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"Dirigere gli Uffizi con 1.780 Euro al mese", di Gian Antonio Stella

I direttori di alcuni dei musei più importanti d’Italia, quindi del mondo, hanno deciso di fare «outing» e dichiarare i propri redditi. Che sono, rispetto a quelli dei colleghi del resto del pianeta, avvilenti.Se il guadagno misura il merito, dirigere gli Uffizi è un lavoro da 1.780 euro? Lette le denunce dei redditi dei ministri e degli alti burocrati di Stato, i direttori di alcuni dei musei più importanti d’Italia, quindi del mondo, hanno deciso di fare «outing» e dichiarare i propri redditi. Che sono, rispetto a quelli dei colleghi del resto del pianeta, avvilenti.
A uscire allo scoperto, in calce a una lettera pubblica, sono Anna Lo Bianco, direttore della Galleria nazionale d’Arte antica di Palazzo Barberini, Maria Grazia Bernardini, del Museo di Castel Sant’Angelo, Anna Coliva, della Galleria Borghese, Antonio Natali, della Galleria degli Uffizi, Andreina Draghi, del Museo di Palazzo di Venezia, Serena Dainotto, della Biblioteca dell’Archivio di Stato di Roma e tanti altri funzionari alla guida di biblioteche e archivi e istituzioni museali che fanno grande il nostro Paese.
Il punto di partenza, come dicevamo, è la tesi espressa da alcuni esponenti del governo e altissimi grand commis di Stato dopo la (meritoria) scelta di trasparenza fatta giorni fa con la pubblicazione sul Web dei redditi e dei patrimoni. Tesi sintetizzabile così: tanta responsabilità, tanto guadagno. Con parallela citazione dell’America e delle società calviniste dove il reddito non solo non viene pudicamente nascosto come da noi (il denaro è stato a lungo «lo sterco del diavolo» sia per i comunisti sia per i cattolici) ma al contrario esibito, a riprova della affermazione professionale.
Un po’ quello che ha detto Paola Severino. La quale, a Liana Milella che le chiedeva se non fosse imbarazzata per i sette milioni di euro denunciati, ha risposto: «No, perché guadagnare non è un peccato se lo si fa lecitamente producendo altra ricchezza e pagando le tasse. A questi redditi sono arrivata solo dopo anni di duro lavoro, supportato da tanta passione».
Fin qua, par di capire, i direttori dei musei ci stanno: è il mercato, bellezza. E le alternative inventate finora, vedi socialismo reale, non hanno dato risultati incoraggianti… Ma perché lo Stato dovrebbe dare 395 mila euro lorde al direttore generale della Consob (che poi ne prende altri 95 mila da membro della Commissione di garanzia per gli scioperi) e undici volte di meno al direttore del museo fiorentino che ospita la «Nascita di Venere» di Botticelli e la «Maestà di Santa Trinità» del Cimabue, «l’Annunciazione» di Leonardo da Vinci e la «Maestà di Ognissanti» di Giotto?
Perché 519.015 euro lorde di pensione all’ex segretario generale del Senato Antonio Malaschini e 32.535 (cioè 16 volte di meno: sedici volte!) ad Anna Lo Bianco che guida la Galleria nazionale d’Arte antica e per 1.765 euro netti al mese (un quarto di quanto prende un commesso di Palazzo Madama di pari anzianità) porta il peso di custodire e valorizzare la Fornarina di Raffaello, il ritratto di Beatrice Cenci di Guido Reni e quello di Enrico VIII di Hans Holbein e «Giuditta che taglia la testa ad Oloferne» di Caravaggio? Che senso ha che lo Stato tratti con tanta disparità, a capocchia, figli e figliastri?
All’estero non va così. I «pari grado» dei nostri dirigenti, in Francia, Gran Bretagna o Australia, guadagnano il doppio se non il triplo. La stessa Spagna, per dire, nonostante sia in crisi quanto e più di noi, paga i direttori dei più importanti musei dai 50 ai 60 mila euro. Questione di rispetto. Questione di «merito».
Da qui la lettera di «outing», che val la pena di riportare parola per parola: «Tra tanti che sentono il dovere della trasparenza a proposito dei propri redditi, vogliamo ora proporci anche noi, archeologi, storici dell’arte, architetti, archivisti, bibliotecari, funzionari con compiti complessi che spaziano dalla gestione del personale al fund raising, alla direzione di musei, fino a incarichi altamente specialistici come la cura di mostre, grandi restauri o la redazione di pubblicazioni scientifiche».
Ebbene, proseguono con amara ironia i firmatari della protesta, «non raggiungiamo i duemila euro al mese; ed è lo stipendio vero, che non prevede nessuna indennità, nessun altro tipo di compensazione. A noi il merito quindi di bilanciare la media europea contro l’eccesso di compensi dei parlamentari, dei manager di Stato e non, di professori universitari. Nel nostro caso gli stipendi si collocano molto al di sotto».
Peggio, insistono: «Un bel giorno, ormai alcuni anni fa, la riforma Bassanini stabilì fortissimi aumenti di stipendio solo per i dirigenti del ministero dei Beni culturali con contratti di tipo privatistico, allargando a dismisura la differenza tra i prescelti e non, con una conseguente e inevitabile soggezione dei primi nei confronti della politica. Saremmo curiosi di sapere come ci apostroferebbe il giornalista Vittorio Feltri che nel corso di una trasmissione televisiva definiva “scherzosamente” barboni i parlamentari per i loro compensi, in fondo di modesta entità se confrontati a tanti altri. E vorremmo anche sapere cosa pensano il presidente del Consiglio Monti e il ministro Severino che con rigore ritengono il denaro il giusto compenso al merito».
Ed ecco la conclusione: «I nostri meriti — spiace dircelo da soli — sono elencati in densi curricula e in un’altissima specializzazione che ci viene a parole continuamente riconosciuta. Ma allora come la mettiamo visto che anche il nostro ministero, pur avendone la possibilità, non ci ha riconosciuto nessuna progressione dimostrando così di non conoscerci e chiedendoci ancora oggi, la fotocopia del diploma di laurea e di perfezionamento?»
È stata questa, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il dicastero dei Beni culturali ha appena avviato una specie di concorso che dovrebbe portare a una modesta (cento o centocinquanta euro) progressione meritocratica degli emolumenti. Ma per farlo ha chiesto ai suoi stessi direttori, archivisti, funzionari, archeologi, storici dell’arte, architetti e bibliotecari di fornire un incartamento con dentro non solo tutti gli incarichi di lavoro effettuati ma addirittura il certificato di laurea che, ovviamente, già possiede in qualche cassetto. Una piccola, stupida, crudele umiliazione burocratica supplementare.

Il Corriere della Sera 09.03.12

“Dirigere gli Uffizi con 1.780 Euro al mese”, di Gian Antonio Stella

I direttori di alcuni dei musei più importanti d’Italia, quindi del mondo, hanno deciso di fare «outing» e dichiarare i propri redditi. Che sono, rispetto a quelli dei colleghi del resto del pianeta, avvilenti.Se il guadagno misura il merito, dirigere gli Uffizi è un lavoro da 1.780 euro? Lette le denunce dei redditi dei ministri e degli alti burocrati di Stato, i direttori di alcuni dei musei più importanti d’Italia, quindi del mondo, hanno deciso di fare «outing» e dichiarare i propri redditi. Che sono, rispetto a quelli dei colleghi del resto del pianeta, avvilenti.
A uscire allo scoperto, in calce a una lettera pubblica, sono Anna Lo Bianco, direttore della Galleria nazionale d’Arte antica di Palazzo Barberini, Maria Grazia Bernardini, del Museo di Castel Sant’Angelo, Anna Coliva, della Galleria Borghese, Antonio Natali, della Galleria degli Uffizi, Andreina Draghi, del Museo di Palazzo di Venezia, Serena Dainotto, della Biblioteca dell’Archivio di Stato di Roma e tanti altri funzionari alla guida di biblioteche e archivi e istituzioni museali che fanno grande il nostro Paese.
Il punto di partenza, come dicevamo, è la tesi espressa da alcuni esponenti del governo e altissimi grand commis di Stato dopo la (meritoria) scelta di trasparenza fatta giorni fa con la pubblicazione sul Web dei redditi e dei patrimoni. Tesi sintetizzabile così: tanta responsabilità, tanto guadagno. Con parallela citazione dell’America e delle società calviniste dove il reddito non solo non viene pudicamente nascosto come da noi (il denaro è stato a lungo «lo sterco del diavolo» sia per i comunisti sia per i cattolici) ma al contrario esibito, a riprova della affermazione professionale.
Un po’ quello che ha detto Paola Severino. La quale, a Liana Milella che le chiedeva se non fosse imbarazzata per i sette milioni di euro denunciati, ha risposto: «No, perché guadagnare non è un peccato se lo si fa lecitamente producendo altra ricchezza e pagando le tasse. A questi redditi sono arrivata solo dopo anni di duro lavoro, supportato da tanta passione».
Fin qua, par di capire, i direttori dei musei ci stanno: è il mercato, bellezza. E le alternative inventate finora, vedi socialismo reale, non hanno dato risultati incoraggianti… Ma perché lo Stato dovrebbe dare 395 mila euro lorde al direttore generale della Consob (che poi ne prende altri 95 mila da membro della Commissione di garanzia per gli scioperi) e undici volte di meno al direttore del museo fiorentino che ospita la «Nascita di Venere» di Botticelli e la «Maestà di Santa Trinità» del Cimabue, «l’Annunciazione» di Leonardo da Vinci e la «Maestà di Ognissanti» di Giotto?
Perché 519.015 euro lorde di pensione all’ex segretario generale del Senato Antonio Malaschini e 32.535 (cioè 16 volte di meno: sedici volte!) ad Anna Lo Bianco che guida la Galleria nazionale d’Arte antica e per 1.765 euro netti al mese (un quarto di quanto prende un commesso di Palazzo Madama di pari anzianità) porta il peso di custodire e valorizzare la Fornarina di Raffaello, il ritratto di Beatrice Cenci di Guido Reni e quello di Enrico VIII di Hans Holbein e «Giuditta che taglia la testa ad Oloferne» di Caravaggio? Che senso ha che lo Stato tratti con tanta disparità, a capocchia, figli e figliastri?
All’estero non va così. I «pari grado» dei nostri dirigenti, in Francia, Gran Bretagna o Australia, guadagnano il doppio se non il triplo. La stessa Spagna, per dire, nonostante sia in crisi quanto e più di noi, paga i direttori dei più importanti musei dai 50 ai 60 mila euro. Questione di rispetto. Questione di «merito».
Da qui la lettera di «outing», che val la pena di riportare parola per parola: «Tra tanti che sentono il dovere della trasparenza a proposito dei propri redditi, vogliamo ora proporci anche noi, archeologi, storici dell’arte, architetti, archivisti, bibliotecari, funzionari con compiti complessi che spaziano dalla gestione del personale al fund raising, alla direzione di musei, fino a incarichi altamente specialistici come la cura di mostre, grandi restauri o la redazione di pubblicazioni scientifiche».
Ebbene, proseguono con amara ironia i firmatari della protesta, «non raggiungiamo i duemila euro al mese; ed è lo stipendio vero, che non prevede nessuna indennità, nessun altro tipo di compensazione. A noi il merito quindi di bilanciare la media europea contro l’eccesso di compensi dei parlamentari, dei manager di Stato e non, di professori universitari. Nel nostro caso gli stipendi si collocano molto al di sotto».
Peggio, insistono: «Un bel giorno, ormai alcuni anni fa, la riforma Bassanini stabilì fortissimi aumenti di stipendio solo per i dirigenti del ministero dei Beni culturali con contratti di tipo privatistico, allargando a dismisura la differenza tra i prescelti e non, con una conseguente e inevitabile soggezione dei primi nei confronti della politica. Saremmo curiosi di sapere come ci apostroferebbe il giornalista Vittorio Feltri che nel corso di una trasmissione televisiva definiva “scherzosamente” barboni i parlamentari per i loro compensi, in fondo di modesta entità se confrontati a tanti altri. E vorremmo anche sapere cosa pensano il presidente del Consiglio Monti e il ministro Severino che con rigore ritengono il denaro il giusto compenso al merito».
Ed ecco la conclusione: «I nostri meriti — spiace dircelo da soli — sono elencati in densi curricula e in un’altissima specializzazione che ci viene a parole continuamente riconosciuta. Ma allora come la mettiamo visto che anche il nostro ministero, pur avendone la possibilità, non ci ha riconosciuto nessuna progressione dimostrando così di non conoscerci e chiedendoci ancora oggi, la fotocopia del diploma di laurea e di perfezionamento?»
È stata questa, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il dicastero dei Beni culturali ha appena avviato una specie di concorso che dovrebbe portare a una modesta (cento o centocinquanta euro) progressione meritocratica degli emolumenti. Ma per farlo ha chiesto ai suoi stessi direttori, archivisti, funzionari, archeologi, storici dell’arte, architetti e bibliotecari di fornire un incartamento con dentro non solo tutti gli incarichi di lavoro effettuati ma addirittura il certificato di laurea che, ovviamente, già possiede in qualche cassetto. Una piccola, stupida, crudele umiliazione burocratica supplementare.

Il Corriere della Sera 09.03.12

"Il precariato azzoppa la ricerca", intervista a Luigi Nicolais di Cristina Pulcinelli

Il Cnr è nato molti anni fa come un ente in cui si svolgeva ricerca di base e applicata. E questo è ancora il suo ruolo. Oggi rappresenta una grande opportunità per il Paese perché vi lavorano 8000 persone, di cui oltre 4000 sono ricercatori e tecnologi. Insieme formano una massa critica interessante che opera in vari settori. L’importante è che interagisca di più con l’università, con l’impresa e con altri enti pubblici ». È un Cnr legato al passato ma proiettato al futuro quello che immagina Luigi Nicolais, ingegnere chimico nominato meno di un mese fa presidente del più grande ente di ricerca del nostro paese al posto del ministro Profumo.

Fresco di nomina, lei ha affermato: «Darò il mio contributo per ridurre la burocrazia, aumentare l’efficienza e consolidarela fiducia».Concretamente cosa pensa di fare? «Prima di tutto bisogna dematerializzare. Evitare, cioè, che i ricercatori debbano usare il loro tempo per scrivere carte che servono solo a fini burocratici. I controlli vanno fatti, ma si deve rendere più snello il sistema. Un’altra cosa che voglio fare è costruire una biblioteca virtuale centralizzata in cui ogni ricercatore possa avere accesso immediato a qualsiasi rivista. In questo modo i singoli istituti non dovrebbero più abbonarsi alle riviste scientifiche, si eviterebbero doppioni e si ridurrebbero i costi. Non tutti sanno che un abbonamento a una rivista scientifica costa anche migliaia di euro all’anno».

Lei parla di incentivare le relazioni con le imprese. Qual sono oggi queste relazioni? «In alcuni settori sono già buone. Credo però che vadano incentivate sia perché non ci sono fondi pubblici a sufficienza per poter fare ricerca basandosi solo su quelli, sia perché il trasferimento della ricerca sviluppata nei laboratori sarebbe utile a tutti».

Non le sembra che l’industria italiana sia poco interessata alla ricerca? «Questo dipende dalla dimensioni delle nostre imprese. In Italia ci sono per lo più piccole e medie imprese che non possono fare ricerca come le grandi,ma possono assorbire le conoscenze dagli enti di ricerca per fare innovazione. Qui gioca un ruolo importante il Cnr. Solo finanziando la ricerca pubblica sviluppata nei nostri laboratori e valorizzando i risultati potremo offrire alle imprese reali possibilità di innovazione e competitività».

Cosa pensa del bandoPrin 2010e del fatto che vi possono accedere solo le università e non gli enti di ricerca? «Abbiamo fatto da poco una riunione con il ministro proprio su questi temi. Il fatto è che gli enti di ricerca devono interagire di più con le università e lo devono fare alla pari. Le norme esistenti non prevedono questa osmosi, per ottenerla dobbiamo cambiare le regole. Credo che sarebbe un bene per tutti. Gli enti di ricerca avrebbero il vantaggio di entrare in contatto con i giovani delle università che sono una spinta importante alla ricerca; l’università avrebbe accesso a grandi laboratori con apparecchiature moderne e molti ricercatori».

Abbiamo parlato dei rapporti con l’impresa e con l’università. E con la politica? «Uno dei problemi del nostro Paese è che noi ricercatori non abbiamo molto curato la nostra immagine nella società. Per anni abbiamo pensato che dovevamo fare le nostre ricerche senza confonderci con chi non sapesse di scienza. Invece, oggi abbiamo capito quanto sia importante avere credibilità nella società. La politica è lo specchio della società: se i cittadini si convincono che la ricerca è centrale, il politico si deciderà a finanziarla. Dobbiamo scendere dalla torre d’avorio e interagire con i cittadini e con i politici. Naturalmente però la politica non deve né condizionare né orientare la ricerca, che deve essere sempre autonoma, indipendente, libera. Discutere su quello che lo scienziato può o non può fare è un errore: non si può limitare l’attività creativa del ricercatore, ma solo l’uso dei risultati».

E la valutazione all’interno della comunità scientifica? «È essenziale. Noi siamo abituati ad essere valutati: il ricercatore che pubblica su riviste internazionali è continuamente sottoposto a giudizio, ma quando la valutazione diventa sistema ci preoccupa. Forse perché in Italia, da un punto di vista culturale, la valutazione è vista come punizione. Nel mondo anglosassone valutazione significa possibilità di crescita. Quando insegnavo negli Usa, tutti gli anni venivo valutato dai miei studenti ed ero contento perché mi aiutava a migliorare. Bisogna cambiare la mentalità. Del resto, senza valutazione non c’è autonomia ma solo caos».

Come si scelgono i settori strategici su cui investire? «Il programma Horizon 2020 già ci dà indicazioni sulle strategie del sistema Europa. Noi dobbiamo capire in quali aree siamo maggiormente attrattivi e competitivi. E lo siamo sicuramente, per esempio, nelle biotecnologie e nella meccanica di precisione: in questi settori possiamo continuare a lavorare. Ma non possiamo inventarci oggi delle competenze dal nulla o ripescarle da un passato dismesso. Ad esempio, la ricerca sul nucleare è stata abbandonata dal nostro Paese anni orsono, tornarci oggi non sarebbe adeguato. Ma bisogna stare attenti perché se ci muovessimo solo nella direzione indicata dalle strategie europee e non lasciassimo anche spazi alla ricerca spinta dalla curiosità, rischieremmo di essere pronti sul breve ma non sul medio lungo periodo. Una parte dei finanziamenti va assicurata a giovani che vogliono fare ricerche al di fuori dei settori strategici».

A proposito di giovani, come possiamo far loro ritrovare la voglia di scegliere la scienza come lavoro? «Altri Paesi come la Finlandia o il Canada hanno cominciato dalla scuola primaria: insegnare la bellezza di trovare qualcosa di nuovo, far sviluppare la curiosità, sono essenziali per il ricercatore. Lo scienziato è uno che riesce a pensare l’inimmaginabile. Va quindi sviluppata l’attività creativa. Ma non basta: bisogna creare una filiera attenta alla ricerca, dalla scuola primaria all’impresa». Eppure nelle imprese del nostro Paese, dice l’indagine europea sull’innovazione pubblicata recentemente, ci sono pochi laureati. Come mai? «Il problema è sempre la dimensione: la percentuale di laureati nelle grandi imprese è più alta, diminuisce invece in quelle medie e piccole. In generale, vale la regola che in un Paese più laureati ci sono, meglio è. Quindi va sicuramente incentivato l’ingresso nelle università. Di conseguenza vanno incentivate e favorite le attrazioni e gli insediamenti di grandi imprese a forte base di conoscenza capaci di assorbirli adeguatamente nei loro organici e garantire loro unsuccesso professionale ed umano. Come del resto hannofatto e stanno facendo i Paesi emergenti, India, Singapore, Corea del Sud, Brasile e Cina».

Lei ha scritto che oggi creatività e vocazione non bastano più per fare scienza. Cos’altro ci vuole? «Ci vogliono condizioni al contorno adeguate. Senza soldi, laboratori, stipendi sicuri non si può fare nulla. Perché tutti sono pronti ad accettare un periodo di precariato, ma dire che in queste condizioni si produce meglio non è vero».

L’Unità 09.03.12

“Il precariato azzoppa la ricerca”, intervista a Luigi Nicolais di Cristina Pulcinelli

Il Cnr è nato molti anni fa come un ente in cui si svolgeva ricerca di base e applicata. E questo è ancora il suo ruolo. Oggi rappresenta una grande opportunità per il Paese perché vi lavorano 8000 persone, di cui oltre 4000 sono ricercatori e tecnologi. Insieme formano una massa critica interessante che opera in vari settori. L’importante è che interagisca di più con l’università, con l’impresa e con altri enti pubblici ». È un Cnr legato al passato ma proiettato al futuro quello che immagina Luigi Nicolais, ingegnere chimico nominato meno di un mese fa presidente del più grande ente di ricerca del nostro paese al posto del ministro Profumo.

Fresco di nomina, lei ha affermato: «Darò il mio contributo per ridurre la burocrazia, aumentare l’efficienza e consolidarela fiducia».Concretamente cosa pensa di fare? «Prima di tutto bisogna dematerializzare. Evitare, cioè, che i ricercatori debbano usare il loro tempo per scrivere carte che servono solo a fini burocratici. I controlli vanno fatti, ma si deve rendere più snello il sistema. Un’altra cosa che voglio fare è costruire una biblioteca virtuale centralizzata in cui ogni ricercatore possa avere accesso immediato a qualsiasi rivista. In questo modo i singoli istituti non dovrebbero più abbonarsi alle riviste scientifiche, si eviterebbero doppioni e si ridurrebbero i costi. Non tutti sanno che un abbonamento a una rivista scientifica costa anche migliaia di euro all’anno».

Lei parla di incentivare le relazioni con le imprese. Qual sono oggi queste relazioni? «In alcuni settori sono già buone. Credo però che vadano incentivate sia perché non ci sono fondi pubblici a sufficienza per poter fare ricerca basandosi solo su quelli, sia perché il trasferimento della ricerca sviluppata nei laboratori sarebbe utile a tutti».

Non le sembra che l’industria italiana sia poco interessata alla ricerca? «Questo dipende dalla dimensioni delle nostre imprese. In Italia ci sono per lo più piccole e medie imprese che non possono fare ricerca come le grandi,ma possono assorbire le conoscenze dagli enti di ricerca per fare innovazione. Qui gioca un ruolo importante il Cnr. Solo finanziando la ricerca pubblica sviluppata nei nostri laboratori e valorizzando i risultati potremo offrire alle imprese reali possibilità di innovazione e competitività».

Cosa pensa del bandoPrin 2010e del fatto che vi possono accedere solo le università e non gli enti di ricerca? «Abbiamo fatto da poco una riunione con il ministro proprio su questi temi. Il fatto è che gli enti di ricerca devono interagire di più con le università e lo devono fare alla pari. Le norme esistenti non prevedono questa osmosi, per ottenerla dobbiamo cambiare le regole. Credo che sarebbe un bene per tutti. Gli enti di ricerca avrebbero il vantaggio di entrare in contatto con i giovani delle università che sono una spinta importante alla ricerca; l’università avrebbe accesso a grandi laboratori con apparecchiature moderne e molti ricercatori».

Abbiamo parlato dei rapporti con l’impresa e con l’università. E con la politica? «Uno dei problemi del nostro Paese è che noi ricercatori non abbiamo molto curato la nostra immagine nella società. Per anni abbiamo pensato che dovevamo fare le nostre ricerche senza confonderci con chi non sapesse di scienza. Invece, oggi abbiamo capito quanto sia importante avere credibilità nella società. La politica è lo specchio della società: se i cittadini si convincono che la ricerca è centrale, il politico si deciderà a finanziarla. Dobbiamo scendere dalla torre d’avorio e interagire con i cittadini e con i politici. Naturalmente però la politica non deve né condizionare né orientare la ricerca, che deve essere sempre autonoma, indipendente, libera. Discutere su quello che lo scienziato può o non può fare è un errore: non si può limitare l’attività creativa del ricercatore, ma solo l’uso dei risultati».

E la valutazione all’interno della comunità scientifica? «È essenziale. Noi siamo abituati ad essere valutati: il ricercatore che pubblica su riviste internazionali è continuamente sottoposto a giudizio, ma quando la valutazione diventa sistema ci preoccupa. Forse perché in Italia, da un punto di vista culturale, la valutazione è vista come punizione. Nel mondo anglosassone valutazione significa possibilità di crescita. Quando insegnavo negli Usa, tutti gli anni venivo valutato dai miei studenti ed ero contento perché mi aiutava a migliorare. Bisogna cambiare la mentalità. Del resto, senza valutazione non c’è autonomia ma solo caos».

Come si scelgono i settori strategici su cui investire? «Il programma Horizon 2020 già ci dà indicazioni sulle strategie del sistema Europa. Noi dobbiamo capire in quali aree siamo maggiormente attrattivi e competitivi. E lo siamo sicuramente, per esempio, nelle biotecnologie e nella meccanica di precisione: in questi settori possiamo continuare a lavorare. Ma non possiamo inventarci oggi delle competenze dal nulla o ripescarle da un passato dismesso. Ad esempio, la ricerca sul nucleare è stata abbandonata dal nostro Paese anni orsono, tornarci oggi non sarebbe adeguato. Ma bisogna stare attenti perché se ci muovessimo solo nella direzione indicata dalle strategie europee e non lasciassimo anche spazi alla ricerca spinta dalla curiosità, rischieremmo di essere pronti sul breve ma non sul medio lungo periodo. Una parte dei finanziamenti va assicurata a giovani che vogliono fare ricerche al di fuori dei settori strategici».

A proposito di giovani, come possiamo far loro ritrovare la voglia di scegliere la scienza come lavoro? «Altri Paesi come la Finlandia o il Canada hanno cominciato dalla scuola primaria: insegnare la bellezza di trovare qualcosa di nuovo, far sviluppare la curiosità, sono essenziali per il ricercatore. Lo scienziato è uno che riesce a pensare l’inimmaginabile. Va quindi sviluppata l’attività creativa. Ma non basta: bisogna creare una filiera attenta alla ricerca, dalla scuola primaria all’impresa». Eppure nelle imprese del nostro Paese, dice l’indagine europea sull’innovazione pubblicata recentemente, ci sono pochi laureati. Come mai? «Il problema è sempre la dimensione: la percentuale di laureati nelle grandi imprese è più alta, diminuisce invece in quelle medie e piccole. In generale, vale la regola che in un Paese più laureati ci sono, meglio è. Quindi va sicuramente incentivato l’ingresso nelle università. Di conseguenza vanno incentivate e favorite le attrazioni e gli insediamenti di grandi imprese a forte base di conoscenza capaci di assorbirli adeguatamente nei loro organici e garantire loro unsuccesso professionale ed umano. Come del resto hannofatto e stanno facendo i Paesi emergenti, India, Singapore, Corea del Sud, Brasile e Cina».

Lei ha scritto che oggi creatività e vocazione non bastano più per fare scienza. Cos’altro ci vuole? «Ci vogliono condizioni al contorno adeguate. Senza soldi, laboratori, stipendi sicuri non si può fare nulla. Perché tutti sono pronti ad accettare un periodo di precariato, ma dire che in queste condizioni si produce meglio non è vero».

L’Unità 09.03.12

"Rsu pubblico impiego Cgil primo sindacato ma Bonanni contesta", di Massimo Franchi

Come da previsioni, hanno vinto tutti. I dati definitivi per le elezioni per le Rappresentanze sindacali unitarie di scuola e pubblico impiego ci saranno solo venerdì 16 marzo, quando l’Aran, l’agenzia governativa, per la prima volta li certificherà dopo averli ricevuti in via telematica da ognuno degli oltre 22mila collegi elettoriali. E allora ieri ogni sindacato citava vittorie sul territorio e proiezioni proclamando la propria soddisfazione per il «successo», l’«avanzamento». E sommando le percentuali fornite dai vari sindacati, la somma supera abbondantemente quota 100. Tanto da arrivare a battibeccare fra loro sulla veridicità dei dati resi pubblici. A vincere, dati alla mano, dovrebbe essere stata la Cgil. Nel comparto delle amministrazioni pubbliche la Fp-Cgil sostiene di aver ottenuto il 33% dei consensi, crescendo del3,3%rispetto alle elezioni del 2007. Nella scuola nessuna proiezione, ma la certezza di essersi «confermati come primo sindacato in tutti i comparti, con una importante crescita». Dati che portano Susanna Camusso (da New York, dove si trova) e i due segretari generali di categoria (Rossana Dettori, Fp, e Domenico Pantaleo, Flc) a parlare di «grande soddisfazione» per una «Cgil che si conferma come primo sindacato in tutti i settori pubblici, aumentando ulteriormente i propri consensi». Festeggiamenti contestati direttamente daRaffaele Bonanni: «Non si capisce davvero di quale vittoria parli la Cgil. Non si può vendere la pelle dell’orso prima di prenderla. Dai dati in nostro possesso la Cisl si conferma in termini di voti sicuramente il primo sindacato negli enti pubblici non economici, all’Inps, all’Inpdap, e nei ministeri » e anche nella scuola la Cisl «è appaiata alla Cgil in termini di voti, e la supera abbondamentete sul piano associativo». Altra proiezione arriva dalla Uil. Il sindacato di Angeletti sostiene che le sue liste si stanno «attestando, mediamente, intorno al 24%», citando le vittorie alla Regione Liguria con il 40%, il Comune di L’Aquila con il 53,75%, il Tribunale di Milano (35%), la Questura di Napoli (49,56%), il Cnel (33%), l’Enac (41,81%), l’Ospedale San Matteo di Pavia (43%). «Questi risultati – dichiara il segretario confederale Paolo Pirani – riconoscono la validità della nostra impostazione che ha posto al centro il tema della qualità e del valore del lavoro pubblico». VINCONO ANCHE USB, UGL E CONFALS Canta vittoria anche l’Usb. «Si profila un consolidamento edun allargamento in tutti i comparti pubblici – secondo Massimo Betti, della direzione nazionale Usb Pubblico Impiego – un pezzo sempre più consistente di lavoratori pubblici sceglie di sostenere un’ipotesi sindacale radicalmente alternativa alla concertazione ». L’obiettivo, naturalmente raggiunto, dell’Ugl era quello della soglia di rappresentatività. «Dai primi dati l’Ugl – Intesa Funzione Pubblica avrebbe superato ampiamente nei ministeri la soglia di rappresentatività con l’8,50 per cento di voti, sommato al 7,37 per cento di deleghe (gennaio 2012)».Anche la Confals canta vittoria, soprattutto nella scuola.

L’Unità 09.03.12

“Rsu pubblico impiego Cgil primo sindacato ma Bonanni contesta”, di Massimo Franchi

Come da previsioni, hanno vinto tutti. I dati definitivi per le elezioni per le Rappresentanze sindacali unitarie di scuola e pubblico impiego ci saranno solo venerdì 16 marzo, quando l’Aran, l’agenzia governativa, per la prima volta li certificherà dopo averli ricevuti in via telematica da ognuno degli oltre 22mila collegi elettoriali. E allora ieri ogni sindacato citava vittorie sul territorio e proiezioni proclamando la propria soddisfazione per il «successo», l’«avanzamento». E sommando le percentuali fornite dai vari sindacati, la somma supera abbondantemente quota 100. Tanto da arrivare a battibeccare fra loro sulla veridicità dei dati resi pubblici. A vincere, dati alla mano, dovrebbe essere stata la Cgil. Nel comparto delle amministrazioni pubbliche la Fp-Cgil sostiene di aver ottenuto il 33% dei consensi, crescendo del3,3%rispetto alle elezioni del 2007. Nella scuola nessuna proiezione, ma la certezza di essersi «confermati come primo sindacato in tutti i comparti, con una importante crescita». Dati che portano Susanna Camusso (da New York, dove si trova) e i due segretari generali di categoria (Rossana Dettori, Fp, e Domenico Pantaleo, Flc) a parlare di «grande soddisfazione» per una «Cgil che si conferma come primo sindacato in tutti i settori pubblici, aumentando ulteriormente i propri consensi». Festeggiamenti contestati direttamente daRaffaele Bonanni: «Non si capisce davvero di quale vittoria parli la Cgil. Non si può vendere la pelle dell’orso prima di prenderla. Dai dati in nostro possesso la Cisl si conferma in termini di voti sicuramente il primo sindacato negli enti pubblici non economici, all’Inps, all’Inpdap, e nei ministeri » e anche nella scuola la Cisl «è appaiata alla Cgil in termini di voti, e la supera abbondamentete sul piano associativo». Altra proiezione arriva dalla Uil. Il sindacato di Angeletti sostiene che le sue liste si stanno «attestando, mediamente, intorno al 24%», citando le vittorie alla Regione Liguria con il 40%, il Comune di L’Aquila con il 53,75%, il Tribunale di Milano (35%), la Questura di Napoli (49,56%), il Cnel (33%), l’Enac (41,81%), l’Ospedale San Matteo di Pavia (43%). «Questi risultati – dichiara il segretario confederale Paolo Pirani – riconoscono la validità della nostra impostazione che ha posto al centro il tema della qualità e del valore del lavoro pubblico». VINCONO ANCHE USB, UGL E CONFALS Canta vittoria anche l’Usb. «Si profila un consolidamento edun allargamento in tutti i comparti pubblici – secondo Massimo Betti, della direzione nazionale Usb Pubblico Impiego – un pezzo sempre più consistente di lavoratori pubblici sceglie di sostenere un’ipotesi sindacale radicalmente alternativa alla concertazione ». L’obiettivo, naturalmente raggiunto, dell’Ugl era quello della soglia di rappresentatività. «Dai primi dati l’Ugl – Intesa Funzione Pubblica avrebbe superato ampiamente nei ministeri la soglia di rappresentatività con l’8,50 per cento di voti, sommato al 7,37 per cento di deleghe (gennaio 2012)».Anche la Confals canta vittoria, soprattutto nella scuola.

L’Unità 09.03.12

"Primo, concertare", di Mimmo Carrieri e Cesare Damiano

Il barometro della trattativa sul mercato del lavoro continua a oscillare, a volte volge al bello, altre in direzione contraria. Il governo aveva ventilato, in alcune occasioni, che non fosse indispensabile arrivare a una intesa con le parti sociali. E questo aveva fatto suscitare più di qualche interrogativo. Ci avevano insegnato (ricordate lo “scambio politico”) che è interesse fondante dei governi pervenire ad accordi con le parti sociali (che usavamo chiamare di concertazione): specie se si tratta di governi tecnici e dall’incerta base parlamentare, come è l’attuale. L’intesa era una necessità se essi volevano davvero allargare il loro consenso sociale (o neutralizzare potenziali conflitti).
In realtà queste indicazioni di “scuola” hanno subìto nel corso degli ultimi anni alcuni slittamenti, in ragione del prevalere (qualche volta anche nel centrosinistra) di una lettura liberista – molto discutibile – del rapporto con le organizzazioni sociali, in primo luogo i sindacati. Questa lettura porta a ritenere preferibile, alla strada dell’accordo, quella della decisione dirigista o dell’assecondamento della spontaneità del mercato. In questa ottica queste due modalità – decreto e mercato – sarebbero migliori perché più rapide ed efficaci.
Nella fase attuale a supporto di queste tesi vengono addotte le meraviglie prodotte dalle decisioni unilaterali adottate dal governo spagnolo (di destra) su queste materie. In realtà, finora queste meraviglie si traducono in due risultati certi: una minore protezione per i lavoratori (ed un ulteriore indebolimento dei sindacati); una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, che era già il più flessibile fra quelli dell’Europa occidentale. Restano incerti, e tutti da verificare, gli altri risultati che vengono propagandati: l’aumento quantitativo di opportunità occupazionali e la possibilità qualitativa di transitare più velocemente verso gli impieghi stabili.
Intorno al nodo del lavoro continuano dunque a circolare due stereotipi che vanno criticati e rovesciati con soluzioni pratiche meglio congegnate. Il primo è che vada accresciuta la flessibilità del mercato del lavoro come condizione della sua espansione. Questo principio-guida è stato già applicato per tutto il decennio, e senza successo: la legge 30, che lo aveva incarnato, non è più considerata un toccasana.
Non è casuale – e dovrebbe essere oggetto di riflessione – che oggi neppure gli sponsor di destra della flessibilità la evochino come la panacea per i mali del mercato del lavoro. Il tema che oggi dovrebbe essere al centro della discussione è piuttosto un altro: quello di come regolare la flessibilità, in modo da rendere più agevole il passaggio dei lavoratori discontinui all’ occupazione stabile e in modo da ridurre il costo sociale della flessibilità e della precarietà.
L’enfatizzazione fin qui assegnata alla revisione dell’articolo 18 sembra del tutto fuori tema e comunque sproporzionata rispetto al fine che si dovrebbe davvero promuovere: una stabilità ridisegnata, anche se senza le rigidità del periodo fordista (peraltro ormai sbiadite), e con una decisa semplificazione del paniere dei contratti di impiego.
Il secondo aspetto riguarda i caratteri e gli esiti degli incontri in corso tra governo e parti sociali. A tale riguardo le pulsioni dirigiste – decidere senza accordo e senza dare vita a una vera trattativa – vengono variamente alimentate, anche in virtù dell’alibi ricorrente costituito dal vincolo europeo. Ma anche in questo caso sembra più opportuno dare vita a un cammino prudente, cedendo il passo a modalità già sperimentate e con effetti positivi. Sarebbe quindi auspicabile che il confronto diventasse un vero e proprio negoziato per concertare. Nell’interesse dello stesso governo che vedrebbe in questa ipotesi esaltato il ruolo di soggetto “terzo”, che aiuta le parti – mediante scambi e persuasioni – a cooperare per obiettivi di natura generale (migliori performance economiche, ma anche nuove sicurezze sociali), trovando nello stesso tempo maggiore supporto per la sua azione. La strada maestra per affrontare i nodi aperti – mercato del lavoro e protezioni sociali – resta dunque quella degli accordi di concertazione. Una strada forse meno suggestiva ed eccitante rispetto ai fasti e alle speranze del passato. Ma che soddisfa ancora istanze primarie.
Essa assicura maggiore coesione sociale rispetto al metodo del decisionismo dall’alto. E garantisce anche risultati diffusi ed effetti pratici più in linea con le aspettative riformatrici rispetto a meccanismi verticalizzati. Soprattutto dovrebbe essere chiaro che nessun soggetto è depositario dell’interesse generale: tantomeno un governo tecnico, la cui ottica è dichiaratamente parziale. I beni comuni sono il frutto di un processo di costruzione condiviso, al cui servizio il governo dovrebbe mettere le sue competenze e la sua stessa “parzialità”.

da Europa Quotidiano 09.03.12