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"Doppio cognome, un timido passo avanti", di Mariella Gramaglia

Nel nome della madre. O meglio nel suo cognome. Da domani il bambino di una coppia regolarmente sposata potrà chiamarsi Bianchi come la sua mamma e Sire come il suo papà? E sarà consentito ai genitori scegliere in che ordine disporre i due cognomi? Un recente libro di educazione civica per le bambine, Nina e i diritti delle donne di Cecilia D’Elia, comincia proprio così, con lo stupore della piccola Nina, che sta imparando a leggere, di fronte ai biglietti del traghetto per la vacanza estiva della famiglia, che fanno della sua mamma, la signora Bianchi, un’estranea dal cognome diverso. La ragazzina passerà in rassegna con la madre la storia recente delle donne italiane, ma alla fine tornerà perplessa alla domanda iniziale: «Perché nel mio cognome non c’è anche il tuo?».

È l’ultima voce, in ordine di tempo, di una battaglia che dura almeno dalla fine degli anni Ottanta, quando entrarono in Parlamento diverse donne che avevano vissuto l’esperienza del movimento femminista e cominciarono a depositare proposte di legge sul tema. Suscitando molti appassionati dibattiti culturali, accendendo una nuova sensibilità, ma ricavando – come purtroppo accade spesso in Italia – scarsi o nulli risultati pratici.

Già, perché anche i simboli hanno una rilevanza concreta. Vivere nell’ordine simbolico del padre, trasmetterne il nome, consegnarlo alla storia, vuol dir disegnare la società a misura della continuità di lui e immaginare le donne, le madri, come le tessitrici delle retrovie del silenzio. Creature cui è data in sorte l’immanenza – per dirla con Simone de Beauvoir – la gestualità accorta nelle pianure della ripetizione, non l’ascesa verso la trascendenza, la trasformazione, il dominio del futuro. Non è un caso che proprio in questi giorni geografe e studiose di toponomastica abbiano sottolineato l’assenza dei nomi delle donne dalle vie, dai monumenti, dai luoghi di memoria. Nomi che devono uscire dal silenzio e dalla dimenticanza affinché il mondo appartenga ad ambedue i generi.

Tuttavia dagli anni Ottanta il costume italiano è cambiato, spesso per merito di avanguardie cocciute e per l’introduzione di ingegnose prassi artigianali. Molte donne, che non potevano sopportare di non dare il proprio cognome al loro bambino, partorivano senza sposarsi – anche se vivevano con un compagno amato – in modo che lui potesse aggiungere poi il suo cognome, al momento del riconoscimento, come la legge consente. Altre, appellandosi alle trasformazioni avvenute a livello europeo e al divieto di ogni discriminazione basata sul sesso contenuto nel Trattato di Lisbona, sono riuscite a ottenere piccoli smottamenti della giurisprudenza e blande aperture al nuovo in due successive sentenze, una della Corte Costituzionale nel 2006 e l’altra della Cassazione nel 2008.

Diversamente dagli altri paesi d’Europa – la Spagna per antica consuetudine, ma anche la Germania, la Francia e il Regno Unito – in Italia la possibilità di imporre ambedue i cognomi a un neonato non è un diritto soggettivo dei cittadini, ma una procedura complessa di richiesta che, in base al Titolo decimo della legge 396 del 2000, va sottoposta sia al Prefetto, sia al ministero dell’Interno, e può rimanere pendente per anni.

Da oggi non nasce un nuovo diritto soggettivo. Il testo in discussione ieri è un decreto di semplificazione, non una nuova norma di pari opportunità. Infatti porta la firma del ministro Patroni Griffi, non della ministra Fornero. Le mamme cocciute (circa 800 l’anno negli ultimi anni) potranno saltare un passaggio e sottoporre la loro istanza di doppio cognome solo al Prefetto, risparmiando il placet del ministero degli Interni. Sempre meglio di niente. Complicato – opposto a semplice – è ciò che porta tante pieghe che impediscono la distensione e la rapidità delle procedure. Per distendere tutte le pieghe bisognerebbe abbandonare ogni meccanismo autorizzativo e lasciare che i cittadini e le cittadine esprimano liberamente le loro scelte. Ci arriveremo? Non costa, semplifica la burocrazia, ma rivoluziona un ordine simbolico. Siamo pronti?

La Stampa 25.02.12

“Doppio cognome, un timido passo avanti”, di Mariella Gramaglia

Nel nome della madre. O meglio nel suo cognome. Da domani il bambino di una coppia regolarmente sposata potrà chiamarsi Bianchi come la sua mamma e Sire come il suo papà? E sarà consentito ai genitori scegliere in che ordine disporre i due cognomi? Un recente libro di educazione civica per le bambine, Nina e i diritti delle donne di Cecilia D’Elia, comincia proprio così, con lo stupore della piccola Nina, che sta imparando a leggere, di fronte ai biglietti del traghetto per la vacanza estiva della famiglia, che fanno della sua mamma, la signora Bianchi, un’estranea dal cognome diverso. La ragazzina passerà in rassegna con la madre la storia recente delle donne italiane, ma alla fine tornerà perplessa alla domanda iniziale: «Perché nel mio cognome non c’è anche il tuo?».

È l’ultima voce, in ordine di tempo, di una battaglia che dura almeno dalla fine degli anni Ottanta, quando entrarono in Parlamento diverse donne che avevano vissuto l’esperienza del movimento femminista e cominciarono a depositare proposte di legge sul tema. Suscitando molti appassionati dibattiti culturali, accendendo una nuova sensibilità, ma ricavando – come purtroppo accade spesso in Italia – scarsi o nulli risultati pratici.

Già, perché anche i simboli hanno una rilevanza concreta. Vivere nell’ordine simbolico del padre, trasmetterne il nome, consegnarlo alla storia, vuol dir disegnare la società a misura della continuità di lui e immaginare le donne, le madri, come le tessitrici delle retrovie del silenzio. Creature cui è data in sorte l’immanenza – per dirla con Simone de Beauvoir – la gestualità accorta nelle pianure della ripetizione, non l’ascesa verso la trascendenza, la trasformazione, il dominio del futuro. Non è un caso che proprio in questi giorni geografe e studiose di toponomastica abbiano sottolineato l’assenza dei nomi delle donne dalle vie, dai monumenti, dai luoghi di memoria. Nomi che devono uscire dal silenzio e dalla dimenticanza affinché il mondo appartenga ad ambedue i generi.

Tuttavia dagli anni Ottanta il costume italiano è cambiato, spesso per merito di avanguardie cocciute e per l’introduzione di ingegnose prassi artigianali. Molte donne, che non potevano sopportare di non dare il proprio cognome al loro bambino, partorivano senza sposarsi – anche se vivevano con un compagno amato – in modo che lui potesse aggiungere poi il suo cognome, al momento del riconoscimento, come la legge consente. Altre, appellandosi alle trasformazioni avvenute a livello europeo e al divieto di ogni discriminazione basata sul sesso contenuto nel Trattato di Lisbona, sono riuscite a ottenere piccoli smottamenti della giurisprudenza e blande aperture al nuovo in due successive sentenze, una della Corte Costituzionale nel 2006 e l’altra della Cassazione nel 2008.

Diversamente dagli altri paesi d’Europa – la Spagna per antica consuetudine, ma anche la Germania, la Francia e il Regno Unito – in Italia la possibilità di imporre ambedue i cognomi a un neonato non è un diritto soggettivo dei cittadini, ma una procedura complessa di richiesta che, in base al Titolo decimo della legge 396 del 2000, va sottoposta sia al Prefetto, sia al ministero dell’Interno, e può rimanere pendente per anni.

Da oggi non nasce un nuovo diritto soggettivo. Il testo in discussione ieri è un decreto di semplificazione, non una nuova norma di pari opportunità. Infatti porta la firma del ministro Patroni Griffi, non della ministra Fornero. Le mamme cocciute (circa 800 l’anno negli ultimi anni) potranno saltare un passaggio e sottoporre la loro istanza di doppio cognome solo al Prefetto, risparmiando il placet del ministero degli Interni. Sempre meglio di niente. Complicato – opposto a semplice – è ciò che porta tante pieghe che impediscono la distensione e la rapidità delle procedure. Per distendere tutte le pieghe bisognerebbe abbandonare ogni meccanismo autorizzativo e lasciare che i cittadini e le cittadine esprimano liberamente le loro scelte. Ci arriveremo? Non costa, semplifica la burocrazia, ma rivoluziona un ordine simbolico. Siamo pronti?

La Stampa 25.02.12

Lavoro. Bersani: Ottimista sull'accordo

Il Segretario si mostra fiducioso sulla riforma del lavoro ma ricorda che l’articolo 18 non è il problema principale
pubblicato. “Mi pare che in queste ultime 48 ore” ci sia “da parte di tutti quelli che sono seduti al tavolo, a cominciare dal governo” una maggior “consapevolezza che il Paese è nei guai e che si debba cercare un progetto comune”. E’ quanto ha affermato il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, a margine di un incontro del Pd bolognese sul lavoro, mostrandosi fiducioso su una possibile intesa per la riforma del lavoro.

In tema di lavoro, l’articolo 18 non è il problema principale, “c’è da aggiustarne la gestione” ma non è opportuno mettere al centro un tema che è a margine” della discussione sul lavoro.

“Non è questo il problema – ha osservato riferendosi all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – c’è da aggiustarne la gestione, credo che sia un tema che si può affrontare ma non mettiamo al centro un tema che è a margine del tema del lavoro perché, altrimenti, non si può più discutere dei problemi veri”.

Per affrontare un cambiamento nel sistema degli ammortizzatori sociali “ci vuole un progress e ci vuole anche un quadro di risorse certo sennò non ci crede nessuno: le cose non si fanno con i fichi secchi altrimenti non ci crede neanche l’Europa”.

“E’ evidente che ci vuole un progress – ha replicato a chi gli chiedeva un commento sull’ipotesi di una proroga al 2017 della riforma degli ammortizzatori sociali – quando si passa da un sistema ad un altro. Bisogna organizzare un’evoluzione del sistema degli ammortizzatori in modo che non siano indeboliti ma siano migliorati e questo richiede un arco di tempo”.

Riflettendo sul tema del lavoro, il segretario del Pd ha poi sottolineato come la questione della precarietà ha indebolito il sistema del lavoro stesso. “Qui – ha puntualizzato – bisogna mettere assolutamente un rimedio. Vogliamo fare come la Germania, visto che dobbiamo fare gli esami? Allora io mi chiedo se risulti a qualcuno che in Germania ci sono 46 tipi di contratto. E non si dica che in Germania non ci sono tutele per i lavoratori contro le discriminazioni”.

Sul tema del lavoro, non ci sono divisioni all’interno del Pd, “il punto è che ne discutiamo solo noi e per questo sembra sempre che noi abbiamo dei problemi”.

“Il Pd ha le sue proposte precise in Parlamento. Nel Pd c’è libertà di parola – ha argomentato – ed è l’unico partito che ha presentato proposte precise sul lavoro quindi quando arriveranno le norme del Governo sapremo come confrontarle perché noi abbiamo le nostre proposte che non toccano l’articolo 18, ma toccano la precarietà, gli ammortizzatori sociali, gli incentivi per l’occupazione femminile e come dare un po’ di lavoro”.

“Di questo ci siamo ampiamente occupati negli organismi dirigenti, nelle nostre assemblee. Il punto è che ne discutiamo solo noi e per questo sembra sempre che noi abbiamo dei problemi”.

Capitolo Liberalizzazioni
Sul tema delle liberalizzazioni “io vorrei che il governo si mettesse con chi vuole rafforzarle”.
“Ci sono tantissime frenate – ha osservato – ma ci sono anche tantissime accelerate e quindi non si può mettere tutto nel mucchio. Credo che anche il governo, se c’è una proposta che rafforza la sua stessa norma debba guardarla con un occhio interessato”.

Secondo il segretario del Pd “in queste ore in Commissione vengono contrastati emendamenti a rafforzare e non a indebolire le liberalizzazioni. Questo sta succedendo in Commissione: c’è chi vuole indebolire, c’è chi vuole rafforzare. Io – ha ribadito – amerei che il Governo si mettesse con chi vuole rafforzare”.

www.partitodemocratico.it

Lavoro. Bersani: Ottimista sull’accordo

Il Segretario si mostra fiducioso sulla riforma del lavoro ma ricorda che l’articolo 18 non è il problema principale
pubblicato. “Mi pare che in queste ultime 48 ore” ci sia “da parte di tutti quelli che sono seduti al tavolo, a cominciare dal governo” una maggior “consapevolezza che il Paese è nei guai e che si debba cercare un progetto comune”. E’ quanto ha affermato il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, a margine di un incontro del Pd bolognese sul lavoro, mostrandosi fiducioso su una possibile intesa per la riforma del lavoro.

In tema di lavoro, l’articolo 18 non è il problema principale, “c’è da aggiustarne la gestione” ma non è opportuno mettere al centro un tema che è a margine” della discussione sul lavoro.

“Non è questo il problema – ha osservato riferendosi all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – c’è da aggiustarne la gestione, credo che sia un tema che si può affrontare ma non mettiamo al centro un tema che è a margine del tema del lavoro perché, altrimenti, non si può più discutere dei problemi veri”.

Per affrontare un cambiamento nel sistema degli ammortizzatori sociali “ci vuole un progress e ci vuole anche un quadro di risorse certo sennò non ci crede nessuno: le cose non si fanno con i fichi secchi altrimenti non ci crede neanche l’Europa”.

“E’ evidente che ci vuole un progress – ha replicato a chi gli chiedeva un commento sull’ipotesi di una proroga al 2017 della riforma degli ammortizzatori sociali – quando si passa da un sistema ad un altro. Bisogna organizzare un’evoluzione del sistema degli ammortizzatori in modo che non siano indeboliti ma siano migliorati e questo richiede un arco di tempo”.

Riflettendo sul tema del lavoro, il segretario del Pd ha poi sottolineato come la questione della precarietà ha indebolito il sistema del lavoro stesso. “Qui – ha puntualizzato – bisogna mettere assolutamente un rimedio. Vogliamo fare come la Germania, visto che dobbiamo fare gli esami? Allora io mi chiedo se risulti a qualcuno che in Germania ci sono 46 tipi di contratto. E non si dica che in Germania non ci sono tutele per i lavoratori contro le discriminazioni”.

Sul tema del lavoro, non ci sono divisioni all’interno del Pd, “il punto è che ne discutiamo solo noi e per questo sembra sempre che noi abbiamo dei problemi”.

“Il Pd ha le sue proposte precise in Parlamento. Nel Pd c’è libertà di parola – ha argomentato – ed è l’unico partito che ha presentato proposte precise sul lavoro quindi quando arriveranno le norme del Governo sapremo come confrontarle perché noi abbiamo le nostre proposte che non toccano l’articolo 18, ma toccano la precarietà, gli ammortizzatori sociali, gli incentivi per l’occupazione femminile e come dare un po’ di lavoro”.

“Di questo ci siamo ampiamente occupati negli organismi dirigenti, nelle nostre assemblee. Il punto è che ne discutiamo solo noi e per questo sembra sempre che noi abbiamo dei problemi”.

Capitolo Liberalizzazioni
Sul tema delle liberalizzazioni “io vorrei che il governo si mettesse con chi vuole rafforzarle”.
“Ci sono tantissime frenate – ha osservato – ma ci sono anche tantissime accelerate e quindi non si può mettere tutto nel mucchio. Credo che anche il governo, se c’è una proposta che rafforza la sua stessa norma debba guardarla con un occhio interessato”.

Secondo il segretario del Pd “in queste ore in Commissione vengono contrastati emendamenti a rafforzare e non a indebolire le liberalizzazioni. Questo sta succedendo in Commissione: c’è chi vuole indebolire, c’è chi vuole rafforzare. Io – ha ribadito – amerei che il Governo si mettesse con chi vuole rafforzare”.

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"Sorpresa, « les italiens » alla guida del Louvre" di Gian Antonio Stella

« Oh, les italiens! » . Gli sbuffi d’impazienza di Nicolas Sarkozy ai tempi dello scontro sulla Bce sono al Louvre sospiri di ammirazione: « Oh, les italiens! » . E non solo per Leonardo e Raffaello e Giotto e Botticelli e Beato Angelico e tutti gli altri geni la cui luce illumina sfolgorante le gallerie. Certo, come spiegava Alberto Ronchey gestire il patrimonio d’arte francese in gran parte concentrato a Parigi (il museo extra-parigino più visitato non arriva a 800mila biglietti l’anno) è più facile che gestire una realtà traboccante di migliaia di città d’arte, musei, necropoli e siti come quella italiana. Ma non è possibile sfuggire a qualche confronto.
Da noi, per dire, gli incassi delle biglietterie riescono sì e no a coprire un settimo dei 650 milioni necessari per gli stipendi di 21 mila dipendenti: qui le entrate coprono tutto, con un avanzo di una decina di milioni. Possiamo o no dire, senza essere accusati di anti-patriottismo, che proviamo invidia per un sistema come questo dove, senza le iniziative «sociali» per le scolaresche, i disabili, le carceri e i manuali per le scuole e gli investimenti sul futuro (61 milioni quest’anno) sarebbe in pratica autosufficiente e pesa comunque solo per il 48% sulle tasche dei cittadini contro una media europea di 15 punti più alta e una italiana, mostruosa, dell’89,1%?
E visto che al Louvre c’è questa squadra di italiani che conosce da dentro quella realtà con 13 chilometri di percorsi espositivi, non sarebbe il caso di chieder loro dei consigli? Per restituire vita all’area di Lens, zona industriale sempre più de-industrializzata, ad esempio, Stato ed enti locali hanno deciso di investire nel nuovo «Louvre-Lens» (il museo metterà opere, esperienza e nome) 201 milioni. Un mucchio di soldi. Ma i promotori sono sicuri: ne faranno girare, con tutto l’indotto turistico, sette volte di più. Un miliardo e quattrocento milioni. Vuoi vedere che non è vero che con la cultura non si mangia?
Gian Antonio Stella