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E' morto Renato Dulbecco, premio Nobel per la medicina

Lo scienziato fu premiato nel 1975 per la scoperta del meccanismo d’azione dei virus tumorali nelle cellule animali. Per primo concepì il tumore come una malattia scatenata da un difetto del dna. È morto a 98 anni il biologo e genetista Renato Dulbecco, premio Nobel per la medicina nel 1975. Dulbecco, ha spiegato Paolo Vezzoni, uno dei suoi più stretti collaboratori al Cnr di Milano, è morto in California dove viveva con sua moglie. Fino a qualche mese fa le sue condizioni di salute erano buone ma nell’ultimo periodo aveva accusato alcuni problemi circolatori. Il prossimo 22 febbraio avrebbe compiuto 98 anni.

Dulbecco aveva scoperto negli Stati Uniti, dove si era trasferito 50 anni fa, il meccanismo d’azione dei virus tumorali nelle cellule animali, scoperta per la quale è stato insignito del Nobel. E’ grazie a lui se oggi sappiamo che i tumori sono malattie dai mille volti che vanno aggrediti attraverso il loro Dna.

Nonostante avesse la cittadinanza americana dal 1953, Dulbecco ha sempre mantenuto un forte legame con l’Italia, tanto da essere considerato il padre delle ricerche italiane sulla mappa del Dna, condotte presso l’Istituto di Tecnologie Biomediche del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) a Milano.

Solo l’età avanzata e le condizioni di salute precarie hanno interrotto la spola tra Milano e La Jolla, in California, dove viveva e lavorava presso l’istituto Salk. Tuttavia la sua presenza in Italia ha lasciato tracce significative, sia nei risultati scientifici sia nella difesa del valore della ricerca. Al punto che nel 1999 non ha esitato ad accettare l’invito a condurre il Festival di Sanremo insieme a Fabio Fazio, devolvendo il compenso a favore del rientro in Italia di cervelli fuggiti all’estero. Un’iniziativa simbolica che ancora oggi prosegue nel Progetto Carriere Dulbecco promosso da Telethon.

Non è stato solo il palco di Sanremo a favorire la popolarità di Dulbecco: il suo sorriso spontaneo, la cortesia innata e il grande entusiasmo per la ricerca hanno fatto di lui uno «scienziato gentiluomo», schierato in prima fila nelle battaglie a favore della ricerca sulle cellule staminali e per reintrodurre l’Evoluzionismo nei libri scolastici. Nato a Catanzaro il 22 febbraio 1914, Dulbecco si avvicina alla scienza spinto dalla passione per la fisica e arriva alla medicina dopo avere «assaporato» anche chimica e matematica. A 16 anni si iscrive alla facoltà di Medicina dell’università di Torino e segue i corsi dell’anatomista Giuseppe Levi insieme a Rita Levi Montalcini e Salvador Luria. Si laurea con lode nel 1934. Durante la seconda guerra mondiale è ufficiale medico sul fronte francese e poi su quello russo dove, nel 1942, rischia di morire.

Rientrato in Italia, nel dopoguerra torna a Torino. Nel 1947 la grande decisione di trasferirsi negli Stati Uniti per raggiungere Luria, che lavorava lì già dal 1940. Un viaggio che cominciò con una sorpresa: «senza saperlo, ci ritrovammo sulla stessa nave», raccontava mezzo secolo più tardi ancora divertito, ripensando all’incontro inatteso con Rita Levi Montalcini. «Facevamo lunghe passeggiate sul ponte parlando del futuro, delle cose che volevamo fare: lei alle sue idee sullo sviluppo embrionale e io alle cellule in vitro per fare un mucchio di cose in fisiologia e medicina». Sono le strade che entrambi seguono negli Usa e che portano Dulbecco nel California Institute of Technology (CalTech), dove ha una cattedra e comincia ad occuparsi di tumori.

Nel 1960 fa la scoperta che nel 1975 lo porterà al Nobel: osserva che i tumori sono indotti da una famiglia di virus che in seguito chiamerà «oncogeni». Nel 1972 lascia gli Usa per Londra, come vicedirettore dell’ Imperial Cancer Research Fund. Dopo il Nobel, condiviso con David Baltimore e Howard Temin, ritorna all’Istituto Salk per studiare i meccanismi genetici responsabili di alcuni tumori, in primo luogo quello del seno. Il suo rientro in Italia, nel 1987, coincide con l’avvio del Progetto internazionale Genoma Umano, del quale Dulbecco diventa coordinatore del ramo italiano. Un’esperienza che si arena nel 1995 per mancanza di fondi e che lo riporta negli Stati Uniti.

da www.lastampa.it

E’ morto Renato Dulbecco, premio Nobel per la medicina

Lo scienziato fu premiato nel 1975 per la scoperta del meccanismo d’azione dei virus tumorali nelle cellule animali. Per primo concepì il tumore come una malattia scatenata da un difetto del dna. È morto a 98 anni il biologo e genetista Renato Dulbecco, premio Nobel per la medicina nel 1975. Dulbecco, ha spiegato Paolo Vezzoni, uno dei suoi più stretti collaboratori al Cnr di Milano, è morto in California dove viveva con sua moglie. Fino a qualche mese fa le sue condizioni di salute erano buone ma nell’ultimo periodo aveva accusato alcuni problemi circolatori. Il prossimo 22 febbraio avrebbe compiuto 98 anni.

Dulbecco aveva scoperto negli Stati Uniti, dove si era trasferito 50 anni fa, il meccanismo d’azione dei virus tumorali nelle cellule animali, scoperta per la quale è stato insignito del Nobel. E’ grazie a lui se oggi sappiamo che i tumori sono malattie dai mille volti che vanno aggrediti attraverso il loro Dna.

Nonostante avesse la cittadinanza americana dal 1953, Dulbecco ha sempre mantenuto un forte legame con l’Italia, tanto da essere considerato il padre delle ricerche italiane sulla mappa del Dna, condotte presso l’Istituto di Tecnologie Biomediche del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) a Milano.

Solo l’età avanzata e le condizioni di salute precarie hanno interrotto la spola tra Milano e La Jolla, in California, dove viveva e lavorava presso l’istituto Salk. Tuttavia la sua presenza in Italia ha lasciato tracce significative, sia nei risultati scientifici sia nella difesa del valore della ricerca. Al punto che nel 1999 non ha esitato ad accettare l’invito a condurre il Festival di Sanremo insieme a Fabio Fazio, devolvendo il compenso a favore del rientro in Italia di cervelli fuggiti all’estero. Un’iniziativa simbolica che ancora oggi prosegue nel Progetto Carriere Dulbecco promosso da Telethon.

Non è stato solo il palco di Sanremo a favorire la popolarità di Dulbecco: il suo sorriso spontaneo, la cortesia innata e il grande entusiasmo per la ricerca hanno fatto di lui uno «scienziato gentiluomo», schierato in prima fila nelle battaglie a favore della ricerca sulle cellule staminali e per reintrodurre l’Evoluzionismo nei libri scolastici. Nato a Catanzaro il 22 febbraio 1914, Dulbecco si avvicina alla scienza spinto dalla passione per la fisica e arriva alla medicina dopo avere «assaporato» anche chimica e matematica. A 16 anni si iscrive alla facoltà di Medicina dell’università di Torino e segue i corsi dell’anatomista Giuseppe Levi insieme a Rita Levi Montalcini e Salvador Luria. Si laurea con lode nel 1934. Durante la seconda guerra mondiale è ufficiale medico sul fronte francese e poi su quello russo dove, nel 1942, rischia di morire.

Rientrato in Italia, nel dopoguerra torna a Torino. Nel 1947 la grande decisione di trasferirsi negli Stati Uniti per raggiungere Luria, che lavorava lì già dal 1940. Un viaggio che cominciò con una sorpresa: «senza saperlo, ci ritrovammo sulla stessa nave», raccontava mezzo secolo più tardi ancora divertito, ripensando all’incontro inatteso con Rita Levi Montalcini. «Facevamo lunghe passeggiate sul ponte parlando del futuro, delle cose che volevamo fare: lei alle sue idee sullo sviluppo embrionale e io alle cellule in vitro per fare un mucchio di cose in fisiologia e medicina». Sono le strade che entrambi seguono negli Usa e che portano Dulbecco nel California Institute of Technology (CalTech), dove ha una cattedra e comincia ad occuparsi di tumori.

Nel 1960 fa la scoperta che nel 1975 lo porterà al Nobel: osserva che i tumori sono indotti da una famiglia di virus che in seguito chiamerà «oncogeni». Nel 1972 lascia gli Usa per Londra, come vicedirettore dell’ Imperial Cancer Research Fund. Dopo il Nobel, condiviso con David Baltimore e Howard Temin, ritorna all’Istituto Salk per studiare i meccanismi genetici responsabili di alcuni tumori, in primo luogo quello del seno. Il suo rientro in Italia, nel 1987, coincide con l’avvio del Progetto internazionale Genoma Umano, del quale Dulbecco diventa coordinatore del ramo italiano. Un’esperienza che si arena nel 1995 per mancanza di fondi e che lo riporta negli Stati Uniti.

da www.lastampa.it

"L’Autonomia scolastica nel decreto sulle semplificazioni", di Osvaldo Roman

L’art 50 del ddl di conversione del Decreto legge sulle semplificazioni riguarda l’ autonomia scolastica.
Esso prevede che con un D.M del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, vengano adottate, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto linee guida riguardanti il potenziamento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche; la definizione, per ciascuna istituzione scolastica, di un organico dell’ autonomia funzionale; la costituzione, di reti territoriali tra istituzioni scolastiche; la definizione di un organico di rete.
Una prima osservazione, a cui si da una risposta richiamando l’esigenza di
garantire tempi molto stretti all’attuazione delle modifiche introdotte, riguarda il fatto che
un Decreto interministeriale per definire tali materie sembra troppo poco. Servirebbe
quantomeno una norma regolamentare più forte come quella formulabile ai sensi dell’art
17 della legge 400/1998. Il guaio è che una siffatta procedura, anche con il comma 2 dell
’art.17, passa per il Consiglio di Stato è i tempi non potrebbero essere brevi. Resta
però il dato che modificare l’attuale ordinamento degli organici,e qualche altra cosa,
almeno nelle intenzioni, perché come vedremo tale obiettivo nel testo attuale è solo
ipotetico, con un atto amministrativo che vale poco più di una Circolare, rappresenta
una scelta molto precaria.
Ma è più grave che l’articolo del Decreto al comma 1 affermi il principio dell’
organico funzionale e al comma 2 lo neghi.
Ciò accade perché il secondo che ho detto lo ha inserito il Tesoro dopo la
scrittura del primo.
Se il Parlamento non lo cambia, nel senso che interpreta correttamente in che
cosa consistono i tagli previsti dall’art. 64 e nel senso che l’organico funzionale non
può esistere dentro la gabbia degli attuali organici di diritto e anche di fatto, tutta la
vicenda diventa una clamorosa bufala.
L’articolo prevede che il potenziamento dell’autonomia delle istituzioni
scolastiche, dovrebbe essere ottenuto anche attraverso l’eventuale ridefinizione degli
aspetti connessi ai trasferimenti delle risorse alle medesime, previo avvio di apposito
progetto sperimentale da attuare nel rispetto della vigente legislazione contabile.
Non vi è più traccia della riorganizzazione del Bilancio del MIUR prevista in una
precedente stesura. L’obiettivo di ridurre al 3%, a favore delle scuole, la quota di
risorse gestita centralmente rientra sicuramente nelle possibilità di una gestione
amministrativa del bilancio ma dovrebbe trovare una sanzione in qualche forma di
vincolo parlamentare.
– 1 –
Per ciascuna istituzione scolastica, si prevede la definizione di un organico dell’
autonomia, funzionale all’ordinaria attività didattica, educativa, amministrativa, tecnica e
ausiliaria, alle esigenze di sviluppo delle eccellenze, di recupero, di integrazione e
sostegno ai diversamente abili e di programmazione dei fabbisogni di personale
scolastico.
Previa intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto
legislativo 28 agosto 1997, n. 281, è prevista la costituzione, di reti territoriali tra
istituzioni scolastiche, al fine di conseguire la gestione ottimale delle risorse umane,
strumentali e finanziarie. Conseguente risulta la definizione di un organico di rete per tali
finalità nonché per l’integrazione degli alunni diversamente abili, la prevenzione dell’
abbandono e il contrasto dell’insuccesso scolastico e formativo, specie per le aree di
massima corrispondenza tra povertà e dispersione scolastica;
La costituzione degli organici di istituto e di rete, avviene sulla base dei posti
corrispondenti ai fabbisogni con carattere di stabilità per almeno un triennio sulla singola
scuola, sulle reti di scuole e sugli ambiti provinciali, anche per i posti di sostegno, fatte
salve le esigenze che ne determinano la rimodulazione annuale.
Al comma due come indicavo dianzi si stabilisce che l’organico funzionale in
realtà non esiste perché i suddetti organici sono determinati, complessivamente, nel
rispetto dell’articolo 64 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con
modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, fermo restando quanto previsto dall
’articolo 19, comma 7, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con
modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, e fatto salvo anche per gli anni
2012 e successivi l’accantonamento in presenza di esternalizzazione dei servizi per i
posti ATA.
Non è tanto il richiamo all’art. 64 che come vedremo va correttamente
interpretato ma quello all’art 19 che ammazza tutto!
In poche righe viene ribadito per ben cinque volte che il limite per la definizione di
tali organici funzionali di istituto e di rete avviene entro il limite di posti stabilito dalla
legge 133/08 art 64. e che da tale attuazione non devono derivare nuovi o maggiori oneri
a carico della finanza pubblica.
La questione a questo punto merita un opportuno approfondimento anche perché
gli ultimi provvedimenti del ministro Tremonti avevano chiaramente fatto capire che il
governo Berlusconi intendeva mistificare tale punto di riferimento conseguendo
riduzioni di posti assai superiori a quelle previste e consentite dalla legge.
Infatti per tutto l’art. 19 del Decreto legge 98/2011 la relazione tecnica non
quantifica le riduzioni di spesa che vengono per la loro quasi totalità attribuite al pieno
conseguimento degli obiettivi finanziari previsti dall’art. 64, comma 6 della legge
n.133/2008. La procedura adottata appare del tutto illegittima innanzitutto perché le
misure adottate non sono previste nel Piano Programmatico e nei Regolamenti che lo
hanno realizzato.
– 2 –
Inoltre la riduzione delle spese previste dall’art. 64 va a regime nel 2012. Ulteriori
riduzioni di spesa quali quelle indicate nell’art.19 avrebbero dovuto essere motivate e
quantificate negli anni. Invece il blocco degli organici di cui al comma. 7 e seguenti è
permanente. Non si riesce a comprendere come al comma 9 del medesimo articolo19 si
sia intenso adottare una nuova norma di salvaguardia (il taglio lineare delle spese non
obbligatorie) in assenza di una quantificazione nella legge dei risparmi da conseguire.
Inoltre si trattava di misure il cui carattere esclusivamente compensativo, rispetto
a quelle adottate in attuazione dell’art. 64 avrebbe dovuto in ogni caso essere
esplicitamente indicato nell’articolato di legge. Invece il blocco degli organici di cui al
comma 7 è permanente entrando in tal modo in contrasto sia con lo stesso
Regolamento n. 89/09, sia anche rispetto allo stesso articolo 64, come integrato dalla
legge 137/09, in materia di generalizzazione del maestro unico e di soppressione totale
dei TEAM nella scuola primaria.
Tale impostazione ha comportato la possibilità di una soppressione di un numero
di posti nell’organico docente superiore a quegli 87.000 necessari per aumentare da 8,9
a 9,9 il rapporto studenti docenti. Era questo ”l’unico principio pedagogico” posto alla
base della riforma epocale. E la legge non consentiva e non consente al governo di
superarlo.
Il blocco permanente degli organici può essere imposto per legge
quantificandone i possibili risparmi di spesa ma non può essere fatto derivare, come ha
fatto Tremonti con il comma 7 dell’art. 19, dall’attuazione dell’art-.64 della legge
133/2009. In tal modo gli effetti economici dei tagli degli organici negli anni 2013 e 2014
e seguenti possono non essere stati inseriti in quella manovra. Nello stesso ambito si
colloca la disposizione di cui al comma 10 dell’art.19 con cui si tenta di aggirare la
sentenza del Tar circa l’obbligo di richiedere il parere alle Camere sui decreti di
determinazione annuale degli organici
La legge può certamente stabilire che tale parere deve essere richiesto quando i
Decreti ministeriali applicano, nella determinazione degli organici, parametri diversi da
quelli in vigore in precedenza: sarebbe ricorso sicuramente il caso qualora fossero
veramente definiti nuovi organici funzionali di istituto previsti da una diversa stesura del
Decreto sulle semplificazioni.
Analoga situazione si determina ai commi 4, 5 e 6 dell’art 19 del DL 98/11 e
successive modificazioni, introdotte dal DL 138/11, per l’aggregazione in istituti
comprensivi; per l’obbligo di assegnare a reggenze le scuole autonome e per l’obbligo
di ridurre il numero di casi in cui è previsto il semiesonero o l’’esonero dall’
insegnamento del docente collaboratore del Dirigente. Così pure al comma 11 per l’
organico di sostegno e ai commi 12,13,14 e al comma 15 per il personale docente
inidoneo.
In tutti questi casi la relazione tecnica non quantificava i tagli e li considerava
strumentali al pieno conseguimento degli obiettivi finanziari previsti dall’art. 64 della
legge 133/2008.
Con l’art.50 del Decreto sulle semplificazioni il mantra dell’art.64 viene ripetuto in
continuazione e allora può essere veramente il caso di approfondire in materia adeguata
tale materia individuando quale è dunque realmente numero dei docenti che
– 3 –
avrebbero dovuto essere in servizio secondo le previsioni del famigerato art. 64
della legge 133/08?
La questione per fortuna, è stata finora semplicemente obliterata e non presenta
particolari difficoltà interpretative, ciò perché la relazione tecnica che accompagnava il
Disegno di legge di trasformazione in legge del Decreto 112/08 è al riguardo molto
chiara.
Essa ci quantifica che l’art.64, comma 1, era finalizzato a ridurre, nel triennio
2009-2011, di un punto il gap esistente tra il rapporto medio alunni-docenti esistente in
Italia ed il corrispondente rapporto medio degli altri paesi europei; inoltre era previsto il
decremento delle dotazioni organiche del personale Amministrativo, Tecnico ed
Ausiliario (ATA) nella misura complessiva del 17 per cento.
Detti obiettivi, dovevano realizzarsi nel triennio 2009-2011, mediante l’adozione di
un piano triennale (2009-2011) che doveva prevedere interventi strutturali finalizzati al
conseguimento delle economie indicate al successivo comma 6.
La relazione tecnica indicava in 868.542 il numero complessivo dei docenti in
servizio nell’anno scolastico 2008-2009 e in 8,944 il rapporto tra il numero degli
studenti e quello dei docenti riferito allo stesso anno scolastico.
Alla fine dell’operazione, nell’anno scolastico 2011-2012, per passare al
rapporto 9,944 il numero complessivo dei docenti in servizio avrebbe dovuto
essere di 781.201 unità.
E’ opportuno chiarire che in tali numeri dovevano essere considerati tutti i
docenti e gli educatori di ruolo, quelli di sostegno su posti in deroga, i docenti di
religione cattolica di ruolo e incaricati e i docenti non di ruolo incaricati su posti vacanti.
La relazione tecnica stabiliva anche le tappe intermedie di tale riduzione: nel
2009-10 e nel 2010-11 il totale dei docenti avrebbe dovuto essere rispettivamente di
826.437 e di 800.877 unità.
Poiché le relazioni tecniche dei recenti provvedimenti Tremonti, come si è visto,
riconducono le nuove riduzioni di posti agli obiettivi di cui all’art. 64 si deve intendere
che esse devono concorrere al raggiungimento del suddetto totale.
E se invece fossero destinate a produrre una maggiore riduzione di organico?
Se ne dovrebbe concludere che quel risultato sarebbe da considerasi fuori dalla legge
qualora determinasse una riduzione ulteriore del numero complessivo degli insegnanti in
servizio. Quindi anche fuori dal dettato di cui all’art.19 comma, 7, del decreto-legge 6
luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, che
postula che la consistenza delle dotazioni organiche del personale docente educativo e
ATA a partire dall’anno scolastico 2012-13 non deve superare quella determinata nell’
anno scolastico 2011-12.
In ogni caso si deve considerare che, almeno per i docenti, la riduzione della
dotazione organica é stata funzionale al raggiungimento dell’obiettivo quantitativo e al
soddisfacimento del criterio (aumento di una unità del rapporto studenti insegnanti) che
stanno alla base dell’art.64. In definitiva occorre aver presente che i 781.201 docenti ed
educatori, che per legge dovrebbero essere in servizio nell’anno scolastico 2011-12,
includono la dotazione organica di diritto e quant’altro, come si è visto, e che a tale
– 4 –
numero dovrebbe fare riferimento la costruzione degli organici funzionali di istituto e di
rete di cui al decreto sulla semplificazione.
Per gli ATA il dato per il 2011-12 viene indicato dalla relazione tecnica dell’art 64
in 207.000 unità derivanti dalla riduzione di 42.500 posti (17%) rispetto ai 250.000 posti
considerati costituenti l’organico ATA nell’a.s. 2008-09, scontato degli effetti della
legge finanziaria 2008.
Soltanto su tali numeri, sicuramente insufficienti rispetto ai bisogni ma almeno
certi, si potrebbe fondare, come ripetutamente ribadito nell’art 50, la costituzione dell’
organico funzionale di istituto e di rete.
In realtà le cose non stanno così perché l’aggiunta imposta, al comma 2 dell’art.
50, dai tecnici eredi di Tremonti del richiamo al comma 7 dell’articolo 19 del DL 98/11
di fatto vanifica qualsiasi ipotesi di organico funzionale. Ciò perché se si mantiene
fermo l’organico attuale(di diritto e di fatto) non si recuperano i posti che attualmente
non vi sono compresi.
Ciò risulta dalla situazioni dei posti e degli organici riportata nelle due seguenti tabelle:
Docenti
A B C D0 D E F
Anno sc. Organico Di ruolo N. di ruolo Docenti di
ruolo di
religione
Incar. IRC Rel. Tec.
art.64
Tot
B+C+
D0+D
2008-09* 730.566 721.328^ 131.143

14.123 11.000 868.542 877.594
2008-09° 766.119
2009-10* 703.185 694.448^ 117.265
””
13.880 12.000 826.437 837.593
2009-10° 729.248
2010-11* 684.700 678.737^ 113.348
”””
13.633 12.000 800.877 817.718
2010-11° 709.912
2011-12* 665.274 659.861^ 105.900 13.289 13.291 781.201 792.152
2011-12° 694.110 §
*Organico di Diritto (compreso il sostegno, esclusi i posti di ruolo di IRC)
°Organico di Fatto (compreso il sostegno, esclusi i posti di ruolo di IRC)
^ non sono compresi i doc. di RC )
“Comprende 110.553 incarichi fino al termine delle lezioni; 20.282 incarichi annuali;
310 educatori.
“”Comprende 93.696 incarichi fino al termine delle lezioni; 23.277 incarichi annuali;
292 educatori.
“””Comprende 89.931 incarichi fino al termine delle lezioni; 23.032 incarichi annuali;
385 educatori.
– 5 –
§ con una previsione di 7.826.796 studenti per avere il rapporto 9,94 i docenti
dovrebbero essere 787.343
A.T.A
A B C D E
Anno sc. Organico Di ruolo N. di ruolo Tot. B+C Rel. Tec. art.64
2008-09* 251.661 167.123 78.152 245.275 250.000
2008-09° 251.628
2009-10* 236.661 166.348 64.770 231.281 234.833
2009-10° 237.467
2010-11* 221.289 165.891 51.402 217.293 219.666
2010-11° 223.472
2011-12* 207.122 185.586 14.508 200.094§ 205.499
2011-12° 210.377
*Organico di Diritto °Organico di Fatto
FONTI: Corte dei Conti Relazione sul Rendiconto Generale 2009.
MIUR- la Scuola statale: sintesi dei dati- a.s. 2009-10.
Relazione tecnica art.64 legge 133/08.
Piano programmatico art.64 legge 133/08.
MIUR: Osservatorio 2009 graduatorie ad esaurimento
L’ART.64 CI DICE DUNQUE CHE NEL 2011-12 DOVREBBERO ESSERE
IN SERVIZIO 781 201 DOCENTI E 205.499 ATA.
In realtà se si considera che il numero degli studenti nello stesso anno scolastico
2011-12 è di 7.826.232 unità il conseguimento del rapporto 9,94 porta il numero dei
docenti a 787.347 unità che son di più dei 781.201 previsti ma di meno dei 792.152
esistenti. Gioca in questa differenza il leggero aumento dei posti di sostegno dovuto all’
attuazione della sentenza della Corte Costituzionale che ha impedito i previsti tagli.
Ma il decreto legge ignora che l’organico funzionale, se si deve fare, deve avere tale
dato come riferimento. In effetti il comma due dell’art.50 riferendosi al tetto stabilito
dagli attuali organici al massimo può riguardare 694.110 unità di docenti che
rappresentano l’organico di fatto per il 2011-12. Con tali numeri non si fa alcun
organico funzionale anzi si continuerà ad avere in piedi l’attuale organico dei non di
ruolo comprendente il sostegno in deroga.
Si può concludere dunque che con tali previsioni, fondate sull’adorazione dell’
articolo 64 totem, più presunto che reale, sembra proprio impossibile garantire l’
attuazione dell’autonomia responsabile.
– 6 –

Leggi l’art in pdf
da Rete Scuole

“L’Autonomia scolastica nel decreto sulle semplificazioni”, di Osvaldo Roman

L’art 50 del ddl di conversione del Decreto legge sulle semplificazioni riguarda l’ autonomia scolastica.
Esso prevede che con un D.M del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, vengano adottate, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto linee guida riguardanti il potenziamento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche; la definizione, per ciascuna istituzione scolastica, di un organico dell’ autonomia funzionale; la costituzione, di reti territoriali tra istituzioni scolastiche; la definizione di un organico di rete.
Una prima osservazione, a cui si da una risposta richiamando l’esigenza di
garantire tempi molto stretti all’attuazione delle modifiche introdotte, riguarda il fatto che
un Decreto interministeriale per definire tali materie sembra troppo poco. Servirebbe
quantomeno una norma regolamentare più forte come quella formulabile ai sensi dell’art
17 della legge 400/1998. Il guaio è che una siffatta procedura, anche con il comma 2 dell
’art.17, passa per il Consiglio di Stato è i tempi non potrebbero essere brevi. Resta
però il dato che modificare l’attuale ordinamento degli organici,e qualche altra cosa,
almeno nelle intenzioni, perché come vedremo tale obiettivo nel testo attuale è solo
ipotetico, con un atto amministrativo che vale poco più di una Circolare, rappresenta
una scelta molto precaria.
Ma è più grave che l’articolo del Decreto al comma 1 affermi il principio dell’
organico funzionale e al comma 2 lo neghi.
Ciò accade perché il secondo che ho detto lo ha inserito il Tesoro dopo la
scrittura del primo.
Se il Parlamento non lo cambia, nel senso che interpreta correttamente in che
cosa consistono i tagli previsti dall’art. 64 e nel senso che l’organico funzionale non
può esistere dentro la gabbia degli attuali organici di diritto e anche di fatto, tutta la
vicenda diventa una clamorosa bufala.
L’articolo prevede che il potenziamento dell’autonomia delle istituzioni
scolastiche, dovrebbe essere ottenuto anche attraverso l’eventuale ridefinizione degli
aspetti connessi ai trasferimenti delle risorse alle medesime, previo avvio di apposito
progetto sperimentale da attuare nel rispetto della vigente legislazione contabile.
Non vi è più traccia della riorganizzazione del Bilancio del MIUR prevista in una
precedente stesura. L’obiettivo di ridurre al 3%, a favore delle scuole, la quota di
risorse gestita centralmente rientra sicuramente nelle possibilità di una gestione
amministrativa del bilancio ma dovrebbe trovare una sanzione in qualche forma di
vincolo parlamentare.
– 1 –
Per ciascuna istituzione scolastica, si prevede la definizione di un organico dell’
autonomia, funzionale all’ordinaria attività didattica, educativa, amministrativa, tecnica e
ausiliaria, alle esigenze di sviluppo delle eccellenze, di recupero, di integrazione e
sostegno ai diversamente abili e di programmazione dei fabbisogni di personale
scolastico.
Previa intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto
legislativo 28 agosto 1997, n. 281, è prevista la costituzione, di reti territoriali tra
istituzioni scolastiche, al fine di conseguire la gestione ottimale delle risorse umane,
strumentali e finanziarie. Conseguente risulta la definizione di un organico di rete per tali
finalità nonché per l’integrazione degli alunni diversamente abili, la prevenzione dell’
abbandono e il contrasto dell’insuccesso scolastico e formativo, specie per le aree di
massima corrispondenza tra povertà e dispersione scolastica;
La costituzione degli organici di istituto e di rete, avviene sulla base dei posti
corrispondenti ai fabbisogni con carattere di stabilità per almeno un triennio sulla singola
scuola, sulle reti di scuole e sugli ambiti provinciali, anche per i posti di sostegno, fatte
salve le esigenze che ne determinano la rimodulazione annuale.
Al comma due come indicavo dianzi si stabilisce che l’organico funzionale in
realtà non esiste perché i suddetti organici sono determinati, complessivamente, nel
rispetto dell’articolo 64 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con
modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, fermo restando quanto previsto dall
’articolo 19, comma 7, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con
modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, e fatto salvo anche per gli anni
2012 e successivi l’accantonamento in presenza di esternalizzazione dei servizi per i
posti ATA.
Non è tanto il richiamo all’art. 64 che come vedremo va correttamente
interpretato ma quello all’art 19 che ammazza tutto!
In poche righe viene ribadito per ben cinque volte che il limite per la definizione di
tali organici funzionali di istituto e di rete avviene entro il limite di posti stabilito dalla
legge 133/08 art 64. e che da tale attuazione non devono derivare nuovi o maggiori oneri
a carico della finanza pubblica.
La questione a questo punto merita un opportuno approfondimento anche perché
gli ultimi provvedimenti del ministro Tremonti avevano chiaramente fatto capire che il
governo Berlusconi intendeva mistificare tale punto di riferimento conseguendo
riduzioni di posti assai superiori a quelle previste e consentite dalla legge.
Infatti per tutto l’art. 19 del Decreto legge 98/2011 la relazione tecnica non
quantifica le riduzioni di spesa che vengono per la loro quasi totalità attribuite al pieno
conseguimento degli obiettivi finanziari previsti dall’art. 64, comma 6 della legge
n.133/2008. La procedura adottata appare del tutto illegittima innanzitutto perché le
misure adottate non sono previste nel Piano Programmatico e nei Regolamenti che lo
hanno realizzato.
– 2 –
Inoltre la riduzione delle spese previste dall’art. 64 va a regime nel 2012. Ulteriori
riduzioni di spesa quali quelle indicate nell’art.19 avrebbero dovuto essere motivate e
quantificate negli anni. Invece il blocco degli organici di cui al comma. 7 e seguenti è
permanente. Non si riesce a comprendere come al comma 9 del medesimo articolo19 si
sia intenso adottare una nuova norma di salvaguardia (il taglio lineare delle spese non
obbligatorie) in assenza di una quantificazione nella legge dei risparmi da conseguire.
Inoltre si trattava di misure il cui carattere esclusivamente compensativo, rispetto
a quelle adottate in attuazione dell’art. 64 avrebbe dovuto in ogni caso essere
esplicitamente indicato nell’articolato di legge. Invece il blocco degli organici di cui al
comma 7 è permanente entrando in tal modo in contrasto sia con lo stesso
Regolamento n. 89/09, sia anche rispetto allo stesso articolo 64, come integrato dalla
legge 137/09, in materia di generalizzazione del maestro unico e di soppressione totale
dei TEAM nella scuola primaria.
Tale impostazione ha comportato la possibilità di una soppressione di un numero
di posti nell’organico docente superiore a quegli 87.000 necessari per aumentare da 8,9
a 9,9 il rapporto studenti docenti. Era questo ”l’unico principio pedagogico” posto alla
base della riforma epocale. E la legge non consentiva e non consente al governo di
superarlo.
Il blocco permanente degli organici può essere imposto per legge
quantificandone i possibili risparmi di spesa ma non può essere fatto derivare, come ha
fatto Tremonti con il comma 7 dell’art. 19, dall’attuazione dell’art-.64 della legge
133/2009. In tal modo gli effetti economici dei tagli degli organici negli anni 2013 e 2014
e seguenti possono non essere stati inseriti in quella manovra. Nello stesso ambito si
colloca la disposizione di cui al comma 10 dell’art.19 con cui si tenta di aggirare la
sentenza del Tar circa l’obbligo di richiedere il parere alle Camere sui decreti di
determinazione annuale degli organici
La legge può certamente stabilire che tale parere deve essere richiesto quando i
Decreti ministeriali applicano, nella determinazione degli organici, parametri diversi da
quelli in vigore in precedenza: sarebbe ricorso sicuramente il caso qualora fossero
veramente definiti nuovi organici funzionali di istituto previsti da una diversa stesura del
Decreto sulle semplificazioni.
Analoga situazione si determina ai commi 4, 5 e 6 dell’art 19 del DL 98/11 e
successive modificazioni, introdotte dal DL 138/11, per l’aggregazione in istituti
comprensivi; per l’obbligo di assegnare a reggenze le scuole autonome e per l’obbligo
di ridurre il numero di casi in cui è previsto il semiesonero o l’’esonero dall’
insegnamento del docente collaboratore del Dirigente. Così pure al comma 11 per l’
organico di sostegno e ai commi 12,13,14 e al comma 15 per il personale docente
inidoneo.
In tutti questi casi la relazione tecnica non quantificava i tagli e li considerava
strumentali al pieno conseguimento degli obiettivi finanziari previsti dall’art. 64 della
legge 133/2008.
Con l’art.50 del Decreto sulle semplificazioni il mantra dell’art.64 viene ripetuto in
continuazione e allora può essere veramente il caso di approfondire in materia adeguata
tale materia individuando quale è dunque realmente numero dei docenti che
– 3 –
avrebbero dovuto essere in servizio secondo le previsioni del famigerato art. 64
della legge 133/08?
La questione per fortuna, è stata finora semplicemente obliterata e non presenta
particolari difficoltà interpretative, ciò perché la relazione tecnica che accompagnava il
Disegno di legge di trasformazione in legge del Decreto 112/08 è al riguardo molto
chiara.
Essa ci quantifica che l’art.64, comma 1, era finalizzato a ridurre, nel triennio
2009-2011, di un punto il gap esistente tra il rapporto medio alunni-docenti esistente in
Italia ed il corrispondente rapporto medio degli altri paesi europei; inoltre era previsto il
decremento delle dotazioni organiche del personale Amministrativo, Tecnico ed
Ausiliario (ATA) nella misura complessiva del 17 per cento.
Detti obiettivi, dovevano realizzarsi nel triennio 2009-2011, mediante l’adozione di
un piano triennale (2009-2011) che doveva prevedere interventi strutturali finalizzati al
conseguimento delle economie indicate al successivo comma 6.
La relazione tecnica indicava in 868.542 il numero complessivo dei docenti in
servizio nell’anno scolastico 2008-2009 e in 8,944 il rapporto tra il numero degli
studenti e quello dei docenti riferito allo stesso anno scolastico.
Alla fine dell’operazione, nell’anno scolastico 2011-2012, per passare al
rapporto 9,944 il numero complessivo dei docenti in servizio avrebbe dovuto
essere di 781.201 unità.
E’ opportuno chiarire che in tali numeri dovevano essere considerati tutti i
docenti e gli educatori di ruolo, quelli di sostegno su posti in deroga, i docenti di
religione cattolica di ruolo e incaricati e i docenti non di ruolo incaricati su posti vacanti.
La relazione tecnica stabiliva anche le tappe intermedie di tale riduzione: nel
2009-10 e nel 2010-11 il totale dei docenti avrebbe dovuto essere rispettivamente di
826.437 e di 800.877 unità.
Poiché le relazioni tecniche dei recenti provvedimenti Tremonti, come si è visto,
riconducono le nuove riduzioni di posti agli obiettivi di cui all’art. 64 si deve intendere
che esse devono concorrere al raggiungimento del suddetto totale.
E se invece fossero destinate a produrre una maggiore riduzione di organico?
Se ne dovrebbe concludere che quel risultato sarebbe da considerasi fuori dalla legge
qualora determinasse una riduzione ulteriore del numero complessivo degli insegnanti in
servizio. Quindi anche fuori dal dettato di cui all’art.19 comma, 7, del decreto-legge 6
luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, che
postula che la consistenza delle dotazioni organiche del personale docente educativo e
ATA a partire dall’anno scolastico 2012-13 non deve superare quella determinata nell’
anno scolastico 2011-12.
In ogni caso si deve considerare che, almeno per i docenti, la riduzione della
dotazione organica é stata funzionale al raggiungimento dell’obiettivo quantitativo e al
soddisfacimento del criterio (aumento di una unità del rapporto studenti insegnanti) che
stanno alla base dell’art.64. In definitiva occorre aver presente che i 781.201 docenti ed
educatori, che per legge dovrebbero essere in servizio nell’anno scolastico 2011-12,
includono la dotazione organica di diritto e quant’altro, come si è visto, e che a tale
– 4 –
numero dovrebbe fare riferimento la costruzione degli organici funzionali di istituto e di
rete di cui al decreto sulla semplificazione.
Per gli ATA il dato per il 2011-12 viene indicato dalla relazione tecnica dell’art 64
in 207.000 unità derivanti dalla riduzione di 42.500 posti (17%) rispetto ai 250.000 posti
considerati costituenti l’organico ATA nell’a.s. 2008-09, scontato degli effetti della
legge finanziaria 2008.
Soltanto su tali numeri, sicuramente insufficienti rispetto ai bisogni ma almeno
certi, si potrebbe fondare, come ripetutamente ribadito nell’art 50, la costituzione dell’
organico funzionale di istituto e di rete.
In realtà le cose non stanno così perché l’aggiunta imposta, al comma 2 dell’art.
50, dai tecnici eredi di Tremonti del richiamo al comma 7 dell’articolo 19 del DL 98/11
di fatto vanifica qualsiasi ipotesi di organico funzionale. Ciò perché se si mantiene
fermo l’organico attuale(di diritto e di fatto) non si recuperano i posti che attualmente
non vi sono compresi.
Ciò risulta dalla situazioni dei posti e degli organici riportata nelle due seguenti tabelle:
Docenti
A B C D0 D E F
Anno sc. Organico Di ruolo N. di ruolo Docenti di
ruolo di
religione
Incar. IRC Rel. Tec.
art.64
Tot
B+C+
D0+D
2008-09* 730.566 721.328^ 131.143

14.123 11.000 868.542 877.594
2008-09° 766.119
2009-10* 703.185 694.448^ 117.265
””
13.880 12.000 826.437 837.593
2009-10° 729.248
2010-11* 684.700 678.737^ 113.348
”””
13.633 12.000 800.877 817.718
2010-11° 709.912
2011-12* 665.274 659.861^ 105.900 13.289 13.291 781.201 792.152
2011-12° 694.110 §
*Organico di Diritto (compreso il sostegno, esclusi i posti di ruolo di IRC)
°Organico di Fatto (compreso il sostegno, esclusi i posti di ruolo di IRC)
^ non sono compresi i doc. di RC )
“Comprende 110.553 incarichi fino al termine delle lezioni; 20.282 incarichi annuali;
310 educatori.
“”Comprende 93.696 incarichi fino al termine delle lezioni; 23.277 incarichi annuali;
292 educatori.
“””Comprende 89.931 incarichi fino al termine delle lezioni; 23.032 incarichi annuali;
385 educatori.
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§ con una previsione di 7.826.796 studenti per avere il rapporto 9,94 i docenti
dovrebbero essere 787.343
A.T.A
A B C D E
Anno sc. Organico Di ruolo N. di ruolo Tot. B+C Rel. Tec. art.64
2008-09* 251.661 167.123 78.152 245.275 250.000
2008-09° 251.628
2009-10* 236.661 166.348 64.770 231.281 234.833
2009-10° 237.467
2010-11* 221.289 165.891 51.402 217.293 219.666
2010-11° 223.472
2011-12* 207.122 185.586 14.508 200.094§ 205.499
2011-12° 210.377
*Organico di Diritto °Organico di Fatto
FONTI: Corte dei Conti Relazione sul Rendiconto Generale 2009.
MIUR- la Scuola statale: sintesi dei dati- a.s. 2009-10.
Relazione tecnica art.64 legge 133/08.
Piano programmatico art.64 legge 133/08.
MIUR: Osservatorio 2009 graduatorie ad esaurimento
L’ART.64 CI DICE DUNQUE CHE NEL 2011-12 DOVREBBERO ESSERE
IN SERVIZIO 781 201 DOCENTI E 205.499 ATA.
In realtà se si considera che il numero degli studenti nello stesso anno scolastico
2011-12 è di 7.826.232 unità il conseguimento del rapporto 9,94 porta il numero dei
docenti a 787.347 unità che son di più dei 781.201 previsti ma di meno dei 792.152
esistenti. Gioca in questa differenza il leggero aumento dei posti di sostegno dovuto all’
attuazione della sentenza della Corte Costituzionale che ha impedito i previsti tagli.
Ma il decreto legge ignora che l’organico funzionale, se si deve fare, deve avere tale
dato come riferimento. In effetti il comma due dell’art.50 riferendosi al tetto stabilito
dagli attuali organici al massimo può riguardare 694.110 unità di docenti che
rappresentano l’organico di fatto per il 2011-12. Con tali numeri non si fa alcun
organico funzionale anzi si continuerà ad avere in piedi l’attuale organico dei non di
ruolo comprendente il sostegno in deroga.
Si può concludere dunque che con tali previsioni, fondate sull’adorazione dell’
articolo 64 totem, più presunto che reale, sembra proprio impossibile garantire l’
attuazione dell’autonomia responsabile.
– 6 –

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da Rete Scuole

"Fassina: «Nel partito è stata votata un’altra posizione». Caro Walter, così ci arrendiamo al pensiero unico", articoli di Stefano Fassina, Walter Veltroni, Giorgio Tonini e Giuseppe Fioroni

Caro Walter, ti scrivo dopo aver letto la tua intervista oggi a Repubblica, senza alcuno spirito polemico, soltanto nel tentativo di evitare valutazioni politiche fact free. Primo, «la patrimoniale» esiste soltanto nel linguaggio dei media. Al Lingotto non fu proposta una imposta patrimoniale ordinaria universale (su tutte le famiglie) ad aliquota minima e finalizzata a ridurre l’indebitamento netto, come le imposte patrimoniali introdotte dal governo Monti (…). Al Lingotto fu proposta, seppur in termini generici, un’imposta patrimoniale straordinaria, ad aliquota elevata, sul famoso 10% più ricco delle famiglie italiane, finalizzata ad abbattere il debito pubblico di decine di punti percentuali di Pil (…). La corrispondenza tra quanto approvato dal Parlamento a dicembre scorso è come tra il giorno e la notte. Perché il Lingotto viene, ancora una volta, presentato come precursore dell’intervento di Monti? (…) Secondo, le imposte patrimoniali ordinarie universali introdotte dal governo Monti e da te particolarmente apprezzate consistono sostanzialmente di Ici (ora denominata Imu). Dei circa 12 miliardi all’anno raccolti dalle imposte patrimoniali ordinarie approvate, oltre 11 derivano dall’Ici, ossia imposte sulla casa, su tutte le case(…) Sicuro che un governo progressista non avrebbe potuto fare meglio?
In generale, caro Walter, per valutare il tasso di riformismo del governo Monti, dovremmo ricordare che il Decreto «Salva Italia», oltre al brutale ed iniquo intervento sulle pensioni di anzianità, in particolare delle donne, ha introdotto maggiori imposte per circa 40 miliardi all’anno. Oltre all’Ici, si tratta di imposte sui consumi (Iva e accise), Tarsu ed addizionali regionali all’Irpef, le quali, come noto, sono proporzionali, non progressive, sulle relative basi imponibili, quindi colpiscono in misura più consistente i redditi più bassi e medi. A Varese, all’assemblea nazionale di ottobre 2010, all’unanimità abbiamo votato le proposte della segreteria del Pd che, in quanto progressive (e progressiste), vanno in direzione opposta. A proposito, di riforma della politica, la prima regola per un dirigente nazionale sarebbe quella di affermare la posizione del partito di cui è parte. La posizione del Pd sul mercato del lavoro e sull’art.18 è diversa dalla tua, ovviamente legittima, ma minoritaria nel partito (…).
Infine, senza nulla togliere alla funzione positiva finora svolta dal governo, gli esempi da te ricordati soltanto in Italia sono considerati «riformisti». In qualunque altro Paese civile, la lotta all’evasione, la ricostruzione di un decente servizio pubblico radiotelevisivo, l’applicazione senza distorsioni dell’Imu sugli immobili ad uso commerciale delle chiese, sono denominatore comune dell’arco costituzionale. Se il programma del governo Monti è l’orizzonte di una forza progressista come il Pd, allora delle due l’una: o il PdL, che insieme a noi sostiene il governo Monti, è diventato un partito progressista, oppure la tua valutazione è sbagliata. Se fosse giusta, dovremmo essere conseguenti. Alle prossime elezioni il Pd dovrebbe presentarsi insieme al PdL, oltre che al Terzo Polo: una sorta di partito unico del pensiero unico. La fine della politica, non solo della democrazia dell’alternanza.

L’Unità 20.02.12

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“Monti è un riformista non lasciamolo alla destra Basta tabù sull´articolo 18”, Intervista a Walter Veltroni di Curzio Maltese

Sciogliere tutte le correnti del Pd, a cominciare dalla sua. Rilanciare l´iniziativa politica del partito sulle riforme, la lotta alla criminalità e alla corruzione politica, mettendo a frutto il riformismo di Monti per avvicinare la “rivoluzione democratica” che deve essere l´obiettivo del Pd. Cambiare subito la Rai ed escludere i partiti da tutte le nomine degli enti pubblici. Le proposte di Walter Veltroni sono sassi lanciati nello stagno della politica commissariata dal governo dei tecnici, destinate a far discutere anzitutto un Pd ancora imbambolato dalla batosta delle primarie genovesi.
Veltroni, non è un po´ eccessivo definire riformismo la stagione di Mario Monti?
«No. Sono bastati tre mesi per capire che non si tornerà indietro. Circola nel Pd, ancor più nel Pdl, l´idea che questo sia solo un governo d´emergenza, una parentesi dopo la quale si tornerà ai riti e ai giochi della seconda repubblica o peggio della prima. Qualcuno dà giudizi tali da rischiare il paradosso di consegnare al centro o al nuovo centro destra il lavoro del governo. È un errore grave. Questo governo tecnico ha fatto in tre mesi più di quanto governi politici abbiano fatto in anni. Ha dimostrato non solo di voler risanare i conti, ma di voler cambiare molto del paese e vi sta riuscendo, con il consenso dei cittadini e dell´opinione pubblica internazionale. La copertina di Time o l´ovazione al Parlamento europeo sono un tributo ad un paese che solo qualche mese fa era guidato da Berlusconi e deriso».
È d´accordo con il governo anche sull´articolo 18?
«Sono d´accordo col non fermarsi di fronte ai santuari del no che hanno paralizzato l´Italia per decenni. Il nostro è un paese rissoso e immobile e perciò a rischio. Credo che finora il governo Monti stia realizzando una sintesi fra il rigore dei governi Ciampi e Amato e il riformismo del primo governo Prodi».
Non risponde sull´articolo 18.
«Totem e tabù si intitolava un libro di Freud. Ed è perfetto per definire gran parte del discorso pubblico in Italia. Bisogna cambiare un mercato del lavoro che continua a emarginare drammaticamente i giovani, i precari, le donne e il Sud. Ci vogliono più diritti per chi non ne ha nessuno. Questa è oggi una vera battaglia di sinistra».
Quindi, figurarsi se non è d´accordo con la lotta all´evasione, la revisione delle spese militari, l´Ici alla Chiesa.
«Si diceva che questo era il governo delle lobbies e del Vaticano. Come se queste non pesassero nei governi politici. Fatto sta che Monti ha deciso bene sull´Ici per gli immobili della chiesa, sugli F 35, sta facendo bene nella lotta all´evasione, che potrà portare ad una riduzione di pressione fiscale. I blitz a Cortina, Portofino, Sanremo sono segnali forti e chiari. Come lo è stato far pagare per 16 miliardi i possessori di patrimonio. Devo ricordare che quando al Lingotto proposi la patrimoniale nel mio stesso partito ci fu chi si precipitò a dire che non era la posizione del Pd».
Che cos´altro si aspetta dal metodo Monti?
«La sua sfida è la crescita, uno sviluppo di qualità sociale, culturale e ambientale. E poi che consideri priorità la lotta alla mafia, che si sta mangiando mezzo paese, dalla Sicilia a Bordighera, da Reggio Calabria a Milano. Bisogna intervenire subito e stroncare le complicità con una nuova e durissima legge contro la corruzione. Il secondo campo è la Rai. Lo dico dal 2008: la Rai deve avere un amministratore delegato e un cda che si riunisce tre volte l´anno. Sento che ora si vuole limitare il numero dei consiglieri d´amministrazione a cinque, ma con alcuni sempre di nomina parlamentare. È sbagliato. I partiti devono smetterla di nominare persone agli enti pubblici, sia la Rai o l´ultima Asl. I partiti servono a fare proposte e programmi, non nomine. Via dai consigli d´amministrazione».
Chi dovrebbe nominare il prossimo consiglio Rai?
«I presidenti di Camera e Senato, scegliendo fra personalità dell´impresa e della cultura con requisiti adeguati. In questo momento c´è bisogno di un servizio pubblico vero, meno show di quart´ordine e più produzione dell´industria culturale nazionale. E più intelligenza, se la parola qualità spaventa».
Ma se Monti e i suoi professori sono tanto bravi, allora lei, voi, il Pd, i partiti in generale, che ci stanno a fare?
«Il Pd ha il merito di aver fatto nascere questo governo. Ora dovrebbe sfruttare questa immensa occasione per rilanciare un grande programma riformista. Dire agli italiani che non torna nulla del passato, compresi i governi rissosi dell´Unione. Ma il riformismo radicale, la modernità equa che devono affrontare una recessione pericolosa dal punto di vista sociale e democratico».
E invece il Pd che sta facendo?
«Si discute di liberismo e di ritorno al socialismo. Invece siamo fuori dal Novecento. Siamo in un passaggio storico inedito. E tornano vecchie ricette e coperte apparentemente rassicuranti. Si parla poco della disperazione sociale e troppo delle alleanze future. Sento dire che dopo Monti si potrà tornare finalmente al tempo dei partiti. Ma quel tempo gli italiani l´hanno conosciuto già. O la politica riforma se stessa e ritrova le sue grandi missioni e il respiro dei “pensieri lunghi” e la coscienza dei limiti ai quali si deve arrestare o prevarranno populismo e tecnocrazia. E poi ci si divide, come si è visto a Genova, col risultato di allontanare i cittadini e di perdere le primarie»
L´invito all´unità del partito non risulta un po´ paradossale da parte di uno che litiga con D´Alema da trent´anni?
«Potrei risponderle che con D´Alema si discuteva di cose serie, se fondare un partito democratico o puntare sul modello della socialdemocrazia, se far vivere o morire il governo Prodi. Non litigavamo sulle nomine. Ma lasciamo perdere, quel tempo è passato. Oggi sono il primo a chiedere di sciogliere le correnti, tutte, compresa la mia. Che non si è mai formata per la mia conosciuta idiosincrasia al tema. I partiti devono essere luoghi aperti, non trincee di strutture che diventano pure macchine di potere. Ci vuole più pluralismo e meno correnti. La discussione politica è vitale e bella ma nel Pd le correnti, comprese le numerose componenti della maggioranza di Bersani, stanno allontanando persone che vogliono far vivere le loro idee senza sentirsi chiedere “con chi stai”. Fu questa una delle ragioni delle mie dimissioni, proprio tre anni fa´».
Alle elezioni manca ancora un anno. Quali rischi corre il Pd da qui al voto?
«Io vedo le possibilità. La fine del Berlusconismo libera energie e apre spazi immensi. Il profilo di un partito riformista, innovatore, aperto, unito può raccogliere il lavoro di questi mesi e presentarsi come il soggetto di un tempo nuovo. La foto di Vasto fu scattata quando c´era Berlusconi. Ora pensiamo a noi. Non vorrei che Casini facesse, in un nuovo centro destra, l´operazione che noi avevamo immaginato per il centro sinistra e che noi si rifluisca, come nel 94. Perderemmo così un´altra occasione, forse l´ultima, di far conoscere all´Italia una vera e profonda stagione di riforme».

La Repubblica 19.02.12

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“Bisogna scommettere sul governo senza avere paura”, di Giorgio Tonini

L’intervista di Walter Veltroni, uscita su Repubblica di ieri, ha avuto il merito di provocare una discussione non reticente sul rapporto tra il Partito democratico e il governo Monti. Veltroni ha messo in guardia il Pd dal rischio di regalare Monti al nuovo centrode-stra che sta legittimamente cercando di prendere forma.Ed ha auspicato un confronto interno al partito meno ingessato da appartenenze correntizie.
Che entrambe le preoccupazioni di Veltroni non fossero infondate, lo ha dimostrato la replica di Stefano Fassina: secondo il responsabile economico della segreteria Bersani, il nostro programma non può identificarsi con quello del governo Monti, che risentirebbe in modo strutturale della articolazione politica della maggioranza che lo sostiene. Peccato che Fassina, nonostante i continui e un po’ stucchevoli richiami all’obbligo di uniformarsi a una linea di maggioranza fortunatamente assai mutevole (come dimostra la vicenda patrimoniale), non sia riuscito a dimostrare dove sia la sostanziale distanza tra ciò che il governo Monti, con il nostro imprescindibile sostegno, sta cercando di fare e quel che potrebbe fare, nelle stesse condizioni, un governo di centrosinistra guidato dal Partito democratico. Intendiamoci: al meglio (come al peggio) non c’è mai limite, per definizione. Ma dubito che sul piano della politica fiscale, nel giro di poche settimane, in un contesto di emergenza finanziaria e di pressione sui mercati internazionali che ha avuto ben pochi precedenti in 150 di storia d’Italia, l’ipotetico governo progressista evocato da Fassina avrebbe potuto fare meglio.
Per fare solo un esempio, dopo decenni di chiacchiere sulla necessità di spostare progressivamente il carico fiscale dal lavoro alla rendita e dalla produzione al patrimonio, Monti ci ha provato sul serio ed ha portato a casa un primo risultato che merita non l’applauso, ma il tripudio del popolo progressista: quasi 8 miliardi in meno sul lavoro, alleggerendo l’Irap, in particolare su giovani e donne nel Sud, e 12 miliardi in più sul patrimonio. E dato che in Italia il patrimonio è composto per i due terzi da immobili, la gran parte dell’intervento del governo è stato sugli immobili, facendo così pagare di più a chi ha di più
ed esentando comunque una fascia sociale, pure in un contesto di assoluta drammaticità finanziaria.
Se ora, con la revisione integrale della spesa e una lotta finalmente efficace all’evasione fiscale, il governo riuscirà, come è sua esplicita intenzione, ad evitare l’aumento dell’Iva (previsto per settembre, ma come misura alternativa ai tagli alle detrazioni fiscali e alle prestazioni assistenziali, decisi da Tremonti) e anzi a ridurre l’aliquota di base dell’Irpef dall’attuale 23 al 20 per cento, ogni record progressista
sarà stato frantumato. Se così è, perché restare aggrappati al freno a mano, alimentando diffidenze e paure, ad esempio nel decisivo negoziato sul mercato del lavoro, anziché scommettere sulla volontà e la capacità del governo (e del Pd al suo fianco) di dar vita, insieme alle parti sociali, ad un nuovo diritto del lavoro, ad una nuova generazione di diritti, per una nuova generazione di lavoratori? Con la loro larga fiducia al governo, gli italiani (a cominciare dai nostri elettori) ci dicono che l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura, noi democratici, è la paura stessa.

L’Unità 20.02.12

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«Da irresponsabili mettere ostacoli al nuovo Patto sociale», di Giuseppe Fioroni

«Non parlo di questo». Non vuole parlare dell’ ultima polemica che attraversa il suo partito, il Pd, dopo le dichiarazioni di Walter Veltroni sull’ articolo 18, definito dall’ex segretario uno dei «santuari del no». Beppe Fioroni, sostenitore della prima ora del governo Monti, vuole parlare delle scelte che questo esecutivo dovrebbe fare e di quelle che dovrebbe evitare sul tema del lavoro, degli ammortizzatori sociali e anche dell’articolo 18.
Fioroni, lei critico con il governo Monti sulla riforma del lavoro?
«Il tavolo delle forze sociali è una risorsa per il Paese e per dare efficacia all’iniziativa del governo. Sbaglia chi pensa di farlo saltare, o peggio ancora di andare avanti a tutti i costi, perché è meglio “tutti scontenti” anziché portare avanti una trattativa difficile, ma credo possibile, su una posizione condivisa». Gasparri per il Pdl, ma anche esponenti del suo partito pensano che alla fine il governo debba andare avanti anche senza accordo.
«Io penso che sia sbagliato. L’Italia per tornare ad essere un Paese solido ha bisogno di rigore e sacrifici condivisi. Abbiamo il SalvaItalia, ma gli italiani per essere salvati hanno bisogno anche di vera solidarietà».
Una critica alle posizioni del ministro Fornero sulla Cassintegrazione straordinaria?
«Suggestiva l’idea del ministro sul sussidio di disoccupazione ma se Fornero è parte di quel governo che tutti i giorni ci comunica che non ci sono risorse, vorrei sapere questa suggestione quando si realizza e soprattutto con quali finanziamenti. Sa quale è la mia preoccupazione? Che qualcuno pensi di togliere la cassaintegrazione in deroga e di prendere i fondi stanziati –
1. 200 milioni di euro, già insufficienti per il 2012 e per poche persone – per utilizzarli a favore di moltissimi. Così non si va da nessuna parte. Il governo deve trovare le risorse aggiuntive senza generare un conflitto tra poveri. Non c’è bisogno di una carità pelosa».
Lei non vuole commentare,ma il tema c’è. Veltroni dice che l’articolo 18 è uno di quei santuari del no di fronte ai quali si è fermato il Paese.
«L’articolo 18 sta diventando lo scalpo di una contrapposizione politica e ideologica senza che si risolva alcun problema. Al tavolo delle parti sociali è stato già proposto un punto di equilibrio avanzato che stabilisce un principio forte di giustizia che separa la legittima tutela dagli abusi».
Questa è la posizione di Bonanni.
«È vero, è stata avanzata dalla Cisl,ma è una posizione ampiamente condivisa da altre forze sindacali e dalle parti datoriali. Metter- si a fare il “più uno” per esigenze di visibilità o voglia di distinguo è da irresponsabili».
Con chi ce l’ha?
«Con chi ritiene che in un momento di recessione come questo si
possano dividere le parti sociali e far saltare il nuovo patto sociale per l’Italia. Monti deve riflettere perché se il tavolo delle parti sociali si trova in mezzo a un braccio di ferro tra forze politiche il governo, che ora deve favorire crescita e sviluppo, rischia di indebolirsi e perdere di efficacia e effi-
cienza. A quel tavolo e nell’iniziativa di governo deve entrare con
forza il futuro dei nostri giovani, non si può non parlare di rilancio della scuola, della formazione. Il decreto sulla semplificazione dice cose importanti per la scuola e l’università ma a costo zero. Le nozze con i fichi secchi non si possono fare e quelle norme senza copertura finanziaria suonano come una beffa».
Lei vede il rischio di una serie di enunciazioni che teoricamente
promettono più diritti per tutti e maggiore equità,ma nei fatti si traducono in meno diritti per tutti?
«Le rispondo con un’altra domanda. Come possiamo pensare che i giovani credano nella formazione e nello studio se in un settore come quello della Sanità si continua a parlare di un processo di aziendalizzazione che per scegliere un primario o un medico fa prevalere il criterio della fiduca? È una follia, la fiducia evoca fedeltà, ma i malati quando hanno bisogno di essere curati vogliono
qualità e competenze».
Fioroni,torniamo alla domanda iniziale: lei critica Monti mentre suoi colleghi dicono che è un governo come non se ne vedevano da anni?
«Il presidente del Consiglio è troppo bravo per sapere che è meglio avere amici leali che criticano quando occorre che tanti, e penso a Berlusconi che passa dall’ attacco al plauso senza esitazioni, adulatori che in fondo in fondo sperano di farlo sbagliare da solo».

L’Unità 20.02.12

“Fassina: «Nel partito è stata votata un’altra posizione». Caro Walter, così ci arrendiamo al pensiero unico”, articoli di Stefano Fassina, Walter Veltroni, Giorgio Tonini e Giuseppe Fioroni

Caro Walter, ti scrivo dopo aver letto la tua intervista oggi a Repubblica, senza alcuno spirito polemico, soltanto nel tentativo di evitare valutazioni politiche fact free. Primo, «la patrimoniale» esiste soltanto nel linguaggio dei media. Al Lingotto non fu proposta una imposta patrimoniale ordinaria universale (su tutte le famiglie) ad aliquota minima e finalizzata a ridurre l’indebitamento netto, come le imposte patrimoniali introdotte dal governo Monti (…). Al Lingotto fu proposta, seppur in termini generici, un’imposta patrimoniale straordinaria, ad aliquota elevata, sul famoso 10% più ricco delle famiglie italiane, finalizzata ad abbattere il debito pubblico di decine di punti percentuali di Pil (…). La corrispondenza tra quanto approvato dal Parlamento a dicembre scorso è come tra il giorno e la notte. Perché il Lingotto viene, ancora una volta, presentato come precursore dell’intervento di Monti? (…) Secondo, le imposte patrimoniali ordinarie universali introdotte dal governo Monti e da te particolarmente apprezzate consistono sostanzialmente di Ici (ora denominata Imu). Dei circa 12 miliardi all’anno raccolti dalle imposte patrimoniali ordinarie approvate, oltre 11 derivano dall’Ici, ossia imposte sulla casa, su tutte le case(…) Sicuro che un governo progressista non avrebbe potuto fare meglio?
In generale, caro Walter, per valutare il tasso di riformismo del governo Monti, dovremmo ricordare che il Decreto «Salva Italia», oltre al brutale ed iniquo intervento sulle pensioni di anzianità, in particolare delle donne, ha introdotto maggiori imposte per circa 40 miliardi all’anno. Oltre all’Ici, si tratta di imposte sui consumi (Iva e accise), Tarsu ed addizionali regionali all’Irpef, le quali, come noto, sono proporzionali, non progressive, sulle relative basi imponibili, quindi colpiscono in misura più consistente i redditi più bassi e medi. A Varese, all’assemblea nazionale di ottobre 2010, all’unanimità abbiamo votato le proposte della segreteria del Pd che, in quanto progressive (e progressiste), vanno in direzione opposta. A proposito, di riforma della politica, la prima regola per un dirigente nazionale sarebbe quella di affermare la posizione del partito di cui è parte. La posizione del Pd sul mercato del lavoro e sull’art.18 è diversa dalla tua, ovviamente legittima, ma minoritaria nel partito (…).
Infine, senza nulla togliere alla funzione positiva finora svolta dal governo, gli esempi da te ricordati soltanto in Italia sono considerati «riformisti». In qualunque altro Paese civile, la lotta all’evasione, la ricostruzione di un decente servizio pubblico radiotelevisivo, l’applicazione senza distorsioni dell’Imu sugli immobili ad uso commerciale delle chiese, sono denominatore comune dell’arco costituzionale. Se il programma del governo Monti è l’orizzonte di una forza progressista come il Pd, allora delle due l’una: o il PdL, che insieme a noi sostiene il governo Monti, è diventato un partito progressista, oppure la tua valutazione è sbagliata. Se fosse giusta, dovremmo essere conseguenti. Alle prossime elezioni il Pd dovrebbe presentarsi insieme al PdL, oltre che al Terzo Polo: una sorta di partito unico del pensiero unico. La fine della politica, non solo della democrazia dell’alternanza.

L’Unità 20.02.12

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“Monti è un riformista non lasciamolo alla destra Basta tabù sull´articolo 18”, Intervista a Walter Veltroni di Curzio Maltese

Sciogliere tutte le correnti del Pd, a cominciare dalla sua. Rilanciare l´iniziativa politica del partito sulle riforme, la lotta alla criminalità e alla corruzione politica, mettendo a frutto il riformismo di Monti per avvicinare la “rivoluzione democratica” che deve essere l´obiettivo del Pd. Cambiare subito la Rai ed escludere i partiti da tutte le nomine degli enti pubblici. Le proposte di Walter Veltroni sono sassi lanciati nello stagno della politica commissariata dal governo dei tecnici, destinate a far discutere anzitutto un Pd ancora imbambolato dalla batosta delle primarie genovesi.
Veltroni, non è un po´ eccessivo definire riformismo la stagione di Mario Monti?
«No. Sono bastati tre mesi per capire che non si tornerà indietro. Circola nel Pd, ancor più nel Pdl, l´idea che questo sia solo un governo d´emergenza, una parentesi dopo la quale si tornerà ai riti e ai giochi della seconda repubblica o peggio della prima. Qualcuno dà giudizi tali da rischiare il paradosso di consegnare al centro o al nuovo centro destra il lavoro del governo. È un errore grave. Questo governo tecnico ha fatto in tre mesi più di quanto governi politici abbiano fatto in anni. Ha dimostrato non solo di voler risanare i conti, ma di voler cambiare molto del paese e vi sta riuscendo, con il consenso dei cittadini e dell´opinione pubblica internazionale. La copertina di Time o l´ovazione al Parlamento europeo sono un tributo ad un paese che solo qualche mese fa era guidato da Berlusconi e deriso».
È d´accordo con il governo anche sull´articolo 18?
«Sono d´accordo col non fermarsi di fronte ai santuari del no che hanno paralizzato l´Italia per decenni. Il nostro è un paese rissoso e immobile e perciò a rischio. Credo che finora il governo Monti stia realizzando una sintesi fra il rigore dei governi Ciampi e Amato e il riformismo del primo governo Prodi».
Non risponde sull´articolo 18.
«Totem e tabù si intitolava un libro di Freud. Ed è perfetto per definire gran parte del discorso pubblico in Italia. Bisogna cambiare un mercato del lavoro che continua a emarginare drammaticamente i giovani, i precari, le donne e il Sud. Ci vogliono più diritti per chi non ne ha nessuno. Questa è oggi una vera battaglia di sinistra».
Quindi, figurarsi se non è d´accordo con la lotta all´evasione, la revisione delle spese militari, l´Ici alla Chiesa.
«Si diceva che questo era il governo delle lobbies e del Vaticano. Come se queste non pesassero nei governi politici. Fatto sta che Monti ha deciso bene sull´Ici per gli immobili della chiesa, sugli F 35, sta facendo bene nella lotta all´evasione, che potrà portare ad una riduzione di pressione fiscale. I blitz a Cortina, Portofino, Sanremo sono segnali forti e chiari. Come lo è stato far pagare per 16 miliardi i possessori di patrimonio. Devo ricordare che quando al Lingotto proposi la patrimoniale nel mio stesso partito ci fu chi si precipitò a dire che non era la posizione del Pd».
Che cos´altro si aspetta dal metodo Monti?
«La sua sfida è la crescita, uno sviluppo di qualità sociale, culturale e ambientale. E poi che consideri priorità la lotta alla mafia, che si sta mangiando mezzo paese, dalla Sicilia a Bordighera, da Reggio Calabria a Milano. Bisogna intervenire subito e stroncare le complicità con una nuova e durissima legge contro la corruzione. Il secondo campo è la Rai. Lo dico dal 2008: la Rai deve avere un amministratore delegato e un cda che si riunisce tre volte l´anno. Sento che ora si vuole limitare il numero dei consiglieri d´amministrazione a cinque, ma con alcuni sempre di nomina parlamentare. È sbagliato. I partiti devono smetterla di nominare persone agli enti pubblici, sia la Rai o l´ultima Asl. I partiti servono a fare proposte e programmi, non nomine. Via dai consigli d´amministrazione».
Chi dovrebbe nominare il prossimo consiglio Rai?
«I presidenti di Camera e Senato, scegliendo fra personalità dell´impresa e della cultura con requisiti adeguati. In questo momento c´è bisogno di un servizio pubblico vero, meno show di quart´ordine e più produzione dell´industria culturale nazionale. E più intelligenza, se la parola qualità spaventa».
Ma se Monti e i suoi professori sono tanto bravi, allora lei, voi, il Pd, i partiti in generale, che ci stanno a fare?
«Il Pd ha il merito di aver fatto nascere questo governo. Ora dovrebbe sfruttare questa immensa occasione per rilanciare un grande programma riformista. Dire agli italiani che non torna nulla del passato, compresi i governi rissosi dell´Unione. Ma il riformismo radicale, la modernità equa che devono affrontare una recessione pericolosa dal punto di vista sociale e democratico».
E invece il Pd che sta facendo?
«Si discute di liberismo e di ritorno al socialismo. Invece siamo fuori dal Novecento. Siamo in un passaggio storico inedito. E tornano vecchie ricette e coperte apparentemente rassicuranti. Si parla poco della disperazione sociale e troppo delle alleanze future. Sento dire che dopo Monti si potrà tornare finalmente al tempo dei partiti. Ma quel tempo gli italiani l´hanno conosciuto già. O la politica riforma se stessa e ritrova le sue grandi missioni e il respiro dei “pensieri lunghi” e la coscienza dei limiti ai quali si deve arrestare o prevarranno populismo e tecnocrazia. E poi ci si divide, come si è visto a Genova, col risultato di allontanare i cittadini e di perdere le primarie»
L´invito all´unità del partito non risulta un po´ paradossale da parte di uno che litiga con D´Alema da trent´anni?
«Potrei risponderle che con D´Alema si discuteva di cose serie, se fondare un partito democratico o puntare sul modello della socialdemocrazia, se far vivere o morire il governo Prodi. Non litigavamo sulle nomine. Ma lasciamo perdere, quel tempo è passato. Oggi sono il primo a chiedere di sciogliere le correnti, tutte, compresa la mia. Che non si è mai formata per la mia conosciuta idiosincrasia al tema. I partiti devono essere luoghi aperti, non trincee di strutture che diventano pure macchine di potere. Ci vuole più pluralismo e meno correnti. La discussione politica è vitale e bella ma nel Pd le correnti, comprese le numerose componenti della maggioranza di Bersani, stanno allontanando persone che vogliono far vivere le loro idee senza sentirsi chiedere “con chi stai”. Fu questa una delle ragioni delle mie dimissioni, proprio tre anni fa´».
Alle elezioni manca ancora un anno. Quali rischi corre il Pd da qui al voto?
«Io vedo le possibilità. La fine del Berlusconismo libera energie e apre spazi immensi. Il profilo di un partito riformista, innovatore, aperto, unito può raccogliere il lavoro di questi mesi e presentarsi come il soggetto di un tempo nuovo. La foto di Vasto fu scattata quando c´era Berlusconi. Ora pensiamo a noi. Non vorrei che Casini facesse, in un nuovo centro destra, l´operazione che noi avevamo immaginato per il centro sinistra e che noi si rifluisca, come nel 94. Perderemmo così un´altra occasione, forse l´ultima, di far conoscere all´Italia una vera e profonda stagione di riforme».

La Repubblica 19.02.12

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“Bisogna scommettere sul governo senza avere paura”, di Giorgio Tonini

L’intervista di Walter Veltroni, uscita su Repubblica di ieri, ha avuto il merito di provocare una discussione non reticente sul rapporto tra il Partito democratico e il governo Monti. Veltroni ha messo in guardia il Pd dal rischio di regalare Monti al nuovo centrode-stra che sta legittimamente cercando di prendere forma.Ed ha auspicato un confronto interno al partito meno ingessato da appartenenze correntizie.
Che entrambe le preoccupazioni di Veltroni non fossero infondate, lo ha dimostrato la replica di Stefano Fassina: secondo il responsabile economico della segreteria Bersani, il nostro programma non può identificarsi con quello del governo Monti, che risentirebbe in modo strutturale della articolazione politica della maggioranza che lo sostiene. Peccato che Fassina, nonostante i continui e un po’ stucchevoli richiami all’obbligo di uniformarsi a una linea di maggioranza fortunatamente assai mutevole (come dimostra la vicenda patrimoniale), non sia riuscito a dimostrare dove sia la sostanziale distanza tra ciò che il governo Monti, con il nostro imprescindibile sostegno, sta cercando di fare e quel che potrebbe fare, nelle stesse condizioni, un governo di centrosinistra guidato dal Partito democratico. Intendiamoci: al meglio (come al peggio) non c’è mai limite, per definizione. Ma dubito che sul piano della politica fiscale, nel giro di poche settimane, in un contesto di emergenza finanziaria e di pressione sui mercati internazionali che ha avuto ben pochi precedenti in 150 di storia d’Italia, l’ipotetico governo progressista evocato da Fassina avrebbe potuto fare meglio.
Per fare solo un esempio, dopo decenni di chiacchiere sulla necessità di spostare progressivamente il carico fiscale dal lavoro alla rendita e dalla produzione al patrimonio, Monti ci ha provato sul serio ed ha portato a casa un primo risultato che merita non l’applauso, ma il tripudio del popolo progressista: quasi 8 miliardi in meno sul lavoro, alleggerendo l’Irap, in particolare su giovani e donne nel Sud, e 12 miliardi in più sul patrimonio. E dato che in Italia il patrimonio è composto per i due terzi da immobili, la gran parte dell’intervento del governo è stato sugli immobili, facendo così pagare di più a chi ha di più
ed esentando comunque una fascia sociale, pure in un contesto di assoluta drammaticità finanziaria.
Se ora, con la revisione integrale della spesa e una lotta finalmente efficace all’evasione fiscale, il governo riuscirà, come è sua esplicita intenzione, ad evitare l’aumento dell’Iva (previsto per settembre, ma come misura alternativa ai tagli alle detrazioni fiscali e alle prestazioni assistenziali, decisi da Tremonti) e anzi a ridurre l’aliquota di base dell’Irpef dall’attuale 23 al 20 per cento, ogni record progressista
sarà stato frantumato. Se così è, perché restare aggrappati al freno a mano, alimentando diffidenze e paure, ad esempio nel decisivo negoziato sul mercato del lavoro, anziché scommettere sulla volontà e la capacità del governo (e del Pd al suo fianco) di dar vita, insieme alle parti sociali, ad un nuovo diritto del lavoro, ad una nuova generazione di diritti, per una nuova generazione di lavoratori? Con la loro larga fiducia al governo, gli italiani (a cominciare dai nostri elettori) ci dicono che l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura, noi democratici, è la paura stessa.

L’Unità 20.02.12

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«Da irresponsabili mettere ostacoli al nuovo Patto sociale», di Giuseppe Fioroni

«Non parlo di questo». Non vuole parlare dell’ ultima polemica che attraversa il suo partito, il Pd, dopo le dichiarazioni di Walter Veltroni sull’ articolo 18, definito dall’ex segretario uno dei «santuari del no». Beppe Fioroni, sostenitore della prima ora del governo Monti, vuole parlare delle scelte che questo esecutivo dovrebbe fare e di quelle che dovrebbe evitare sul tema del lavoro, degli ammortizzatori sociali e anche dell’articolo 18.
Fioroni, lei critico con il governo Monti sulla riforma del lavoro?
«Il tavolo delle forze sociali è una risorsa per il Paese e per dare efficacia all’iniziativa del governo. Sbaglia chi pensa di farlo saltare, o peggio ancora di andare avanti a tutti i costi, perché è meglio “tutti scontenti” anziché portare avanti una trattativa difficile, ma credo possibile, su una posizione condivisa». Gasparri per il Pdl, ma anche esponenti del suo partito pensano che alla fine il governo debba andare avanti anche senza accordo.
«Io penso che sia sbagliato. L’Italia per tornare ad essere un Paese solido ha bisogno di rigore e sacrifici condivisi. Abbiamo il SalvaItalia, ma gli italiani per essere salvati hanno bisogno anche di vera solidarietà».
Una critica alle posizioni del ministro Fornero sulla Cassintegrazione straordinaria?
«Suggestiva l’idea del ministro sul sussidio di disoccupazione ma se Fornero è parte di quel governo che tutti i giorni ci comunica che non ci sono risorse, vorrei sapere questa suggestione quando si realizza e soprattutto con quali finanziamenti. Sa quale è la mia preoccupazione? Che qualcuno pensi di togliere la cassaintegrazione in deroga e di prendere i fondi stanziati –
1. 200 milioni di euro, già insufficienti per il 2012 e per poche persone – per utilizzarli a favore di moltissimi. Così non si va da nessuna parte. Il governo deve trovare le risorse aggiuntive senza generare un conflitto tra poveri. Non c’è bisogno di una carità pelosa».
Lei non vuole commentare,ma il tema c’è. Veltroni dice che l’articolo 18 è uno di quei santuari del no di fronte ai quali si è fermato il Paese.
«L’articolo 18 sta diventando lo scalpo di una contrapposizione politica e ideologica senza che si risolva alcun problema. Al tavolo delle parti sociali è stato già proposto un punto di equilibrio avanzato che stabilisce un principio forte di giustizia che separa la legittima tutela dagli abusi».
Questa è la posizione di Bonanni.
«È vero, è stata avanzata dalla Cisl,ma è una posizione ampiamente condivisa da altre forze sindacali e dalle parti datoriali. Metter- si a fare il “più uno” per esigenze di visibilità o voglia di distinguo è da irresponsabili».
Con chi ce l’ha?
«Con chi ritiene che in un momento di recessione come questo si
possano dividere le parti sociali e far saltare il nuovo patto sociale per l’Italia. Monti deve riflettere perché se il tavolo delle parti sociali si trova in mezzo a un braccio di ferro tra forze politiche il governo, che ora deve favorire crescita e sviluppo, rischia di indebolirsi e perdere di efficacia e effi-
cienza. A quel tavolo e nell’iniziativa di governo deve entrare con
forza il futuro dei nostri giovani, non si può non parlare di rilancio della scuola, della formazione. Il decreto sulla semplificazione dice cose importanti per la scuola e l’università ma a costo zero. Le nozze con i fichi secchi non si possono fare e quelle norme senza copertura finanziaria suonano come una beffa».
Lei vede il rischio di una serie di enunciazioni che teoricamente
promettono più diritti per tutti e maggiore equità,ma nei fatti si traducono in meno diritti per tutti?
«Le rispondo con un’altra domanda. Come possiamo pensare che i giovani credano nella formazione e nello studio se in un settore come quello della Sanità si continua a parlare di un processo di aziendalizzazione che per scegliere un primario o un medico fa prevalere il criterio della fiduca? È una follia, la fiducia evoca fedeltà, ma i malati quando hanno bisogno di essere curati vogliono
qualità e competenze».
Fioroni,torniamo alla domanda iniziale: lei critica Monti mentre suoi colleghi dicono che è un governo come non se ne vedevano da anni?
«Il presidente del Consiglio è troppo bravo per sapere che è meglio avere amici leali che criticano quando occorre che tanti, e penso a Berlusconi che passa dall’ attacco al plauso senza esitazioni, adulatori che in fondo in fondo sperano di farlo sbagliare da solo».

L’Unità 20.02.12

"Il Pd resta primo partito", di Carlo Buttaroni*

Ma l’area del non voto batte tutte le coalizioni. Dal 2008 il Pdl ha perso oltre 14 punti, Democratici in testa col 27 per cento Ma c’è un calo di consensi alle principali forze politiche che non si compensa all’interno dello stesso schieramento né si orienta sul campo opposto. A sentire i protagonisti di ieri, che calcano le scene di oggi, sembra che nulla sia accaduto. Invece tutto è già successo. Senza una trascinata agonia, come accadde nel passaggio tra la prima e la seconda repubblica, e con una velocità che non ha precedenti nella storia recente. Un’accelerazione che ha imprigionato i partiti in una terra di mezzo, dove ciò che era prima non c’è più e dove ancora manca un indizio che parli al futuro. E’ vero che, in termini relativi, il Pd si conferma prima forza politica con il 27% e il Pdl scende al 23%, con una perdita di oltre 14 punti rispetto alle politiche del 2008. Ma è un dettaglio rispetto a quanto sta accadendo nelle dinamiche più generali che riguardano la struttura del sistema politico nel suo complesso. In termini assoluti (cioè considerando tutti gli elettori) sta prendendo corpo qualcosa di più profondo rispetto alle dinamiche osservabili in superficie, testimoniato proprio dai dati dell’indagine realizzata da Tecné.
Innanzitutto, i due principali partiti hanno perso, rispetto a quattro anni fa, il 30% dei consensi. Oggi, la somma dei voti che otterrebbero insieme è pari al 27,7% degli aventi diritto, rispetto al 54,7% del 2008.
In secondo luogo la perdita di consenso dei due principali partiti non si compensa all’interno dello stesso schieramento, né si orienta verso il campo opposto, ma si dispone verso l’area dell’astensione. Se si votasse oggi, infatti, sceglierebbero un partito di centrodestra o uno di centrosinistra, solo il 42,6% degli elettori, mentre, nel 2008, l’area del consenso, polarizzato all’interno delle due principali coalizioni, riguardava 7 elettori su dieci.
Terzo aspetto: l’area del non voto è salita al 44,6%, superando, per la prima volta, l’insieme dei consensi convergenti su opzioni alternative rispetto al governo del Paese. Un rovesciamento dei rapporti che indica che si è fortemente ridotta la capacità attrattiva dei due principali partiti e, conseguentemente, delle due principali opzioni politiche. Una forza di gravità che, fino a qualche anno fa, i partiti erano in grado di esercitare nei confronti degli elettori, orientandoli e attivando consensi rispetto a ipotesi alternative di governo.
Ma se è sbagliato pensare di interpretare i sondaggi, come una bocciatura o una promozione, altrettanto sbagliato è interpretare il calo della partecipazione come il manifestarsi di un diffuso sentimento di antipolitica.
Sembra emergere, invece, una forma di apatia verso le tradizionali espressioni della politica, dovuta non tanto alla distanza dai luoghi istituzionali ma al declino di una cultura dell’impegno che aveva segnato profondamente il secolo scorso. Nel calo della partecipazione tradizionale non c’è, infatti, il segnale di un rifiuto, quanto di una trasformazione delle modalità che danno corpo ad atteggiamenti e comportamenti nuovi. Un processo che corrisponde a un cambio di prospettiva, che non parla solo italiano: i cittadini delle società contemporanee sono sempre meno favorevoli a sostenere le gerarchie istituzionali e le grandi organizzazioni come i partiti di massa, perché vogliono incidere direttamente nella cosa pubblica. E vogliono farlo in forme non tradizionali. Questa spinta ha portato verso un cambio dei paradigmi riconducibili all’impegno politico tradizionale, particolarmente visibile nelle nuove generazioni, più esposte ai processi di cambiamento valoriale e al post-materialismo.
I cittadini non sono distaccati dai valori civili e democratici, non sono disimpegnati. Al contrario, diventano sempre più competenti, interessati, e si mobilitano prevalentemente in forme non convenzionali, all’interno di piccole organizzazioni e gruppi, spesso informali. La partecipazione oscilla da forme più impegnate a forme più leggere, con modalità di mobilitazione più discrete, dove manca un carattere ideologico strutturato, tanto che i cittadini faticano a definirsi “politicamente attivi”. Un impegno che corrisponde a un’articolazione multi-dimensionale della società e della politica, dove le attività sono ispirate da motivazioni differenti e persino divergenti all’interno dello stesso ambito.
Se si assiste a un progressivo indebolimento della fedeltà di partito è perché il focus dell’impegno si è spostato progressivamente da azioni partecipative dentro i partiti, ad azioni auto-dirette all’interno dei nuovi ambiti in cui si articola la società.
Per ricucire il legame con i nuovi cittadini, meno sensibili al richiamo ideologico, occorre rovesciare i paradigmi che hanno ispirato le scelte dei partiti negli ultimi anni, puntando sulla realizzazione di reti orizzontali piuttosto che su intelaiature verticali, portando la politica nei luoghi, anziché i luoghi alla politica. Non è sufficiente utilizzare i social network per essere al passo con i tempi. I tentativi, anzi, appaiono persino goffi. C’è un’inflazione di partiti e di politici che occupano la rete in modo improprio e con linguaggi inadeguati, che ritengono internet un nuovo “strumento” per raccogliere adesioni da contabilizzare con i vecchi metodi, quando, invece, internet è un “luogo”, dove le idee e i progetti possono prendere forma e maturare in una dimensione politica veramente nuova, senza per questo sovrapporsi o necessariamente intrecciarsi con il vecchio. Innovare usando facebook e gli altri social come fossero sedi di partito virtuali, o twitter come un ufficio stampa più fashion, è solo il segno dell’incapacità di leggere il mondo e i suoi fenomeni.
Occorre esplorare strade nuove. Questo è l’obiettivo che il sistema politico deve porsi per frenare l’erosione della partecipazione e per trasformare un’azione, come quella del voto, in partecipazione piena e consapevole. E per farlo deve ritornare a pensare dal basso perché, per quanto paradossale possa sembrare, le grandi sfide trovano risposte soltanto in un sistema diffuso di governo della società, dove la Polis ha una dimensione politica e non solo amministrativa. Le riforme istituzionali, comprese quelle elettorali, possono fare molto ma non sono sufficienti se non s’innestano positivamente con una cultura capace di recuperare una dimensione partecipativa che non si è indebolita, ma ha assunto soltanto nuove forme di espressione.
*presidente Tecnè

L’Unità 20.02.12

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“Una terza Repubblica contro i partiti?”, di Ilvo Diamanti

Non è facile prevedere che ne sarà dei partiti e del sistema partitico italiano, dopo il governo Monti. (Mi accontento di prevedere il passato. E non sempre mi riesce bene.) Tuttavia, mi sentirei di avanzare un´ipotesi. Facile. Nulla resterà come prima. L´esperienza del governo tecnico, infatti, sta mettendo a dura prova la tenuta dei principali partiti, ma anche – soprattutto – delle alleanze e delle coalizioni precedenti.
Oggi, d´altronde, appare in crisi la legittimazione stessa dei partiti in quanto tali. La fiducia nei loro confronti è, infatti, scesa a livelli mai toccati in passato (4%: Demos, gennaio 2012). D´altronde, non può essere privo di conseguenze, il fatto che la gestione della crisi sia stata affidata a un governo di “tecnici”. Segno dell´incapacità dei partiti di assumere responsabilità – di governo ma anche di opposizione – di fronte agli elettori.
Da ciò deriva la “popolarità” di questo governo (una settimana fa l´Ipsos la stimava intorno al 60%), in grado di prendere decisioni “impopolari”. Mentre i partiti sostengono le decisioni del governo tecnico – oppure vi si oppongono – al “coperto”. Dietro le quinte. In Parlamento. Nulla resterà come prima, nei partiti e nel sistema partitico, dopo Monti. Perché questa fase di “sospensione” ne accentua le difficoltà.
Quanto alla dimensione organizzativa e al rapporto con la propria base, basti osservare quel che sta succedendo nei principali partiti – Pdl e Pd. Il Pdl ha avviato una fase congressuale per affrontare il dopo-Berlusconi. Ma ciò che sta avvenendo in numerose province – sia del Sud che del Nord (in Veneto e a Vicenza, ad esempio) – dimostra quanto il partito sia esposto alle pressioni – non sempre lecite – di lobby locali. Non a caso il segretario del partito, Angelino Alfano, alcuni giorni fa, ha dovuto precisare – e minacciare – che «non faremo svolgere i congressi se si riscontrano situazioni gravi, nelle quali non vediamo chiaro».
D´altra parte, nel Pd, le tensioni e le divisioni, a livello nazionale e locale, sono diffuse ed evidenti. E hanno prodotto effetti non desiderati – per quanto prevedibili. Soprattutto nella selezione dei candidati alle prossime elezioni amministrative, mediante le “primarie”. Le quali continuano ad essere utilizzate “à la carte”. Talora a livello di partito, altre volte di coalizione. Con il risultato, in alcuni casi, da ultimo a Genova (e prima in Puglia, a Milano e a Cagliari), di favorire il candidato di un altro partito (seppure alleato). Da ciò il paradosso. Le primarie, “mito fondativo del Pd”, secondo Arturo Parisi (forse il primo a concepirle), hanno legittimato leader di altri partiti – alleati ma anche concorrenti. E indebolito, di conseguenza, la leadership del Pd nel Centrosinistra. Locale e nazionale.
Ma altrettanto critica appare la questione dei rapporti e delle alleanze tra i partiti. Nell´attuale maggioranza, solo l´Udc e il Terzo Polo appaiono “organici” al governo Monti. Voluto e imposto dal Presidente Napolitano. I principali partiti della maggioranza, Pdl e Pd, considerano questa coabitazione “necessaria”, quasi “coatta”. Ma incoerente con la loro base elettorale e con la loro storia politica.
Elettori e dirigenti del Pdl, in particolare, vedono il governo Monti come il soggetto che ha “scalzato” il Centrodestra, guidato da Berlusconi. Per questo stesso motivo il governo Monti piace agli elettori del Pd. I quali, tuttavia, ne avversano alcune importanti scelte – dalle pensioni al mercato del lavoro e all´art. 18. Le considerano coerenti con le politiche del Centrodestra. Pdl e Pd, inoltre, si vedono “sfidati” dai loro tradizionali alleati – la Lega a centrodestra, Idv e Sel, a centrosinistra. I quali, a loro volta, da soli, rischiano di divenire periferici. Alle elezioni amministrative che incombono. Tanto più in quelle politiche, del prossimo anno.
Da ciò emerge una serie di conseguenze rilevanti, in prospettiva futura.
1. Se i partiti della Seconda Repubblica si sono personalizzati, la leadership personale dei partiti si sta rapidamente indebolendo. L´unico leader che mantenga un alto livello di consensi, tra gli elettori, infatti, è Monti – intorno al 60%. Tutti i leader di partito, da metà gennaio ad oggi, hanno, infatti, perso consensi e si posizionano molto più in basso.
2. Anche i partiti maggiori, però, hanno perduto consensi. Il Pdl, in particolare, ridotto al 22%. Mentre il Pd, da gennaio (quando aveva superato il 29%), sta declinando, seppure lentamente.
3. Se si valuta la posizione degli elettori sullo spazio politico, però, emerge con chiarezza come la struttura delle coalizioni non sia cambiata. In particolare, la distanza tra gli elettori del Pdl e del Pd si è allargata, per reazione alla coabitazione “coatta”.
Tuttavia, i giudizi sulle specifiche questioni politiche e sulle scelte politiche del governo appaiono meno condizionate dall´appartenenza di partito e più dettate dal merito. Quindi meno distanti fra loro.
4. In altri termini, l´esperienza del governo Monti ha ridimensionato la frattura pro-antiberlusconiana. (Anche perché Berlusconi, per ora, se ne sta sullo sfondo.) Ma sta delineando una nuova frattura, o meglio, “distinzione”. Pro-antimontiana. Che sta indebolendo i partiti maggiori a favore degli alleati di ieri – oggi all´opposizione. Peraltro, incapaci, da soli, di costruire una vera alternativa.
Da ciò la tentazione del Pd e del Pdl: difendersi dalla concorrenza degli alleati – oggi all´opposizione – con una legge elettorale che renda loro difficile correre da soli. Tuttavia, se i partiti – di maggioranza e opposizione – non dessero soluzione al loro deficit di rappresentanza sociale e di leadership, difficilmente potrebbero – potranno – riprendere la guida del Paese. Andare oltre l´emergenza.
Soprattutto se il governo Monti ottenesse i risultati sperati, dal punto di vista economico e istituzionale. Se svelenisse davvero il clima sociale e d´opinione. Allora fra un anno diverrebbe un “soggetto politico” forte. E potrebbe coltivare l´idea di proseguire l´esperienza “in proprio”. Oppure, qualcun altro potrebbe occuparne lo spazio, raccoglierne l´eredità. Tecnica ed extra-politica. Cercando autonomamente il consenso elettorale, con il sostegno di una parte, almeno, dell´attuale maggioranza. Dove non mancano coloro a cui non spiacerebbe continuare questo esperimento.
In un Paese che ha conosciuto 50 anni di democrazia bloccata, intorno alla Dc e ai suoi alleati. E che arranca da vent´anni, inseguendo un bipolarismo sin qui ir-realizzato. Si tratterebbe di una Terza Repubblica che, per alcuni aspetti, rammenta e ridisegna la Prima. Con una differenza importante. Non sarebbe fondata “da” e “su”, ma “contro” i partiti.

La Repubblica 20.02.12