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Una squadra arcobaleno nel Nord-est “Con il calcio sfidiamo i pregiudizi”, di Jenner Meletti

Idris El Omari, marocchino di 22 anni, ha chiesto la maglia numero 5, «quella di Zidane al Real Madrid». Marcelo Pincini, argentino di 25 anni, ha scelto la numero 16, «come Aguero, il mito del Manchester City». Ibrahim M., un sudanese di 32 anni scappato dalla guerra di Libia, punta ancora più in alto. «Il mio idolo è Messi, ma non sono un originale. Quasi tutti i miei compagni vorrebbero essere come lui». Quattro fari illuminano il campo di allenamento, alla periferia di Feltre. «Passa a destra poi punta alla porta. Vai, vai, vai». Dialetto veneto, italiano, inglese e altre lingue arrivate da mezzo mondo si mescolano nel campo da calcio sotto il monte Grappa. Se si esponessero le bandiere di tutti i giocatori, sarebbero necessari undici pennoni. Quattordici dei ventotto calciatori tesserati alla Porcenese Calcio, torneo Csi, sono infatti nati in terre lontane, dall´Argentina alla Macedonia, dall´India al Gambia, dalla Polonia all´Albania. «In un mondo normale – dice il presidente della squadra, Marco Zanella, 25 anni – il fatto di avere mezza squadra di stranieri non dovrebbe fare notizia. Ho solo messo assieme i ragazzi della mia frazione, Porcen, e altri dei paesi vicini. Marocchini, indiani e macedoni e tanti altri sono qui da anni, a lavorare in campagna e soprattutto nelle fabbriche. È dunque normale avere una squadra con tanti colori. Abbiamo messo su un campo da calcio un pezzo di quella società dentro la quale già viviamo. Un gruppo come il nostro può essere una provocazione solo per chi fa finta di non conoscere la nuova realtà».
Porcen ha 350 abitanti in tutto, una chiesa, un bar e un´osteria, e la sagra di Santa Barbara, a dicembre, dove con “Indovina il peso” puoi vincere un maiale. «Abbiamo fatto – dice il presidente, un ragazzo laureato in mediazione linguistica che lavora come impiegato in un´azienda metalmeccanica – tutto in regola. Ci siamo iscritti al campionato Csi, pagando 560 euro. Abbiamo cercato un campo e qui sono iniziati i problemi. Nessuno voleva darcelo. Forse pensavano – io sono buono – che una squadra tutta nuova avesse problemi a pagare. Alla fine il campo l´abbiamo trovato a Feltre, 55 euro a partita. Volevamo fare delle amichevoli, prima del campionato, ma non è stato facile. L´abbiamo chiesto a 12 squadre e solo 2 hanno detto sì. Siamo già impegnati, dovevate dircelo prima… Il fatto è che quando si gioca nel campionato non possono dire no, altrimenti perdono la partita a tavolino. Quando possono scegliere un´amichevole, la Porcenese viene dimenticata. E non certo perché siamo troppo forti: in classifica siamo settimi, su dieci squadre».
Non è facile la vita di una squadra arcobaleno nel Nordest dove «”el leon che magna el teron” – dice Marco Zanella – non è solo un ricordo del passato». «”Paròni a casa nostra” è ancora una parola d´ordine. E se giri nei bar (solo nel centro storico di Feltre ce ne sono 50, e chiudono invece teatri e cinema) nei mercati, nelle piazze, senti anche di peggio: negro de merda, teron del casso… Per fortuna, quando entri in campo, trovi un mondo diverso. Quando arrivi e aspetti di entrare nello spogliatoio, ci guardano un poco perplessi. “E questa sarebbe la squadra di Porcen della val feltrina?”. Poi si gioca e si è soltanto 11 giocatori contro 11. Il razzismo, almeno per ora, resta fuori dal prato verde».
Anche a Porcen l´inizio non è stato facile. «Quando abbiamo deciso di fare gli sponsor della squadra – raccontano Silvia Turrin e Rosemarie Prenot, le ragazze dell´Osteria la Pergola – qualche cliente ci ha detto: ma cosa c´entra Porcel con questi marocchini e macedoni? Poi hanno visto questi ragazzi tutti assieme, a bere un bicchiere dopo l´allenamento, e hanno detto: che belli, finalmente un po´ di gioventù. E sono anche forti in campo». Mille euro dall´osteria, per comprare due divise a testa, maglia, calzoncini e calzettoni. Il prossimo anno ci sarà anche un altro sponsor, la pizzeria Il Castegner. Così si potranno comprare le tute. Borse e scarpe sono a carico dei giocatori, che pagano anche 60 euro all´anno per l´iscrizione. «Ma c´è anche chi non può pagare – dice il presidente – ed entra comunque nella squadra». Lamin B., 24 anni, è un rifugiato politico. Nato in Gambia è scappato in Libia, perché suo padre è un oppositore del regime. «Quando è scoppiata la guerra anche lì, sono venuto in Italia, su un barcone. Vivo con Ibrahim, anche lui rifugiato, in un appartamento della Caritas. Esco solo per andare a scuola di italiano e per giocare a calcio. È bello stare assieme agli altri, avere una divisa da calciatore e per qualche ora pensare solo al pallone. Quando sono in casa riesco a pensare solo a mio padre, che è scappato in Senegal e al fatto che, se torno in Gambia, rischio di essere ucciso».
I ragazzi sul campo di allenamento rincorrono anche i loro sogni. Ervin Lika, albanese di 27 anni, ha una piccola impresa edile e spera di trovare «anche clienti italiani». Idris El Omari, il marocchino, ha un diploma di aiuto cuoco e spera di trovare un posto di lavoro. Marcelo l´argentino dice che altre tre squadre lo hanno chiesto ma lui ha scelto la Porcenese. «Ci sono ragazzi di tutto il mondo, si impara di più. Se potessi diventare bravo come Messi… Anche la metà andrebbe bene». I fari del campo illuminano ancora ragazzi che giocano a calcio. Non stranieri.

La Repubblica 06.05.12

"Una nuova generazione", di Alfredo Reichlin

Come è naturale che sia, le primarie riservano sorprese. Ma sbaglia sia chi non le accetta e sia chi le usa per mettere in crisi il Partito democratico. Cos’è il Pd? Io penso che sia ancora un partito in formazione che si sforza (o dovrebbe sforzarsi) di collocarsi su un terreno nuovo e più avanzato rispetto a vecchi giochi.
Che cosa voglio dire? Voglio dire che a parte il fatto che delle 122 elezioni svoltesi dal 2008 al 2011 novantasei sono state vinte dal candidato ufficiale del Pd a me sembra che i Pisapia, i Doria e gli Zedda (non conosco il palermitano Fabrizio Ferrandelli) siano la conferma del tipo di classe dirigente nuova che questo partito deve avere. Il fatto vero è che stanno scomparendo i vecchi nomi e i vecchi schieramenti. Sbaglierò, ma questo è il punto su cui riflettere.
Come può procedere la costruzione del Pd senza l’avvento di una nuova classe dirigente? La quale oggi non può che partire dalla consapevolezza che nel mondo reale stanno avvenendo cose che toccano come mai il destino dei popoli e insieme la nuda vita delle persone. Per cui le parole (e anche certe facce) non corrispondono più alle cose. Il solo modo che io ho per partecipare ai travagli del Partito democratico è dare una mano a chi sia disposto a impegnarsi in una simile impresa. Se questo qualcuno esiste, faccia quello che crede ma sappia qual’è il suo banco di prova. La condizione preliminare è avere in sé il senso della grandezza del problema che in questo aspro passaggio storico chiama un partito come il Pd a farsi protagonista e al tempo stesso sfida la sua anima più profonda (se essa esiste).
Una difficile sfida perché la democrazia politica non ha futuro se non si misura con i problemi di qualcosa che non è una crisi congiunturale dell’economia ma un drammatico vuoto di governabilità del mondo (siamo al punto che nelle prossime settimane può perfino scoppiare un’altra guerra nel Medio Oriente) creato dal fallimento dell’ordine politico-economico che ci ha governato negli ultimi decenni. Con le conseguenze che vediamo. Una alluvione di economia di carta e un enorme «casinò» finanziario (senza alcuna regolazione politica) che si sta mangiando l’economia reale. E con il seguito di abissali ingiustizie che ci gridano in faccia e che stanno distruggendo i legami sociali, alimentando la violenza. Leggo l’ennesimo attacco ai partiti sul Corriere della Sera firmato questa volta da Michele Salvati. Il professore non ha visto nulla di tutto questo. Se la prende con i partiti ridotti come sono stati ridotti dalla potenza di ben altri poteri. È uno spettacolo triste.
Per fortuna io avverto un nuovo fermento soprattutto nelle leve intellettuali più giovani. Noto un proliferare di scritti, incontri, dibattiti e perfino un certo disprezzo per le vecchie idee di quelli che Keynes chiamava gli «economisti defunti», i quali ancora gravano «come un incubo» sulle nostre menti. Io di ciò sono molto contento. Vorrei però richiamare l’attenzione dei giovani amici sul fatto che il problema non è solo culturale. La sfida vera è come questo risveglio si traduce in una grande idea politica. In una nuova proposta per l’Italia. E soprattutto come si incarna in una forza a vocazione maggioritaria. Direi di fare molta attenzione. La traduzione politica di questo fermento non può ridursi alla formazione di una corrente più radicale. Deve tendere a dare un fondamento più largo a un partito il cui profilo deve più che mai restare democratico e popolare. Il Pd dovrebbe essere sempre meno elettoralistico ed elitario ma più inclusivo, andando oltre i vecchi confini della sinistra, più partito della nazione e protagonista al tempo stesso della politica europea. Insomma non più a sinistra o più a destra ma più saldamente collocato là dove è il centro del conflitto, il quale non è solo nazionale. Quale grande riforma e nuovo patto sociale può governare l’Europa dopo il fallimento dell’attuale oligarchia finanziaria? Questo è il vero interrogativo che dovrebbero porsi anche i professori.
So anch’io che la politica è concretezza e capacità di gestire l’esistente. Ma la verità è che la politica non può ridursi né a un sottoprodotto dell’economia né al populismo di un miliardario che l’ha usata come maschera del suo potere personale. Come non si capisce che la condizione perché l’Europa torni protagonista della scena mondiale e riacquisti la padronanza del suo destino è la restaurazione della sovranità delle istituzioni politiche? Non basta la Banca centrale. Il problema è la democrazia. E la democrazia lo si vede nella ferocia dell’attacco quotidiano al Pd non è «un pranzo di gala». Non è solo la libertà di voto ma la lotta per l’uguaglianza e per la dignità del lavoro. È lo strumento ecco il punto che tanto preoccupa senza il quale le classi subalterne non solo contano poco ma le grandi decisioni continua a prenderle solo l’oligarchia che poi in Italia è sempre quella.
Non si gioca con il Partito democratico. Piaccia o no, siamo un bisogno nazionale. E ciò per la semplice ragione che l’aver salvato l’Italia dalla bancarotta grazie anche al buon governo dei tecnici non cancella ma riporta all’ordine del giorno il problema irrisolto che sta alla base di ogni ipotesi di sviluppo della nazione. Questa condizione è la riorganizzazione delle risorse umane e creative creando un rapporto meno belluino e più cooperativo tra economia, società e Stato. Tra l’antica sapienza del multiforme lavoro italiano e lo sviluppo del Paese. Del resto su che cosa si fonda la attuale prosperità della Germania se non su due grandissime decisioni prese dalla politica e non dai mercati? La prima è stata l’unificazione in pochi anni di una regione come l’Est grande come il nostro Mezzogiorno il quale invece resta da 150 anni una piaga purulenta. La seconda è la più o meno tacita intesa per un grande patto sociale tra operai e industriali che è alla base della eccellenza produttiva della Germania. Cose addirittura impensabili per la classe dirigente italiana.
Tra poco più di un anno si vota. Il Pd cosa dice agli elettori? Si divide tra chi è per Monti e chi è contro? Eviterei questo suicidio. Alzerei invece di molto la voce per dire che siamo di fronte al riproporsi, sia pure in forme molto diverse, di quel dilemma drammatico che si presentò al mondo negli anni ’30 del secolo scorso, quando la grande crisi del ’29 conseguente anche allora dalla rottura di un ordine politico-economico mondiale impose una grande scelta. Da un lato alcuni Paesi avviarono un nuovo tipo di sviluppo basato su un compromesso sociale democratico (le socialdemocrazie classiche ma anche Roosevelt e il new deal). Dall’altro lato ci fu l’avvento in altri Paesi di regimi di massa autoritari. Oggi non siamo a questo. C’è però qualcosa che richiama alla mente quel famoso giudizio di Gramsci su un altro momento torbido della storia d’Italia, quello in cui «il vecchio non può più ma il nuovo non può ancora».
Ecco perché mi interessa tanto l’avvento nel Pd di una nuova generazione. Guardiamo avanti. I risultati delle primarie si accettano. Non serve a nessuno una rissa a Palermo sul tipo di quella che ci fu a Napoli.

L’Unità 06.03.12

“Una nuova generazione”, di Alfredo Reichlin

Come è naturale che sia, le primarie riservano sorprese. Ma sbaglia sia chi non le accetta e sia chi le usa per mettere in crisi il Partito democratico. Cos’è il Pd? Io penso che sia ancora un partito in formazione che si sforza (o dovrebbe sforzarsi) di collocarsi su un terreno nuovo e più avanzato rispetto a vecchi giochi.
Che cosa voglio dire? Voglio dire che a parte il fatto che delle 122 elezioni svoltesi dal 2008 al 2011 novantasei sono state vinte dal candidato ufficiale del Pd a me sembra che i Pisapia, i Doria e gli Zedda (non conosco il palermitano Fabrizio Ferrandelli) siano la conferma del tipo di classe dirigente nuova che questo partito deve avere. Il fatto vero è che stanno scomparendo i vecchi nomi e i vecchi schieramenti. Sbaglierò, ma questo è il punto su cui riflettere.
Come può procedere la costruzione del Pd senza l’avvento di una nuova classe dirigente? La quale oggi non può che partire dalla consapevolezza che nel mondo reale stanno avvenendo cose che toccano come mai il destino dei popoli e insieme la nuda vita delle persone. Per cui le parole (e anche certe facce) non corrispondono più alle cose. Il solo modo che io ho per partecipare ai travagli del Partito democratico è dare una mano a chi sia disposto a impegnarsi in una simile impresa. Se questo qualcuno esiste, faccia quello che crede ma sappia qual’è il suo banco di prova. La condizione preliminare è avere in sé il senso della grandezza del problema che in questo aspro passaggio storico chiama un partito come il Pd a farsi protagonista e al tempo stesso sfida la sua anima più profonda (se essa esiste).
Una difficile sfida perché la democrazia politica non ha futuro se non si misura con i problemi di qualcosa che non è una crisi congiunturale dell’economia ma un drammatico vuoto di governabilità del mondo (siamo al punto che nelle prossime settimane può perfino scoppiare un’altra guerra nel Medio Oriente) creato dal fallimento dell’ordine politico-economico che ci ha governato negli ultimi decenni. Con le conseguenze che vediamo. Una alluvione di economia di carta e un enorme «casinò» finanziario (senza alcuna regolazione politica) che si sta mangiando l’economia reale. E con il seguito di abissali ingiustizie che ci gridano in faccia e che stanno distruggendo i legami sociali, alimentando la violenza. Leggo l’ennesimo attacco ai partiti sul Corriere della Sera firmato questa volta da Michele Salvati. Il professore non ha visto nulla di tutto questo. Se la prende con i partiti ridotti come sono stati ridotti dalla potenza di ben altri poteri. È uno spettacolo triste.
Per fortuna io avverto un nuovo fermento soprattutto nelle leve intellettuali più giovani. Noto un proliferare di scritti, incontri, dibattiti e perfino un certo disprezzo per le vecchie idee di quelli che Keynes chiamava gli «economisti defunti», i quali ancora gravano «come un incubo» sulle nostre menti. Io di ciò sono molto contento. Vorrei però richiamare l’attenzione dei giovani amici sul fatto che il problema non è solo culturale. La sfida vera è come questo risveglio si traduce in una grande idea politica. In una nuova proposta per l’Italia. E soprattutto come si incarna in una forza a vocazione maggioritaria. Direi di fare molta attenzione. La traduzione politica di questo fermento non può ridursi alla formazione di una corrente più radicale. Deve tendere a dare un fondamento più largo a un partito il cui profilo deve più che mai restare democratico e popolare. Il Pd dovrebbe essere sempre meno elettoralistico ed elitario ma più inclusivo, andando oltre i vecchi confini della sinistra, più partito della nazione e protagonista al tempo stesso della politica europea. Insomma non più a sinistra o più a destra ma più saldamente collocato là dove è il centro del conflitto, il quale non è solo nazionale. Quale grande riforma e nuovo patto sociale può governare l’Europa dopo il fallimento dell’attuale oligarchia finanziaria? Questo è il vero interrogativo che dovrebbero porsi anche i professori.
So anch’io che la politica è concretezza e capacità di gestire l’esistente. Ma la verità è che la politica non può ridursi né a un sottoprodotto dell’economia né al populismo di un miliardario che l’ha usata come maschera del suo potere personale. Come non si capisce che la condizione perché l’Europa torni protagonista della scena mondiale e riacquisti la padronanza del suo destino è la restaurazione della sovranità delle istituzioni politiche? Non basta la Banca centrale. Il problema è la democrazia. E la democrazia lo si vede nella ferocia dell’attacco quotidiano al Pd non è «un pranzo di gala». Non è solo la libertà di voto ma la lotta per l’uguaglianza e per la dignità del lavoro. È lo strumento ecco il punto che tanto preoccupa senza il quale le classi subalterne non solo contano poco ma le grandi decisioni continua a prenderle solo l’oligarchia che poi in Italia è sempre quella.
Non si gioca con il Partito democratico. Piaccia o no, siamo un bisogno nazionale. E ciò per la semplice ragione che l’aver salvato l’Italia dalla bancarotta grazie anche al buon governo dei tecnici non cancella ma riporta all’ordine del giorno il problema irrisolto che sta alla base di ogni ipotesi di sviluppo della nazione. Questa condizione è la riorganizzazione delle risorse umane e creative creando un rapporto meno belluino e più cooperativo tra economia, società e Stato. Tra l’antica sapienza del multiforme lavoro italiano e lo sviluppo del Paese. Del resto su che cosa si fonda la attuale prosperità della Germania se non su due grandissime decisioni prese dalla politica e non dai mercati? La prima è stata l’unificazione in pochi anni di una regione come l’Est grande come il nostro Mezzogiorno il quale invece resta da 150 anni una piaga purulenta. La seconda è la più o meno tacita intesa per un grande patto sociale tra operai e industriali che è alla base della eccellenza produttiva della Germania. Cose addirittura impensabili per la classe dirigente italiana.
Tra poco più di un anno si vota. Il Pd cosa dice agli elettori? Si divide tra chi è per Monti e chi è contro? Eviterei questo suicidio. Alzerei invece di molto la voce per dire che siamo di fronte al riproporsi, sia pure in forme molto diverse, di quel dilemma drammatico che si presentò al mondo negli anni ’30 del secolo scorso, quando la grande crisi del ’29 conseguente anche allora dalla rottura di un ordine politico-economico mondiale impose una grande scelta. Da un lato alcuni Paesi avviarono un nuovo tipo di sviluppo basato su un compromesso sociale democratico (le socialdemocrazie classiche ma anche Roosevelt e il new deal). Dall’altro lato ci fu l’avvento in altri Paesi di regimi di massa autoritari. Oggi non siamo a questo. C’è però qualcosa che richiama alla mente quel famoso giudizio di Gramsci su un altro momento torbido della storia d’Italia, quello in cui «il vecchio non può più ma il nuovo non può ancora».
Ecco perché mi interessa tanto l’avvento nel Pd di una nuova generazione. Guardiamo avanti. I risultati delle primarie si accettano. Non serve a nessuno una rissa a Palermo sul tipo di quella che ci fu a Napoli.

L’Unità 06.03.12

"I prof hanno paura e il «Raffaele Viviani» rischia di chiudere", di Massimiliano Amato

Nella scuola media del rione Parco Verde di Caivano, Napoli, disponibili 17 cattedre a tempo indeterminato. La preside va a prendere i ragazzi con la sua auto. Solo due iscritti. Era necessario uno scatto d’orgoglio. Costruire una trincea, decidere di indossare l’elmetto e accettare di combattere. Perché nella «banlieue» dei deportati del sisma dell’80, dove i guaglioni dello spaccio improvvisano spericolati rodei in sella agli scooter, tra falansteri di vetrocemento verde marcio, orridi, fatiscenti e senza fogne perché c’è il sospetto che siano stati utilizzati per tombare i bidoni tossici arrivati dal Nord, la «Raffaele Viviani» era un raggio di luce. Una speranza. Invece la Regione Campania ha deciso che quello in corso sarà l’ultimo anno scolastico per la scuola media del Parco Verde di Caivano, dove la preside, per combattere la dispersione, i ragazzi li va a prendere casa per casa con la sua Peugeot ammaccata che tutti hanno imparato a riconoscere in questi vialoni lunghi, dritti e senza nomi. Eugenia Carfora, bionda, minuta, un fascio di nervi che è un concentrato di energia, rabbia civile e determinazione, si dice «perdente, ma non vinta». Ma, in fondo alla battaglia che ha combattuto, resta la forza devastante diun esempio che ha squarciato montagne d’indifferenza, quando di non aperta diffidenza. Tra i palazzoni di questo gigantesco lager sorto ai margini della Nola – Villa Literno, la superstrada costruita col cemento delle ditte che rispondevano ai Casalesi, molti genitori stanno con lei, con la preside che cita don Milani: «La mia scuola deve essere come la sua capanna, deve restare sempre aperta e non escludere nessuno». Conquistati da cinque anni di lotte durissime controcorrente che la burocrazia regionale ha cancellato con una delibera. Quella che prevede lo scioglimento della «Viviani», che la Carfora ha trasformato in istituto modello con aule multimediali e laboratori didattici all’avanguardia, nell’altra scuola media di Caivano, la «Papa Giovanni». Firmato: Caterina Miraglia, docente universitaria in aspettativa, assessore alla pubblica istruzione della Giunta Caldoro. Il motivo? Quest’anno i nuovi iscritti alla «Viviani» sono stati due. Sì: due soltanto, che hanno fatto salire a 70 il numero complessivo dei ragazzi che frequentano le sei classi. Frequentano è una parola grossa: la preside Carfora sfoglia i registri e compila velocemente la sua statistica. Il tasso di diserzione medio è attestato sui 55-60 giorni l’anno. Ma ci sono ragazzi che, l’anno scorso, hanno messo insieme anche 100 assenze. Alla «Viviani» anche i professori sono di passaggio: dei diciotto componenti il corpo docente, solo uno è di ruolo. Gli altri sono supplenti. I diciassette contratti a tempo indeterminato disponibili non li ha voluti nessuno: troppo impegnativo, troppo stressante dover fare gli insegnanti e gli educatori al tempo stesso. Perché chi arriva alla «Viviani» direttamente dai palazzoni della vergogna controllati discretamente dalle vedette della camorra, prim’ancora di essere istruito, ha bisogno di essere educato a sentirsi parte di una comunità con leggi e regole da rispettare. «La maggior parte di questi ragazzi – spiega la preside – è diventata adulta in fretta. Hanno alle spalle famiglie complicate, molti genitori sono giovani e troppi hanno avuto, e hanno tuttora, problemi con la giustizia. Dicono che queste situazioni non ricadono sui ragazzi,ma è quella l’aria che respirano a casa». Quando arrivò, nel settembre del 2007, la preside Carfora trovò la «Viviani» in condizioni disastrose. Gli spazi esterni erano invasi dalle erbacce, e dentro era anche peggio: gli arredi erano stati ricavati da materiali di risulta, non c’erano banchi a sufficienza per tutti i ragazzi, l’archivio era sottosopra. Con l’aiuto dei suoi collaboratori, è arrivata a ridipingere personalmente le aule. Ora, a meno di ripensamenti da parte della Regione, si avvicina il fine corsa, stabilito sulla base di un misero calcolo ragionieristico. Per scongiurarlo, la preside ha lanciato un appello al governo: «Se il problema sono io, vado via subito. Ma voglio che questa scuola resti così com’è. Per quello che mi riguarda, lascerei anche domani, se avessi la certezza che chiunque verrà dopo di me continuerà a lottare per i miei ragazzi, affinché loro possano avere un’altra chance: una vita dignitosa lontana dall’illegalità ». Pare che il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, sia rimasto molto colpito. Non è esclusa una sua visita al Parco Verde.

L’Unità 06.03.12

“I prof hanno paura e il «Raffaele Viviani» rischia di chiudere”, di Massimiliano Amato

Nella scuola media del rione Parco Verde di Caivano, Napoli, disponibili 17 cattedre a tempo indeterminato. La preside va a prendere i ragazzi con la sua auto. Solo due iscritti. Era necessario uno scatto d’orgoglio. Costruire una trincea, decidere di indossare l’elmetto e accettare di combattere. Perché nella «banlieue» dei deportati del sisma dell’80, dove i guaglioni dello spaccio improvvisano spericolati rodei in sella agli scooter, tra falansteri di vetrocemento verde marcio, orridi, fatiscenti e senza fogne perché c’è il sospetto che siano stati utilizzati per tombare i bidoni tossici arrivati dal Nord, la «Raffaele Viviani» era un raggio di luce. Una speranza. Invece la Regione Campania ha deciso che quello in corso sarà l’ultimo anno scolastico per la scuola media del Parco Verde di Caivano, dove la preside, per combattere la dispersione, i ragazzi li va a prendere casa per casa con la sua Peugeot ammaccata che tutti hanno imparato a riconoscere in questi vialoni lunghi, dritti e senza nomi. Eugenia Carfora, bionda, minuta, un fascio di nervi che è un concentrato di energia, rabbia civile e determinazione, si dice «perdente, ma non vinta». Ma, in fondo alla battaglia che ha combattuto, resta la forza devastante diun esempio che ha squarciato montagne d’indifferenza, quando di non aperta diffidenza. Tra i palazzoni di questo gigantesco lager sorto ai margini della Nola – Villa Literno, la superstrada costruita col cemento delle ditte che rispondevano ai Casalesi, molti genitori stanno con lei, con la preside che cita don Milani: «La mia scuola deve essere come la sua capanna, deve restare sempre aperta e non escludere nessuno». Conquistati da cinque anni di lotte durissime controcorrente che la burocrazia regionale ha cancellato con una delibera. Quella che prevede lo scioglimento della «Viviani», che la Carfora ha trasformato in istituto modello con aule multimediali e laboratori didattici all’avanguardia, nell’altra scuola media di Caivano, la «Papa Giovanni». Firmato: Caterina Miraglia, docente universitaria in aspettativa, assessore alla pubblica istruzione della Giunta Caldoro. Il motivo? Quest’anno i nuovi iscritti alla «Viviani» sono stati due. Sì: due soltanto, che hanno fatto salire a 70 il numero complessivo dei ragazzi che frequentano le sei classi. Frequentano è una parola grossa: la preside Carfora sfoglia i registri e compila velocemente la sua statistica. Il tasso di diserzione medio è attestato sui 55-60 giorni l’anno. Ma ci sono ragazzi che, l’anno scorso, hanno messo insieme anche 100 assenze. Alla «Viviani» anche i professori sono di passaggio: dei diciotto componenti il corpo docente, solo uno è di ruolo. Gli altri sono supplenti. I diciassette contratti a tempo indeterminato disponibili non li ha voluti nessuno: troppo impegnativo, troppo stressante dover fare gli insegnanti e gli educatori al tempo stesso. Perché chi arriva alla «Viviani» direttamente dai palazzoni della vergogna controllati discretamente dalle vedette della camorra, prim’ancora di essere istruito, ha bisogno di essere educato a sentirsi parte di una comunità con leggi e regole da rispettare. «La maggior parte di questi ragazzi – spiega la preside – è diventata adulta in fretta. Hanno alle spalle famiglie complicate, molti genitori sono giovani e troppi hanno avuto, e hanno tuttora, problemi con la giustizia. Dicono che queste situazioni non ricadono sui ragazzi,ma è quella l’aria che respirano a casa». Quando arrivò, nel settembre del 2007, la preside Carfora trovò la «Viviani» in condizioni disastrose. Gli spazi esterni erano invasi dalle erbacce, e dentro era anche peggio: gli arredi erano stati ricavati da materiali di risulta, non c’erano banchi a sufficienza per tutti i ragazzi, l’archivio era sottosopra. Con l’aiuto dei suoi collaboratori, è arrivata a ridipingere personalmente le aule. Ora, a meno di ripensamenti da parte della Regione, si avvicina il fine corsa, stabilito sulla base di un misero calcolo ragionieristico. Per scongiurarlo, la preside ha lanciato un appello al governo: «Se il problema sono io, vado via subito. Ma voglio che questa scuola resti così com’è. Per quello che mi riguarda, lascerei anche domani, se avessi la certezza che chiunque verrà dopo di me continuerà a lottare per i miei ragazzi, affinché loro possano avere un’altra chance: una vita dignitosa lontana dall’illegalità ». Pare che il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, sia rimasto molto colpito. Non è esclusa una sua visita al Parco Verde.

L’Unità 06.03.12

"Dedicare l’8 marzo a tre donne vittime della ’ndrangheta", di Vera Lamonicas

Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo, erano donne di ’ndrangheta, cresciute e vissute nel contesto di famiglie potenti della più potente tra le organizzazioni criminali. Di quell’appartenenza avevano assorbito le regole, e dentro quelle regole erano vissute fino alla negazione di sé, della propria libertà e della propria dignità. Maria Concetta,ad esempio, era stata sposata a 14 anni, a 15 era diventata mamma, più volte pestata a sangue, a 31 anni aveva tre figli ed è morta ingerendo acido muriatico. E le altre non hanno storie meno tragiche: sono tutte, insieme a tante altre, vittime della più sconvolgente delle sorti, quella di nascere in una famiglia di ’ndrangheta, l’organizzazione criminale che nella famiglia e nei legami di affetto e di sangue che la caratterizzano, trova una delle basi della sua forza e della sua impenetrabilità e una delle ragioni del radicamento anche culturale che la caratterizza nel contesto calabrese. Perciò ribellarsi alla ’ndrangheta, ribellarsi dall’interno, non è solo un atto di pentimento e di dissociazione, è un atto di lacerazione profonda che porta con sé la messa in discussione di tutti i legami affettivi che caratterizzano una vita, fino al-la stessa identità. È un travaglio che queste donne hanno vissuto fino in fondo, perché hanno scelto di contrapporsi, di denunciare, di intraprendere una via di legalità e giustizia, sfidando un mondo che conoscevano troppo bene e del quale sapevano che non avrebbe perdonato. Chi non ha pagato con la vita, in questi percorsi, si è tuttavia consegnata aduna condizione di straordinaria fragilità che rende arduo il percorso di ricostruzione della vita anche sotto la protezione dello Stato. Il rischio della retorica è sempre in agguato. Viene voglia di non unire la propria voce quando si levano, stucchevoli e scontate, le dichiarazioni di solidarietà di coloro che, soprattutto nella politica, sono tra i principali responsabili dello stato di abbandono e di degrado, economico, civile e sociale, in cui vive la Calabria e che costituisce il contesto necessario a che il potere criminale cresca sempre più fino a diventare «strutturale». Il mal governo, l’incapacità di essere classe dirigente, il deficit istituzionale ed amministrativo producono lo stato di sofferenza altissima di quella popolazione ed offrono l’argomento a tutti i leghismi ed a tutte le deresponsabilizzazioni dei governi e della politica nazionale, e non certo da oggi. Ma non c’è retorica nell’appello lanciato dal «Quotidiano della Calabria » che invita a dedicare l’8 marzo a queste tre donne, c’è l’invito a cogliere nelle loro storie e nei loro volti il segno di come, nella più cruda delle condizioni, possa nascere la voglia di riscatto e l’amore per la libertà, la scintilla della speranza e il coraggio di rischiare. La Cgil calabrese, insieme a tanti altri, ha raccolto questo appello e lo fa suo. È necessario, infatti, che prima di tutto i soggetti sociali della rappresentanza colgano che in quelle terre la profondità della crisi e le trasformazioni che essa sta determinando, a partire dall’impoverimento generalizzato del lavoro e dalla disoccupazione di massa, rischiano di produrre, sul terreno della legalità, non un’inversione di tendenza, ma la consegna definitiva all’assurdo destino di diventare una sorta di piattaforma territoriale dalla quale la ’ndrangheta governa il giro vorticoso di affari e miliardi che naturalmente si svolge ben oltre i confini della Calabria, nel cuore industriale d’Italia e d’Europa. E quindi c’è un gran bisogno di costruire fatti nuovi, di suscitare movimenti e mandare nuovi messaggi, anche culturali, di conquistare nuove forze all’impegno ed alla lotta. Nel cosiddetto welfare mafioso non c’è risposta ai bisogni di nessuno, solo assoggettamento, povertà, violenza, umiliazione. Soprattutto per le donne il codice ’ndranghetista è negazione di soggettività e la subcultura della famiglia che essa veicola, e che viene da un lungo retaggio storico, costituisce la negazione di ogni possibilità di crescita economica, civile e dei diritti. Lea, Maria Concetta e Giuseppina in fondo non chiedevano null’altro che normalità: volevano lavorare, amare, crescere i loro figli come le loro coetanee di tutta Europa. A loro non è stato concesso, per la particolarità tragica della loro condizione. Ma quanta di questa libera normalità è concessa in generale alle donne calabresi? Il tasso di occupazione non supera il 30%, chi lavora il più delle volte è precaria, o in nero, o a sottosalario. Ormai non ci si presenta neanche più a cercare lavoro e chi vuole farlo deve andare via, sempre se ha una famiglia che può permettersi di integrare le risorse necessarie allo spostamento. Se si ha un figlio, o un genitore non autosufficiente, è obbligo rinunciare perché nel campo dei servizi c’é il deserto; e se i servizi ci sono il loro costo non rende conveniente lavorare per l’andamento delle retribuzioni reali. Può diventare questa condizione una molla per un movimento di donne che chiede lavoro, servizi, cambiamento? L’8 marzo, nel nome di tre donne che hanno cercato e prodotto cambiamento, sarà importante discuterne.

L’Unità 06.03.12

“Dedicare l’8 marzo a tre donne vittime della ’ndrangheta”, di Vera Lamonicas

Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo, erano donne di ’ndrangheta, cresciute e vissute nel contesto di famiglie potenti della più potente tra le organizzazioni criminali. Di quell’appartenenza avevano assorbito le regole, e dentro quelle regole erano vissute fino alla negazione di sé, della propria libertà e della propria dignità. Maria Concetta,ad esempio, era stata sposata a 14 anni, a 15 era diventata mamma, più volte pestata a sangue, a 31 anni aveva tre figli ed è morta ingerendo acido muriatico. E le altre non hanno storie meno tragiche: sono tutte, insieme a tante altre, vittime della più sconvolgente delle sorti, quella di nascere in una famiglia di ’ndrangheta, l’organizzazione criminale che nella famiglia e nei legami di affetto e di sangue che la caratterizzano, trova una delle basi della sua forza e della sua impenetrabilità e una delle ragioni del radicamento anche culturale che la caratterizza nel contesto calabrese. Perciò ribellarsi alla ’ndrangheta, ribellarsi dall’interno, non è solo un atto di pentimento e di dissociazione, è un atto di lacerazione profonda che porta con sé la messa in discussione di tutti i legami affettivi che caratterizzano una vita, fino al-la stessa identità. È un travaglio che queste donne hanno vissuto fino in fondo, perché hanno scelto di contrapporsi, di denunciare, di intraprendere una via di legalità e giustizia, sfidando un mondo che conoscevano troppo bene e del quale sapevano che non avrebbe perdonato. Chi non ha pagato con la vita, in questi percorsi, si è tuttavia consegnata aduna condizione di straordinaria fragilità che rende arduo il percorso di ricostruzione della vita anche sotto la protezione dello Stato. Il rischio della retorica è sempre in agguato. Viene voglia di non unire la propria voce quando si levano, stucchevoli e scontate, le dichiarazioni di solidarietà di coloro che, soprattutto nella politica, sono tra i principali responsabili dello stato di abbandono e di degrado, economico, civile e sociale, in cui vive la Calabria e che costituisce il contesto necessario a che il potere criminale cresca sempre più fino a diventare «strutturale». Il mal governo, l’incapacità di essere classe dirigente, il deficit istituzionale ed amministrativo producono lo stato di sofferenza altissima di quella popolazione ed offrono l’argomento a tutti i leghismi ed a tutte le deresponsabilizzazioni dei governi e della politica nazionale, e non certo da oggi. Ma non c’è retorica nell’appello lanciato dal «Quotidiano della Calabria » che invita a dedicare l’8 marzo a queste tre donne, c’è l’invito a cogliere nelle loro storie e nei loro volti il segno di come, nella più cruda delle condizioni, possa nascere la voglia di riscatto e l’amore per la libertà, la scintilla della speranza e il coraggio di rischiare. La Cgil calabrese, insieme a tanti altri, ha raccolto questo appello e lo fa suo. È necessario, infatti, che prima di tutto i soggetti sociali della rappresentanza colgano che in quelle terre la profondità della crisi e le trasformazioni che essa sta determinando, a partire dall’impoverimento generalizzato del lavoro e dalla disoccupazione di massa, rischiano di produrre, sul terreno della legalità, non un’inversione di tendenza, ma la consegna definitiva all’assurdo destino di diventare una sorta di piattaforma territoriale dalla quale la ’ndrangheta governa il giro vorticoso di affari e miliardi che naturalmente si svolge ben oltre i confini della Calabria, nel cuore industriale d’Italia e d’Europa. E quindi c’è un gran bisogno di costruire fatti nuovi, di suscitare movimenti e mandare nuovi messaggi, anche culturali, di conquistare nuove forze all’impegno ed alla lotta. Nel cosiddetto welfare mafioso non c’è risposta ai bisogni di nessuno, solo assoggettamento, povertà, violenza, umiliazione. Soprattutto per le donne il codice ’ndranghetista è negazione di soggettività e la subcultura della famiglia che essa veicola, e che viene da un lungo retaggio storico, costituisce la negazione di ogni possibilità di crescita economica, civile e dei diritti. Lea, Maria Concetta e Giuseppina in fondo non chiedevano null’altro che normalità: volevano lavorare, amare, crescere i loro figli come le loro coetanee di tutta Europa. A loro non è stato concesso, per la particolarità tragica della loro condizione. Ma quanta di questa libera normalità è concessa in generale alle donne calabresi? Il tasso di occupazione non supera il 30%, chi lavora il più delle volte è precaria, o in nero, o a sottosalario. Ormai non ci si presenta neanche più a cercare lavoro e chi vuole farlo deve andare via, sempre se ha una famiglia che può permettersi di integrare le risorse necessarie allo spostamento. Se si ha un figlio, o un genitore non autosufficiente, è obbligo rinunciare perché nel campo dei servizi c’é il deserto; e se i servizi ci sono il loro costo non rende conveniente lavorare per l’andamento delle retribuzioni reali. Può diventare questa condizione una molla per un movimento di donne che chiede lavoro, servizi, cambiamento? L’8 marzo, nel nome di tre donne che hanno cercato e prodotto cambiamento, sarà importante discuterne.

L’Unità 06.03.12