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“Sorpresa, « les italiens » alla guida del Louvre” di Gian Antonio Stella

« Oh, les italiens! » . Gli sbuffi d’impazienza di Nicolas Sarkozy ai tempi dello scontro sulla Bce sono al Louvre sospiri di ammirazione: « Oh, les italiens! » . E non solo per Leonardo e Raffaello e Giotto e Botticelli e Beato Angelico e tutti gli altri geni la cui luce illumina sfolgorante le gallerie. Certo, come spiegava Alberto Ronchey gestire il patrimonio d’arte francese in gran parte concentrato a Parigi (il museo extra-parigino più visitato non arriva a 800mila biglietti l’anno) è più facile che gestire una realtà traboccante di migliaia di città d’arte, musei, necropoli e siti come quella italiana. Ma non è possibile sfuggire a qualche confronto.
Da noi, per dire, gli incassi delle biglietterie riescono sì e no a coprire un settimo dei 650 milioni necessari per gli stipendi di 21 mila dipendenti: qui le entrate coprono tutto, con un avanzo di una decina di milioni. Possiamo o no dire, senza essere accusati di anti-patriottismo, che proviamo invidia per un sistema come questo dove, senza le iniziative «sociali» per le scolaresche, i disabili, le carceri e i manuali per le scuole e gli investimenti sul futuro (61 milioni quest’anno) sarebbe in pratica autosufficiente e pesa comunque solo per il 48% sulle tasche dei cittadini contro una media europea di 15 punti più alta e una italiana, mostruosa, dell’89,1%?
E visto che al Louvre c’è questa squadra di italiani che conosce da dentro quella realtà con 13 chilometri di percorsi espositivi, non sarebbe il caso di chieder loro dei consigli? Per restituire vita all’area di Lens, zona industriale sempre più de-industrializzata, ad esempio, Stato ed enti locali hanno deciso di investire nel nuovo «Louvre-Lens» (il museo metterà opere, esperienza e nome) 201 milioni. Un mucchio di soldi. Ma i promotori sono sicuri: ne faranno girare, con tutto l’indotto turistico, sette volte di più. Un miliardo e quattrocento milioni. Vuoi vedere che non è vero che con la cultura non si mangia?
Gian Antonio Stella

"Per uscire dalla crisi come si supera il neoliberismo", di Sergio Gentili

Il bel seminario del Pd su “Il mondo dopo la destra” è ruotato sulla necessità di prendere atto e di fare i conti non con una qualsiasi crisi, ma con la crisi strutturale delle capitalismo finanziario speculativo (o turbocapitalismo come lo chiamano i liberali conservatori e radicali), figlio della rivoluzione neoliberista e causa delle attuali pesanti diseguaglianze sociali, della precarizzazione del lavoro, della riduzione dei diritti dei giovani e delle donne, del decadimento etico nell’economia e nei rapporti sociali e umani, responsabile del degrado ambientale e della asfissia della democrazia come sistema di regole e come partecipazione individuale e organizzata nei sindacati, nelle associazioni e nei partiti.
In tutto il mondo si discute della crisi di questa forma di capitalismo che consegna alla finanza un potere enorme e discrezionale al disopra degli Stati e delle popolazioni, che nega la responsabilità sociale e ambientale e che, come dice Castagnetti, «pretende di dirigere il mondo senza la politica» cioè senza l’interesse generale, regole e controlli. La vera discussione in atto è come si supera il neoliberismo e il suo strapotere finanziario.
La crisi ha aperto una fase di transizione. La domanda che ci si pone è dove stiamo andando e dove vogliamo noi che si vada. Le forze neoliberiste responsabili della crisi, rappresentate dalle destre americane ed europee, tentano di rilanciare le loro fallimentari ricette di tagli e di privilegi che creano recessione (almeno per tutto il 2012) e che sono in grado di destabilizzare l’Europa e di devastare istituzioni e popolazioni intere come accade per la Grecia. La destra in Europa è ancora forte e lo sbocco democratico della crisi non è certo. Il nostro sforzo politico va posto qui ed ora, su cosa vogliamo che accada e quindi di come stiamo nella transizione/ conflitto in atto. Vogliamo essere un partito che ingoia le insostenibili politiche neo-neoliberiste oppure vogliamo il cambiamento mettendo in campo riforme possibili e coerenti con l’avanzamento civile, democratico, sociale e ambientale dell’Europa e dell’Italia? È evidente che per stare in piedi nella transizione è indispensabile essere portatori di una nuova gerarchia di valori. Oggi questi sono sintetizzabili in un innovativo nucleo alternativo ai disvalori dell’egoismo sociale. Il nuovo nucleo valoriale fonde in sé il valore dell’eguaglianza, della dignità della persona, dei diritti civili e sociali, del lavoro, del protagonismo della donna, della responsabilità verso la natura, della democrazia partecipata, della libertà e della pace. E come non riconoscere in essi una prima, felice e innovativa, sintesi delle idealità socialiste, ecologiste e del solidarismo cattolico, che supera antiche diffidenze e distinzioni valoriali?
Stare nella transizione vuol dire svolgere una funzione politica sia di contrasto della crisi, sia di indicazione di una nuova idea di società più giusta e fondata sullo sviluppo sostenibile, non futuribile ma che nasca dalla soluzione stessa dei bisogni più urgenti delle popolazioni e dei giovani. Per questo mi pare difficile che il governo Monti possa essere qualcosa di diverso da un governo di emergenza. È giusto sostenerlo ma altrettanto giusto è incalzarlo da sinistra per realizzare più equità, nuova e sostenibile crescita. Ma la svolta democratica non sarà possibile senza un largo consenso popolare e questo difficilmente si avrà senza che il Pd si assuma la responsabilità di guidare la ricostruzione.

L’Unità 24.02.12

“Per uscire dalla crisi come si supera il neoliberismo”, di Sergio Gentili

Il bel seminario del Pd su “Il mondo dopo la destra” è ruotato sulla necessità di prendere atto e di fare i conti non con una qualsiasi crisi, ma con la crisi strutturale delle capitalismo finanziario speculativo (o turbocapitalismo come lo chiamano i liberali conservatori e radicali), figlio della rivoluzione neoliberista e causa delle attuali pesanti diseguaglianze sociali, della precarizzazione del lavoro, della riduzione dei diritti dei giovani e delle donne, del decadimento etico nell’economia e nei rapporti sociali e umani, responsabile del degrado ambientale e della asfissia della democrazia come sistema di regole e come partecipazione individuale e organizzata nei sindacati, nelle associazioni e nei partiti.
In tutto il mondo si discute della crisi di questa forma di capitalismo che consegna alla finanza un potere enorme e discrezionale al disopra degli Stati e delle popolazioni, che nega la responsabilità sociale e ambientale e che, come dice Castagnetti, «pretende di dirigere il mondo senza la politica» cioè senza l’interesse generale, regole e controlli. La vera discussione in atto è come si supera il neoliberismo e il suo strapotere finanziario.
La crisi ha aperto una fase di transizione. La domanda che ci si pone è dove stiamo andando e dove vogliamo noi che si vada. Le forze neoliberiste responsabili della crisi, rappresentate dalle destre americane ed europee, tentano di rilanciare le loro fallimentari ricette di tagli e di privilegi che creano recessione (almeno per tutto il 2012) e che sono in grado di destabilizzare l’Europa e di devastare istituzioni e popolazioni intere come accade per la Grecia. La destra in Europa è ancora forte e lo sbocco democratico della crisi non è certo. Il nostro sforzo politico va posto qui ed ora, su cosa vogliamo che accada e quindi di come stiamo nella transizione/ conflitto in atto. Vogliamo essere un partito che ingoia le insostenibili politiche neo-neoliberiste oppure vogliamo il cambiamento mettendo in campo riforme possibili e coerenti con l’avanzamento civile, democratico, sociale e ambientale dell’Europa e dell’Italia? È evidente che per stare in piedi nella transizione è indispensabile essere portatori di una nuova gerarchia di valori. Oggi questi sono sintetizzabili in un innovativo nucleo alternativo ai disvalori dell’egoismo sociale. Il nuovo nucleo valoriale fonde in sé il valore dell’eguaglianza, della dignità della persona, dei diritti civili e sociali, del lavoro, del protagonismo della donna, della responsabilità verso la natura, della democrazia partecipata, della libertà e della pace. E come non riconoscere in essi una prima, felice e innovativa, sintesi delle idealità socialiste, ecologiste e del solidarismo cattolico, che supera antiche diffidenze e distinzioni valoriali?
Stare nella transizione vuol dire svolgere una funzione politica sia di contrasto della crisi, sia di indicazione di una nuova idea di società più giusta e fondata sullo sviluppo sostenibile, non futuribile ma che nasca dalla soluzione stessa dei bisogni più urgenti delle popolazioni e dei giovani. Per questo mi pare difficile che il governo Monti possa essere qualcosa di diverso da un governo di emergenza. È giusto sostenerlo ma altrettanto giusto è incalzarlo da sinistra per realizzare più equità, nuova e sostenibile crescita. Ma la svolta democratica non sarà possibile senza un largo consenso popolare e questo difficilmente si avrà senza che il Pd si assuma la responsabilità di guidare la ricostruzione.

L’Unità 24.02.12

Modena – Convegno: Quali prospettive per la riforma per la cittadinanza e il diritto di voto amministrativo agli stranieri?"

ore 9.30-12.30 – Sala consiliare Comune di Modena (piazza Grande,5)
Ore 9.30
Saluto di Caterina Liotti Presidente del Consiglio Comunale di Modena
Ore 9.40
Apertura a cura del Comitato Modenese L’Italia sono anch’io
Ore 9.50
Relazione di Paola Bertolini, docente di Politica economica Università di Modena e Reggio
Emilia
Ore 10.15
Proiezione del film “Identità italiana”, Italia 2010
Saranno presenti in sala la prof.ssa Alessandra Gasparini e i ragazzi dell’Istituto Meucci di
Carpi che hanno realizzato il cortometraggio
Ore 10.30
Tavola rotonda “La lunga marcia per la cittadinanza italiana”
testimonianze di ragazzi e ragazze nati/e in Italia da genitori stranieri
Ore 11.15
Interventi di:
– Avv. Prof. Giorgio Pighi, Sindaco di Modena
– Maino Benatti, Sindaco di Mirandola
Segue dibattito
Conclusioni a cura di:
Graziano Delrio, Sindaco di Reggio Emilia, Presidente ANCI e Presidente
nazionale del Comitato “L’Italia sono anch’io”

Modena – Convegno: Quali prospettive per la riforma per la cittadinanza e il diritto di voto amministrativo agli stranieri?”

ore 9.30-12.30 – Sala consiliare Comune di Modena (piazza Grande,5)
Ore 9.30
Saluto di Caterina Liotti Presidente del Consiglio Comunale di Modena
Ore 9.40
Apertura a cura del Comitato Modenese L’Italia sono anch’io
Ore 9.50
Relazione di Paola Bertolini, docente di Politica economica Università di Modena e Reggio
Emilia
Ore 10.15
Proiezione del film “Identità italiana”, Italia 2010
Saranno presenti in sala la prof.ssa Alessandra Gasparini e i ragazzi dell’Istituto Meucci di
Carpi che hanno realizzato il cortometraggio
Ore 10.30
Tavola rotonda “La lunga marcia per la cittadinanza italiana”
testimonianze di ragazzi e ragazze nati/e in Italia da genitori stranieri
Ore 11.15
Interventi di:
– Avv. Prof. Giorgio Pighi, Sindaco di Modena
– Maino Benatti, Sindaco di Mirandola
Segue dibattito
Conclusioni a cura di:
Graziano Delrio, Sindaco di Reggio Emilia, Presidente ANCI e Presidente
nazionale del Comitato “L’Italia sono anch’io”

"Le province resistono (però devono dimagrire)", di Dino Martirano

Si ridimensiona il piano di tagli ai consigli provinciali previsto dal decreto salva Italia che limitava a dieci il numero degli eletti. Le Province saranno divise in tre categorie: quelle con più di 700 mila abitanti avranno 16 consiglieri; quelle con popolazione da 300 a 700 mila abitanti, 12 consiglieri; quelle sotto i 300 mila abitanti, 10 consiglieri. Le novità riguarderanno 86 enti per un totale di 1.066 eletti. Non saranno più scelti dai cittadini, ma dai sindaci e dai consiglieri comunali di quel territorio. Tutti presteranno un servizio civico a titolo gratuito, fatto salvo il rimborso spese Troppi partiti in lizza a livello locale: così i tecnici del Viminale addolciscono il ridimensionamento previsto per i Consigli provinciali dal decreto salva Italia che, prima di Natale, aveva inventato l’elezione di secondo grado e, forse un po’ frettolosamente, aveva anche limitato a dieci il numero massimo degli eletti in questi organismi. Per cui, ora, le assemblee provinciali elette non più dai cittadini — ma dai sindaci e dai consiglieri comunali di quel territorio — vengono agganciate a tre categorie territoriali, a seconda delle rispettive popolazioni: «Quelle con più di 700 mila abitanti, aventi 16 consiglieri; quelle con popolazione da 300 mila a 700 mila abitanti, con 12 consiglieri; quelle sotto i 300 mila abitanti con 10 consiglieri».
È questa la novità sostanziale del disegno di legge del ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, che oggi entra in Consiglio dei ministri per l’esame preliminare. I tempi di approvazione in Parlamento saranno comunque stretti perché a maggio, qualora la legge non fosse ancora approvata, ben sei Consigli provinciali in scadenza saranno commissariati dai prefetti. Non si poteva cancellare le Province senza mettere mano alla Costituzione e così si è pensato di «sterilizzarle» con il voto di secondo grado: dopo tanti anni di competizioni territoriali anche appassionate, i cittadini-elettori verranno sostituiti dai sindaci-elettori e dai consiglieri comunali-elettori. Solo a questi ultimi, infatti, spetterà il diritto di voto attivo per le assemblee provinciali.
La cura dimagrante prevista dal governo Monti, dunque, è più leggera. Si continua comunque sulla strada aperta l’estate scorsa dal governo Berlusconi — i consigli grandi passarono da 45 a 18 eletti, i piccoli da 36 a 10 — tuttavia i tecnici del ministero dell’Interno si sono resi conto che più di tanto non si poteva tagliare. Al Viminale — dove l’ufficio elettorale conosce bene lo sviluppo storico delle dinamiche politiche territoriali — si sono accorti che la quota massima della rappresentanza provinciale fissata a dieci consiglieri rischiava di compromettere quei delicati equilibri a livello locale.
Tanto da far scrivere nella relazione tecnica di accompagno del disegno di legge Cancellieri che oggi entra in Consiglio dei ministri per l’esame «in via preliminare: «Il limite massimo di dieci consiglieri già fissato per il Consiglio provinciale dall’articolo 23, comma 16, decreto legge 8 dicembre 2011 numero 201, risulta oggettivamente esiguo e, per tale motivo, in alcuni casi potrebbe addirittura comportare la mancata presenza di numerose forze politiche all’interno del Consiglio provinciale, ivi comprese le (diverse) minoranze».
La nuova legge, tuttavia, si riferisce solo alle Regioni a Statuto ordinario perché per quelle a Statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Province autonome di Trento e Bolzano, Valle d’Aosta) è riconosciuta la «potestà legislativa esclusiva in materia di autonomie locali». Quindi, si tratta di 86 Consigli provinciali in via di ridimensionamento: 22 grandi (per un totale di 352 consiglieri), 37 medi (444 consiglieri), 27 piccoli (270 consiglieri). In totale gli eletti saranno, con il meccanismo di secondo grado, 1.066 ed è confermato che presteranno un servizio civico a titolo gratuito fatto salvo il rimborso spese.
Il ddl Cancellieri, nelle intenzioni del governo, dovrebbe essere approvato in Parlamento entro i primi di maggio perché, per il 6 e il 20 di quel mese, sono già state sospese le elezioni per il rinnovo dei Consigli provinciali di Vicenza, Ancona, Como, Belluno, Genova e La Spezia. Così, se la nuova normativa («Modalità di elezione del Consiglio provinciale e del presidente della Provincia…») non sarà vigente a fine primavera, in quei capoluoghi arriverà un commissario prefettizio: «E non sarebbe un bel segnale per la democrazia dato dal governo Monti», commenta il presidente dell’Upi (Unione delle Province italiane) Giuseppe Castiglione. C’è da aggiungere che l’annunciato commissariamento è stato impugnato, perché incostituzionale, da quattro Regioni (Piemonte, Lazio, Veneto e Molise).
Invece, con il ddl Cancellieri, anche nei 6 Consigli provinciali in scadenza a maggio la parola passerebbe ai consiglieri comunali e ai sindaci del territorio, che eleggerebbero con il sistema proporzionale e due preferenze il Consiglio provinciale. A sua volta, gli eletti sarebbero chiamati a votare, con il metodo del ballottaggio, il presidente della Provincia.
In realtà, l’Upi ha tentato fino all’ultimo di frenare il corso del decreto perché, conferma Castiglione — che poi è presidente della Provincia di Catania ed anche esponente del Pdl molto vicino ad Angelino Alfano — «qui si sta stravolgendo uno strumento della democrazia». Si spiega meglio il presidente dell’Upi: «I prefetti che hanno scritto la norma non considerano un fatto importante, perché oggi i consiglieri provinciali vengono eletti dal popolo e domani saranno chiamati a comporre una piccola casta. Invece l’Upi ha elaborato una vera proposta di riforma che immagina un nuovo assetto istituzionale dei territori con la nascita delle città metropolitane, la riduzione delle Province, la conseguente riduzione degli uffici periferici dello Stato e l’eliminazione degli enti strumentali. Una riforma che produrrebbe risparmi per 5 miliardi».

Il Corriere della Sera 24.02.12

“Le province resistono (però devono dimagrire)”, di Dino Martirano

Si ridimensiona il piano di tagli ai consigli provinciali previsto dal decreto salva Italia che limitava a dieci il numero degli eletti. Le Province saranno divise in tre categorie: quelle con più di 700 mila abitanti avranno 16 consiglieri; quelle con popolazione da 300 a 700 mila abitanti, 12 consiglieri; quelle sotto i 300 mila abitanti, 10 consiglieri. Le novità riguarderanno 86 enti per un totale di 1.066 eletti. Non saranno più scelti dai cittadini, ma dai sindaci e dai consiglieri comunali di quel territorio. Tutti presteranno un servizio civico a titolo gratuito, fatto salvo il rimborso spese Troppi partiti in lizza a livello locale: così i tecnici del Viminale addolciscono il ridimensionamento previsto per i Consigli provinciali dal decreto salva Italia che, prima di Natale, aveva inventato l’elezione di secondo grado e, forse un po’ frettolosamente, aveva anche limitato a dieci il numero massimo degli eletti in questi organismi. Per cui, ora, le assemblee provinciali elette non più dai cittadini — ma dai sindaci e dai consiglieri comunali di quel territorio — vengono agganciate a tre categorie territoriali, a seconda delle rispettive popolazioni: «Quelle con più di 700 mila abitanti, aventi 16 consiglieri; quelle con popolazione da 300 mila a 700 mila abitanti, con 12 consiglieri; quelle sotto i 300 mila abitanti con 10 consiglieri».
È questa la novità sostanziale del disegno di legge del ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, che oggi entra in Consiglio dei ministri per l’esame preliminare. I tempi di approvazione in Parlamento saranno comunque stretti perché a maggio, qualora la legge non fosse ancora approvata, ben sei Consigli provinciali in scadenza saranno commissariati dai prefetti. Non si poteva cancellare le Province senza mettere mano alla Costituzione e così si è pensato di «sterilizzarle» con il voto di secondo grado: dopo tanti anni di competizioni territoriali anche appassionate, i cittadini-elettori verranno sostituiti dai sindaci-elettori e dai consiglieri comunali-elettori. Solo a questi ultimi, infatti, spetterà il diritto di voto attivo per le assemblee provinciali.
La cura dimagrante prevista dal governo Monti, dunque, è più leggera. Si continua comunque sulla strada aperta l’estate scorsa dal governo Berlusconi — i consigli grandi passarono da 45 a 18 eletti, i piccoli da 36 a 10 — tuttavia i tecnici del ministero dell’Interno si sono resi conto che più di tanto non si poteva tagliare. Al Viminale — dove l’ufficio elettorale conosce bene lo sviluppo storico delle dinamiche politiche territoriali — si sono accorti che la quota massima della rappresentanza provinciale fissata a dieci consiglieri rischiava di compromettere quei delicati equilibri a livello locale.
Tanto da far scrivere nella relazione tecnica di accompagno del disegno di legge Cancellieri che oggi entra in Consiglio dei ministri per l’esame «in via preliminare: «Il limite massimo di dieci consiglieri già fissato per il Consiglio provinciale dall’articolo 23, comma 16, decreto legge 8 dicembre 2011 numero 201, risulta oggettivamente esiguo e, per tale motivo, in alcuni casi potrebbe addirittura comportare la mancata presenza di numerose forze politiche all’interno del Consiglio provinciale, ivi comprese le (diverse) minoranze».
La nuova legge, tuttavia, si riferisce solo alle Regioni a Statuto ordinario perché per quelle a Statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Province autonome di Trento e Bolzano, Valle d’Aosta) è riconosciuta la «potestà legislativa esclusiva in materia di autonomie locali». Quindi, si tratta di 86 Consigli provinciali in via di ridimensionamento: 22 grandi (per un totale di 352 consiglieri), 37 medi (444 consiglieri), 27 piccoli (270 consiglieri). In totale gli eletti saranno, con il meccanismo di secondo grado, 1.066 ed è confermato che presteranno un servizio civico a titolo gratuito fatto salvo il rimborso spese.
Il ddl Cancellieri, nelle intenzioni del governo, dovrebbe essere approvato in Parlamento entro i primi di maggio perché, per il 6 e il 20 di quel mese, sono già state sospese le elezioni per il rinnovo dei Consigli provinciali di Vicenza, Ancona, Como, Belluno, Genova e La Spezia. Così, se la nuova normativa («Modalità di elezione del Consiglio provinciale e del presidente della Provincia…») non sarà vigente a fine primavera, in quei capoluoghi arriverà un commissario prefettizio: «E non sarebbe un bel segnale per la democrazia dato dal governo Monti», commenta il presidente dell’Upi (Unione delle Province italiane) Giuseppe Castiglione. C’è da aggiungere che l’annunciato commissariamento è stato impugnato, perché incostituzionale, da quattro Regioni (Piemonte, Lazio, Veneto e Molise).
Invece, con il ddl Cancellieri, anche nei 6 Consigli provinciali in scadenza a maggio la parola passerebbe ai consiglieri comunali e ai sindaci del territorio, che eleggerebbero con il sistema proporzionale e due preferenze il Consiglio provinciale. A sua volta, gli eletti sarebbero chiamati a votare, con il metodo del ballottaggio, il presidente della Provincia.
In realtà, l’Upi ha tentato fino all’ultimo di frenare il corso del decreto perché, conferma Castiglione — che poi è presidente della Provincia di Catania ed anche esponente del Pdl molto vicino ad Angelino Alfano — «qui si sta stravolgendo uno strumento della democrazia». Si spiega meglio il presidente dell’Upi: «I prefetti che hanno scritto la norma non considerano un fatto importante, perché oggi i consiglieri provinciali vengono eletti dal popolo e domani saranno chiamati a comporre una piccola casta. Invece l’Upi ha elaborato una vera proposta di riforma che immagina un nuovo assetto istituzionale dei territori con la nascita delle città metropolitane, la riduzione delle Province, la conseguente riduzione degli uffici periferici dello Stato e l’eliminazione degli enti strumentali. Una riforma che produrrebbe risparmi per 5 miliardi».

Il Corriere della Sera 24.02.12