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"Sciopero generale. Le tute blu della Fiom invadono la capitale", di Giuseppe Vespo

La Fiom torna in piazza, raccolta dietro lo slogan «La democrazia al lavoro ». Oggi dalle 9,30 il sindacato della Cgil si ritroverà in piazza Esedra a Roma per un corteo che sfilerà lungo il centro e si concluderà in piazza San Giovanni. Lo sciopero generale delle tute blu richiamerà nella capitale almeno seicento pullman e un treno speciale: migliaia di operai uniti nella rivendicazione di un nuovo contratto, di maggiori diritti nelle fabbriche Fiat – dove la Fiom nonè più presente – e di una politica più equilibrata, che si discosti dall’intervento del governo sulle pensioni o dalla strada intrapresa sull’articolo 18. Insieme agli operai sfileranno anche gli studenti, che partiranno da piazzale Aldo Moro (dove ha sede la Sapienza) e si riuniranno alla Fiom lungo le vie del centro città. Ieri fra le denunce di minacce contro chi vuole scioperare, è arrivata anche l’intervista del leader della minoranza Fiom Faustino Durante che ha contestato l’invito ai no Tav: «Un errore contaminare la manifestazione ». Il sindacato guidato da Maurizio Landini prepara questa mobilitazione dall’anno scorso. Ma non c’è solo Fiat nei pensieri dei metalmeccanici. Le vertenze aperte sono molte e le più importanti hanno i nomi della grossa industria made in Italy. Tra queste, Fincantieri e Finmeccanica, delle quali parleranno i lavoratori dal palco di San Giovanni. Gli interventi saranno preceduti dalla proiezione di un video musicale che il gruppo genovese “Zero Plastica” ha dedicato agli operai Fincantieri di Sestri Ponente. Quindi verrà letto un testo inviato dai dipendenti dei treni notte rimasti senza lavoro. Poi sarà la volta delle associazioni: da quelle per l’Acqua come bene comune ad Altragricoltura, fino ai No-Tav. Interverranno anche i familiari delle vittime della strage alla stazione di Viareggio. Parlerà anche l’omologo greco di Landini, Yannis Stefanopoulos, segretario del Poem, sindacato metalmeccanico ellenico. Per la Cgil interverrà il segretario confederale Vincenzo Scudiere; visto che Susanna Camusso è a New York per una iniziativa all’Onu. Infine toccherà al segretario delle tute blu sintetizzare le ragioni della sua organizzazione. Ieri mattina Landini è stato ospite a Youdemde l’Unità, dove ha parlato di lavoro, precarietà, art. 18 e Fiat. Ci saranno anche i giornalisti di Liberazione – riuniti in OccupyLiberazione – che distribuiranno un foglio auto prodotto che verrà distribuito in migliaia di copie. In piazza, dopo le polemiche, anche vari esponenti del Pd. Ai già annunciati Sergio Cofferati, Vincenzo Vita e Paolo Nerozzi, ieri si sono aggiunti Carlo Ghezzi, Sergio Gentili, Pietro Folena: «Sosteniamo lo sciopero contro l’intollerabile attacco ai diritti e alla dignità dei lavoratori, fuori dal dettato costituzionale. La rimozione dalle bacheche de L’Unità è un altro gravissimo segno di un’idea autoritaria e repressiva», scrivono.

L’Unità 09.03.12

“Sciopero generale. Le tute blu della Fiom invadono la capitale”, di Giuseppe Vespo

La Fiom torna in piazza, raccolta dietro lo slogan «La democrazia al lavoro ». Oggi dalle 9,30 il sindacato della Cgil si ritroverà in piazza Esedra a Roma per un corteo che sfilerà lungo il centro e si concluderà in piazza San Giovanni. Lo sciopero generale delle tute blu richiamerà nella capitale almeno seicento pullman e un treno speciale: migliaia di operai uniti nella rivendicazione di un nuovo contratto, di maggiori diritti nelle fabbriche Fiat – dove la Fiom nonè più presente – e di una politica più equilibrata, che si discosti dall’intervento del governo sulle pensioni o dalla strada intrapresa sull’articolo 18. Insieme agli operai sfileranno anche gli studenti, che partiranno da piazzale Aldo Moro (dove ha sede la Sapienza) e si riuniranno alla Fiom lungo le vie del centro città. Ieri fra le denunce di minacce contro chi vuole scioperare, è arrivata anche l’intervista del leader della minoranza Fiom Faustino Durante che ha contestato l’invito ai no Tav: «Un errore contaminare la manifestazione ». Il sindacato guidato da Maurizio Landini prepara questa mobilitazione dall’anno scorso. Ma non c’è solo Fiat nei pensieri dei metalmeccanici. Le vertenze aperte sono molte e le più importanti hanno i nomi della grossa industria made in Italy. Tra queste, Fincantieri e Finmeccanica, delle quali parleranno i lavoratori dal palco di San Giovanni. Gli interventi saranno preceduti dalla proiezione di un video musicale che il gruppo genovese “Zero Plastica” ha dedicato agli operai Fincantieri di Sestri Ponente. Quindi verrà letto un testo inviato dai dipendenti dei treni notte rimasti senza lavoro. Poi sarà la volta delle associazioni: da quelle per l’Acqua come bene comune ad Altragricoltura, fino ai No-Tav. Interverranno anche i familiari delle vittime della strage alla stazione di Viareggio. Parlerà anche l’omologo greco di Landini, Yannis Stefanopoulos, segretario del Poem, sindacato metalmeccanico ellenico. Per la Cgil interverrà il segretario confederale Vincenzo Scudiere; visto che Susanna Camusso è a New York per una iniziativa all’Onu. Infine toccherà al segretario delle tute blu sintetizzare le ragioni della sua organizzazione. Ieri mattina Landini è stato ospite a Youdemde l’Unità, dove ha parlato di lavoro, precarietà, art. 18 e Fiat. Ci saranno anche i giornalisti di Liberazione – riuniti in OccupyLiberazione – che distribuiranno un foglio auto prodotto che verrà distribuito in migliaia di copie. In piazza, dopo le polemiche, anche vari esponenti del Pd. Ai già annunciati Sergio Cofferati, Vincenzo Vita e Paolo Nerozzi, ieri si sono aggiunti Carlo Ghezzi, Sergio Gentili, Pietro Folena: «Sosteniamo lo sciopero contro l’intollerabile attacco ai diritti e alla dignità dei lavoratori, fuori dal dettato costituzionale. La rimozione dalle bacheche de L’Unità è un altro gravissimo segno di un’idea autoritaria e repressiva», scrivono.

L’Unità 09.03.12

"Il ricatto sulla Rai", di Giovanni Valentini

Questa volta non si tratta solo di poltrone. Di lottizzazione o spartizione della Rai. La “questione televisiva”, imperniata su funzione e ruolo del servizio pubblico, assurge al rango di questione nazionale. Questione al pari della riforma delle pensioni o di quella del lavoro. Perché costituisce l´habitat naturale della politica. E perché comprende e riassume sul piano mediatico quel progetto per il Paese al cui interno s´inscrivono lo spread, la crisi economica, le prospettive e le speranze di crescita. Una grande questione di democrazia, dunque, che rappresenta un passaggio decisivo per la vita pubblica italiana e anche per il “governo di impegno nazionale” guidato da Mario Monti.
Sono passati esattamente due mesi da quando, l´8 gennaio scorso, a proposito della Rai il presidente del Consiglio dichiarò in tv, durante la trasmissione “Che tempo che fa” di Fabio Fazio: “Qualche settimana e vedrete”. Ne sono trascorse ormai otto di settimane e ancora non s´è visto niente. È vero che, come spiegò lui stesso, questa non è “l´urgenza numero uno”. Ma è pur vero che mancano ormai meno di venti giorni alla scadenza del consiglio di amministrazione e l´azienda di viale Mazzini naviga a vista, per non dire al buio o – secondo molti – va addirittura alla deriva.
Non sarà quindi la “numero uno”, ma è comunque un´urgenza istituzionale che il governo in carica è chiamato ad affrontare all´insegna della discontinuità, per affrancare il servizio pubblico dalla subalternità alla politica e restituirgli un minimo di efficienza, autonomia e rispettabilità. C´era da aspettarsi che, prima o poi, i nodi della televisione e della giustizia sarebbero arrivati al pettine. E c´era da aspettarsi, soprattutto, che il conflitto di interessi in capo a Silvio Berlusconi sarebbe riemerso alla prima occasione dalle ceneri ancora fumanti delle rovine e delle macerie prodotte dal centrodestra.
Ora però il governo Monti deve andare avanti, senza indugi o tentennamenti, sulla strada del ricambio al vertice della Rai e del suo rinnovamento. Non è più il caso di “prorogatio”. Non si può accantonare o congelare il problema, come finora s´è fatto sulle frequenze televisive, in nome del quieto vivere o sopravvivere. Né si possono accettare o concordare “voti di scambio”, dentro o fuori il Parlamento, tra le due partite contabili del bilancio televisivo. Ne risulterebbero compromesse l´autorità e la credibilità dell´esecutivo istituzionale.
Nelle settimane scorse, abbiamo passato in rassegna su questo giornale tutte le alternative possibili. Da quella ottimale di una riforma organica per modificare la “governance” dell´azienda a quella giuridica del commissariamento: la prima realisticamente impraticabile, in base agli attuali rapporti di forza parlamentari; il secondo non perseguibile a norma del codice civile, almeno per il momento, perché quest´anno il bilancio della Rai chiude formalmente in pareggio. Abbiamo anche provato a lanciare l´ipotesi di affidare la nomina dei nuovi consiglieri ai presidenti delle due Camere, d´intesa magari con il Capo dello Stato. Ma evidentemente manca la volontà politica – o forse, bisognerebbe dire la decenza – per procedere in una direzione del genere.
Tuttavia, come pure qui abbiamo scritto, il governo Monti ha il pieno diritto di applicare la famigerata legge Gasparri, tuttora in vigore, per adottare scelte tecniche e rinnovare la “governance” della Rai, nel rispetto della professionalità, dell´autonomia e della concorrenza: nominando un nuovo rappresentante del ministero del Tesoro, in funzione di ago della bilancia; designando un nuovo presidente che dev´essere poi eletto dalla Commissione di Vigilanza con la maggioranza qualificata dei due terzi; e infine indicando il nome di un nuovo direttore generale. Sarebbe un grimaldello per scardinare il sistema di controllo del servizio pubblico e un boomerang per i suoi artefici.
Quanto alle “linee-guida” per la scelta dei consiglieri di amministrazione, sarebbero più che sufficienti i requisiti indicati nella medesima legge: e cioè quelli per essere eletti giudici costituzionali, “o comunque – come si legge testualmente – persone di riconosciuto prestigio e competenza professionale e di notoria indipendenza di comportamenti, che si siano distinte in attività economiche, scientifiche, giuridiche, della cultura umanistica o della comunicazione sociale, maturandovi significative esperienze manageriali”. Magari il sinedrio di viale Mazzini corrispondesse alla metà di tali criteri.
Non c´è dunque “ragion di Stato” che tenga di fronte a questa urgenza. Dopo la rottura con la Lega e le tensioni al proprio interno, oggi il Pdl rischia l´isolamento o addirittura una diaspora. La minaccia di mettere in crisi il governo Monti, sulla Rai o sulle frequenze televisive, è un bluff fin troppo scoperto: sarebbe un karakiri collettivo, il suicidio di una setta ancora ipnotizzata dal suo capo-santone.

La Repubblica 09.03.12

“Il ricatto sulla Rai”, di Giovanni Valentini

Questa volta non si tratta solo di poltrone. Di lottizzazione o spartizione della Rai. La “questione televisiva”, imperniata su funzione e ruolo del servizio pubblico, assurge al rango di questione nazionale. Questione al pari della riforma delle pensioni o di quella del lavoro. Perché costituisce l´habitat naturale della politica. E perché comprende e riassume sul piano mediatico quel progetto per il Paese al cui interno s´inscrivono lo spread, la crisi economica, le prospettive e le speranze di crescita. Una grande questione di democrazia, dunque, che rappresenta un passaggio decisivo per la vita pubblica italiana e anche per il “governo di impegno nazionale” guidato da Mario Monti.
Sono passati esattamente due mesi da quando, l´8 gennaio scorso, a proposito della Rai il presidente del Consiglio dichiarò in tv, durante la trasmissione “Che tempo che fa” di Fabio Fazio: “Qualche settimana e vedrete”. Ne sono trascorse ormai otto di settimane e ancora non s´è visto niente. È vero che, come spiegò lui stesso, questa non è “l´urgenza numero uno”. Ma è pur vero che mancano ormai meno di venti giorni alla scadenza del consiglio di amministrazione e l´azienda di viale Mazzini naviga a vista, per non dire al buio o – secondo molti – va addirittura alla deriva.
Non sarà quindi la “numero uno”, ma è comunque un´urgenza istituzionale che il governo in carica è chiamato ad affrontare all´insegna della discontinuità, per affrancare il servizio pubblico dalla subalternità alla politica e restituirgli un minimo di efficienza, autonomia e rispettabilità. C´era da aspettarsi che, prima o poi, i nodi della televisione e della giustizia sarebbero arrivati al pettine. E c´era da aspettarsi, soprattutto, che il conflitto di interessi in capo a Silvio Berlusconi sarebbe riemerso alla prima occasione dalle ceneri ancora fumanti delle rovine e delle macerie prodotte dal centrodestra.
Ora però il governo Monti deve andare avanti, senza indugi o tentennamenti, sulla strada del ricambio al vertice della Rai e del suo rinnovamento. Non è più il caso di “prorogatio”. Non si può accantonare o congelare il problema, come finora s´è fatto sulle frequenze televisive, in nome del quieto vivere o sopravvivere. Né si possono accettare o concordare “voti di scambio”, dentro o fuori il Parlamento, tra le due partite contabili del bilancio televisivo. Ne risulterebbero compromesse l´autorità e la credibilità dell´esecutivo istituzionale.
Nelle settimane scorse, abbiamo passato in rassegna su questo giornale tutte le alternative possibili. Da quella ottimale di una riforma organica per modificare la “governance” dell´azienda a quella giuridica del commissariamento: la prima realisticamente impraticabile, in base agli attuali rapporti di forza parlamentari; il secondo non perseguibile a norma del codice civile, almeno per il momento, perché quest´anno il bilancio della Rai chiude formalmente in pareggio. Abbiamo anche provato a lanciare l´ipotesi di affidare la nomina dei nuovi consiglieri ai presidenti delle due Camere, d´intesa magari con il Capo dello Stato. Ma evidentemente manca la volontà politica – o forse, bisognerebbe dire la decenza – per procedere in una direzione del genere.
Tuttavia, come pure qui abbiamo scritto, il governo Monti ha il pieno diritto di applicare la famigerata legge Gasparri, tuttora in vigore, per adottare scelte tecniche e rinnovare la “governance” della Rai, nel rispetto della professionalità, dell´autonomia e della concorrenza: nominando un nuovo rappresentante del ministero del Tesoro, in funzione di ago della bilancia; designando un nuovo presidente che dev´essere poi eletto dalla Commissione di Vigilanza con la maggioranza qualificata dei due terzi; e infine indicando il nome di un nuovo direttore generale. Sarebbe un grimaldello per scardinare il sistema di controllo del servizio pubblico e un boomerang per i suoi artefici.
Quanto alle “linee-guida” per la scelta dei consiglieri di amministrazione, sarebbero più che sufficienti i requisiti indicati nella medesima legge: e cioè quelli per essere eletti giudici costituzionali, “o comunque – come si legge testualmente – persone di riconosciuto prestigio e competenza professionale e di notoria indipendenza di comportamenti, che si siano distinte in attività economiche, scientifiche, giuridiche, della cultura umanistica o della comunicazione sociale, maturandovi significative esperienze manageriali”. Magari il sinedrio di viale Mazzini corrispondesse alla metà di tali criteri.
Non c´è dunque “ragion di Stato” che tenga di fronte a questa urgenza. Dopo la rottura con la Lega e le tensioni al proprio interno, oggi il Pdl rischia l´isolamento o addirittura una diaspora. La minaccia di mettere in crisi il governo Monti, sulla Rai o sulle frequenze televisive, è un bluff fin troppo scoperto: sarebbe un karakiri collettivo, il suicidio di una setta ancora ipnotizzata dal suo capo-santone.

La Repubblica 09.03.12

"Il peso che ci manca nel mondo", di Lucia Annunziata

Il premier Monti (e noi italiani con lui) deve preoccuparsi di un imprevisto pericolo: il rischio che una delegittimazione della sua leadership arrivi proprio da quei leader, quegli ambienti, quell’Europa che finora lo hanno lodato, sostenuto, celebrato. L’Italia che sta faticosamente risalendo il pozzo della mancanza di credibilità in materie economiche, viene lasciata amaramente sola, proprio dall’Europa, in due gravissime crisi internazionali in cui si ritrovata intrappolata.

Ieri l’italiano Franco Lamolinara e il britannico Christopher McManus, ostaggi sequestrati il 12 maggio 2011 a Birkin Kebin, in Nigeria, sono stai uccisi nel corso di un blitz delle teste di cuoio inglesi per liberarli. Mario Monti non era stato informato di questa operazione militare, né dai servizi segreti inglesi, ma nemmeno dal suo grande amico, in altri momenti sempre generoso di apprezzamenti nei suoi confronti, il premier Cameron. Palazzo Chigi non ha nascosto di essere stato aggirato, e nel comunicato ufficiale scrive che l’operazione per liberare i prigionieri «è stata avviata autonomamente dalle autorità nigeriane con il sostegno britannico, informandone le autorità italiane solo ad operazione avviata».

Potremmo archiviare (e comunque non dobbiamo farlo) il caso come un incidente di percorso se questa mancanza di «rispetto» da parte delle autorità inglesi non avvenisse contemporaneamente a un altro grande «affronto» che ci viene dall’Europa. Su certe questione val la pena di parlar chiaro, ed è abbastanza ovvio che l’Europa non ci sta dando un grande aiuto nella serissima questione dei due marò prigionieri in India. E’ dal 16 febbraio che l’Italia prova a disincagliarsi da uno scontro con l’India sul destino di due nostri fucilieri arrestati in quanto sospettati di aver ucciso due pescatori. Il nostro Paese ha provato in ogni modo a disinnescare la mina, prima di rivolgersi all’Europa. E quando lo ha fatto si è sentito rispondere da Catherine Ashton, commissario Ue per gli Affari esteri che «il problema è di competenza esclusivamente italiano». Nelle ultime ore si sono moltiplicati gli appelli e i malumori dei rappresentanti italiani a Bruxelles e solo con una certa condiscendenza ci è stato assicurato che «l’Europa si impegnerà».

Solo l’ignoranza di quello che è in gioco nell’Oceano Indiano ci può permettere di non capire quanto grave sia la situazione avviatasi con le accuse ai due fucilieri. La storia dei pirati, che dal nome appare una sorta di gioco fra il militare e il letterario, con tutte le sue evocazioni salgariane, è in effetti la nuova frontiera di una guerra non dichiarata che va avanti, da un decennio almeno, fra le due maggiori potenze del mondo attuale: la Cina e gli Usa.

Il controllo della sicurezza dell’Oceano Indiano è il «great game» dei nostri tempi, in cui le rotte commerciali che vanno verso l’Estremo Oriente sono la nuova «Via della Seta». In questo senso, l’intervento sulla pirateria in quel mare è una guerra indiretta fra Usa, Cina (e noi europei fra gli altri) per assicurarsi il controllo dell’espansione dell’Estremo Oriente. Che ci siano pirati è fuori discussione. Chi siano e a cosa servano, è tutto da vedere. Un solo esempio basta per illustrare di cosa stiamo parlando. Nelle Isole Seychelles (si proprio quelle delle vacanze esotiche) alla fine di dicembre 2011, i cinesi sono riusciti ad ottenere una base a supporto delle unità navali di Pechino impegnate nella lotta alla pirateria nell’Oceano Indiano. La cosa ha preoccupato l’India e gli Usa. L’India si sente «circondata» da Pechino nell’Oceano Indiano e gli Usa hanno dovuto prendere atto dell’ennesima «spartizione» di spazi con la Cina, visto che gli Stati Uniti alle Seychelles dispongono di un aeroporto agli ordini dell’Us Africa Command (Africom), dotato di droni – anche armati – per il controllo delle coste orientali del Corno d’Africa e per colpire le milizie fondamentaliste somale. Va aggiunto che la Cina ha altre basi nell’area, a Gibuti, in Oman e nello Yemen. Inoltre, Pechino ha costruito e sta ampliando nell’Oceano Indiano e dintorni altre sue postazione, a Sittwe in Myanmar, a Chittagong in Bangladesh e a Hambantota nello Sri Lanka.

In questo quadro è evidente che i nostri marò sulle navi non sono esattamente lì solo per una difesa delle navi. Sono parte di una iniziativa internazionale. Il cosiddetto accordo sui Vessel Protection Detachement è nei fatti una nuova frontiera di guerra non dichiarata.

Che l’Europa faccia finta che la questione sia solo italiana è ridicolo e offensivo. E anche se le questioni di politica estera nel nostro Paese sono sempre sottovalutate, questo è esattamente il caso di prestare il massimo di attenzione. Il rischio è quello di esser presi in giro. Lodati quando siamo virtuosi sul nostro debito e soli se abbiamo degli incidenti. Presidente Monti si faccia sentire.

La Stampa 09.03.12

“Il peso che ci manca nel mondo”, di Lucia Annunziata

Il premier Monti (e noi italiani con lui) deve preoccuparsi di un imprevisto pericolo: il rischio che una delegittimazione della sua leadership arrivi proprio da quei leader, quegli ambienti, quell’Europa che finora lo hanno lodato, sostenuto, celebrato. L’Italia che sta faticosamente risalendo il pozzo della mancanza di credibilità in materie economiche, viene lasciata amaramente sola, proprio dall’Europa, in due gravissime crisi internazionali in cui si ritrovata intrappolata.

Ieri l’italiano Franco Lamolinara e il britannico Christopher McManus, ostaggi sequestrati il 12 maggio 2011 a Birkin Kebin, in Nigeria, sono stai uccisi nel corso di un blitz delle teste di cuoio inglesi per liberarli. Mario Monti non era stato informato di questa operazione militare, né dai servizi segreti inglesi, ma nemmeno dal suo grande amico, in altri momenti sempre generoso di apprezzamenti nei suoi confronti, il premier Cameron. Palazzo Chigi non ha nascosto di essere stato aggirato, e nel comunicato ufficiale scrive che l’operazione per liberare i prigionieri «è stata avviata autonomamente dalle autorità nigeriane con il sostegno britannico, informandone le autorità italiane solo ad operazione avviata».

Potremmo archiviare (e comunque non dobbiamo farlo) il caso come un incidente di percorso se questa mancanza di «rispetto» da parte delle autorità inglesi non avvenisse contemporaneamente a un altro grande «affronto» che ci viene dall’Europa. Su certe questione val la pena di parlar chiaro, ed è abbastanza ovvio che l’Europa non ci sta dando un grande aiuto nella serissima questione dei due marò prigionieri in India. E’ dal 16 febbraio che l’Italia prova a disincagliarsi da uno scontro con l’India sul destino di due nostri fucilieri arrestati in quanto sospettati di aver ucciso due pescatori. Il nostro Paese ha provato in ogni modo a disinnescare la mina, prima di rivolgersi all’Europa. E quando lo ha fatto si è sentito rispondere da Catherine Ashton, commissario Ue per gli Affari esteri che «il problema è di competenza esclusivamente italiano». Nelle ultime ore si sono moltiplicati gli appelli e i malumori dei rappresentanti italiani a Bruxelles e solo con una certa condiscendenza ci è stato assicurato che «l’Europa si impegnerà».

Solo l’ignoranza di quello che è in gioco nell’Oceano Indiano ci può permettere di non capire quanto grave sia la situazione avviatasi con le accuse ai due fucilieri. La storia dei pirati, che dal nome appare una sorta di gioco fra il militare e il letterario, con tutte le sue evocazioni salgariane, è in effetti la nuova frontiera di una guerra non dichiarata che va avanti, da un decennio almeno, fra le due maggiori potenze del mondo attuale: la Cina e gli Usa.

Il controllo della sicurezza dell’Oceano Indiano è il «great game» dei nostri tempi, in cui le rotte commerciali che vanno verso l’Estremo Oriente sono la nuova «Via della Seta». In questo senso, l’intervento sulla pirateria in quel mare è una guerra indiretta fra Usa, Cina (e noi europei fra gli altri) per assicurarsi il controllo dell’espansione dell’Estremo Oriente. Che ci siano pirati è fuori discussione. Chi siano e a cosa servano, è tutto da vedere. Un solo esempio basta per illustrare di cosa stiamo parlando. Nelle Isole Seychelles (si proprio quelle delle vacanze esotiche) alla fine di dicembre 2011, i cinesi sono riusciti ad ottenere una base a supporto delle unità navali di Pechino impegnate nella lotta alla pirateria nell’Oceano Indiano. La cosa ha preoccupato l’India e gli Usa. L’India si sente «circondata» da Pechino nell’Oceano Indiano e gli Usa hanno dovuto prendere atto dell’ennesima «spartizione» di spazi con la Cina, visto che gli Stati Uniti alle Seychelles dispongono di un aeroporto agli ordini dell’Us Africa Command (Africom), dotato di droni – anche armati – per il controllo delle coste orientali del Corno d’Africa e per colpire le milizie fondamentaliste somale. Va aggiunto che la Cina ha altre basi nell’area, a Gibuti, in Oman e nello Yemen. Inoltre, Pechino ha costruito e sta ampliando nell’Oceano Indiano e dintorni altre sue postazione, a Sittwe in Myanmar, a Chittagong in Bangladesh e a Hambantota nello Sri Lanka.

In questo quadro è evidente che i nostri marò sulle navi non sono esattamente lì solo per una difesa delle navi. Sono parte di una iniziativa internazionale. Il cosiddetto accordo sui Vessel Protection Detachement è nei fatti una nuova frontiera di guerra non dichiarata.

Che l’Europa faccia finta che la questione sia solo italiana è ridicolo e offensivo. E anche se le questioni di politica estera nel nostro Paese sono sempre sottovalutate, questo è esattamente il caso di prestare il massimo di attenzione. Il rischio è quello di esser presi in giro. Lodati quando siamo virtuosi sul nostro debito e soli se abbiamo degli incidenti. Presidente Monti si faccia sentire.

La Stampa 09.03.12

"Quel che resta da fare", di Tito Boeri

I mercati finanziari festeggiano e lo spread scende sotto i 300 punti. Ma l´economia reale parteciperà alla festa solo se i tecnici faranno fino in fondo le cose che sono stati chiamati a fare. Ieri le Borse hanno celebrato il successo del piano di ristrutturazione del debito greco anche perché, a ben guardare, il coinvolgimento del settore privato nelle perdite è molto meno rilevante di quanto potesse apparire prima facie. Ma non è da ieri che le Borse ci regalano segni più (chissà perché fanno notizia solo quando bruciano, solo virtualmente, miliardi). Ed è sempre più stridente il contrasto fra le notizie che vengono dai mercati finanziari e i bollettini di guerra trasmessi dall´economia reale. La Borsa americana è tornata ai livelli precedenti alla crisi subprime, quella tedesca è cresciuta di quasi il 25 per cento da fine novembre. Eppure il commercio mondiale ristagna e ha smesso di compensare il calo della domanda interna in molte economie mature, la produzione industriale in Europa è da mesi in vistoso calo e l´insieme dell´area Euro sta entrando in recessione, come certificato anche ieri dalla Bce che, dopo la Commissione Europea, il Fondo Monetario e l´Ocse, ha rivisto al ribasso le stime sulla crescita nel prossimo biennio. La disoccupazione nella Ue ha raggiunto i livelli più alti da 15 anni a questa parte. E mentre i dati della Cassa Integrazione in Italia ci riportano indietro all´inverno della Grande Recessione del 2008-9, continuano ad arrivare buone notizie sullo spread, sceso ieri sotto la soglia dei 300 punti base dai 550 toccati a settembre 2011.
Dietro a queste dinamiche divergenti ci sono certamente gli effetti della massiccia iniezione di liquidità operata dalla Fed negli Stati Uniti e dalla Bce in Europa. La Banca Centrale Europea ha erogato più di mille miliardi di prestiti alle banche europee per tre anni a un tasso dell´un per cento, quando il mercato avrebbe richiesto tassi da 7 a 8 volte più alti. Si creano così le condizioni per gigantesche operazioni di carry trade, con banche che lucrano sui differenziali fra i tassi della linea di credito aperta presso la Bce e i rendimenti dei titoli di stato, tornati in molti paesi ad apparire meno rischiosi dei prestiti alle imprese agli inizi di una recessione che ha già fatto aumentare le sofferenze bancarie. Negli ultimi due mesi le banche italiane hanno acquistato 33 miliardi di titoli di Stato, proprio mentre calavano di 20 miliardi i prestiti erogati alle imprese e alle famiglie. Anche per questo la festa non si trasmette all´economia reale. La stessa riduzione della spesa per gli interessi sul debito pubblico non concede spazi per interventi a sostegno dell´economia. Siamo ancora troppo vicini al baratro e i paesi già oggi in recessione sono proprio quelli cui viene richiesto l´aggiustamento fiscale più forte. Le misure straordinarie della Bce, il cui successo è stato rivendicato ieri da Mario Draghi, non possono perciò scongiurare la recessione. Al massimo daranno tempo ai governi per varare misure a sostegno della crescita e, al tempo stesso, riguadagnarsi la credibilità perduta da quando si era innestata quella spirale perversa di crisi di fiducia, tassi crescenti, manovre sempre più ambiziose e recessive che ci ha portato sull´orlo del precipizio.
L´Italia ha, per una volta, un piccolo vantaggio sugli altri paesi del contagio. C´è qualcosa di più del doping della Bce nel miglioramento dei nostri titoli di Stato. Ce ne si rende conto guardando – come abbiamo fatto fin dall´inizio della crisi – allo spread fra i titoli di stato spagnoli e italiani. A fine 2011 i nostri titoli di stato venivano comprati con rendimenti di 200 punti base più alti dei bonos. Ieri i tassi sui btp erano 25 punti al di sotto dei titoli di stato spagnoli. Insomma un miglioramento di 225 punti base (a regime saranno quasi 40 miliardi di spesa per interessi in meno) che può essere attribuito al miglioramento della nostra credibilità, interamente avvenuto sotto il cosiddetto “governo dei tecnici”. È un vantaggio che rischia di rivelarsi effimero se l´azione riformatrice di questi mesi si dovesse arrestare. I rischi ci sono tutti dato che la stessa classe politica responsabile del disastro sembra oggi ansiosa di tornare protagonista e i tecnici danno ripetuti segnali di stare imparando rapidamente il mestiere di politici. Non che ci illudessimo che i tecnici al governo potessero rimanere tali. Ma certo è che sono stati chiamati a fare quelle scelte difficili che chi deve farsi rieleggere a breve non vuole e forse non può neanche fare. Oggi c´è spazio solo per riforme a costo zero. I tesoretti vivono solo nei sogni dei politici e dei rappresentanti delle forzi sociali. Gravissimo evocarli da parte di ministri tecnici. E dati i veti incrociati presenti al tavolo sul mercato del lavoro, una riforma che dovesse accontentare tutti, sarà inevitabilmente una non riforma. È invece di cambiamenti profondi, soprattutto nelle condizioni di ingresso nel mercato del lavoro, che ha bisogno il Paese. Il nostro Presidente del Consiglio si è ripetutamente e personalmente impegnato a portare a termine entro la fine di marzo questa riforma, già scontata dai mercati. Deluderli brucerebbe d´un colpo la credibilità conquistata in questi mesi. Ancora più cocente sarebbe la delusione dei tanti giovani italiani in Italia e all´estero, dalle cui scelte di investimento di capitale umano dipendono le sorti del nostro Paese.

La Repubblica 09.03.12