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“Milanese, un tesoretto in Francia”, di Fiorenza Sarzanini

Versati 300 mila euro in contanti. Per la Procura sono mazzette. I versamenti sono cominciati nel 2006 e sono tutti in contanti. Oltre 300 mila euro che Marco Milanese, il parlamentare del Pdl braccio destro di Giulio Tremonti al ministero dell’Economia, ha portato all’estero e depositato sul suo conto aperto presso l’agenzia di Draguignan del Crédit Agricole. Era stato il perito contabile nominato dai pubblici ministeri di Napoli a sollecitare l’esame della documentazione bancaria per verificare la correttezza dei bonifici ordinati dall’Italia.
La risposta arrivata qualche giorno fa dalla Francia aggiunge un nuovo tassello per l’accusa, perché accredita il sospetto che proprio all’estero il deputato abbia depositato i soldi che — questa è l’imputazione — sono il frutto della corruzione. Ai versamenti non risulta infatti corrispondere alcun prelevamento dai propri conti, oppure operazioni finanziarie. Dunque le valigette non risultano avere — almeno al momento — una causale lecita.
L’indagine è ormai entrata nella fase finale. A Milanese viene contestato di aver preteso da un imprenditore suo amico soldi, gioielli, favori e vacanze in cambio di notizie riservate sulle inchieste gestite proprio dalla magistratura napoletana. La scorsa estate la Camera aveva negato l’autorizzazione all’arresto del parlamentare ordinata dal giudice. Uno stop che non aveva fermato le verifiche. Dopo la denuncia dell’imprenditore Paolo Viscione si era infatti scoperto che Milanese, ex ufficiale della Guardia di Finanza, aveva avuto un improvviso cambio nel proprio tenore di vita dopo essere entrato in Parlamento diventando l’uomo più fidato di Tremonti. Aveva ottenuto incarichi e consulenze, ma l’esame dei suoi conti aveva rivelato anche la movimentazione di molto contante. In particolare i controlli avevano rivelato come tra il 2006 e il 2010 avesse spostato 125 mila euro «liquidi» con due operazioni «sospette»: un versamento «cash» di 59.659 avvenuto nel 2007 e un altro di 12.633 nel 2010. Dei contanti aveva parlato a lungo anche il commercialista Guido Marchese — pure lui indagato — che con lui aveva condotto alcune operazioni immobiliari in Costa Azzurra e aveva raccontato di aver ricevuto 250 mila euro in contanti a garanzia di un debito da 650 mila euro che il deputato si era impegnato a onorare.
Si era così scoperto che proprio in Francia, a Draguignan, Milanese aveva aperto un conto e nella sua relazione il consulente della Procura aveva scritto: «Sarebbe necessario acquisirne la relativa documentazione essendovi transitati moltissimi bonifici disposti sia dal conto acceso presso il Banco di Napoli, sia dal conto presso il Credito Artigiano. Un ulteriore approfondimento meriterebbe il rapporto di debito intercorso con American Express sul conto presso il Banco di Napoli. Nei 57 mesi esaminati la somma è ammontata a 448.637 euro con una media mensile di circa 8.000 euro e una punta di spesa di circa 23.000 euro in un solo mese!».
Il pubblico ministero aveva chiesto collaborazione ai colleghi francesi e adesso è arrivata la risposta che potrebbe celare clamorosi retroscena. Dal 2006 il parlamentare ha infatti effettuato diversi depositi di cifre tra i 20 e i 30 mila euro. L’esperto ha messo a confronto le movimentazioni e ha verificato che a ridosso dei versamenti non risultano prelevamenti in Italia o altrove. Dunque da dove provengono quei soldi? I magistrati sono convinti si tratti di mazzette e per questo stanno controllando se i depositi siano avvenuti a ridosso delle date di consegna dei soldi indicate da Viscione. Ma stanno facendo riscontri pure sui rapporti di Milanese con altri imprenditori. Il suo legale Bruno Larosa si mostra tranquillo: «L’onorevole possedeva case in Francia ed è obbligatorio aprire un deposito. Quando vedremo i documenti chiariremo ogni circostanza».

Il Corriere della Sera 08.03.12

"La nuova banda dell'Ortica", di Curzio Maltese

L´immagine della Milano ladrona, sorridente e impunita, ha fatto il giro d´Italia. È l´istantanea dell´ufficio di presidenza della regione Lombardia, con 4 componenti su 5 indagati. O arrestati per malaffare. Per la par condicio due del Pdl, Franco Nicoli Cristiani e Massimo Ponzoni, uno del Pd, Filippo Penati, e l´ultimo della Lega, Davide Boni. Mettici pure quattro ex assessori di Formigoni al centro di altrettanti scandali, i già citati Nicoli Cristiani e Ponzoni, più Guido Bombarda e l´ineffabile Piergianni Prosperini. Infine otto consiglieri lombardi sotto inchiesta per una gamma di reati che spazia dalla corruzione alla truffa al favoreggiamento di prostituzione, nel caso di Nicole Minetti. E ti domandi: ma come può una delle regioni più ricche e civili d´Europa a sopportare questa vergogna?
Una tale montagna di scandali non s´era mai vista in Italia, se non nel consiglio regionale della Calabria, che le commissioni antimafia dipingono come il braccio politico della ‘ndrangheta. Ma qui non siamo nella terra di Cetto Laqualunque. Siamo nella capitale del laborioso Nord che sfida la recessione, nella culla del montismo come nuovo costume amministrativo, europeista, poliglotta, competente, rigoroso e un tantino moralista. E allora non ti spieghi la calma piatta, l´indolenza «terrona» con cui la grande Milano accoglie le storiacce della nuova Tangentopoli, vent´anni dopo. Queste tangentone a botte di 300 mila euro in contanti, che sarebbero finite nella tasche del ras lombardo della Lega, Davide Boni, fanno impallidire la madre di tutte le mazzette, i 37 milioncini di lire che il 17 febbraio del 1992 Mario Chiesa cercò di affogare nel cesso dell´ufficio, mentre i carabinieri bussavano alle porte del Pio Albergo Trivulzio. Sorprende la faccia di tolla dei dirigenti leghisti, da Umberto Bossi in giù, che una settimana fa chiedevano la testa di Formigoni «perché non si può andare avanti con un arresto al giorno» e oggi, pizzicato uno dei loro, urlano al complotto politico e affidano la difesa del buon nome del movimento, con un certo grado di crudeltà, al tesoriere Francesco Belsito. Figura incredibile per definizione, noto alle cronache per essersi taroccato nell´ordine la patente di guida mai ottenuta, il diploma di perito e ben due lauree fasulle (una a Londra, l´altra a Malta), non che per aver investito l´anno scorso un terzo del rimborso elettorale della Lega (22 milioni di euro) in una fantomatica banca della Tanzania. Uno insomma al cui confronto il Vincenzo Balzamo tesoriere del Psi di Craxi, e morto di crepacuore pochi mesi dopo Mani Pulite, trasfigura nel ricordo in icona risorgimentale.
Ma il mistero più fitto, o se volete la faccia di tolla più resistente, ha un solo nome: Roberto Formigoni. Il dominus assoluto del ventennio lombardo, da Tangentopoli a Tangentopoli 2, il presidentissimo al quarto mandato, è ancora lì, al centesimo scandalo, barricato nella faraonesca e inutile nuova sede, a recitare la scena del palo della banda dell´Ortica. Il campionario di alibi del presidenza allarga ogni volta i confini del ridicolo. Gli arrestano gli assessori nei settori chiave della regione, sanità, urbanistica, ambiente, e lui non sapeva. Si presenta in consiglio regionale per «mettere la mano sul fuoco per Piergianni Prosperini» il giorno stesso in cui il «Prospero» decide di patteggiare coi magistrati. La Minetti? «Chi se l´immaginava? Me l´ha presentata Don Verzè!». Il caso Boni? «Quale caso? Vedremo. La regione è una casa di vetro. Nel caso ci fosse un caso, ci costituiremo parte civile». Non esistono un «sistema Sesto» o un «sistema Lega» o un «sistema bonifiche», ma soltanto un enorme «sistema Formigoni» (o «sistema CL») che sovrasta e alimenta un arcipelago vastissimo e consociativo di interessi, dove nessuno ha interesse a far saltare il banco del Pirellone. Non la maggioranza politica, ma neppure le opposizioni, che infatti o si schierano contro le elezioni anticipate, come l´Udc, o le chiedono molto timidamente, come il Pd. Non Cl, certo, ma neppure le coop rosse. Non gli industriali o le banche, ma nemmeno i sindacati. Il fatto è che se la Tangentopoli di vent´anni fa era comunque qualcosa di razionale, una specie di escrescenza malavitosa di un´economia ancora sana, un «pizzo» carpito nel grasso della crescita produttiva, con la seconda Tangentopoli si è andati molto oltre. Qui il sistema delle tangenti ha creato ex novo un´economia virtuale che non ha alcun collegamento con il mercato e si fonda sul consumo del territorio. In altri termini, cemento, cemento e ancora cemento.
In vent´anni in Lombardia la popolazione è rimasta ferma, ma le aree urbanizzate sono cresciute del 20 per cento. I cantieri nascono come funghi. Regione e comuni concedono licenze per centinaia di milioni di metri cubi, sulla base di stime demografiche che farebbero ridere uno studente del primo anno di Sociologia. Con tutti gli scandali in corso, il comune di Sesto San Giovanni ha appena riavviato la pratica dell´ex area Falck, nell´ipotesi di una crescita della popolazione da 80 a 100 mila nei prossimi dieci anni. Ma Sesto non ha raggiunto i centomila abitanti neppure quando era la Stalingrado d´Italia, con fabbriche che occupavano decine di migliaia di operai. Perché dovrebbe crescere ora che sono tutte chiuse?
Malpensa è l´aeroporto più in crisi d´Europa, perde viaggatori, merci, scali, compagnie, è l´hub di nessuno. La risposta? Il progetto di una terza pista, distruggendo mezzo Parco del Ticino. Un altro esempio, le autostrade. Con la benzina a due euro e l´industria dell´auto al disastro, un investimento geniale. Lo stesso Expo del 2015 è diventato un enigma. Il progetto originario di Stefano Boeri e Carlo Petrini, un Expo leggero ed ecologico, un grande orto permanente dell´agroalimentare, aveva un senso. Il nuovo progetto, l´ennesima fiera tecnologica, nasce vecchio, superato e un po´ ridicolo. Qui girano le tangenti. E i soldi dei risparmiatori che le banche, grandi e piccole, continuano a pompare nei gruppi immobiliari. Basta presentare un progetto qualsiasi. Perfino Danilo Coppola, il furbetto del quartierino finito in galera e poi in coma per tentato suicidio in carcere, condannato a sei anni per bancarotta fraudolenta, ha appena ottenuto dal Banco Popolare un finanziamento di 180 milioni per il progetto di Porta Vittoria. Roma ladrona gli aveva voltato le spalle, ha ricominciato da Milano.

La Repubblica 08.03.12

“La nuova banda dell’Ortica”, di Curzio Maltese

L´immagine della Milano ladrona, sorridente e impunita, ha fatto il giro d´Italia. È l´istantanea dell´ufficio di presidenza della regione Lombardia, con 4 componenti su 5 indagati. O arrestati per malaffare. Per la par condicio due del Pdl, Franco Nicoli Cristiani e Massimo Ponzoni, uno del Pd, Filippo Penati, e l´ultimo della Lega, Davide Boni. Mettici pure quattro ex assessori di Formigoni al centro di altrettanti scandali, i già citati Nicoli Cristiani e Ponzoni, più Guido Bombarda e l´ineffabile Piergianni Prosperini. Infine otto consiglieri lombardi sotto inchiesta per una gamma di reati che spazia dalla corruzione alla truffa al favoreggiamento di prostituzione, nel caso di Nicole Minetti. E ti domandi: ma come può una delle regioni più ricche e civili d´Europa a sopportare questa vergogna?
Una tale montagna di scandali non s´era mai vista in Italia, se non nel consiglio regionale della Calabria, che le commissioni antimafia dipingono come il braccio politico della ‘ndrangheta. Ma qui non siamo nella terra di Cetto Laqualunque. Siamo nella capitale del laborioso Nord che sfida la recessione, nella culla del montismo come nuovo costume amministrativo, europeista, poliglotta, competente, rigoroso e un tantino moralista. E allora non ti spieghi la calma piatta, l´indolenza «terrona» con cui la grande Milano accoglie le storiacce della nuova Tangentopoli, vent´anni dopo. Queste tangentone a botte di 300 mila euro in contanti, che sarebbero finite nella tasche del ras lombardo della Lega, Davide Boni, fanno impallidire la madre di tutte le mazzette, i 37 milioncini di lire che il 17 febbraio del 1992 Mario Chiesa cercò di affogare nel cesso dell´ufficio, mentre i carabinieri bussavano alle porte del Pio Albergo Trivulzio. Sorprende la faccia di tolla dei dirigenti leghisti, da Umberto Bossi in giù, che una settimana fa chiedevano la testa di Formigoni «perché non si può andare avanti con un arresto al giorno» e oggi, pizzicato uno dei loro, urlano al complotto politico e affidano la difesa del buon nome del movimento, con un certo grado di crudeltà, al tesoriere Francesco Belsito. Figura incredibile per definizione, noto alle cronache per essersi taroccato nell´ordine la patente di guida mai ottenuta, il diploma di perito e ben due lauree fasulle (una a Londra, l´altra a Malta), non che per aver investito l´anno scorso un terzo del rimborso elettorale della Lega (22 milioni di euro) in una fantomatica banca della Tanzania. Uno insomma al cui confronto il Vincenzo Balzamo tesoriere del Psi di Craxi, e morto di crepacuore pochi mesi dopo Mani Pulite, trasfigura nel ricordo in icona risorgimentale.
Ma il mistero più fitto, o se volete la faccia di tolla più resistente, ha un solo nome: Roberto Formigoni. Il dominus assoluto del ventennio lombardo, da Tangentopoli a Tangentopoli 2, il presidentissimo al quarto mandato, è ancora lì, al centesimo scandalo, barricato nella faraonesca e inutile nuova sede, a recitare la scena del palo della banda dell´Ortica. Il campionario di alibi del presidenza allarga ogni volta i confini del ridicolo. Gli arrestano gli assessori nei settori chiave della regione, sanità, urbanistica, ambiente, e lui non sapeva. Si presenta in consiglio regionale per «mettere la mano sul fuoco per Piergianni Prosperini» il giorno stesso in cui il «Prospero» decide di patteggiare coi magistrati. La Minetti? «Chi se l´immaginava? Me l´ha presentata Don Verzè!». Il caso Boni? «Quale caso? Vedremo. La regione è una casa di vetro. Nel caso ci fosse un caso, ci costituiremo parte civile». Non esistono un «sistema Sesto» o un «sistema Lega» o un «sistema bonifiche», ma soltanto un enorme «sistema Formigoni» (o «sistema CL») che sovrasta e alimenta un arcipelago vastissimo e consociativo di interessi, dove nessuno ha interesse a far saltare il banco del Pirellone. Non la maggioranza politica, ma neppure le opposizioni, che infatti o si schierano contro le elezioni anticipate, come l´Udc, o le chiedono molto timidamente, come il Pd. Non Cl, certo, ma neppure le coop rosse. Non gli industriali o le banche, ma nemmeno i sindacati. Il fatto è che se la Tangentopoli di vent´anni fa era comunque qualcosa di razionale, una specie di escrescenza malavitosa di un´economia ancora sana, un «pizzo» carpito nel grasso della crescita produttiva, con la seconda Tangentopoli si è andati molto oltre. Qui il sistema delle tangenti ha creato ex novo un´economia virtuale che non ha alcun collegamento con il mercato e si fonda sul consumo del territorio. In altri termini, cemento, cemento e ancora cemento.
In vent´anni in Lombardia la popolazione è rimasta ferma, ma le aree urbanizzate sono cresciute del 20 per cento. I cantieri nascono come funghi. Regione e comuni concedono licenze per centinaia di milioni di metri cubi, sulla base di stime demografiche che farebbero ridere uno studente del primo anno di Sociologia. Con tutti gli scandali in corso, il comune di Sesto San Giovanni ha appena riavviato la pratica dell´ex area Falck, nell´ipotesi di una crescita della popolazione da 80 a 100 mila nei prossimi dieci anni. Ma Sesto non ha raggiunto i centomila abitanti neppure quando era la Stalingrado d´Italia, con fabbriche che occupavano decine di migliaia di operai. Perché dovrebbe crescere ora che sono tutte chiuse?
Malpensa è l´aeroporto più in crisi d´Europa, perde viaggatori, merci, scali, compagnie, è l´hub di nessuno. La risposta? Il progetto di una terza pista, distruggendo mezzo Parco del Ticino. Un altro esempio, le autostrade. Con la benzina a due euro e l´industria dell´auto al disastro, un investimento geniale. Lo stesso Expo del 2015 è diventato un enigma. Il progetto originario di Stefano Boeri e Carlo Petrini, un Expo leggero ed ecologico, un grande orto permanente dell´agroalimentare, aveva un senso. Il nuovo progetto, l´ennesima fiera tecnologica, nasce vecchio, superato e un po´ ridicolo. Qui girano le tangenti. E i soldi dei risparmiatori che le banche, grandi e piccole, continuano a pompare nei gruppi immobiliari. Basta presentare un progetto qualsiasi. Perfino Danilo Coppola, il furbetto del quartierino finito in galera e poi in coma per tentato suicidio in carcere, condannato a sei anni per bancarotta fraudolenta, ha appena ottenuto dal Banco Popolare un finanziamento di 180 milioni per il progetto di Porta Vittoria. Roma ladrona gli aveva voltato le spalle, ha ricominciato da Milano.

La Repubblica 08.03.12

"Alleanza con l´Udc, ma Letta sbaglia noi dobbiamo riprenderci la sinistra", intervista a Dario Franceschinidi Alessandra Longo

Dopo l´esito delle primarie Pd di Palermo, Dario Franceschini manda un messaggio ai colleghi che si azzannano e attaccano Bersani: «Fermatevi!». Tutto tempo perso («Bersani sarà il leader del partito fino al congresso del 2013») ed energie che andrebbero dirottate altrove: «Lo dico io con la mia storia. Penso che il Pd debba riappropriarsi del non poco spazio che sta alla sua sinistra». E quando finirà l´esperienza Monti? «Nessuna Grande Coalizione, dovremo offrire al Paese un´alleanza tra progressisti e moderati».
Intanto ogni tornata di primarie diventa un funerale.
«Con queste regole, va così. La competizione è autentica. La forzatura è darne una lettura tutta proiettata a livello nazionale».
E´ quello che sta facendo l´establishment del partito.
«Il mio messaggio è: “Fermatevi”. Ci vuole onestà intellettuale. Vi pare che l´elettore di Palermo sia uscito di casa per andare a dire la sua sulla foto di Vasto (Bersani, Vendola, Di Pietro, ndr)? E quando ha vinto Pisapia a Milano, dovevamo dedurre che il baricentro andava spostato a sinistra? E Renzi e De Magistris? Che facciamo, ci comportiamo come bussole impazzite?».
Ammetterà la sequenza degli sbandamenti.
«Io vedo un solo filo comune. A Firenze vince Renzi, a Milano Pisapia, a Napoli De Magistris, a Cagliari Zedda, a Genova Doria. Candidati diversi che hanno in comune il fatto di essere percepiti come l´antisistema. E´ su questo che dobbiamo riflettere, non aprire un fronte interno e attaccare Bersani. La scelta della Borsellino è stata condivisa da tutto il gruppo dirigente nazionale».
Letta prende spunto da Palermo per seppellire l´incontro-simbolo di Vasto. Un grave errore politico come denuncia Latorre?
«Direi, più sobriamente, che non vedo il legame con Palermo. Detto questo, anche per me lo schema Vasto è insufficiente. Ho dei dubbi sulla possibilità di un´alleanza limitata a forze come Sel e Idv, che esprimono posizioni diverse dalle nostre sulla Tav, in politica estera ed economia».
C´è anche il rischio opposto: sposare in toto la linea del governo Monti, per esempio in materia di riforma del lavoro.
«Non dimentichiamo che ogni scelta di questo governo, che abbiamo deciso di appoggiare per salvare il Paese dall´abisso in cui ci aveva cacciato Berlusconi, è frutto di mediazioni tra avversari, a mio avviso finora soddisfacenti. E´ un´esperienza temporanea e noi dobbiamo usare l´anno che ci rimane per parlare anche a chi non vota Pd».
E poi?
«E poi ci sarà un ritorno alla normalità, con il confronto fisiologico destra/sinistra, conservatori/ progressisti».
Monti ancora premier lo esclude?
«Non farà mai il candidato di una delle due parti».
Allora Grosse Koalition.
«Assolutamente no. Dobbiamo lavorare affinché il Paese possa essere governato da un´alleanza fra progressisti e moderati alternativa alla destra. Dobbiamo recuperare sul terreno dell´antipolitica e non lasciare libere praterie a sinistra».
Competitori di Vendola…
«Lo dico io con la mia storia. Dobbiamo riappropriarci della parola sinistra, delle speranze di giustizia e uguaglianza che incarna per milioni di italiani. Penso ad una sinistra moderna, di governo, non immobilista e conservatrice, impaurita da ogni innovazione e cambiamento».
Una sinistra che si allei con il Terzo Polo e l´Udc.
«Bisogna poi costruire una coalizione che abbia un largo consenso sociale e parlamentare».
Nel frattempo la cronaca segnala scambi al vetriolo. Il fronte di Veltroni è in movimento. Lei che dice?
«Evitiamo gli errori del passato. Quando ho perso le primarie, al milione di persone che mi hanno votato ho promesso un lavoro di squadra e questo sto facendo».
Chi sarà il leader del Pd alle prossime elezioni?
«Il leader del Pd c´è ed è Pier Luigi Bersani fino al prossimo congresso, che si terrà nell´autunno 2013, cioè dopo le politiche».

La Repubblica 07.03.12

“Alleanza con l´Udc, ma Letta sbaglia noi dobbiamo riprenderci la sinistra”, intervista a Dario Franceschinidi Alessandra Longo

Dopo l´esito delle primarie Pd di Palermo, Dario Franceschini manda un messaggio ai colleghi che si azzannano e attaccano Bersani: «Fermatevi!». Tutto tempo perso («Bersani sarà il leader del partito fino al congresso del 2013») ed energie che andrebbero dirottate altrove: «Lo dico io con la mia storia. Penso che il Pd debba riappropriarsi del non poco spazio che sta alla sua sinistra». E quando finirà l´esperienza Monti? «Nessuna Grande Coalizione, dovremo offrire al Paese un´alleanza tra progressisti e moderati».
Intanto ogni tornata di primarie diventa un funerale.
«Con queste regole, va così. La competizione è autentica. La forzatura è darne una lettura tutta proiettata a livello nazionale».
E´ quello che sta facendo l´establishment del partito.
«Il mio messaggio è: “Fermatevi”. Ci vuole onestà intellettuale. Vi pare che l´elettore di Palermo sia uscito di casa per andare a dire la sua sulla foto di Vasto (Bersani, Vendola, Di Pietro, ndr)? E quando ha vinto Pisapia a Milano, dovevamo dedurre che il baricentro andava spostato a sinistra? E Renzi e De Magistris? Che facciamo, ci comportiamo come bussole impazzite?».
Ammetterà la sequenza degli sbandamenti.
«Io vedo un solo filo comune. A Firenze vince Renzi, a Milano Pisapia, a Napoli De Magistris, a Cagliari Zedda, a Genova Doria. Candidati diversi che hanno in comune il fatto di essere percepiti come l´antisistema. E´ su questo che dobbiamo riflettere, non aprire un fronte interno e attaccare Bersani. La scelta della Borsellino è stata condivisa da tutto il gruppo dirigente nazionale».
Letta prende spunto da Palermo per seppellire l´incontro-simbolo di Vasto. Un grave errore politico come denuncia Latorre?
«Direi, più sobriamente, che non vedo il legame con Palermo. Detto questo, anche per me lo schema Vasto è insufficiente. Ho dei dubbi sulla possibilità di un´alleanza limitata a forze come Sel e Idv, che esprimono posizioni diverse dalle nostre sulla Tav, in politica estera ed economia».
C´è anche il rischio opposto: sposare in toto la linea del governo Monti, per esempio in materia di riforma del lavoro.
«Non dimentichiamo che ogni scelta di questo governo, che abbiamo deciso di appoggiare per salvare il Paese dall´abisso in cui ci aveva cacciato Berlusconi, è frutto di mediazioni tra avversari, a mio avviso finora soddisfacenti. E´ un´esperienza temporanea e noi dobbiamo usare l´anno che ci rimane per parlare anche a chi non vota Pd».
E poi?
«E poi ci sarà un ritorno alla normalità, con il confronto fisiologico destra/sinistra, conservatori/ progressisti».
Monti ancora premier lo esclude?
«Non farà mai il candidato di una delle due parti».
Allora Grosse Koalition.
«Assolutamente no. Dobbiamo lavorare affinché il Paese possa essere governato da un´alleanza fra progressisti e moderati alternativa alla destra. Dobbiamo recuperare sul terreno dell´antipolitica e non lasciare libere praterie a sinistra».
Competitori di Vendola…
«Lo dico io con la mia storia. Dobbiamo riappropriarci della parola sinistra, delle speranze di giustizia e uguaglianza che incarna per milioni di italiani. Penso ad una sinistra moderna, di governo, non immobilista e conservatrice, impaurita da ogni innovazione e cambiamento».
Una sinistra che si allei con il Terzo Polo e l´Udc.
«Bisogna poi costruire una coalizione che abbia un largo consenso sociale e parlamentare».
Nel frattempo la cronaca segnala scambi al vetriolo. Il fronte di Veltroni è in movimento. Lei che dice?
«Evitiamo gli errori del passato. Quando ho perso le primarie, al milione di persone che mi hanno votato ho promesso un lavoro di squadra e questo sto facendo».
Chi sarà il leader del Pd alle prossime elezioni?
«Il leader del Pd c´è ed è Pier Luigi Bersani fino al prossimo congresso, che si terrà nell´autunno 2013, cioè dopo le politiche».

La Repubblica 07.03.12

"L'Italia non sa dare valore ai suoi laureati", di Irene Tinagli

Per tutti quelli che da tempo si accalorano nel dire quanto inutile sia la nostra università, gli ultimi dati dell’indagine Almalaurea potrebbero sembrare una conferma delle loro opinioni. Aumenta infatti il tasso di disoccupazione a un anno dalla laurea, sia per coloro che escono dalla triennale (dal 16% al 19%) che per quelli che hanno intrapreso la specialistica (dal 18% al 20%). Mentre tra i laureati che invece lavorano aumenta il tasso di «precarietà» e diminuisce, in termini reali, il salario di ingresso. E’ prevedible quindi che adesso riemergano interpretazioni che leggono in questi dati i sintomi dell’inutilità del titolo di studio, della cattiva qualità delle nostre università o delle cattive abitudini dei nostri giovani, che cercano la laurea quando non è necessaria, o che si rifiutano di spostarsi o di fare lavori più umili e via dicendo.

Questa lettura non solo è parziale e incompleta (perché comunque l’occupabilità e gli stipendi dei laureati restano complessivamente migliori che per gli altri) ma anche profondamente ipocrita, soprattutto quando a farla non sono accademici in vena autocritica, ma rappresentanti del mondo delle imprese, della politica e del lavoro. Infatti, nonostante le indubbie debolezze del nostro sistema universitario, non possiamo ignorare che l’Italia ha un sistema economico-produttivo che non ha mai compiuto fino in fondo quel processo di trasformazione e riqualificazione produttiva avvenuto in altri Paesi, ed è in larga parte incapace di valorizzare e assorbire competenze, talenti e nuove tecnologie.

Questa incapacità la si coglie, per esempio, dalle previsioni di assunzione delle imprese raccolte ogni anno da Unioncamere, che mostrano un’incidenza della domanda di laureati del 12.5% su tutta la domanda di lavoro (contro il 31% degli Stati Uniti, per esempio). Ma la si coglie soprattutto osservando, più in generale, la composizione dell’occupazione in Italia e il suo andamento nel tempo. Gli ultimi decenni hanno visto, in tutti i Paesi industrializzati, un enorme cambiamento nella struttura occupazionale, con un progressivo svuotamento delle fasce operaie ed impiegatizie e un aumento di tutte le occupazioni più qualificate: tecnici specializzati, manager, imprenditori, professionisti (accompagnato anche da un parallelo aumento delle occupazioni senza alcuna qualifica). Un fenomeno legato all’avvento delle nuove tecnologie, alla crisi della vecchia industria e all’emergere di nuovi settori economici più smaterializzati: informatica, nanotecnologie, telecomunicazioni e via dicendo, fino all’intrattenimento e ai videogames. L’aumento di queste occupazioni di fascia alta è stato consistente in tutti i Paesi industrializzati, ed il loro peso sulla forza lavoro è arrivato, in casi come Inghilterra e Olanda, a superare il 30% della forza lavoro, assorbendo e attraendo grandi dosi di «capitale umano», ovvero laureati, specialisti e dottorandi.

Tutto questo in Italia non è avvenuto: la crescita delle occupazioni di fascia alta è stata abbastanza contenuta negli Anni Novanta, e negli ultimi anni ha avuto un trend negativo che, come mostrano i dati Eurostat, l’ha riportata sotto il 18% dal 19% di qualche anno fa. Un calo moderato, ma che colpisce di fronte agli andamenti positivi di tutti i più grandi Paesi europei.

E sulla mancata riqualificazione del sistema economico italiano i nostri politici, imprenditori, e sindacalisti non possono incolpare studenti e professori, ma devono assumersi le proprie, enormi responsabilità. Perché sanno benissimo come in Italia per troppo tempo questo processo sia stato temuto e osteggiato dalla maggior parte delle forze sociali e politiche in campo. Ed è noto come ogni investimento in nuove tecnologie e ricerca sia stato visto spesso come accessorio, e come ogni industria che non fosse sufficientemente «pesante», che non fosse «manifattura» sia stata considerata minore, o come ogni discussione sul ruolo dei servizi avanzati, delle industrie creative e culturali sia stato spesso derubricato come «fuffa». Una fuffa che negli altri Paesi non solo genera milioni di posti di lavoro qualificati, dando opportunità di crescita a tanti giovani laureati, ma che aiuta le stesse industrie tradizionali ad essere più efficienti, internazionalizzate e creative nel modo di riorganizzarsi e competere nei mercati internazionali. Recuperare il tempo perduto non sarà semplice. E non si dica che il salto si potrà fare aggiungendo nuovi e costosi incentivi: non serviranno. La situazione si cambia facendo dell’Italia un Paese dinamico e competitivo, con un mercato del lavoro che supporta efficacemente le riorganizzazioni aziendali e le riqualificazioni dei lavoratori, che si apre agli investimenti stranieri, che cambia i criteri con cui da decenni si appaltano servizi nella pubblica amministrazione e con cui si distribuiscono sussidi, incentivi e protezioni varie alle imprese, e che introduca una concorrenza chiara e trasparente che dia la possibilità alle imprese davvero più brave di competere e crescere. Perché la meritocrazia e la competenza di cui tanti amano parlare non si instaurano né per decreto né per incentivo, ma creando un sistema in cui diventino necessità.

La Stampa 07.03.12

“L’Italia non sa dare valore ai suoi laureati”, di Irene Tinagli

Per tutti quelli che da tempo si accalorano nel dire quanto inutile sia la nostra università, gli ultimi dati dell’indagine Almalaurea potrebbero sembrare una conferma delle loro opinioni. Aumenta infatti il tasso di disoccupazione a un anno dalla laurea, sia per coloro che escono dalla triennale (dal 16% al 19%) che per quelli che hanno intrapreso la specialistica (dal 18% al 20%). Mentre tra i laureati che invece lavorano aumenta il tasso di «precarietà» e diminuisce, in termini reali, il salario di ingresso. E’ prevedible quindi che adesso riemergano interpretazioni che leggono in questi dati i sintomi dell’inutilità del titolo di studio, della cattiva qualità delle nostre università o delle cattive abitudini dei nostri giovani, che cercano la laurea quando non è necessaria, o che si rifiutano di spostarsi o di fare lavori più umili e via dicendo.

Questa lettura non solo è parziale e incompleta (perché comunque l’occupabilità e gli stipendi dei laureati restano complessivamente migliori che per gli altri) ma anche profondamente ipocrita, soprattutto quando a farla non sono accademici in vena autocritica, ma rappresentanti del mondo delle imprese, della politica e del lavoro. Infatti, nonostante le indubbie debolezze del nostro sistema universitario, non possiamo ignorare che l’Italia ha un sistema economico-produttivo che non ha mai compiuto fino in fondo quel processo di trasformazione e riqualificazione produttiva avvenuto in altri Paesi, ed è in larga parte incapace di valorizzare e assorbire competenze, talenti e nuove tecnologie.

Questa incapacità la si coglie, per esempio, dalle previsioni di assunzione delle imprese raccolte ogni anno da Unioncamere, che mostrano un’incidenza della domanda di laureati del 12.5% su tutta la domanda di lavoro (contro il 31% degli Stati Uniti, per esempio). Ma la si coglie soprattutto osservando, più in generale, la composizione dell’occupazione in Italia e il suo andamento nel tempo. Gli ultimi decenni hanno visto, in tutti i Paesi industrializzati, un enorme cambiamento nella struttura occupazionale, con un progressivo svuotamento delle fasce operaie ed impiegatizie e un aumento di tutte le occupazioni più qualificate: tecnici specializzati, manager, imprenditori, professionisti (accompagnato anche da un parallelo aumento delle occupazioni senza alcuna qualifica). Un fenomeno legato all’avvento delle nuove tecnologie, alla crisi della vecchia industria e all’emergere di nuovi settori economici più smaterializzati: informatica, nanotecnologie, telecomunicazioni e via dicendo, fino all’intrattenimento e ai videogames. L’aumento di queste occupazioni di fascia alta è stato consistente in tutti i Paesi industrializzati, ed il loro peso sulla forza lavoro è arrivato, in casi come Inghilterra e Olanda, a superare il 30% della forza lavoro, assorbendo e attraendo grandi dosi di «capitale umano», ovvero laureati, specialisti e dottorandi.

Tutto questo in Italia non è avvenuto: la crescita delle occupazioni di fascia alta è stata abbastanza contenuta negli Anni Novanta, e negli ultimi anni ha avuto un trend negativo che, come mostrano i dati Eurostat, l’ha riportata sotto il 18% dal 19% di qualche anno fa. Un calo moderato, ma che colpisce di fronte agli andamenti positivi di tutti i più grandi Paesi europei.

E sulla mancata riqualificazione del sistema economico italiano i nostri politici, imprenditori, e sindacalisti non possono incolpare studenti e professori, ma devono assumersi le proprie, enormi responsabilità. Perché sanno benissimo come in Italia per troppo tempo questo processo sia stato temuto e osteggiato dalla maggior parte delle forze sociali e politiche in campo. Ed è noto come ogni investimento in nuove tecnologie e ricerca sia stato visto spesso come accessorio, e come ogni industria che non fosse sufficientemente «pesante», che non fosse «manifattura» sia stata considerata minore, o come ogni discussione sul ruolo dei servizi avanzati, delle industrie creative e culturali sia stato spesso derubricato come «fuffa». Una fuffa che negli altri Paesi non solo genera milioni di posti di lavoro qualificati, dando opportunità di crescita a tanti giovani laureati, ma che aiuta le stesse industrie tradizionali ad essere più efficienti, internazionalizzate e creative nel modo di riorganizzarsi e competere nei mercati internazionali. Recuperare il tempo perduto non sarà semplice. E non si dica che il salto si potrà fare aggiungendo nuovi e costosi incentivi: non serviranno. La situazione si cambia facendo dell’Italia un Paese dinamico e competitivo, con un mercato del lavoro che supporta efficacemente le riorganizzazioni aziendali e le riqualificazioni dei lavoratori, che si apre agli investimenti stranieri, che cambia i criteri con cui da decenni si appaltano servizi nella pubblica amministrazione e con cui si distribuiscono sussidi, incentivi e protezioni varie alle imprese, e che introduca una concorrenza chiara e trasparente che dia la possibilità alle imprese davvero più brave di competere e crescere. Perché la meritocrazia e la competenza di cui tanti amano parlare non si instaurano né per decreto né per incentivo, ma creando un sistema in cui diventino necessità.

La Stampa 07.03.12