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"Da Montale al Cavaliere il paese senza quid", di Francesco Merlo

Con un guizzo linguistico malandrino che voleva solo ridimensionare il proprio delfino Alfano – «gli manca il quid» – Berlusconi ha implicitamente ammesso di aver perduto anche il suo di quid, che è stato plusvalore in economia e carisma in politica, benché molto spesso sia stato, quid unicum in Occidente, lontanissimo dal quid iuris dello Stato di Diritto. E così il quid, monosillabo ad alta densità, che a Berlusconi arriva forse dal latino goliardico dei papelli e del proforma, nella politica italiana ha preso il posto dello spread. spread finalmente ridimensionato dal quel miniquid (il sobrio è sempre piccolo) di Monti che tuttavia non è ancora «il quid definitivo» cui agognava Montale e che vistosamente manca al diligente Bersani, come è mancato, sempre a sinistra, a Veltroni e a Rutelli e pure a D´Alema, che nella sulla lunga carriera o ha avuto troppo quid o ne ha avuto troppo poco.
Perché il quid può essere mancato anche per eccesso: troppo quando appare senza essere evocato e troppo poco quando sparisce senza essere distrutto. Infatti il quid, indefinito e indefinibile segnalatore della quantità che si muta in qualità, in politica come in cucina è l´arte magica degli ingredienti: “sq”, secondo quantità, prescrive la Bibbia dei ricettari, “Il Cucchiaio d´argento”. Mia madre raccomanda «quanto basta», «un pizzico», «un´anticchia» … E cosa vuole dire che «il burro deve fondere, ma non friggere?». Vuol dire che il quid «è il tempo di un Padrenostro» tagliava corto mia nonna, senza sapere che il quid misterioso dello sciogliersi senza friggere è anche la forza della leadership, ed è un quid che fa il carattere dell´uomo di carattere: quid, anime, titubas? cuore, perché vacilli?
Del resto sono disperatamente in cerca di quid anche Nichi Vendola e Matteo Renzi e persino ai tecnici difetta «il quid proprium della democrazia» di cui parla Kelsen. E va bene che Sartori spiega che «il quid ideologico non descrive ma prescrive» e dunque il presidente Napolitano ha conferito sì il quid di legittimità al governo tecnico, ma forse si tratta solo di quid facti e dunque kantiamente non deducibile, al punto che, se davvero passasse troppo tempo, gli si potrebbe evangelicamente porre la domanda che fu posta a Maria: Dic nobis, Giorgio, quid vidisti in via?
È davvero un vecchio sciamano questo Berlusconi che inaspettatamente ripropone, nel triste fine carriera, il suo antico e solo talento, quell´istintivo quid di artista dell´avanspettacolo che gli permette di sintetizzare inconsapevolmente l´Italia in un solo pronome indefinito. Il suo quid è sicuramente un quid pluris, meglio ancora del famoso “basta la parola” di Tino Scotti davanti al purgante, il confetto Falqui. Certo, Berlusconi voleva solo disfare quel che aveva fatto, aggiungere il suo quid malum alla dissoluzione del mondo che pure ha creato e dove ormai Schifani chiama Alfano «l´Alfan prodige» e Alfano chiama Schifani «la seconda scarica dello Stato». E invece senza volerlo ha trovato la parolina che contiene la nostra vita ed entra di diritto in quell´elenco di frasette, battutine, libretti e canzoncine che racchiudono un´epoca, come swing, come je je … come zero tituli, come «cchiù pilu ppi tutti». Oggi infatti un quid ci impedisce di essere pienamente europei; per un quid non abbiamo battuto l´Inghilterra nel rugby; le sconfitte della sinistra sono tutte per un quid; alle primarie del Pd ci si stupisce ogni volta per un prevedibile quid di imprevedibilità; alle liberalizzazioni di Monti manca un quid di vero e definitivo liberalismo; un quid culturale ci impedisce di costruire la Tav: «Non amo / chi sono, ciò che sembro. È stato tutto un qui pro quo». È un “osso di seppia” e dunque è perfetto, ma la formula corretta sarebbe quid pro quo, perché il quid indicibile è la forza di ogni ambiguità, la direzione di ogni doppio senso, la sostanza di ogni atto mancato. Per un quid Berlusconi non è stato il nostro Reagan, aveva un quid di troppo per essere soltanto un mascalzone, un imponderabile quid di dissolutezza lo ha estenuato nella prostituzione di Stato.
Intervistato da Ezio Mauro, anche Putin ha esibito il suo quid. Domanda: «Perché non rivelate i vostri redditi come in Occidente? Negli Usa un candidato deve addirittura quasi calarsi i pantaloni». Risposta: «Calarsi i pantaloni darebbe forse qualche impulso al voto. (…)». Ecco, c´è stato in tutti questi anni un quid sovranazionale, uno storico quid che, pur tra tante differenze di forma e di misura, ha reso simili Berlusconi, Gheddafi e Putin. Di quell´Asse Internazionale della Satrapia il quid ormai è rimasto solo a Putin. Berlusconi, che lo ha perso, lo va cercando nel povero Alfano: quid mihi agis, che mi combini? Cerca con la lanterna spenta il Quid metafisico come Diogene cercava l´Uomo con la lanterna accesa.

La Repubblica 04.03.12

“Da Montale al Cavaliere il paese senza quid”, di Francesco Merlo

Con un guizzo linguistico malandrino che voleva solo ridimensionare il proprio delfino Alfano – «gli manca il quid» – Berlusconi ha implicitamente ammesso di aver perduto anche il suo di quid, che è stato plusvalore in economia e carisma in politica, benché molto spesso sia stato, quid unicum in Occidente, lontanissimo dal quid iuris dello Stato di Diritto. E così il quid, monosillabo ad alta densità, che a Berlusconi arriva forse dal latino goliardico dei papelli e del proforma, nella politica italiana ha preso il posto dello spread. spread finalmente ridimensionato dal quel miniquid (il sobrio è sempre piccolo) di Monti che tuttavia non è ancora «il quid definitivo» cui agognava Montale e che vistosamente manca al diligente Bersani, come è mancato, sempre a sinistra, a Veltroni e a Rutelli e pure a D´Alema, che nella sulla lunga carriera o ha avuto troppo quid o ne ha avuto troppo poco.
Perché il quid può essere mancato anche per eccesso: troppo quando appare senza essere evocato e troppo poco quando sparisce senza essere distrutto. Infatti il quid, indefinito e indefinibile segnalatore della quantità che si muta in qualità, in politica come in cucina è l´arte magica degli ingredienti: “sq”, secondo quantità, prescrive la Bibbia dei ricettari, “Il Cucchiaio d´argento”. Mia madre raccomanda «quanto basta», «un pizzico», «un´anticchia» … E cosa vuole dire che «il burro deve fondere, ma non friggere?». Vuol dire che il quid «è il tempo di un Padrenostro» tagliava corto mia nonna, senza sapere che il quid misterioso dello sciogliersi senza friggere è anche la forza della leadership, ed è un quid che fa il carattere dell´uomo di carattere: quid, anime, titubas? cuore, perché vacilli?
Del resto sono disperatamente in cerca di quid anche Nichi Vendola e Matteo Renzi e persino ai tecnici difetta «il quid proprium della democrazia» di cui parla Kelsen. E va bene che Sartori spiega che «il quid ideologico non descrive ma prescrive» e dunque il presidente Napolitano ha conferito sì il quid di legittimità al governo tecnico, ma forse si tratta solo di quid facti e dunque kantiamente non deducibile, al punto che, se davvero passasse troppo tempo, gli si potrebbe evangelicamente porre la domanda che fu posta a Maria: Dic nobis, Giorgio, quid vidisti in via?
È davvero un vecchio sciamano questo Berlusconi che inaspettatamente ripropone, nel triste fine carriera, il suo antico e solo talento, quell´istintivo quid di artista dell´avanspettacolo che gli permette di sintetizzare inconsapevolmente l´Italia in un solo pronome indefinito. Il suo quid è sicuramente un quid pluris, meglio ancora del famoso “basta la parola” di Tino Scotti davanti al purgante, il confetto Falqui. Certo, Berlusconi voleva solo disfare quel che aveva fatto, aggiungere il suo quid malum alla dissoluzione del mondo che pure ha creato e dove ormai Schifani chiama Alfano «l´Alfan prodige» e Alfano chiama Schifani «la seconda scarica dello Stato». E invece senza volerlo ha trovato la parolina che contiene la nostra vita ed entra di diritto in quell´elenco di frasette, battutine, libretti e canzoncine che racchiudono un´epoca, come swing, come je je … come zero tituli, come «cchiù pilu ppi tutti». Oggi infatti un quid ci impedisce di essere pienamente europei; per un quid non abbiamo battuto l´Inghilterra nel rugby; le sconfitte della sinistra sono tutte per un quid; alle primarie del Pd ci si stupisce ogni volta per un prevedibile quid di imprevedibilità; alle liberalizzazioni di Monti manca un quid di vero e definitivo liberalismo; un quid culturale ci impedisce di costruire la Tav: «Non amo / chi sono, ciò che sembro. È stato tutto un qui pro quo». È un “osso di seppia” e dunque è perfetto, ma la formula corretta sarebbe quid pro quo, perché il quid indicibile è la forza di ogni ambiguità, la direzione di ogni doppio senso, la sostanza di ogni atto mancato. Per un quid Berlusconi non è stato il nostro Reagan, aveva un quid di troppo per essere soltanto un mascalzone, un imponderabile quid di dissolutezza lo ha estenuato nella prostituzione di Stato.
Intervistato da Ezio Mauro, anche Putin ha esibito il suo quid. Domanda: «Perché non rivelate i vostri redditi come in Occidente? Negli Usa un candidato deve addirittura quasi calarsi i pantaloni». Risposta: «Calarsi i pantaloni darebbe forse qualche impulso al voto. (…)». Ecco, c´è stato in tutti questi anni un quid sovranazionale, uno storico quid che, pur tra tante differenze di forma e di misura, ha reso simili Berlusconi, Gheddafi e Putin. Di quell´Asse Internazionale della Satrapia il quid ormai è rimasto solo a Putin. Berlusconi, che lo ha perso, lo va cercando nel povero Alfano: quid mihi agis, che mi combini? Cerca con la lanterna spenta il Quid metafisico come Diogene cercava l´Uomo con la lanterna accesa.

La Repubblica 04.03.12

"Dall´inglese al cirillico ecco l´università poliglotta", di Corrado Zunino

Siamo in fondo alle classifiche universitarie mondiali anche qui, ma cresceremo. «Dobbiamo sprovincializzarci», dice il ministro dell´Istruzione Francesco Profumo, «aprire i nostri atenei agli studenti e ai professori stranieri». In mano trattiene il dato degli studenti foreigner che frequentano le 66 università pubbliche italiane e le 18 private riconosciute. Sono 63 mila studenti stranieri in tutto, su un milione e 750 mila iscritti. Il 3,6 per cento. «Troppo pochi, l´Italia ha bisogno di contaminazione». La media degli stranieri nelle università dei paesi industrializzati è del 10%, nel Regno Unito gli immigrati per studio sono uno ogni cinque.
Il ministro Profumo ha da poco lasciato la guida di un Politecnico di Torino che negli ultimi sei anni – sfidando interrogazioni parlamentari – ha chiuso corsi in italiano per riaprirli in inglese, ha tolto tasse a chi li frequentava e attratto, grazie all´uso crescente della lingua inglese, una poderosa comunità da Pechino. Oggi sono 797 i cinesi aspiranti ingegneri. Due settimane fa il Politecnico di Milano, che ha realizzato un progetto integrato con l´Università Jiao Tong di Shanghai e ospita 516 giovani stranieri provenienti da 114 paesi, ha annunciato che dal 2014 tutti i corsi di laurea magistrale, il biennio, saranno completamente in lingua inglese. Le spiegazioni saranno in inglese, così i libri di testo, le slide da mostrare a lezione, quindi gli esami. Dottorati e lauree specialistiche da tempo sono in inglese, e non solo qui. Ci vogliono insegnanti con una conoscenza linguistica di livello, una buona esperienza all´estero: il rettore Giovanni Azzone ha annunciato infatti un investimento di 3,2 milioni per richiamare da università internazionali 120 “visiting professor”, 30-35 post-dottorati e 15 docenti associati. «I nostri studenti devono essere spendibili sul mercato del lavoro mondiale, vogliamo attrarre le persone migliori dall´Italia e dall´estero». Al Politecnico di Milano sono previste borse di studio per chi andrà fuori. Si vuole attrarre dall´estero e spingere all´estero, ecco: internazionalizzare le nostre università.
La Bocconi nel 2001 introdusse la prima laurea in International economics and management e oggi ha medie di accoglienza-studenti da Regno Unito. La Sapienza di Roma, 6.500 stranieri per la facoltà più grande d´Europa, ha corsi “in english” in Medicina e Farmacia. Il rettore della Luiss Massimo Egidi ha impegnato diverse “mission” per costruire un ponte universitario tra Roma e Nuova Delhi e grazie al rapporto di Confindustria con i produttori del petrolio ha calamitato diversi universitari dagli Emirati Arabi. A Udine si stanno varando lezioni in russo e lo studio della Filologia cinese prevede l´apprendimento di quella lingua. Sono partiti corsi in inglese totale o parziale a Macerata, a Cagliari, a Bari. L´Università di Trento si è messa nel solco degli atenei tedeschi e francesi e offre doppia laurea per un mercato del lavoro doppio. «Un diploma viene emesso dal nostro ateneo, un secondo da un´università di un altro paese convenzionata dove lo studente dovrà studiare almeno due anni», spiega il rettore Davide Bassi. E Marco Gilli, al comando del Politecnico di Torino: «Il nostro corso di Automotive engeneering è realizzato in inglese, in collaborazione con la Fiat e con l´università canadese di Windsor. Sta crescendo la partecipazione dei ragazzi italiani».
Gli studenti cinesi crescono del 10 per cento l´anno, la comunità più alta in Italia resta però quella albanese. Le facoltà più richieste sono Economia, Medicina, Ingegneria e Lettere. Il ministero, per questa che considera una priorità, sta avviando il nuovo portale “Study in Italy”: indicherà borse di studio possibili e indici di prestazione della singola facoltà quando fino a ieri offriva la ricetta della pizza napoletana e i consigli per evitare i borseggi sui bus. Quindi, ha ampliato l´accordo con l´Università di Cambridge. «A settembre ci saranno esami in inglese in Francia e negli Stati Uniti, in Brasile, Russia, India e Cina: gli studenti stranieri potranno sostenere il test di accesso in inglese nel loro paese e usarlo per l´accesso a un´università italiana».

La Repubblica 03.03.12

“Dall´inglese al cirillico ecco l´università poliglotta”, di Corrado Zunino

Siamo in fondo alle classifiche universitarie mondiali anche qui, ma cresceremo. «Dobbiamo sprovincializzarci», dice il ministro dell´Istruzione Francesco Profumo, «aprire i nostri atenei agli studenti e ai professori stranieri». In mano trattiene il dato degli studenti foreigner che frequentano le 66 università pubbliche italiane e le 18 private riconosciute. Sono 63 mila studenti stranieri in tutto, su un milione e 750 mila iscritti. Il 3,6 per cento. «Troppo pochi, l´Italia ha bisogno di contaminazione». La media degli stranieri nelle università dei paesi industrializzati è del 10%, nel Regno Unito gli immigrati per studio sono uno ogni cinque.
Il ministro Profumo ha da poco lasciato la guida di un Politecnico di Torino che negli ultimi sei anni – sfidando interrogazioni parlamentari – ha chiuso corsi in italiano per riaprirli in inglese, ha tolto tasse a chi li frequentava e attratto, grazie all´uso crescente della lingua inglese, una poderosa comunità da Pechino. Oggi sono 797 i cinesi aspiranti ingegneri. Due settimane fa il Politecnico di Milano, che ha realizzato un progetto integrato con l´Università Jiao Tong di Shanghai e ospita 516 giovani stranieri provenienti da 114 paesi, ha annunciato che dal 2014 tutti i corsi di laurea magistrale, il biennio, saranno completamente in lingua inglese. Le spiegazioni saranno in inglese, così i libri di testo, le slide da mostrare a lezione, quindi gli esami. Dottorati e lauree specialistiche da tempo sono in inglese, e non solo qui. Ci vogliono insegnanti con una conoscenza linguistica di livello, una buona esperienza all´estero: il rettore Giovanni Azzone ha annunciato infatti un investimento di 3,2 milioni per richiamare da università internazionali 120 “visiting professor”, 30-35 post-dottorati e 15 docenti associati. «I nostri studenti devono essere spendibili sul mercato del lavoro mondiale, vogliamo attrarre le persone migliori dall´Italia e dall´estero». Al Politecnico di Milano sono previste borse di studio per chi andrà fuori. Si vuole attrarre dall´estero e spingere all´estero, ecco: internazionalizzare le nostre università.
La Bocconi nel 2001 introdusse la prima laurea in International economics and management e oggi ha medie di accoglienza-studenti da Regno Unito. La Sapienza di Roma, 6.500 stranieri per la facoltà più grande d´Europa, ha corsi “in english” in Medicina e Farmacia. Il rettore della Luiss Massimo Egidi ha impegnato diverse “mission” per costruire un ponte universitario tra Roma e Nuova Delhi e grazie al rapporto di Confindustria con i produttori del petrolio ha calamitato diversi universitari dagli Emirati Arabi. A Udine si stanno varando lezioni in russo e lo studio della Filologia cinese prevede l´apprendimento di quella lingua. Sono partiti corsi in inglese totale o parziale a Macerata, a Cagliari, a Bari. L´Università di Trento si è messa nel solco degli atenei tedeschi e francesi e offre doppia laurea per un mercato del lavoro doppio. «Un diploma viene emesso dal nostro ateneo, un secondo da un´università di un altro paese convenzionata dove lo studente dovrà studiare almeno due anni», spiega il rettore Davide Bassi. E Marco Gilli, al comando del Politecnico di Torino: «Il nostro corso di Automotive engeneering è realizzato in inglese, in collaborazione con la Fiat e con l´università canadese di Windsor. Sta crescendo la partecipazione dei ragazzi italiani».
Gli studenti cinesi crescono del 10 per cento l´anno, la comunità più alta in Italia resta però quella albanese. Le facoltà più richieste sono Economia, Medicina, Ingegneria e Lettere. Il ministero, per questa che considera una priorità, sta avviando il nuovo portale “Study in Italy”: indicherà borse di studio possibili e indici di prestazione della singola facoltà quando fino a ieri offriva la ricetta della pizza napoletana e i consigli per evitare i borseggi sui bus. Quindi, ha ampliato l´accordo con l´Università di Cambridge. «A settembre ci saranno esami in inglese in Francia e negli Stati Uniti, in Brasile, Russia, India e Cina: gli studenti stranieri potranno sostenere il test di accesso in inglese nel loro paese e usarlo per l´accesso a un´università italiana».

La Repubblica 03.03.12

Scuola, Bersani: "Investire sull'istruzione per uscire dalla crisi"

Il Partito Democratico aderisce alle iniziative promosse dall’Urlo della Scuola. “La battaglia per la qualità della scuola italiana è la battaglia per garantire a tutti opportunità di successo e per tornare a offrire al nostro Paese una chance importante di sviluppo e di crescita economica e sociale”.

Lo scrive in una nota il Segretario nazionale del PD, Pier Luigi Bersani. “In un momento di crisi generalizzata, la scuola non deve essere assolutamente trascurata. L’Italia non può sopportare ancora la visione miope di chi immagina che tagliare le risorse alla scuola rappresenti un risparmio, mentre ovunque in Europa si investe in istruzione proprio per uscire dalla crisi. Ogni euro investito nella scuola è un euro di investimento nell’avvenire, è un ragazzo di meno che abbandona la scuola, è una possibilità in più per vincere le sfide del mercato del lavoro, è un mattone solido che rafforza la democrazia.

Dobbiamo esser capaci di una lettura d’orizzonte che restituisca fiducia a chi la sta perdendo nei confronti della politica, e la scuola è il luogo migliore per scommettere sul futuro. Ecco perché il Partito Democratico parteciperà nelle piazze e nei luoghi della conoscenza alle iniziative dove si lancerà l’Urlo della Scuola ”.

Scuola, Bersani: “Investire sull’istruzione per uscire dalla crisi”

Il Partito Democratico aderisce alle iniziative promosse dall’Urlo della Scuola. “La battaglia per la qualità della scuola italiana è la battaglia per garantire a tutti opportunità di successo e per tornare a offrire al nostro Paese una chance importante di sviluppo e di crescita economica e sociale”.

Lo scrive in una nota il Segretario nazionale del PD, Pier Luigi Bersani. “In un momento di crisi generalizzata, la scuola non deve essere assolutamente trascurata. L’Italia non può sopportare ancora la visione miope di chi immagina che tagliare le risorse alla scuola rappresenti un risparmio, mentre ovunque in Europa si investe in istruzione proprio per uscire dalla crisi. Ogni euro investito nella scuola è un euro di investimento nell’avvenire, è un ragazzo di meno che abbandona la scuola, è una possibilità in più per vincere le sfide del mercato del lavoro, è un mattone solido che rafforza la democrazia.

Dobbiamo esser capaci di una lettura d’orizzonte che restituisca fiducia a chi la sta perdendo nei confronti della politica, e la scuola è il luogo migliore per scommettere sul futuro. Ecco perché il Partito Democratico parteciperà nelle piazze e nei luoghi della conoscenza alle iniziative dove si lancerà l’Urlo della Scuola ”.

"Quando le donne non fanno notizia", di Giovanni Valentini

Nella centrifuga della comunicazione di massa, le donne in genere fanno notizia quando sono vittime di abusi o violenze oppure quando sono protagoniste di situazioni o vicende a sfondo sessuale. Non fanno notizia, invece, nella dimensione più quotidiana, familiare, domestica. Né tantomeno quando subiscono discriminazioni o ingiustizie sul lavoro. Ma non fanno notizia, almeno nel nostro circuito televisivo e in particolare nel nostro servizio pubblico, soprattutto nel senso che – tranne qualche rara eccezione – normalmente non dirigono, non governano, non controllano il flusso quotidiano dell´informazione.
Per documentare e denunciare questa disparità, l´Usigrai – il sindacato interno dei giornalisti Rai – presenterà giovedì 8 marzo, nella sede della Federazione della Stampa a Roma, il primo sondaggio sulla condizione dei suoi iscritti realizzato nella storia aziendale, insieme a un monitoraggio sulla visibilità delle donne e degli uomini in 15 telegiornali europei di Italia, Francia, Germania, Inghilterra e Spagna. Il confronto fra le due ricerche consentirà così di mettere in rapporto l´immagine femminile con il ruolo del servizio pubblico, in vista dell´ormai prossimo ricambio al vertice dell´azienda. E auguriamoci fin d´ora che se ne tenga conto nelle nomine del Consiglio di amministrazione e poi in quelle successive.
A fare notizia nei tg europei, dunque, sono soprattutto gli uomini. Le donne costituiscono meno di un terzo delle persone intervistate o di cui comunque si parla: nel nostro caso, il 24% contro una media del 29%. E compaiono ancor meno nell´informazione politica (appena l´11% in Italia e in Inghilterra). Ma, a parte questi e gli altri numeri che verranno forniti pubblicamente dalla Commissione Pari Opportunità dell´Usigrai, è indicativa soprattutto la “qualità” delle presenze: in quasi tutte le testate giornalistiche delle tv europee, le donne rappresentano ruoli “comuni” e gli uomini invece quelli più “autorevoli”.
L´unico dato favorevole alle giornaliste televisive, anche questo a suo modo discriminatorio, è che sono loro nel 54% dei casi a condurre i tg, mentre l´Italia si colloca al di sopra della media (58%). Ma, in rapporto agli incarichi e alle responsabilità di direzione, sembra francamente più una scelta d´immagine che di merito.
Prendiamo il caso della Rai. Su un totale di 1.656 giornalisti (al 31 dicembre 2010), gli uomini risultano 1.097 e le donne 559, cioè poco più di un terzo. Ma fra i dirigenti la presenza femminile scende drasticamente, appena 67 donne pari al 4%, con due soli direttori: Bianca Berlinguer (Tg 3) e Barbara Scaramucci (Rai Teche). E mentre l´organico giornalistico tende complessivamente a invecchiare, tant´è che più dell´80% è compreso fra 40 e 65 anni, risulta particolarmente alta la percentuale di quelli che non hanno figli (43%).
Un altro dato sensibile, emerso dal sondaggio interno, riguarda gli episodi di “discriminazione”: tra chi risponde “sì”, “spesso” e “qualche volta”, si arriva al 61% del campione. Ma, in questo caso, solo una piccola percentuale (3%) si sente discriminato a causa del proprio orientamento sessuale.
Sotto la guida – francamente deludente – della prima donna assurta alla direzione generale della Rai, quella che viene ancora considerata “la più grande azienda culturale del Paese” resta ferma quindi a un´organizzazione e a una gerarchia fondamentalmente maschilista. Non si tratta qui di compiacere le colleghe del servizio pubblico né di coltivare un neofemminismo di maniera. “Le donne – avverte l´autrice del saggio citato all´inizio di questa rubrica – competono fra loro quanto gli uomini, a maggior ragione in ambienti in cui la competitività è un valore”. E nel giornalismo, scritto o televisivo, lo è senz´altro.
Al di là della retorica e delle stesse “quote rosa”, si tratta piuttosto di rinnovare la cultura aziendale proprio a cominciare dalla presenza femminile nell´informazione: cioè dalla sensibilità, dai bisogni, dagli interessi e dalle aspettative delle donne nella società in cui viviamo. E tutto ciò, beninteso, al servizio delle telespettatrici e dei telespettatori che legittimamente pretendono dalla tv pubblica “di tutto, di più”.
Mentre La7 assegna l´approfondimento serale quotidiano a un´ex “firma” della Rai come Lilli Gruber, recupera Daria Bignardi e Serena Dandini, lancia un´interprete della satira garbata e intelligente come Geppi Cucciari; mentre Sky affida la direzione del suo Tg 24 a Sarah Varetto, la conduzione di prima serata a Federica De Santis, le corrispondenze più impegnative dall´estero a Liliana Faccioli Pintozzi da New York e a Giovanna Pancheri da Bruxelles; il “carrozzone” di viale Mazzini rimane impantanato nelle secche di un palinsesto ripetitivo e obsoleto, propinandoci perfino sui nuovi canali digitali vecchie serie e miniserie tv.
No, la Rai non è la Bbc, come cantava una volta Renzo Arbore. Ma, di questo passo, certamente non lo diventerà mai.

La Repubblica 03.03.12