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"Contro i professionisti dell'intolleranza per ripristinare la libertà di parola", di Pierluigi Battista

Gli squadristi che inseguono Giancarlo Caselli per tappargli la bocca usano il potere della violenza contro il potere della parola. Adusi alla sopraffazione, temono il pensiero e le parole che lo esprimono come il più grande pericolo.Per loro il Nemico va annientato, figurarsi se può essergli riconosciuto il diritto di parola. Chi impedisce a Caselli di parlare, diffonde il virus dell’intolleranza e della prepotenza. Bisognerebbe definirli per ciò che sono: vigliacchi che si accaniscono in tanti contro uno. Altro che le buone ragioni del popolo No Tav, che dovrebbe cacciare con energia i professionisti della bastonatura dal loro movimento, discutibile ma, se espresso in forme democratiche, più che legittimo.
Ma per essere efficacemente solidali con Caselli, anche ieri sera a Genova vittima dell’intolleranza, bisognerebbe smetterla anche con l’acquiescenza indulgente che ha sin qui accompagnato le gesta di chi va in giro per l’Italia a impedire ai loro bersagli di presentare libri, divulgare idee, discutere liberamente. I prepotenti fanno della loro vittima un simbolo del Male: in questo caso della «repressione» giudiziaria dei violenti che secondo la Procura di Torino hanno trasformato normali manifestazioni di protesta in occasioni di guerriglia e di violenza. Ergo, secondo il vocabolario della loro intolleranza virulenta e irragionevole, a Caselli può essere revocato il diritto costituzionale di manifestare la propria opinione. Il sillogismo è micidiale. Le conseguenze sono una diminuzione della libertà: della libertà di chi non può dire e quella di chi non può ascoltare. È prevalsa invece in questi anni l’idea un po’ stolta che chi impedisce di parlare è solo un esuberante che vuole esercitare la «libertà di fischio». Come se fosse un appassionato loggionista indispettito dalla cattiva esecuzione di chi sta sul palcoscenico. Una sciocchezza: i prepotenti non vogliono che si parli, a prescindere, non vogliono che chiunque possa esprimere liberamente le proprie idee. Altro che libertà di fischio.
Chiunque vuol dire chiunque. In Italia, invece, l’indignazione contro gli intolleranti è selettiva, zigzagante, dimezzata: forte e veemente se le vittime sono dei «nostri», flebile e assente se il trattamento squadristico colpisce gli altri. Ma sono anni che gli squadristi, approfittando di questo inguaribile doppiopesismo, riescono a imporre la volontà della violenza e dell’intimidazione. Hanno impedito che il Papa tenesse una lezione al Rettorato di Roma. Hanno scagliato corpi contundenti e fumogeni contro Raffaele Bonanni, il leader della Cisl «reo» di voler dire la sua durante una festa del Partito democratico. Hanno inscenato una «mobilitazione antifascista» all’Università romana per non far parlare un intellettuale di destra come Marcello Veneziani (e recentemente a Milano con Oscar Giannino, nientedimeno). Hanno coperto con i fischi il presidente democratico della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, solo perché voleva difendere il valore del 25 aprile dalle gesta dei lanciatori seriali di bulloni e pietre. Hanno negato la piazza anti-abortista di Giuliano Ferrara in campagna elettorale. Hanno zittito i relatori di un convegno sui (presunti) «diari di Mussolini» presieduto da Marcello Dell’Utri. Hanno costretto una Fiera del libro a blindarsi solo perché parlavano scrittori israeliani come Amos Oz e Abraham Yehoshua.
Ogni volta, pochi ma determinati, con la potenza degli urlatori hanno calpestato un diritto. Si sono sentiti i monopolisti unici del diritto di concedere o negare la parola. Sono arroganti, ma furbi: sanno che basta un manipolo di squadristi ben addestrati per schiacciare i diritti della maggioranza silente. Sanno di avere un grande potere intimidatorio. Dovrebbero sapere invece che l’opinione pubblica disprezza chi non conosce e riconosce i diritti degli altri, chi vuole imporre con la forza una volontà minoritaria ma chiassosa, capace con il fracasso e le urla di impedire a chi vuole parlare di argomentare i propri pensieri, sottoporli al giudizio di un uditorio, come avviene in qualsiasi Paese libero e democratico. Ecco perché la solidarietà con Caselli deve essere totale e incondizionata. Perché attorno al suo caso si misura la capacità di una Nazione di tutelare il diritto fondamentale di parola. Cedere sarebbe catastrofico, perché sulla libertà di parola non si può transigere.

Il Corriere della Sera 22.02.12

“Contro i professionisti dell’intolleranza per ripristinare la libertà di parola”, di Pierluigi Battista

Gli squadristi che inseguono Giancarlo Caselli per tappargli la bocca usano il potere della violenza contro il potere della parola. Adusi alla sopraffazione, temono il pensiero e le parole che lo esprimono come il più grande pericolo.Per loro il Nemico va annientato, figurarsi se può essergli riconosciuto il diritto di parola. Chi impedisce a Caselli di parlare, diffonde il virus dell’intolleranza e della prepotenza. Bisognerebbe definirli per ciò che sono: vigliacchi che si accaniscono in tanti contro uno. Altro che le buone ragioni del popolo No Tav, che dovrebbe cacciare con energia i professionisti della bastonatura dal loro movimento, discutibile ma, se espresso in forme democratiche, più che legittimo.
Ma per essere efficacemente solidali con Caselli, anche ieri sera a Genova vittima dell’intolleranza, bisognerebbe smetterla anche con l’acquiescenza indulgente che ha sin qui accompagnato le gesta di chi va in giro per l’Italia a impedire ai loro bersagli di presentare libri, divulgare idee, discutere liberamente. I prepotenti fanno della loro vittima un simbolo del Male: in questo caso della «repressione» giudiziaria dei violenti che secondo la Procura di Torino hanno trasformato normali manifestazioni di protesta in occasioni di guerriglia e di violenza. Ergo, secondo il vocabolario della loro intolleranza virulenta e irragionevole, a Caselli può essere revocato il diritto costituzionale di manifestare la propria opinione. Il sillogismo è micidiale. Le conseguenze sono una diminuzione della libertà: della libertà di chi non può dire e quella di chi non può ascoltare. È prevalsa invece in questi anni l’idea un po’ stolta che chi impedisce di parlare è solo un esuberante che vuole esercitare la «libertà di fischio». Come se fosse un appassionato loggionista indispettito dalla cattiva esecuzione di chi sta sul palcoscenico. Una sciocchezza: i prepotenti non vogliono che si parli, a prescindere, non vogliono che chiunque possa esprimere liberamente le proprie idee. Altro che libertà di fischio.
Chiunque vuol dire chiunque. In Italia, invece, l’indignazione contro gli intolleranti è selettiva, zigzagante, dimezzata: forte e veemente se le vittime sono dei «nostri», flebile e assente se il trattamento squadristico colpisce gli altri. Ma sono anni che gli squadristi, approfittando di questo inguaribile doppiopesismo, riescono a imporre la volontà della violenza e dell’intimidazione. Hanno impedito che il Papa tenesse una lezione al Rettorato di Roma. Hanno scagliato corpi contundenti e fumogeni contro Raffaele Bonanni, il leader della Cisl «reo» di voler dire la sua durante una festa del Partito democratico. Hanno inscenato una «mobilitazione antifascista» all’Università romana per non far parlare un intellettuale di destra come Marcello Veneziani (e recentemente a Milano con Oscar Giannino, nientedimeno). Hanno coperto con i fischi il presidente democratico della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, solo perché voleva difendere il valore del 25 aprile dalle gesta dei lanciatori seriali di bulloni e pietre. Hanno negato la piazza anti-abortista di Giuliano Ferrara in campagna elettorale. Hanno zittito i relatori di un convegno sui (presunti) «diari di Mussolini» presieduto da Marcello Dell’Utri. Hanno costretto una Fiera del libro a blindarsi solo perché parlavano scrittori israeliani come Amos Oz e Abraham Yehoshua.
Ogni volta, pochi ma determinati, con la potenza degli urlatori hanno calpestato un diritto. Si sono sentiti i monopolisti unici del diritto di concedere o negare la parola. Sono arroganti, ma furbi: sanno che basta un manipolo di squadristi ben addestrati per schiacciare i diritti della maggioranza silente. Sanno di avere un grande potere intimidatorio. Dovrebbero sapere invece che l’opinione pubblica disprezza chi non conosce e riconosce i diritti degli altri, chi vuole imporre con la forza una volontà minoritaria ma chiassosa, capace con il fracasso e le urla di impedire a chi vuole parlare di argomentare i propri pensieri, sottoporli al giudizio di un uditorio, come avviene in qualsiasi Paese libero e democratico. Ecco perché la solidarietà con Caselli deve essere totale e incondizionata. Perché attorno al suo caso si misura la capacità di una Nazione di tutelare il diritto fondamentale di parola. Cedere sarebbe catastrofico, perché sulla libertà di parola non si può transigere.

Il Corriere della Sera 22.02.12

"Dopo il caso Rai dimissioni in bianco, combattere l’illegalità", di Teresa Bellanova

Un’arma di ricatto micidiale, una spada di Damocle sospesa sulla propria speranza: firmare le proprie dimissioni in bianco, senza data e lasciandole al libero arbitrio del datore di lavoro al momento dell’assunzione, è la negazione della possibilità di darsi una stabilità di vita e una prospettiva di costruzione del futuro.
Il lavoro che in questi giorni stiamo portando avanti in Commissione lavoro, con una proposta di legge per debellare questa pratica odiosa, riavvia una battaglia che parte da lontano. Nel 2007, con la norma introdotta dal Governo Prodi, sembrava essere conclusa. Ma nel 2008, con il nuovo Governo, giunse la doccia fredda del suo ripristino. Nel biennio successivo, 800 mila lavoratrici nel corso della loro vita lavorativa, in occasione di una gravidanza, sono state licenziate o messe in condizione di doversi dimettere. Quattro su dieci donne costrette a lasciare il lavoro hanno poi ripreso l’attività. Le opportunità di ritornare a lavorare non sono state però le stesse in tutto il Paese: sono la metà delle licenziate nel Nord e addirittura meno di un quarto nel Mezzogiorno. Si stima che nel 2009 quasi 18.000 donne si siano dimesse volontariamente nel primo anno di vita del bambino e più di 19.000 nel 2010.
La gravidanza oggi continua a rappresentare una penosa «pregiudiziale» per il mantenimento del posto di lavoro. E a smentire chi, anche a dispetto dei dati sopracitati, si volesse ostinare a considerarlo un atto ormai desueto giunge la stringente attualità, con la denuncia di questi giorni sulla cosiddetta «clausola maternità» inserita dalla Rai nei contratti di consulenza. Non contrastare questa realtà rappresenta un’aperta violazione della Convenzione Onu sull’eliminazione delle forme di discriminazione della donna, che nell’art. 11 al punto 2 recita: «Per prevenire la discriminazione nei confronti delle donne a causa del loro matrimonio o della loro maternità e garantire il loro diritto effettivo al lavoro, gli Stati parti si impegnano a prendere misure appropriate tendenti a: proibire, sotto pena di sanzione, il licenziamento per causa di gravidanza o di congedo di maternità (…)». Ma la pratica ci dice che oggi in Italia si può essere «dimissionati» per i più svariati motivi: dalla maternità, agli infortuni, alla malattia e all’età. Le norme in vigore si prestano anche a strumento di discriminazioni riguardo ai rapporti con le organizzazioni sindacali o addirittura alle opinioni politiche.
Le dimissioni in bianco aggirano ogni interpretazione possibile del concetto di «giusta causa» del licenziamento, lasciando il lavoratore privo perfino del sostegno di eventuali ammortizzatori sociali. La volontà di intervenire in materia espressa dal Ministro Fornero coglie la necessità di reintrodurre tutele che riguardano la dignità delle persone e del lavoro.
Il ripristino della norma che vieta le dimissioni in bianco rappresentano un interesse anche di quei datori di lavoro che applicano le leggi e i contratti e che subiscono la concorrenza sleale di quanti abbattono i costi di produzione evadendo obblighi. Non è raro che le dimissioni in bianco vengano utilizzate per poter lucrare su eventuali benefici fiscali in caso di nuove assunzioni. Vietare le dimissioni in bianco è una scelta di civiltà, che merita ampia condivisione politica, perché non significa altro che combattere contro l’illegalità, lo sfruttamento e le minacce verso chi è più debole.

L’Unità 22.02.12

“Dopo il caso Rai dimissioni in bianco, combattere l’illegalità”, di Teresa Bellanova

Un’arma di ricatto micidiale, una spada di Damocle sospesa sulla propria speranza: firmare le proprie dimissioni in bianco, senza data e lasciandole al libero arbitrio del datore di lavoro al momento dell’assunzione, è la negazione della possibilità di darsi una stabilità di vita e una prospettiva di costruzione del futuro.
Il lavoro che in questi giorni stiamo portando avanti in Commissione lavoro, con una proposta di legge per debellare questa pratica odiosa, riavvia una battaglia che parte da lontano. Nel 2007, con la norma introdotta dal Governo Prodi, sembrava essere conclusa. Ma nel 2008, con il nuovo Governo, giunse la doccia fredda del suo ripristino. Nel biennio successivo, 800 mila lavoratrici nel corso della loro vita lavorativa, in occasione di una gravidanza, sono state licenziate o messe in condizione di doversi dimettere. Quattro su dieci donne costrette a lasciare il lavoro hanno poi ripreso l’attività. Le opportunità di ritornare a lavorare non sono state però le stesse in tutto il Paese: sono la metà delle licenziate nel Nord e addirittura meno di un quarto nel Mezzogiorno. Si stima che nel 2009 quasi 18.000 donne si siano dimesse volontariamente nel primo anno di vita del bambino e più di 19.000 nel 2010.
La gravidanza oggi continua a rappresentare una penosa «pregiudiziale» per il mantenimento del posto di lavoro. E a smentire chi, anche a dispetto dei dati sopracitati, si volesse ostinare a considerarlo un atto ormai desueto giunge la stringente attualità, con la denuncia di questi giorni sulla cosiddetta «clausola maternità» inserita dalla Rai nei contratti di consulenza. Non contrastare questa realtà rappresenta un’aperta violazione della Convenzione Onu sull’eliminazione delle forme di discriminazione della donna, che nell’art. 11 al punto 2 recita: «Per prevenire la discriminazione nei confronti delle donne a causa del loro matrimonio o della loro maternità e garantire il loro diritto effettivo al lavoro, gli Stati parti si impegnano a prendere misure appropriate tendenti a: proibire, sotto pena di sanzione, il licenziamento per causa di gravidanza o di congedo di maternità (…)». Ma la pratica ci dice che oggi in Italia si può essere «dimissionati» per i più svariati motivi: dalla maternità, agli infortuni, alla malattia e all’età. Le norme in vigore si prestano anche a strumento di discriminazioni riguardo ai rapporti con le organizzazioni sindacali o addirittura alle opinioni politiche.
Le dimissioni in bianco aggirano ogni interpretazione possibile del concetto di «giusta causa» del licenziamento, lasciando il lavoratore privo perfino del sostegno di eventuali ammortizzatori sociali. La volontà di intervenire in materia espressa dal Ministro Fornero coglie la necessità di reintrodurre tutele che riguardano la dignità delle persone e del lavoro.
Il ripristino della norma che vieta le dimissioni in bianco rappresentano un interesse anche di quei datori di lavoro che applicano le leggi e i contratti e che subiscono la concorrenza sleale di quanti abbattono i costi di produzione evadendo obblighi. Non è raro che le dimissioni in bianco vengano utilizzate per poter lucrare su eventuali benefici fiscali in caso di nuove assunzioni. Vietare le dimissioni in bianco è una scelta di civiltà, che merita ampia condivisione politica, perché non significa altro che combattere contro l’illegalità, lo sfruttamento e le minacce verso chi è più debole.

L’Unità 22.02.12

"Così muore la sanità pubblica", di Livia Turco

L’inaudita vicenda della donna abbandonata nel pronto soccorso del policlinico Umberto I di Roma è un campanello d’allarme molto preoccupante sullo stato della sanità nel Lazio e, più in generale, sull’arretramento che può provocare, nel nostro paese, la politica dei tagli lineari.
Il sistema sanitario dell’Italia è eccellente e a Roma, come nel Lazio, ci sono buoni servizi. Ho sempre contrastato la retorica della malasanità perché il nostro sistema sanitario è una grande infrastruttura del nostro paese e un prezioso bene comune. Un bene comune di cui avere cura, da monitorare giorno per giorno per verificarne i risultati, individuarne le inefficienze, combatterne gli sprechi, costruirne le innovazioni.
Questa cura quotidiana ha bisogno di un gioco di squadra tra operatori, professionisti, amministratori e cittadini alimentato dal sentimento della fiducia e dall’amore per il bene “salute”. La sanità italiana è stata eccellente quando c’è stata una politica che ha considerato la salute come un investimento e non come un costo. Riflettiamo su questo dato: a fronte di un carico in termini di spesa pubblica del 7,2% del Pil, la sanità rappresenta il 12,8% dello stesso Pil in termini di ricchezza prodotta.
L’abbandono della sanità romana e laziale è frutto della concezione della sanità come costo e dalla incapacità riformatrice che rinuncia all’intervento mirato e si affida ai tagli lineari. Questi ultimi sono sbagliati in generale ma sono micidiali quando sono applicati alla sanità: riducono tutto a numero e a costo; fanno sparire la persona con i suoi diritti; cancellano la professionalità dei medici, uniformano e mettono sul stesso piano l’eccellenza e l’inefficienza.
Nel 2006 Il governo Prodi aveva promosso il Patto per la salute con le regioni, aumentando le risorse per i livelli essenziali di assistenza, per gli investimenti, per l’ammodernamento delle tecnologie ed aveva avviato i piani di rientro per superare i disavanzi sanitari. Un governo che aveva cercato un equilibrio tra la salute e la sostenibilità finanziaria, promovendo una grande riforma che era quella della medicina territoriale: fare le case della salute, l’assistenza domiciliare, la medicina di famiglia prima della chiusura degli ospedali e al posto degli ospedali.
Il governo Berlusconi ha interrotto drasticamente questa politica e ha portato la sanità al ministero dell’economia. Sono i fatti che parlano. Il ministero della salute prima abrogato e poi risuscitato non ha nessuna competenza di tipo economico ed i piani di rientro sono affidati al ministero dell’economia che valuta, di fatto, solo gli aspetti contabili e non la qualità dei servizi. Il governo Berlusconi ha inoltre revocato il decreto relativo ai livelli essenziali di assistenza voluti dal governo dell’Ulivo che puntavano sul potenziamento delle medicine territoriali e ha avviato una serie di tagli che sono culminati nella manovra Tremonti dell’agosto 2011.
Una manovra che prevede 8 miliardi di tagli alla sanità da qui al 2014. Il pronto soccorso, il servizio più vicino al cittadino è diventato l’emblema concreto della salute ridotta a puro costo. Esso dovrebbe essere un servizio di passaggio in cui si visitano le persone in condizione di urgenza, per poi ricoverarle o indirizzarle in altre strutture di lungodegenza. Sono diventate, invece, luogo di parcheggio perché mancano i posti letto negli ospedali, mancano le strutture per la lungodegenza e sono gestiti da un personale sempre più ridotto costretto a turni pesanti e tante volte demotivato.
Conseguenza del blocco del turn over che si protrae da molti anni e che prevede che i medici che vanno in pensione non siano sostituiti. Giusto ridurre i posti letto e chiudere i piccoli ospedali ma bisogna prima costruire la medicina del territorio, le case della salute, fare un patto con i medici di famiglia per garantire l’H24: gli studi dei medici di famiglia dovrebbero rimanere aperti tutta la giornata e per tutti i giorni della settimana. Questa è la grande riforma rimasta incompiuta, scritta nei documenti ma mai realizzata tranne che nelle solite regioni virtuose.
In dieci anni i posti letto negli ospedali si sono ridotti di 40mila unità pari al 15%; nel pubblico il taglio è stato tre volte superiore rispetto al privato. Bisogna fermare questa eutanasia della sanità pubblica prima che sia troppo tardi. Bisogna tornare a considerare gli investimenti costruendo finalmente una sanità che si basa su due pilastri: rete ospedaliera e medicina territoriale. Bisogna ridare fiducia agli operatori e ai professionisti del mondo sanitario.

da Europa Quotidiano 22.02.12

“Così muore la sanità pubblica”, di Livia Turco

L’inaudita vicenda della donna abbandonata nel pronto soccorso del policlinico Umberto I di Roma è un campanello d’allarme molto preoccupante sullo stato della sanità nel Lazio e, più in generale, sull’arretramento che può provocare, nel nostro paese, la politica dei tagli lineari.
Il sistema sanitario dell’Italia è eccellente e a Roma, come nel Lazio, ci sono buoni servizi. Ho sempre contrastato la retorica della malasanità perché il nostro sistema sanitario è una grande infrastruttura del nostro paese e un prezioso bene comune. Un bene comune di cui avere cura, da monitorare giorno per giorno per verificarne i risultati, individuarne le inefficienze, combatterne gli sprechi, costruirne le innovazioni.
Questa cura quotidiana ha bisogno di un gioco di squadra tra operatori, professionisti, amministratori e cittadini alimentato dal sentimento della fiducia e dall’amore per il bene “salute”. La sanità italiana è stata eccellente quando c’è stata una politica che ha considerato la salute come un investimento e non come un costo. Riflettiamo su questo dato: a fronte di un carico in termini di spesa pubblica del 7,2% del Pil, la sanità rappresenta il 12,8% dello stesso Pil in termini di ricchezza prodotta.
L’abbandono della sanità romana e laziale è frutto della concezione della sanità come costo e dalla incapacità riformatrice che rinuncia all’intervento mirato e si affida ai tagli lineari. Questi ultimi sono sbagliati in generale ma sono micidiali quando sono applicati alla sanità: riducono tutto a numero e a costo; fanno sparire la persona con i suoi diritti; cancellano la professionalità dei medici, uniformano e mettono sul stesso piano l’eccellenza e l’inefficienza.
Nel 2006 Il governo Prodi aveva promosso il Patto per la salute con le regioni, aumentando le risorse per i livelli essenziali di assistenza, per gli investimenti, per l’ammodernamento delle tecnologie ed aveva avviato i piani di rientro per superare i disavanzi sanitari. Un governo che aveva cercato un equilibrio tra la salute e la sostenibilità finanziaria, promovendo una grande riforma che era quella della medicina territoriale: fare le case della salute, l’assistenza domiciliare, la medicina di famiglia prima della chiusura degli ospedali e al posto degli ospedali.
Il governo Berlusconi ha interrotto drasticamente questa politica e ha portato la sanità al ministero dell’economia. Sono i fatti che parlano. Il ministero della salute prima abrogato e poi risuscitato non ha nessuna competenza di tipo economico ed i piani di rientro sono affidati al ministero dell’economia che valuta, di fatto, solo gli aspetti contabili e non la qualità dei servizi. Il governo Berlusconi ha inoltre revocato il decreto relativo ai livelli essenziali di assistenza voluti dal governo dell’Ulivo che puntavano sul potenziamento delle medicine territoriali e ha avviato una serie di tagli che sono culminati nella manovra Tremonti dell’agosto 2011.
Una manovra che prevede 8 miliardi di tagli alla sanità da qui al 2014. Il pronto soccorso, il servizio più vicino al cittadino è diventato l’emblema concreto della salute ridotta a puro costo. Esso dovrebbe essere un servizio di passaggio in cui si visitano le persone in condizione di urgenza, per poi ricoverarle o indirizzarle in altre strutture di lungodegenza. Sono diventate, invece, luogo di parcheggio perché mancano i posti letto negli ospedali, mancano le strutture per la lungodegenza e sono gestiti da un personale sempre più ridotto costretto a turni pesanti e tante volte demotivato.
Conseguenza del blocco del turn over che si protrae da molti anni e che prevede che i medici che vanno in pensione non siano sostituiti. Giusto ridurre i posti letto e chiudere i piccoli ospedali ma bisogna prima costruire la medicina del territorio, le case della salute, fare un patto con i medici di famiglia per garantire l’H24: gli studi dei medici di famiglia dovrebbero rimanere aperti tutta la giornata e per tutti i giorni della settimana. Questa è la grande riforma rimasta incompiuta, scritta nei documenti ma mai realizzata tranne che nelle solite regioni virtuose.
In dieci anni i posti letto negli ospedali si sono ridotti di 40mila unità pari al 15%; nel pubblico il taglio è stato tre volte superiore rispetto al privato. Bisogna fermare questa eutanasia della sanità pubblica prima che sia troppo tardi. Bisogna tornare a considerare gli investimenti costruendo finalmente una sanità che si basa su due pilastri: rete ospedaliera e medicina territoriale. Bisogna ridare fiducia agli operatori e ai professionisti del mondo sanitario.

da Europa Quotidiano 22.02.12

"Esodati e ricongiunzioni folli. Il diritto negato alla pensione", di Massimo Franchi

Un furto legalizzato, una sorta di diritto ipotetico, di lotteria, in cui le persone versano contributi senza sapere cosa succedera dei loro soldi e quando andranno in pensione . Un furto a cui la Cgil risponde preparandosi a sostenere chiunque voglia fare causa (class action non sono possibili) e mobilitandosi unitariamente con Cisl e Uil in una battaglia comune (partita con la lettera a Fornero dei tre segretari confederali il 19 gennaio in cui si parla di ≪situazioni drammatiche che la ministra sembra non aver compreso del tutto≫) per ≪ridare certezze ed equita al sistema pensionistico italiano≫. Dentro al ≪tritacarne≫, al ≪frullatore ≫ della riforma delle pensioni sono rimasti intrappolati centinaia di migliaia di persone. Si parlava di 65mila ma sono molti di piu, un numero preciso non esiste e non puo esserci perche l’Inps non puo avere dati su persone che non hanno ancora fatto domanda di pensione , spiega Vera Lamonica, segretario confederale Cgil, cercando di evitare l’uso di quella parola bruttissima che e esodati e che non rende l’idea della tragedia di chi vive senza lavoro, senza ammortizzatori e senza pensione. L’unica certezza – le fa da contraltare Morena Piccinini, presidente Inca Cgil – e che i nostri patronati in queste settimane sono presi d’assalto da persone in carne e ossa che non possono pianificare la loro vita. Sicuramente parliamo di centinaia di migliaia di persone, ma contarli non spetta a noi. E l’indeterminatezza della quota la “scusa” che il governo e la ministra Fornero sta utilizzando per non dare risposte alle innumerevoli richieste di intervento che arrivano da sindacati e Pd. Nel frattempo i passi avanti fatti nel decreto Milleproroghe non bastano perche ≪si basano sulla data di fine del rapporto di lavoro e non sul giorno in cui sono stati firmati gli accordi per gli esodi incentivati, rischiando di escludere perfino vertenze come Irisbus, Fiat Termini Imerese, Alenia≫.
SCANDALO RICONGIUNZIONE Ma c’e un secondo fronte aperto dal governo Berlusconi nella manovra dell’agosto 2010 che ha effetti ≪folli≫ sui pensionati. E quello della ricongiunzione onerosa dei contributi, ≪voluta per evitare che ledonne scappassero dall’Indpad all’Inps al momento dell’innalzamento dell’eta pensionabile del settore pubblico≫, che costringe migliaia di pensionandi a pagare centinaia di migliaia di euro per vedersi riconoscere i soldi versati per diversi enti pensionistici, anche quando (come raccontano le storie qui a fianco di persone con nomi di fantasia) hanno sempre fatto lo stesso lavoro. Eanche su questo fronte, nonostante gli appelli e le promesse, Elsa Forneronon e ancora intervenuta e addirittura ha ribadito la volonta di mantenere onerosi i ricongiungimenti perche ≪la norma e equa, garantisce parita di trattamento tra lavoratori, e coerente con lo sistema contributivo≫, concludendo con il monito: ≪Non possiamo continuare a coltivare dei privilegi≫. Una battaglia non facile, per la Cgil. ≪Siamo coscienti che il tema e molto complicato e poco mediatico – spiega Vera Lamonica – pero e una situazione di profonda ingiustizia su cui il ministro Fornero non sta rispondendo nonostante le nostre richieste, ripetute, di un incontro≫. Assieme a loro c’e Luisa Gnecchi, parlamentare Pd ed ex dipendente dell’Inps che piu ha lottato contro la norma della ricongiunzione onerosa: ≪Mi sono accorta subito che quella norma avrebbe creato ingiustizie fortissime – racconta -. Ho impiegato mesi e mesi a far capirne la gravita fino a quando anche il collega dell’allora maggioranza Giuliano Cazzola, parlamentare Pdl e grande esperto di pensioni, ha deciso di sottoscrivere l’ordine del giorno che il 27 luglio dell’anno scorso e stato votato all’unanimita dalla Camera≫. Ma da quel momento non e successo piu niente: ≪Il sottosegretario del governo Berlusconi Bellotti quantifico in 400milioni il costo per abolire la norma, sebbene la stessa fosse stata inserita senza che si prevedessero risparmi. Ora addirittura l’Inps ha aumentato la stima del costo ad un miliardo e mezzo, sbagliando perche abbiamovisto benissimo che le richieste di trasferimento all’Inps non sono aumentate ≫.
«UNA NORMA SENZA PIÙ SENSO≫ La ragione principale dell’arrabbiatura della Cgil e che ≪quella norma oggi non ha piu un senso, una ratio, perche oramai tutte le lavoratrici, pubbliche e private, con la riforma Fornero vanno in pensione praticamente alla stessa eta≫, continua Morena Picinnini. ≪In questo senso dare delle privilegiate a donne che dopo una vita di sacrifici devono accollarsi anni di lavoro in piu o pagare cifre improponibili per non avere pensioni da fame e una cosa che non sta ne in cielo ne in terra: e l’esatto contrario dei privilegi. Anche perche tutto questo succede – chiude Piccinini – quando tutto il governo parla di addio al posto fisso, di cambiare lavoro e invece si mette in difficolta chi ha cambiato lavoro e si costringono centinaia di migliaia di persone a ricomprarsi il diritto alla pensione ≫. ❖

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Insegnante di 71 anni beffata per tre giorni

Grazia ha insegnato presso lo stesso Istituto scolastico per oltre 37 anni, fino al 31 agosto 2010. Dal primo settembre 2001 pero l’Istituto da privato diventa “parificato” e cio determina, a decorrere dalla stessa data, il passaggio dell’obbligo assicurativo di tutti i dipendenti dall’Inps all’Inpdap. Grazia viene collocata a riposo per raggiunti limiti di eta il primo settembre 2010. Nei primi giorni del mesedi agosto va all’Inps per presentare domanda di pensione con l’intento di chiedere il trasferimento dei 9 anni di contributi versati all’Inpdap dal 1˚ settembre 2001 al 31 agosto 2010 presso l’Inps ai sensi della legge 322/58, come negli anni precedenti avevano fatto i suoi colleghi che erano andati in pensione. Non sapeva dell’abrogazione della legge 322/58 tre giorni prima.Asettembre2010riceve il provvedimento di liquidazione della pensione di vecchiaia Inps in modalita provvisoria in attesa del trasferimento della contribuzione versata presso l’Inpdap. Pensione liquidata sulla base della sola contribuzione accreditata presso l’Inps (28 anni e 5 mesi). I 9 anni di contributi versati all’Inpdap presso la Cassa Pensione Insegnanti, non possono essere utilizzati in alcun modo perche la manovra del 2010 ha abrogato la vecchia norma (legge 322/58). La beffa e che tutto e successo solo tre giorni prima della domanda. E nessuna l’ha avvertita di velocizzare la richiesta. Ne puo attivare la ricongiunzione onerosa perche titolare di pensione diretta Inps; non puo chiedere la costituzione della posizione assicurativa all’Inps perche e stata abrogata dal 31 luglio 2010; non puo chiedere la totalizzazione; non puo chiedere la pensione supplementare all’Inpdap perche tale prestazione non e prevista nei fondi esclusivi. Una beffa totale.❖

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Via dall’azienda e poi il baratro

È uno dei tanti che hanno accettato di lasciare il proprio posto di lavoro, sicuro di andare in pensione con le vecchie norme. Giacomo (nome di fantasia) e nato l’11 marzo del 1952 e ha accettato di lasciare il lavoro con esodo incentivato individuale, con 36 anni di contributi, il 31 dicembre 2010. Con la vecchia normativa sarebbe andato in pensione di anzianita ad aprile del 2012. Ora e senza stipendio, senza pensione, senza ammortizzatori sociali, ha un mutuo da pagare e due figli all’universita disoccupati.Con la nuova normativa il lavoratore potra andare in pensione a 64 anni, quindi nel 2016, con decorrenza maggio. Con l’approvazione del decreto legge Milleproroghe il lavoratore con esodo individuale incentivato licenziato alla data del 31 dicembre 2010 potrebbe rientrare nelle deroghe previste rispetto alla nuova normativa. Il “potrebbe” pero e d’obbligo visto che nel decreto Milleproroghe non sono state previste risorse aggiuntive rispetto a quelle stanziate nella legge 214 del 2011: si amplia giustamente la sfera dei derogati ma le risorse non vengono aumentate con l’ovvia conseguenza che moltissimi derogati non rientreranno nelle esenzioni e saranno costretti a raggiungere i nuovi requisiti piu restrittivi. Cgil, Cisl e Uil hanno sempre sostenuto che devono essere esentati dall’applicazione della nuova normativa tutti i lavoratori indicati nella legge 214 del 2011, fra cui tutti i lavoratori disoccupati, tutti i lavoratori con esodi individuali o collettivi sottoscritti entro il 31 dicembre 2011. La deroga inoltre deve valere per tutti i soggetti individuati senza vincoli ne di carattere finanziario ne di carattere numerico: ≪il diritto alla pensione – sostengono i sindacati – e un diritto soggettivo perfetto e non puo essere ridotto ad una mera lotteria≫

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Al lavoro per 40 anni. Ma ora è senza nulla

Maria e una delle migliaia di lavoratrici che ha sempre fatto lo stesso lavoro, ma che ha avuto la sfortuna di cambiare istituto previdenziale. E nata il 21 gennaio del 1954 e ha sempre eseguito la stessa mansione. Prima in ditte private poi con societa collegate a Poste Italiane. E stata iscritta all’Inps per oltre 33 anni. Poi la sua ditta e stata esternalizzata, diventando Postel con iscrizione all’ente previdenziale Ipost (ora riassorbito) per oltre 7 anni. Il 21 luglio 2010ha presentato la domanda di ricongiunzione dei contributi verso l’Inps, prima di lasciare il lavoro il 31 dicembre 2010. Tra Inps e ex Ipost ha complessivamente oltre 40 anni di contributi. Maria era certa che la ricongiunzione all’Inps della contribuzione Ipost fosse gratuita, ma la manovra del 2010 l’ha resa onerosa. Nonostante la legge sia entrata in vigore il 30 luglio 2010, nove giorni dopo la sua presentazione della richiesta, la sua validita e infatti retroattiva. Solo dopo 1 anno, il 20 luglio 2011 Maria riceve il provvedimento di ricongiunzione: oneroso e peraltro sbagliato. Dopo un riesame l’Inps comunica a dicembre 2011 che per ricongiungere il periodo Ipost all’Inps ha un costo di 36.857,87 euro. Il pagamento della prime tre rate il cui costo e di 2.670 euro scade il 31 marzo. Maria, pero, non e in condizione di pagare, non lavora piu e non e pensionata, nessuno e disposto a concederle prestiti. Se non paga puo chiedere la pensione in regime di totalizzazione: oltre ad un trattamento notevolmente inferiore perderebbe oltre un anno di pensione. Secondo le nuove disposizioni della legge Monti la sua eta per la pensione di vecchiaia arriverebbe nel 2020 con 66 anni e 11 mesi di eta. Si troverebbe dunque ad attendere altri 9 anni senza stipendio e pensione.

L’Unità 22.02.12