarietà dilaga. Nè mi è piaciuto lo spettacolo del blocco dell’assunzione di 10 mila insegnanti».
Sugli ammortizzatori sociali lei dice che servono 15 miliardi. Può spiegare meglio?
«Attualmente ci sono 8,5 miliardi, tra contributi di imprese e di lavoratori, con l’estensione della contribuzione si potrebbe arrivare a 11. Mancano ancora 4 miliardi per avviare gradualmente la riforma».
Sui due pilastri voluti da Fornero? Cassa ordinaria e indennità di disoccupazione?
«No, non si può fare a meno della cassa straordinaria per le riconversioni che saranno tante dopo la crisi. E l’indennità va estesa a tutti, compreso chi vive il lavoro con discontinuità».
Veniamo all’articolo 18.
«Espungerlo dal tavolo sarebbe un atto di saggezza, limitiamoci a velocizzare i processi sul lavoro».
Ma se invece si procedesse, che farà la Cgil?
«Quando si porrà il problema ci penseremo. Vedo in giro qualche proposta di chi cerca solo uno scalpo. E poi c’è quella della Cisl, che estende le procedure dei licenziamenti collettivi a quelli individuali. Ma i licenziamenti individuali si possono già fare se non sono discriminatori».
Prenda il caso del lavoratore che, messosi in malattia, è andato a tirare il petardo al segretario della Cisl, Bonanni, ed è stato reintegrato sul posto di lavoro.
«Se il lavoratore ha violato la norma contrattuale ha ragione l’impresa, se non l’ha violata, è giusto il reintegro. Non tutte le malattie prevedono di stare a casa 24 ore su 24. Le norme ci sono: basta farle rispettare. Ad esempio, io mi chiedo perché non si impone mai al dirigente pubblico di controllare chi timbra e chi no».
Marcegaglia ha accusato il sindacato di difendere i fannulloni.
«Marcegaglia è stata presa da tentazione perché era all’assemblea di Federmeccanica… Ma non è che per evitare i problemi vadano cancellate le tutele».
Lei ha chiesto a Fornero di rivedere la riforma delle pensioni. Pensa ce ne siano i margini?
«Devono esserci. Non dispero di convincere il ministro che, con riferimento alle pensioni, non tutti i lavori sono uguali. Sul punto c’è una sensibilità fortissima e suggerirei sommessamente di tenerne conto…».
Intanto la Cgil è stata fischiata alla manifestazione della Fiom.
«Mi dicono che i fischi non erano dei lavoratori metalmeccanici. Dopodiché so che c’è una parte di movimento che ha un’idea antagonista. Ma il sindacato non è antagonista: costruisce accordi. Anche il segretario Fiom, Landini, ha detto che è per l’accordo, purché non si tocchi l’articolo 18. Che è quello che penso anch’io».
Veltroni, attaccando l’articolo 18, vi ha chiamati indirettamente «santuari del no».
«Io sento quello che dice il segretario Bersani: non mi sembra che voglia cambiare l’articolo 18. Gli altri si pongano il problema di pensare cosa proporre loro, piuttosto che dirci quello che dobbiamo fare noi».

Il Corriere della Sera 11.03.12

"Noi, gli invisibili operai dello spettacolo senza diritti e garanzie", di Fabio Fila

Non abbiamo un contratto, non abbiamo ruoli e mansioni, né indennità di disoccupazione. Anche la maternità è un lusso. Eppure contribuiamo al Pil e alla cultura di questo Paese. Il mondo dello spettacolo è affascinante. Ma carente del punto di vista normativo e di riconoscimento. Dopo i due incidenti di Trieste e Reggio Calabria occorsi in soli tre mesi durante l’installazione degli spettacoli di Jovanotti e Laura Pausini in cui due ragazzi hanno perso la vita, anche i non addetti ai lavori hanno scoperto questo universo parallelo fatto di lavoratori dello spettacolo. Sono professionisti specializzati che rendono
vivo il mondo del divertimento; eppure sono senza riconoscimento e senza tutele. In questo universo, il tempo è denaro e il denaro a volte conta più della sicurezza. Si lavora fino a venti ore di fila, se necessario, ma senza continuità del reddito.
Le norme sulla sicurezza sono le stesse dell’edilizia ma i “cantieri” dello spettacolo sono veloci: si monta e si smonta in 24 ore.Non solo: in Italia i musicisti, gli attori, i ballerini, gli artisti professionisti che con la loro attività svolgono un ruolo indispensabile per mantenere vivo il patrimonio culturale comune, a differenza degli altri lavoratori, non hanno diritto alla indennità di disoccupazione.
Questo è stabilito da un Regio Decreto legge del 1935, una norma di quasi 80 anni fa. Lo stesso può dirsi del diritto alla maternità che agli “intermittenti” non è riconosciuta al pari degli altri lavoratori. Non esiste un contratto di categoria che definisca le figure artistiche e le figure tecniche come lavoratori
che abbiano mansioni, orario di lavoro, riposi, retribuzione, diritti e doveri. Il lavoratore dello spettacolo è una categoria marginale, quasi invisibile. È per questo che il mondo dello
spettacolo si è mobilitato. Negli ultimi mesi si sono aperti tavoli di contrattazione per realizzare finalmente il primo Contratto collettivo nazionale che sancisca definitivamente
mansioni, ruoli, turni. Si è iniziato, finalmente, a parlare anche
di sicurezza perché vengano istituite linee guida durante l’allestimento degli spettacoli dal vivo. Si sta, dunque, procedendo in comune, con l’obiettivo di stabilire un’organizzazione chiara del lavoro nella filiera degli appalti e nel riconoscimento delle responsabilità oggettive prima e dopo gli allestimenti.
In contemporanea c’è la necessità di una formazione specifica
dei lavoratori, finalmente riconosciuti come categoria. Chi opera
nel mondo dello spettacolo deve ottenere pieni diritti di lavoratore riconosciuto come tale.
Come sottolinea la commissione Cultura della Comunità europea,
dobbiamo ricordare che «il vigore e la vitalità della creazione artistica dipendono soprattutto dal benessere materiale e intellettuale degli artisti e dei tecnici in quanto individui e in quanto collettività».
Anche per questo motivo è necessario procedere su tutte queste
linee: riconoscimento di categoria professionale, istituzione di un
Ccnl unico, definizione delle mansioni professionali specifiche, realizzazione di linee guida per la sicurezza nel mondo dello spettacolo, tutele e diritti pari a quelle di qualsiasi altro lavoratore. Dalla indennità di disoccupazione ove prevista fino al diritto alla maternità.

L’Unità 11.03.12