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“Serve più ricerca per valutare i risultati scolastici”, di Benedetto Vertecchi

Promuovere in Italia una cultura valutativa è una condizione per modernizzare il sistema educativo, avvertita soprattutto per la suggestione esercitata da quanto sta avvenendo altrove. L’attenzione che nel dibattito internazionale è stata rivolta ai dati delle grandi rilevazioni comparative ha spinto a considerare come modello di riferimento per la valutazione quello utilizzato dall’Ocse per il Programme for International Student Assessment (Pisa). Non ci si è chiesti se le ipotesi elaborate per condurre rilevazioni comparative, come quelle dell’Ocse, potessero essere assunte, sic et simpliciter, per sviluppare l’attività valutativa in uno specifico sistema scolastico. È così avvenuto che anziché cercare di definire una strategia che tenesse conto delle caratteristiche proprie della scuola italiana, si siano acquistati dall’Ocse servizi valutativi variamente derivati dalle procedure Pisa. C’è da chiedersi con quale vantaggio per il nostro sistema educativo. Certo con lo svantaggio di aver rinunciato a un’elaborazione autonoma, specificamente collegata a un disegno di sviluppo dalla cultura valutativa in Italia.
Quest’atteggiamento subalterno non è giovato neanche ad assicurare la qualità della partecipazione nazionale alle rilevazioni internazionali, che si è limitata a eseguire le operazioni richieste da comitati di esperti nei quali la presenza italiana è stata marginale. La diffusione delle graduatorie risultanti dalle singole rilevazioni è stata seguita da reazioni abbastanza rituali, da bar sport. Non ci sono state iniziative utili per sviluppare l’analisi dei dati al fine di ricavarne elementi utili per individuare i punti di debolezza (ma anche di forza) del nostro sistema educativo. Si è fatto di peggio, organizzando rilevazioni a carattere nazionale che sono la brutta copia di quelle internazionali e ne riproducono, impropriamente, la logica. Si può capire, infatti, che le rilevazioni comparative siano sostanzialmente rivolte a cogliere la distribuzione di variabili dipendenti (ovvero dei risultati dell’attività educativa), anche se con attenzione alle condizioni in cui nei diversi paesi si sono svolti i processi che sono all’origine di quelle distribuzioni. Non si capisce, invece, a che serva riproporre la medesima logica nell’attività valutativa che si svolge a livello nazionale. Dobbiamo continuare a porre in evidenza il divario Nord e Sud? O le differenze d’apprendimento che si riscontrano in scuole frequentate da allievi di condizione sociale diversa?
Il fatto è che la ripetitività delle pratiche valutative è la conseguenza del mancato sviluppo di una ricerca autonoma. Si finisce col confondere in un unico calderone l’attività valutativa rivolta a verificare il raggiungimento di livelli attesi con quella, assai più importante per sostenere l’assunzione di decisioni consapevoli, tesa a identificare le variabili indipendenti, quelle che hanno conseguenze sul modo in cui il sistema scolastico svolge il suo compito d’istruzione. Il fatto è che una valutazione orientata alle variabili indipendenti suppone un impegno per la ricerca la cui necessità è ben lontana dall’essere avvertita. Non serve stracciarsi le vesti perché i nostri allievi sono in fondo alle graduatorie sulla capacità di comprensione della lettura o sulle abilità matematiche, se nessuno è in grado di porre in relazione la loro competenza verbale con l’affermarsi di modelli di comunicazione antagonisti a quelli propri della scuola o di definire un quadro degli apprendimenti che è presumibile possano costituire un riferimento duraturo per apprendimenti ulteriori e di quelli che, per quanto rilevanti al momento, è improbabile che continuino a esserlo nel seguito.
Un’altra ragione per sviluppare la ricerca consiste nel superare la dipendenza da procedure valutative che si finisce con l’utilizzare per mancanza di proposte alternative. Per esempio, nell’area anglofona si stanno sviluppando strumentari automatici per l’analisi di protocolli verbali. È evidente che quelle procedure non saranno, se non parzialmente, utilizzabili per valutare documenti in lingua italiana. Già al momento le prove utilizzate nelle rilevazioni nazionali sono piuttosto datate. L’intervallo con lo stato dell’arte non potrà che accrescersi nei prossimi anni.
Per sviluppare un’attività valutativa capace di concorrere a migliorare la qualità delle decisioni sul sistema scolastico c’è bisogno sia di rendere continua la rilevazione di dati descrittivi (è il compito che può svolgere l’Invalsi), sia di promuovere la ricerca: per soddisfare questa esigenza c’è bisogno di soluzioni organizzative specifiche, non rivolte a fornire un servizio (come l’Invalsi), ma ad accrescere la conoscenza interna al sistema.

Il Sole 24 Ore 27.02.12

"Ghizzoni: ingiustizia e improvvisazione" intervista di Marina Boscaino e Marco Guastavigna

Ci può spiegare con maggior previsione qual è stato l’iter istituzionale e politico del mancato provvedimento?
Con la firma di tutti i deputati del PD componenti delle commissioni Istruzione e Lavoro è stato depositato un emendamento al decreto Milleproroghe (il numero 6.19) finalizzato a rinviare al 31 agosto 2012 (invece che al 31 dicembre 2011), nel comparto scuola, il termine per maturare i requisiti per il pensionamento secondo la normativa previgente alla cosiddetta riforma Fornero. Tale rinvio consentirebbe di riconoscere nella normativa previdenziale la specificità della scuola, la cui vita è scandita dai ritmi della didattica che da sempre condizionano anche l’accesso alla quiescenza (il 1 settembre, cioè all’avvio dell’anno scolastico).

Anche il parere al decreto Milleproroghe espresso all’unanimità dalla Commissione VII della Camera accoglie una condizione del tutto analoga all’obiettivo dell’emendamento, a testimonianza di un orientamento condiviso dalle forze politiche presenti nella commissione (“Si differisca al 31 agosto 2012 il termine previsto dall’articolo 24, comma, 14 del decreto legge 6 dicembre 2011 n. 201, convertito con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, per la maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione del personale della scuola con le norme previgenti, al fine di rendere coerente tale termine con la normativa previdenziale del medesimo comparto”).

L’emendamento non ha superato la discussione nelle Commissioni referenti (Affari costituzionali e Bilancio) per la valutazione negativa dalla Ragioneria dello Stato circa la “copertura” finanziaria. Ripresentato per la discussione e per il voto in Aula, l’emendamento è decaduto – insieme a tutti gli altri – nel momento in cui il Governo ha posto la questione di fiducia.

Per dare continuità ad una azione che il PD ha intrapreso convintamente, è stato allora presentato un Ordine del Giorno (n. 79, presentato nella seduta della Camera n. 577 di giovedì 26 gennaio 2012), accolto favorevolmente, che impegna il Governo ad “introdurre il termine del 31 agosto 2012 per il personale del comparto scuola”. Al Senato l’iniziativa è stata assunta direttamente da uno dei due relatori del decreto Milleproroghe, il sen. Mercatali, che ha depositato l’emendamento 6.51, corredato da una copertura finanziaria stimata a 229 milioni, da ripartire nel quadriennio 2012-2015: a tale cifra si è pervenuti tenendo presente una platea di 4000 potenziali beneficiari, individuata dal MIUR, e calcolando i “minori risparmi” dovuti a 3 anni di media di anticipo sul pensionamento, come determinato dalla recente riforma previdenziale.

Di avviso diverso il ministro Fornero la quale, intervenendo nel dibattito nelle Commissioni referenti (Affari Costituzionali e Bilancio) del Senato, non ha mosso rilievi di natura “strutturale” all’emendamento, bensì sulla adeguatezza della copertura finanziaria. Tale giudizio negativo è stato rafforzato dalla relazione tecnica della Ragioneria dello Stato, che ha valutato i costi in ben 600 milioni, poiché ha fatto riferimento a 6000 possibili fruitori (senza però giustificare le ragioni di tale nuova stima) e, soprattutto, vi ha incluso le spese per la liquidazione (come se spettasse solo a chi va in pensione ora e non tra tre anni!). A poco, purtroppo, sono servite le puntuali controdeduzioni della sen. Bastico: il Governo e il relatore sen. Malan del PDL hanno mantenuto un parere contrario all’emendamento nel momento in cui il presentatore e relatore sen. Marcatali ne ha chiesto la votazione. Nel voto, purtroppo, i favorevoli sono stati 4 in meno rispetto ai contrari e agli astenuti.

A questo punto due considerazioni sono d’obbligo: il PD ha iniziato in solitudine questa battaglia e l’ha condotta con coerenza fino in fondo, contro il Governo e le altre forze che lo sostengono; emblematico, poi, il voto negativo della Lega, quella stessa Lega che dalle pagine della Padania grida di voler difendere i pensionati ma nelle aule delle commissioni parlamentari non perde occasione per affossare interventi promossi dal PD per superare le criticità della riforma Fornero.

Questi i fatti. La questione, tuttavia, non deve considerarsi chiusa: l’approvazione dell’OdG n. 79 vincola il Governo ad un preciso impegno. Lo incalzeremo perché onori l’obbligo assunto e perché la specificità della scuola – così come è sempre stato – sia riconosciuta anche nella riforma previdenziale recentemente approvata. In questa azione saremo spronati dal personale della scuola che ci ha accompagnato in questa battaglia e che si sta organizzando per dare voce alle proprie istanze, anche attraverso iniziative legali (al momento il dibattito è raccolto in Quota 96, Class Action Blog Scuola e sul mio sito personale).

A suo giudizio, quale senso assume una scuola il cui personale è in parte trattenuto in servizio contro la sua volontà e invecchia tristemente di fronte a bambini ed adolescenti che sempre più esplicitamente pongono al centro della vita scolastica le relazioni umane, gli atteggiamenti, i comportamenti degli adulti?

Una buona scuola si costruisce anche sulla motivazione dei docenti e degli operatori che vi lavorano: è del tutto evidente che un personale affaticato dagli anni di servizio e frustrato nelle aspettative personali molto difficilmente contribuirà a vantaggio della didattica e dell’offerta formativa. L’invecchiamento della nostra classe docente è un dato di realtà: l’Italia è il Paese dell’Unione europea con la percentuale più alta di insegnanti ultracinquantenni nelle scuole superiori (57,8 per cento) e quella più bassa di insegnanti sotto i 30 anni (0,5 per cento). E, per la normativa previdenziale recentemente approvata, queste percentuali sono destinate ad aggravarsi.

Ci sono tanti insegnanti “maturi” che ancora hanno molto da dare, agli studenti e ai colleghi: è una constatazione facilmente verificabile per chi frequenta la scuola italiana. Pertanto, non ho alcuna intenzione di invocare i pensionamenti coatti, come invece ha fatto, solo pochi anni fa, il ministro Brunetta. Sostengo invece che per affrontare le sfide che ha di fronte – dispersione, reale inclusione, innovazione della didattica e nuove modalità di apprendimento – la scuola italiana abbia bisogno di un organico adeguato (problema reso acuto dalle scelte del precedente Governo) e di personale motivato, indipendentemente dall’età anagrafica: maturati i requisiti necessari (che non possono essere sottoposti ad un continuo regime di revisione), la libertà di scelta del pensionamento diventa una opportunità di crescita.

3. Il PD appoggia questo Governo e questo Ministro dell’istruzione. Non trova che vi siano alcune contraddizioni tra gli annunci e le pratiche? Giudica credibile l’idea di adibire gli insegnanti più anziani a funzioni diverse dall’insegnamento diretto (per esempio la formazione dei colleghi) in assenza di un modello non improvvisato e anche di spazi di contrattazione sindacale in proposito?

Non si può correggere ingiustizia con improvvisazione. L’emendamento, seppur bocciato, ha avuto almeno il pregio di sollevare la questione della specificità della scuola in materia previdenziale: ora che essa è stata posta, la politica e il Governo non possono più ignorarla. La soluzione naturalmente non è solo quella proposta dall’emendamento, finalizzato a correggere un errore per la fase di prima applicazione della riforma Fornero (l’anno scolastico 2011/2012 è stato infatti spezzato in due, come non era mai accaduto prima): resta sul tavolo, inevaso, il problema di come raccordare tale riforma alla finestra unica di uscita dalla scuola (1 settembre).

Ma soprattutto c’è da chiedersi come il personale ultrasessantenne sia in grado di affrontare al meglio la propria missione educativa (indirizzata a “nativi digitali”, raccolti in classi numerose, dai bisogni di apprendimento molteplici e differenziati) e conseguentemente se sia opportuno, per gli ultimi anni di servizio, prevedere funzioni alternative alla consueta attività didattica o il ricorso ad un orario ridotto di insegnamento: certo è che tali valutazioni non possono prescindere da un discorso più generale sulla scuola e sui diritti dei suoi lavoratori, che deve avere un approdo naturale anche nella contrattazione sindacale.

Coerenza tra annunci e pratiche? È la domanda che abbiamo posto urgentemente al ministro Profumo mercoledì scorso, con lo strumento dell’interrogazione parlamentare, dopo la bocciatura dell’emendamento: come possono stare insieme i proclamati concorsi per i giovani insegnanti con il trattenimento in servizio dei più anziani, al netto dei tagli imposti dal ministro Gelmini che hanno ridotto all’osso gli organici? La risposta è stata poco soddisfacente, anche in relazione alla annunciata legge della Regione Lombardia per il reclutamento del personale docente da parte delle istituzioni scolastiche (da noi richiamata nell’interrogazione) e archiviata dal ministro come una semplice “sperimentazione”: gli argomenti per il nostro impegno dei prossimi mesi non mancano di certo.

www.lapoesiaelospirito.wordpress.com

“Ghizzoni: ingiustizia e improvvisazione” intervista di Marina Boscaino e Marco Guastavigna

Ci può spiegare con maggior previsione qual è stato l’iter istituzionale e politico del mancato provvedimento?
Con la firma di tutti i deputati del PD componenti delle commissioni Istruzione e Lavoro è stato depositato un emendamento al decreto Milleproroghe (il numero 6.19) finalizzato a rinviare al 31 agosto 2012 (invece che al 31 dicembre 2011), nel comparto scuola, il termine per maturare i requisiti per il pensionamento secondo la normativa previgente alla cosiddetta riforma Fornero. Tale rinvio consentirebbe di riconoscere nella normativa previdenziale la specificità della scuola, la cui vita è scandita dai ritmi della didattica che da sempre condizionano anche l’accesso alla quiescenza (il 1 settembre, cioè all’avvio dell’anno scolastico).

Anche il parere al decreto Milleproroghe espresso all’unanimità dalla Commissione VII della Camera accoglie una condizione del tutto analoga all’obiettivo dell’emendamento, a testimonianza di un orientamento condiviso dalle forze politiche presenti nella commissione (“Si differisca al 31 agosto 2012 il termine previsto dall’articolo 24, comma, 14 del decreto legge 6 dicembre 2011 n. 201, convertito con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, per la maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione del personale della scuola con le norme previgenti, al fine di rendere coerente tale termine con la normativa previdenziale del medesimo comparto”).

L’emendamento non ha superato la discussione nelle Commissioni referenti (Affari costituzionali e Bilancio) per la valutazione negativa dalla Ragioneria dello Stato circa la “copertura” finanziaria. Ripresentato per la discussione e per il voto in Aula, l’emendamento è decaduto – insieme a tutti gli altri – nel momento in cui il Governo ha posto la questione di fiducia.

Per dare continuità ad una azione che il PD ha intrapreso convintamente, è stato allora presentato un Ordine del Giorno (n. 79, presentato nella seduta della Camera n. 577 di giovedì 26 gennaio 2012), accolto favorevolmente, che impegna il Governo ad “introdurre il termine del 31 agosto 2012 per il personale del comparto scuola”. Al Senato l’iniziativa è stata assunta direttamente da uno dei due relatori del decreto Milleproroghe, il sen. Mercatali, che ha depositato l’emendamento 6.51, corredato da una copertura finanziaria stimata a 229 milioni, da ripartire nel quadriennio 2012-2015: a tale cifra si è pervenuti tenendo presente una platea di 4000 potenziali beneficiari, individuata dal MIUR, e calcolando i “minori risparmi” dovuti a 3 anni di media di anticipo sul pensionamento, come determinato dalla recente riforma previdenziale.

Di avviso diverso il ministro Fornero la quale, intervenendo nel dibattito nelle Commissioni referenti (Affari Costituzionali e Bilancio) del Senato, non ha mosso rilievi di natura “strutturale” all’emendamento, bensì sulla adeguatezza della copertura finanziaria. Tale giudizio negativo è stato rafforzato dalla relazione tecnica della Ragioneria dello Stato, che ha valutato i costi in ben 600 milioni, poiché ha fatto riferimento a 6000 possibili fruitori (senza però giustificare le ragioni di tale nuova stima) e, soprattutto, vi ha incluso le spese per la liquidazione (come se spettasse solo a chi va in pensione ora e non tra tre anni!). A poco, purtroppo, sono servite le puntuali controdeduzioni della sen. Bastico: il Governo e il relatore sen. Malan del PDL hanno mantenuto un parere contrario all’emendamento nel momento in cui il presentatore e relatore sen. Marcatali ne ha chiesto la votazione. Nel voto, purtroppo, i favorevoli sono stati 4 in meno rispetto ai contrari e agli astenuti.

A questo punto due considerazioni sono d’obbligo: il PD ha iniziato in solitudine questa battaglia e l’ha condotta con coerenza fino in fondo, contro il Governo e le altre forze che lo sostengono; emblematico, poi, il voto negativo della Lega, quella stessa Lega che dalle pagine della Padania grida di voler difendere i pensionati ma nelle aule delle commissioni parlamentari non perde occasione per affossare interventi promossi dal PD per superare le criticità della riforma Fornero.

Questi i fatti. La questione, tuttavia, non deve considerarsi chiusa: l’approvazione dell’OdG n. 79 vincola il Governo ad un preciso impegno. Lo incalzeremo perché onori l’obbligo assunto e perché la specificità della scuola – così come è sempre stato – sia riconosciuta anche nella riforma previdenziale recentemente approvata. In questa azione saremo spronati dal personale della scuola che ci ha accompagnato in questa battaglia e che si sta organizzando per dare voce alle proprie istanze, anche attraverso iniziative legali (al momento il dibattito è raccolto in Quota 96, Class Action Blog Scuola e sul mio sito personale).

A suo giudizio, quale senso assume una scuola il cui personale è in parte trattenuto in servizio contro la sua volontà e invecchia tristemente di fronte a bambini ed adolescenti che sempre più esplicitamente pongono al centro della vita scolastica le relazioni umane, gli atteggiamenti, i comportamenti degli adulti?

Una buona scuola si costruisce anche sulla motivazione dei docenti e degli operatori che vi lavorano: è del tutto evidente che un personale affaticato dagli anni di servizio e frustrato nelle aspettative personali molto difficilmente contribuirà a vantaggio della didattica e dell’offerta formativa. L’invecchiamento della nostra classe docente è un dato di realtà: l’Italia è il Paese dell’Unione europea con la percentuale più alta di insegnanti ultracinquantenni nelle scuole superiori (57,8 per cento) e quella più bassa di insegnanti sotto i 30 anni (0,5 per cento). E, per la normativa previdenziale recentemente approvata, queste percentuali sono destinate ad aggravarsi.

Ci sono tanti insegnanti “maturi” che ancora hanno molto da dare, agli studenti e ai colleghi: è una constatazione facilmente verificabile per chi frequenta la scuola italiana. Pertanto, non ho alcuna intenzione di invocare i pensionamenti coatti, come invece ha fatto, solo pochi anni fa, il ministro Brunetta. Sostengo invece che per affrontare le sfide che ha di fronte – dispersione, reale inclusione, innovazione della didattica e nuove modalità di apprendimento – la scuola italiana abbia bisogno di un organico adeguato (problema reso acuto dalle scelte del precedente Governo) e di personale motivato, indipendentemente dall’età anagrafica: maturati i requisiti necessari (che non possono essere sottoposti ad un continuo regime di revisione), la libertà di scelta del pensionamento diventa una opportunità di crescita.

3. Il PD appoggia questo Governo e questo Ministro dell’istruzione. Non trova che vi siano alcune contraddizioni tra gli annunci e le pratiche? Giudica credibile l’idea di adibire gli insegnanti più anziani a funzioni diverse dall’insegnamento diretto (per esempio la formazione dei colleghi) in assenza di un modello non improvvisato e anche di spazi di contrattazione sindacale in proposito?

Non si può correggere ingiustizia con improvvisazione. L’emendamento, seppur bocciato, ha avuto almeno il pregio di sollevare la questione della specificità della scuola in materia previdenziale: ora che essa è stata posta, la politica e il Governo non possono più ignorarla. La soluzione naturalmente non è solo quella proposta dall’emendamento, finalizzato a correggere un errore per la fase di prima applicazione della riforma Fornero (l’anno scolastico 2011/2012 è stato infatti spezzato in due, come non era mai accaduto prima): resta sul tavolo, inevaso, il problema di come raccordare tale riforma alla finestra unica di uscita dalla scuola (1 settembre).

Ma soprattutto c’è da chiedersi come il personale ultrasessantenne sia in grado di affrontare al meglio la propria missione educativa (indirizzata a “nativi digitali”, raccolti in classi numerose, dai bisogni di apprendimento molteplici e differenziati) e conseguentemente se sia opportuno, per gli ultimi anni di servizio, prevedere funzioni alternative alla consueta attività didattica o il ricorso ad un orario ridotto di insegnamento: certo è che tali valutazioni non possono prescindere da un discorso più generale sulla scuola e sui diritti dei suoi lavoratori, che deve avere un approdo naturale anche nella contrattazione sindacale.

Coerenza tra annunci e pratiche? È la domanda che abbiamo posto urgentemente al ministro Profumo mercoledì scorso, con lo strumento dell’interrogazione parlamentare, dopo la bocciatura dell’emendamento: come possono stare insieme i proclamati concorsi per i giovani insegnanti con il trattenimento in servizio dei più anziani, al netto dei tagli imposti dal ministro Gelmini che hanno ridotto all’osso gli organici? La risposta è stata poco soddisfacente, anche in relazione alla annunciata legge della Regione Lombardia per il reclutamento del personale docente da parte delle istituzioni scolastiche (da noi richiamata nell’interrogazione) e archiviata dal ministro come una semplice “sperimentazione”: gli argomenti per il nostro impegno dei prossimi mesi non mancano di certo.

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"Spesa pubblica una riforma è possibile", di Franco Bruni

Il ministro Passera ha ribadito ieri che il governo non annuncia «tesoretti» prima di averli incassati. Monti aveva già rinviato la predisposizione di un fondo per gli sgravi fiscali a quando la sua alimentazione assumerà consistenza. Ciò non smentisce l’intenzione di utilizzare i proventi della lotta all’evasione e agli sprechi per aiutare la crescita, anche abbassando le tasse.

Dati i vincoli di bilancio, è meglio per ora non pensare a ridurre il gettito complessivo delle imposte, mentre è sacrosanto cambiarne la composizione e la distribuzione: far pagare di più chi evade o elude, sgravare chi paga troppo, tassare di più il capitale e alleviare gli oneri fiscali e parafiscali che gravano sull’occupazione, sia dal lato delle imprese che da quello dei lavoratori. Sarebbe meglio farlo nel quadro di un’armonizzazione fiscale europea. Quanto alla spesa pubblica, è vero che la sua riduzione consente di accelerare gli sgravi fiscali; ma è anche vero che i risparmi sulle spese meno utili, i soldi buttati via, sono chiamati ad alimentare le spese più preziose e scarse, come quelle che oggi servirebbero per facilitare la riforma degli ammortizzatori sociali e quindi dei contratti di lavoro.

Il governo Monti ha un mandato a termine e compiti urgenti e precisi. Può mettere in sicurezza il saldo fra entrate e uscite e razionalizzarle un poco entrambe. Ma il suo lavoro di emergenza può servire alle forze politiche anche per prepararsi ad affrontare una scelta strategica più di lungo termine: con un bilancio in equilibrio, quanto è bene siano grandi le entrate e le spese?

Affiora a tratti l’idea che la vera crescita si possa attuare solo con un forte ridimensionamento dello Stato, sia della spesa totale che delle imposte. Come è noto ci sono al mondo esempi differenti e non mancano i Paesi che crescono bene con settori pubblici tutt’altro che piccoli. È comunque opportuno che la questione rimanga sullo sfondo, che la si discuta con crescente consapevolezza e trasparenza.

L’opinione di chi scrive è che è sempre più difficile che un’economia cresca in modo sostenibile e sano, rispettando i valori attorno ai quali si è andata costruendo l’integrazione europea, con uno Stato economicamente «minimo». I bisogni pubblici dei tempi moderni sono immensi e crescenti. Il loro soddisfacimento è indispensabile perché le produzioni private siano competitive e la loro profittabilità non sia instabile e illusoria o, addirittura, frutto di rapine dei prepotenti. Si possono privatizzare alcune produzioni pubbliche ma occorre spendere per regolare e controllare ciò che si è privatizzato. Si devono assolutamente ridurre i tanti sprechi nella pubblica amministrazione, ma sono pronti tanti capitoli di spesa dove ridirigere le risorse risparmiate. Carceri, scuola, sanità, ricerca e patrimonio culturale (che, lungi dall’esser superfluo, aiuta a sfamarci e a crescere), difesa del territorio, che ci crolla addosso e persino ci uccide perché sempre più dilaniato dalla privatizzazione, sia formalmente legale che criminale, degli spazi pubblici. Servono molti soldi e un grande sforzo politico e amministrativo.

Più che tagliare la spesa totale occorre fissare le priorità in una lunga lista di bisogni pubblici pressanti, con grande cura e dettaglio e un buon dibattito politico. E occorre mettere a punto i metodi organizzativi perché la spesa a essi dedicata sia fatta bene, rendicontata con rigore, senza sprechi e privilegiando ciò che abbiamo deciso essere più importante. È un compito che va oltre la «spending review» di emergenza che in pochi mesi può fare il governo attuale. È una strategia politica a lungo termine che può rivoluzionare interi settori della pubblica amministrazione. Non è un compito facile: ma scegliere le priorità e assicurare l’efficienza delle spese non è facile nemmeno nel settore privato: gli esperti di governo societario sanno bene quanto nelle imprese sia complicato controllare i costi, impedire gli sprechi e le appropriazioni indebite. Occorre la disponibilità al cambiamento, soprattutto di chi oggi è impiegato nella pubblica amministrazione.

Il taglio della spesa pubblica complessiva non è una soluzione. Il taglio cieco e trasversale è insostenibile e dannoso e ora tutti sanno che ci vogliono «riforme strutturali». Le riforme debbono ridurre le spese inutili e cattive, ma non devono lesinare quelle buone. E non per un presunto «effetto espansivo sulla domanda aggregata». Ma perché contribuiscono alla crescita dal lato dell’offerta, cioè aumentando la capacità produttiva dell’economia e la sua qualità.

Non dobbiamo rassegnarci all’idea che il settore pubblico sia comunque inefficiente e vada quindi ridotto alle minime dimensioni. Se non possiamo sperare che produca abbondanti servizi collettivi con giusti incentivi e in modi efficienti e corretti, come possiamo sperare che vigili bene il traffico dei privati e impedisca loro di farsi del male a vicenda? Si tratta di dedicarsi al compito con qualche entusiasmo, mobilitando l’opinione della gente con un messaggio di impegno collettivo che superi la sensazione di impotenza che provano i singoli individui di fronte a compiti che richiedono azione collettiva. Un messaggio che metta da parte ideologie superate e contrapposte, gli infruttuosi, astratti dibattiti fra chi si autoproclama liberale e chi demonizza i mercati privati. Un messaggio che lascerà forse spazio per qualche utile dialettica fra «destra» e «sinistra», sui metodi da usare; ma che vuole convergenza sull’obiettivo di fondo: la cura speciale dei beni e dei servizi pubblici e dei modi per produrli in quantità adeguata e senza sprechi.

La Stampa 27.02.12

“Spesa pubblica una riforma è possibile”, di Franco Bruni

Il ministro Passera ha ribadito ieri che il governo non annuncia «tesoretti» prima di averli incassati. Monti aveva già rinviato la predisposizione di un fondo per gli sgravi fiscali a quando la sua alimentazione assumerà consistenza. Ciò non smentisce l’intenzione di utilizzare i proventi della lotta all’evasione e agli sprechi per aiutare la crescita, anche abbassando le tasse.

Dati i vincoli di bilancio, è meglio per ora non pensare a ridurre il gettito complessivo delle imposte, mentre è sacrosanto cambiarne la composizione e la distribuzione: far pagare di più chi evade o elude, sgravare chi paga troppo, tassare di più il capitale e alleviare gli oneri fiscali e parafiscali che gravano sull’occupazione, sia dal lato delle imprese che da quello dei lavoratori. Sarebbe meglio farlo nel quadro di un’armonizzazione fiscale europea. Quanto alla spesa pubblica, è vero che la sua riduzione consente di accelerare gli sgravi fiscali; ma è anche vero che i risparmi sulle spese meno utili, i soldi buttati via, sono chiamati ad alimentare le spese più preziose e scarse, come quelle che oggi servirebbero per facilitare la riforma degli ammortizzatori sociali e quindi dei contratti di lavoro.

Il governo Monti ha un mandato a termine e compiti urgenti e precisi. Può mettere in sicurezza il saldo fra entrate e uscite e razionalizzarle un poco entrambe. Ma il suo lavoro di emergenza può servire alle forze politiche anche per prepararsi ad affrontare una scelta strategica più di lungo termine: con un bilancio in equilibrio, quanto è bene siano grandi le entrate e le spese?

Affiora a tratti l’idea che la vera crescita si possa attuare solo con un forte ridimensionamento dello Stato, sia della spesa totale che delle imposte. Come è noto ci sono al mondo esempi differenti e non mancano i Paesi che crescono bene con settori pubblici tutt’altro che piccoli. È comunque opportuno che la questione rimanga sullo sfondo, che la si discuta con crescente consapevolezza e trasparenza.

L’opinione di chi scrive è che è sempre più difficile che un’economia cresca in modo sostenibile e sano, rispettando i valori attorno ai quali si è andata costruendo l’integrazione europea, con uno Stato economicamente «minimo». I bisogni pubblici dei tempi moderni sono immensi e crescenti. Il loro soddisfacimento è indispensabile perché le produzioni private siano competitive e la loro profittabilità non sia instabile e illusoria o, addirittura, frutto di rapine dei prepotenti. Si possono privatizzare alcune produzioni pubbliche ma occorre spendere per regolare e controllare ciò che si è privatizzato. Si devono assolutamente ridurre i tanti sprechi nella pubblica amministrazione, ma sono pronti tanti capitoli di spesa dove ridirigere le risorse risparmiate. Carceri, scuola, sanità, ricerca e patrimonio culturale (che, lungi dall’esser superfluo, aiuta a sfamarci e a crescere), difesa del territorio, che ci crolla addosso e persino ci uccide perché sempre più dilaniato dalla privatizzazione, sia formalmente legale che criminale, degli spazi pubblici. Servono molti soldi e un grande sforzo politico e amministrativo.

Più che tagliare la spesa totale occorre fissare le priorità in una lunga lista di bisogni pubblici pressanti, con grande cura e dettaglio e un buon dibattito politico. E occorre mettere a punto i metodi organizzativi perché la spesa a essi dedicata sia fatta bene, rendicontata con rigore, senza sprechi e privilegiando ciò che abbiamo deciso essere più importante. È un compito che va oltre la «spending review» di emergenza che in pochi mesi può fare il governo attuale. È una strategia politica a lungo termine che può rivoluzionare interi settori della pubblica amministrazione. Non è un compito facile: ma scegliere le priorità e assicurare l’efficienza delle spese non è facile nemmeno nel settore privato: gli esperti di governo societario sanno bene quanto nelle imprese sia complicato controllare i costi, impedire gli sprechi e le appropriazioni indebite. Occorre la disponibilità al cambiamento, soprattutto di chi oggi è impiegato nella pubblica amministrazione.

Il taglio della spesa pubblica complessiva non è una soluzione. Il taglio cieco e trasversale è insostenibile e dannoso e ora tutti sanno che ci vogliono «riforme strutturali». Le riforme debbono ridurre le spese inutili e cattive, ma non devono lesinare quelle buone. E non per un presunto «effetto espansivo sulla domanda aggregata». Ma perché contribuiscono alla crescita dal lato dell’offerta, cioè aumentando la capacità produttiva dell’economia e la sua qualità.

Non dobbiamo rassegnarci all’idea che il settore pubblico sia comunque inefficiente e vada quindi ridotto alle minime dimensioni. Se non possiamo sperare che produca abbondanti servizi collettivi con giusti incentivi e in modi efficienti e corretti, come possiamo sperare che vigili bene il traffico dei privati e impedisca loro di farsi del male a vicenda? Si tratta di dedicarsi al compito con qualche entusiasmo, mobilitando l’opinione della gente con un messaggio di impegno collettivo che superi la sensazione di impotenza che provano i singoli individui di fronte a compiti che richiedono azione collettiva. Un messaggio che metta da parte ideologie superate e contrapposte, gli infruttuosi, astratti dibattiti fra chi si autoproclama liberale e chi demonizza i mercati privati. Un messaggio che lascerà forse spazio per qualche utile dialettica fra «destra» e «sinistra», sui metodi da usare; ma che vuole convergenza sull’obiettivo di fondo: la cura speciale dei beni e dei servizi pubblici e dei modi per produrli in quantità adeguata e senza sprechi.

La Stampa 27.02.12

"Scuola, è allarme abbandoni uno su cinque senza diploma Italia tra i peggiori d´Europa", di Corrado Zunino

La crisi economica, a scuola, fa crescere i dispersi. Il ministro dell´Istruzione, letti gli ultimi dati sulla fuga dalle classi, ha scelto di porre la questione tra le priorità del suo mandato. In Italia un ragazzo su cinque non ha un diploma di media superiore né una qualifica professionale: è “disperso scolastico”, secondo l´accezione europea, destinato al fallimento personale. Gli ultimi dati Istat, passati dall´Istituto nazionale di statistica al Miur dieci giorni fa e ora pubblici, illuminano il quadro: il 18,8 per cento dei giovani italiani fugge la scuola prima del diploma (si sale al 22 tra i maschi). Certo, alle spalle c´è un recente recupero: dal 2004 al 2010 è tornato in aula e agli esami finali il 4 per cento degli iscritti, ma l´ufficio statistica del ministero sta lavorando nuovi dati che illustrano come la lunga crisi economica abbia interrotto il recupero e stia allargando un problema storicizzato al Sud alle periferie delle metropoli italiane: Milano, Torino, Genova, Verona, Bologna, Roma.
Il ministro Francesco Profumo è stato un mese fa a Ponticelli (Napoli) e sabato scorso ha trascorso una giornata a Palermo, dove ha scoperto che all´istituto comprensivo Giovanni Falcone di via Marchese Pensabene, quartiere Zen 2, per sei anni è stata richiesta la targhetta del civico (il numero 34) e quando è arrivata i vandali l´hanno distrutta. «Lo Stato deve esserci di più», ha detto Profumo, «noi individueremo una persona che segua questa scuola e il suo progetto». La palestra del “Falcone” è chiusa dal 2009, le poche telecamere installate sono rivolte sulle aiuole e la notte non riprendono nulla, l´ascensore è fermo da dieci anni perché mai si è fatta manutenzione. Queste condizioni strutturali aiutano la dispersione scolastica, fenomeno che ogni studio affianca alla povertà familiare, al degrado del territorio. In Sicilia la “media dispersione” sale al 26%. In quartieri come lo Zen 2, rivela il sottosegretario all´Istruzione Marco Rossi Doria, un giovane su due non va a scuola.
Ecco, non si riesce a scalfire in maniera organica quella soglia: un abbandono ogni cinque studenti. Secondo l´agenda di Lisbona la dispersione doveva essere dimezzata entro il 2010, e senza dubbio dovremo farlo entro il 2020. Questo governo ci prova ora investendo sulle quattro aree a rischio – Campania, Puglia, Calabria e Sicilia – 30 milioni di euro di fondi europei, quattro già disponibili. «Abbiamo una dispersione quasi doppia di Francia e Germania e non riusciamo a migliorare», dice il sottosegretario Rossi Doria, una vita e una fama da “maestro di strada” nei quartieri poveri di Napoli. «Da 25 anni conosco i ragazzi dispersi e tocco con mano il valore delle statistiche generali: ogni anno di istruzione in più significa meno malattie, meno dipendenza, meno povertà. È vero in Brasile, in India e allo Zen. In Italia l´uscita dall´analfabetismo è stato il volano del boom economico, ma oggi, dopo 130 anni, la scuola non è più un luogo di emancipazione sociale».
La dispersione scolastica è un´emergenza della gioventù italiana e da qui a giugno 2014 sarà affrontata con 30 milioni di euro. «Dobbiamo puntellare il ciclo delle elementari: resta la fase migliore della scuola italiana, ma mostra le prime crepe», dice Rossi Doria. Più ore il pomeriggio e rafforzamento degli alfabeti di base. «Se dai 7 ai 9 anni leggi bene e capisci i significati, scrivi in maniera corretta, impari la base del pensiero scientifico-matematico, sei pronto per passare alle medie e alle superiori senza rischi». È tra i 14 e i 17 anni che ci si “perde”: sono 117 mila i ragazzi di quell´età fuori da qualsiasi percorso formativo. «L´Invalsi, con i test in seconda e quinta elementare, ci sta aiutando a guidare i nostri figli e segnala i primi problemi nelle periferie di Roma e delle grandi città del Nord». Pool di insegnanti lavoreranno con i ragazzi sui risultati Invalsi e si sta studiando se per il lavoro surplus potranno essere pagati straordinariamente: «L´obiettivo è quello di tenere le scuole aperte tutto il giorno». La seconda parte del piano ministeriale prevede una connessione, «una rete», tra la realtà scolastica (presidi, insegnanti, bidelli) e le strutture sociali del territorio circostante (centri sportivi, luoghi di associazionismo, parrocchie). «È un raddoppio della marcatura sui ragazzi a rischio», dice il sottosegretario. Si sta creando un prototipo per i quartieri periferici delle città da rendere operativo a settembre, nuovo anno scolastico. Il “maestro di strada” spiega, quindi, la necessità di creare «scuole di seconda occasione». Strutture private che, coinvolgendo le madri, potranno lavorare sulla psicologia degli infanti e far crescere la loro capacità di narrazione. Napoli ha aperto la strada, a Torino si è sviluppata la realtà “Provaci ancora Sam”. Contro l´addio alla scuola, infine, diventa fondamentale la riqualificazione degli istituti tecnici: «Dove c´è una rete industriale e artigianale che funziona i dati migliorano». A Benevento, nel centro di Lecce, in alcuni zone di Torino, nella provincia di Trento.

La Repubblica 27.02.12

“Scuola, è allarme abbandoni uno su cinque senza diploma Italia tra i peggiori d´Europa”, di Corrado Zunino

La crisi economica, a scuola, fa crescere i dispersi. Il ministro dell´Istruzione, letti gli ultimi dati sulla fuga dalle classi, ha scelto di porre la questione tra le priorità del suo mandato. In Italia un ragazzo su cinque non ha un diploma di media superiore né una qualifica professionale: è “disperso scolastico”, secondo l´accezione europea, destinato al fallimento personale. Gli ultimi dati Istat, passati dall´Istituto nazionale di statistica al Miur dieci giorni fa e ora pubblici, illuminano il quadro: il 18,8 per cento dei giovani italiani fugge la scuola prima del diploma (si sale al 22 tra i maschi). Certo, alle spalle c´è un recente recupero: dal 2004 al 2010 è tornato in aula e agli esami finali il 4 per cento degli iscritti, ma l´ufficio statistica del ministero sta lavorando nuovi dati che illustrano come la lunga crisi economica abbia interrotto il recupero e stia allargando un problema storicizzato al Sud alle periferie delle metropoli italiane: Milano, Torino, Genova, Verona, Bologna, Roma.
Il ministro Francesco Profumo è stato un mese fa a Ponticelli (Napoli) e sabato scorso ha trascorso una giornata a Palermo, dove ha scoperto che all´istituto comprensivo Giovanni Falcone di via Marchese Pensabene, quartiere Zen 2, per sei anni è stata richiesta la targhetta del civico (il numero 34) e quando è arrivata i vandali l´hanno distrutta. «Lo Stato deve esserci di più», ha detto Profumo, «noi individueremo una persona che segua questa scuola e il suo progetto». La palestra del “Falcone” è chiusa dal 2009, le poche telecamere installate sono rivolte sulle aiuole e la notte non riprendono nulla, l´ascensore è fermo da dieci anni perché mai si è fatta manutenzione. Queste condizioni strutturali aiutano la dispersione scolastica, fenomeno che ogni studio affianca alla povertà familiare, al degrado del territorio. In Sicilia la “media dispersione” sale al 26%. In quartieri come lo Zen 2, rivela il sottosegretario all´Istruzione Marco Rossi Doria, un giovane su due non va a scuola.
Ecco, non si riesce a scalfire in maniera organica quella soglia: un abbandono ogni cinque studenti. Secondo l´agenda di Lisbona la dispersione doveva essere dimezzata entro il 2010, e senza dubbio dovremo farlo entro il 2020. Questo governo ci prova ora investendo sulle quattro aree a rischio – Campania, Puglia, Calabria e Sicilia – 30 milioni di euro di fondi europei, quattro già disponibili. «Abbiamo una dispersione quasi doppia di Francia e Germania e non riusciamo a migliorare», dice il sottosegretario Rossi Doria, una vita e una fama da “maestro di strada” nei quartieri poveri di Napoli. «Da 25 anni conosco i ragazzi dispersi e tocco con mano il valore delle statistiche generali: ogni anno di istruzione in più significa meno malattie, meno dipendenza, meno povertà. È vero in Brasile, in India e allo Zen. In Italia l´uscita dall´analfabetismo è stato il volano del boom economico, ma oggi, dopo 130 anni, la scuola non è più un luogo di emancipazione sociale».
La dispersione scolastica è un´emergenza della gioventù italiana e da qui a giugno 2014 sarà affrontata con 30 milioni di euro. «Dobbiamo puntellare il ciclo delle elementari: resta la fase migliore della scuola italiana, ma mostra le prime crepe», dice Rossi Doria. Più ore il pomeriggio e rafforzamento degli alfabeti di base. «Se dai 7 ai 9 anni leggi bene e capisci i significati, scrivi in maniera corretta, impari la base del pensiero scientifico-matematico, sei pronto per passare alle medie e alle superiori senza rischi». È tra i 14 e i 17 anni che ci si “perde”: sono 117 mila i ragazzi di quell´età fuori da qualsiasi percorso formativo. «L´Invalsi, con i test in seconda e quinta elementare, ci sta aiutando a guidare i nostri figli e segnala i primi problemi nelle periferie di Roma e delle grandi città del Nord». Pool di insegnanti lavoreranno con i ragazzi sui risultati Invalsi e si sta studiando se per il lavoro surplus potranno essere pagati straordinariamente: «L´obiettivo è quello di tenere le scuole aperte tutto il giorno». La seconda parte del piano ministeriale prevede una connessione, «una rete», tra la realtà scolastica (presidi, insegnanti, bidelli) e le strutture sociali del territorio circostante (centri sportivi, luoghi di associazionismo, parrocchie). «È un raddoppio della marcatura sui ragazzi a rischio», dice il sottosegretario. Si sta creando un prototipo per i quartieri periferici delle città da rendere operativo a settembre, nuovo anno scolastico. Il “maestro di strada” spiega, quindi, la necessità di creare «scuole di seconda occasione». Strutture private che, coinvolgendo le madri, potranno lavorare sulla psicologia degli infanti e far crescere la loro capacità di narrazione. Napoli ha aperto la strada, a Torino si è sviluppata la realtà “Provaci ancora Sam”. Contro l´addio alla scuola, infine, diventa fondamentale la riqualificazione degli istituti tecnici: «Dove c´è una rete industriale e artigianale che funziona i dati migliorano». A Benevento, nel centro di Lecce, in alcuni zone di Torino, nella provincia di Trento.

La Repubblica 27.02.12