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“Il Pd resta primo partito”, di Carlo Buttaroni*

Ma l’area del non voto batte tutte le coalizioni. Dal 2008 il Pdl ha perso oltre 14 punti, Democratici in testa col 27 per cento Ma c’è un calo di consensi alle principali forze politiche che non si compensa all’interno dello stesso schieramento né si orienta sul campo opposto. A sentire i protagonisti di ieri, che calcano le scene di oggi, sembra che nulla sia accaduto. Invece tutto è già successo. Senza una trascinata agonia, come accadde nel passaggio tra la prima e la seconda repubblica, e con una velocità che non ha precedenti nella storia recente. Un’accelerazione che ha imprigionato i partiti in una terra di mezzo, dove ciò che era prima non c’è più e dove ancora manca un indizio che parli al futuro. E’ vero che, in termini relativi, il Pd si conferma prima forza politica con il 27% e il Pdl scende al 23%, con una perdita di oltre 14 punti rispetto alle politiche del 2008. Ma è un dettaglio rispetto a quanto sta accadendo nelle dinamiche più generali che riguardano la struttura del sistema politico nel suo complesso. In termini assoluti (cioè considerando tutti gli elettori) sta prendendo corpo qualcosa di più profondo rispetto alle dinamiche osservabili in superficie, testimoniato proprio dai dati dell’indagine realizzata da Tecné.
Innanzitutto, i due principali partiti hanno perso, rispetto a quattro anni fa, il 30% dei consensi. Oggi, la somma dei voti che otterrebbero insieme è pari al 27,7% degli aventi diritto, rispetto al 54,7% del 2008.
In secondo luogo la perdita di consenso dei due principali partiti non si compensa all’interno dello stesso schieramento, né si orienta verso il campo opposto, ma si dispone verso l’area dell’astensione. Se si votasse oggi, infatti, sceglierebbero un partito di centrodestra o uno di centrosinistra, solo il 42,6% degli elettori, mentre, nel 2008, l’area del consenso, polarizzato all’interno delle due principali coalizioni, riguardava 7 elettori su dieci.
Terzo aspetto: l’area del non voto è salita al 44,6%, superando, per la prima volta, l’insieme dei consensi convergenti su opzioni alternative rispetto al governo del Paese. Un rovesciamento dei rapporti che indica che si è fortemente ridotta la capacità attrattiva dei due principali partiti e, conseguentemente, delle due principali opzioni politiche. Una forza di gravità che, fino a qualche anno fa, i partiti erano in grado di esercitare nei confronti degli elettori, orientandoli e attivando consensi rispetto a ipotesi alternative di governo.
Ma se è sbagliato pensare di interpretare i sondaggi, come una bocciatura o una promozione, altrettanto sbagliato è interpretare il calo della partecipazione come il manifestarsi di un diffuso sentimento di antipolitica.
Sembra emergere, invece, una forma di apatia verso le tradizionali espressioni della politica, dovuta non tanto alla distanza dai luoghi istituzionali ma al declino di una cultura dell’impegno che aveva segnato profondamente il secolo scorso. Nel calo della partecipazione tradizionale non c’è, infatti, il segnale di un rifiuto, quanto di una trasformazione delle modalità che danno corpo ad atteggiamenti e comportamenti nuovi. Un processo che corrisponde a un cambio di prospettiva, che non parla solo italiano: i cittadini delle società contemporanee sono sempre meno favorevoli a sostenere le gerarchie istituzionali e le grandi organizzazioni come i partiti di massa, perché vogliono incidere direttamente nella cosa pubblica. E vogliono farlo in forme non tradizionali. Questa spinta ha portato verso un cambio dei paradigmi riconducibili all’impegno politico tradizionale, particolarmente visibile nelle nuove generazioni, più esposte ai processi di cambiamento valoriale e al post-materialismo.
I cittadini non sono distaccati dai valori civili e democratici, non sono disimpegnati. Al contrario, diventano sempre più competenti, interessati, e si mobilitano prevalentemente in forme non convenzionali, all’interno di piccole organizzazioni e gruppi, spesso informali. La partecipazione oscilla da forme più impegnate a forme più leggere, con modalità di mobilitazione più discrete, dove manca un carattere ideologico strutturato, tanto che i cittadini faticano a definirsi “politicamente attivi”. Un impegno che corrisponde a un’articolazione multi-dimensionale della società e della politica, dove le attività sono ispirate da motivazioni differenti e persino divergenti all’interno dello stesso ambito.
Se si assiste a un progressivo indebolimento della fedeltà di partito è perché il focus dell’impegno si è spostato progressivamente da azioni partecipative dentro i partiti, ad azioni auto-dirette all’interno dei nuovi ambiti in cui si articola la società.
Per ricucire il legame con i nuovi cittadini, meno sensibili al richiamo ideologico, occorre rovesciare i paradigmi che hanno ispirato le scelte dei partiti negli ultimi anni, puntando sulla realizzazione di reti orizzontali piuttosto che su intelaiature verticali, portando la politica nei luoghi, anziché i luoghi alla politica. Non è sufficiente utilizzare i social network per essere al passo con i tempi. I tentativi, anzi, appaiono persino goffi. C’è un’inflazione di partiti e di politici che occupano la rete in modo improprio e con linguaggi inadeguati, che ritengono internet un nuovo “strumento” per raccogliere adesioni da contabilizzare con i vecchi metodi, quando, invece, internet è un “luogo”, dove le idee e i progetti possono prendere forma e maturare in una dimensione politica veramente nuova, senza per questo sovrapporsi o necessariamente intrecciarsi con il vecchio. Innovare usando facebook e gli altri social come fossero sedi di partito virtuali, o twitter come un ufficio stampa più fashion, è solo il segno dell’incapacità di leggere il mondo e i suoi fenomeni.
Occorre esplorare strade nuove. Questo è l’obiettivo che il sistema politico deve porsi per frenare l’erosione della partecipazione e per trasformare un’azione, come quella del voto, in partecipazione piena e consapevole. E per farlo deve ritornare a pensare dal basso perché, per quanto paradossale possa sembrare, le grandi sfide trovano risposte soltanto in un sistema diffuso di governo della società, dove la Polis ha una dimensione politica e non solo amministrativa. Le riforme istituzionali, comprese quelle elettorali, possono fare molto ma non sono sufficienti se non s’innestano positivamente con una cultura capace di recuperare una dimensione partecipativa che non si è indebolita, ma ha assunto soltanto nuove forme di espressione.
*presidente Tecnè

L’Unità 20.02.12

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“Una terza Repubblica contro i partiti?”, di Ilvo Diamanti

Non è facile prevedere che ne sarà dei partiti e del sistema partitico italiano, dopo il governo Monti. (Mi accontento di prevedere il passato. E non sempre mi riesce bene.) Tuttavia, mi sentirei di avanzare un´ipotesi. Facile. Nulla resterà come prima. L´esperienza del governo tecnico, infatti, sta mettendo a dura prova la tenuta dei principali partiti, ma anche – soprattutto – delle alleanze e delle coalizioni precedenti.
Oggi, d´altronde, appare in crisi la legittimazione stessa dei partiti in quanto tali. La fiducia nei loro confronti è, infatti, scesa a livelli mai toccati in passato (4%: Demos, gennaio 2012). D´altronde, non può essere privo di conseguenze, il fatto che la gestione della crisi sia stata affidata a un governo di “tecnici”. Segno dell´incapacità dei partiti di assumere responsabilità – di governo ma anche di opposizione – di fronte agli elettori.
Da ciò deriva la “popolarità” di questo governo (una settimana fa l´Ipsos la stimava intorno al 60%), in grado di prendere decisioni “impopolari”. Mentre i partiti sostengono le decisioni del governo tecnico – oppure vi si oppongono – al “coperto”. Dietro le quinte. In Parlamento. Nulla resterà come prima, nei partiti e nel sistema partitico, dopo Monti. Perché questa fase di “sospensione” ne accentua le difficoltà.
Quanto alla dimensione organizzativa e al rapporto con la propria base, basti osservare quel che sta succedendo nei principali partiti – Pdl e Pd. Il Pdl ha avviato una fase congressuale per affrontare il dopo-Berlusconi. Ma ciò che sta avvenendo in numerose province – sia del Sud che del Nord (in Veneto e a Vicenza, ad esempio) – dimostra quanto il partito sia esposto alle pressioni – non sempre lecite – di lobby locali. Non a caso il segretario del partito, Angelino Alfano, alcuni giorni fa, ha dovuto precisare – e minacciare – che «non faremo svolgere i congressi se si riscontrano situazioni gravi, nelle quali non vediamo chiaro».
D´altra parte, nel Pd, le tensioni e le divisioni, a livello nazionale e locale, sono diffuse ed evidenti. E hanno prodotto effetti non desiderati – per quanto prevedibili. Soprattutto nella selezione dei candidati alle prossime elezioni amministrative, mediante le “primarie”. Le quali continuano ad essere utilizzate “à la carte”. Talora a livello di partito, altre volte di coalizione. Con il risultato, in alcuni casi, da ultimo a Genova (e prima in Puglia, a Milano e a Cagliari), di favorire il candidato di un altro partito (seppure alleato). Da ciò il paradosso. Le primarie, “mito fondativo del Pd”, secondo Arturo Parisi (forse il primo a concepirle), hanno legittimato leader di altri partiti – alleati ma anche concorrenti. E indebolito, di conseguenza, la leadership del Pd nel Centrosinistra. Locale e nazionale.
Ma altrettanto critica appare la questione dei rapporti e delle alleanze tra i partiti. Nell´attuale maggioranza, solo l´Udc e il Terzo Polo appaiono “organici” al governo Monti. Voluto e imposto dal Presidente Napolitano. I principali partiti della maggioranza, Pdl e Pd, considerano questa coabitazione “necessaria”, quasi “coatta”. Ma incoerente con la loro base elettorale e con la loro storia politica.
Elettori e dirigenti del Pdl, in particolare, vedono il governo Monti come il soggetto che ha “scalzato” il Centrodestra, guidato da Berlusconi. Per questo stesso motivo il governo Monti piace agli elettori del Pd. I quali, tuttavia, ne avversano alcune importanti scelte – dalle pensioni al mercato del lavoro e all´art. 18. Le considerano coerenti con le politiche del Centrodestra. Pdl e Pd, inoltre, si vedono “sfidati” dai loro tradizionali alleati – la Lega a centrodestra, Idv e Sel, a centrosinistra. I quali, a loro volta, da soli, rischiano di divenire periferici. Alle elezioni amministrative che incombono. Tanto più in quelle politiche, del prossimo anno.
Da ciò emerge una serie di conseguenze rilevanti, in prospettiva futura.
1. Se i partiti della Seconda Repubblica si sono personalizzati, la leadership personale dei partiti si sta rapidamente indebolendo. L´unico leader che mantenga un alto livello di consensi, tra gli elettori, infatti, è Monti – intorno al 60%. Tutti i leader di partito, da metà gennaio ad oggi, hanno, infatti, perso consensi e si posizionano molto più in basso.
2. Anche i partiti maggiori, però, hanno perduto consensi. Il Pdl, in particolare, ridotto al 22%. Mentre il Pd, da gennaio (quando aveva superato il 29%), sta declinando, seppure lentamente.
3. Se si valuta la posizione degli elettori sullo spazio politico, però, emerge con chiarezza come la struttura delle coalizioni non sia cambiata. In particolare, la distanza tra gli elettori del Pdl e del Pd si è allargata, per reazione alla coabitazione “coatta”.
Tuttavia, i giudizi sulle specifiche questioni politiche e sulle scelte politiche del governo appaiono meno condizionate dall´appartenenza di partito e più dettate dal merito. Quindi meno distanti fra loro.
4. In altri termini, l´esperienza del governo Monti ha ridimensionato la frattura pro-antiberlusconiana. (Anche perché Berlusconi, per ora, se ne sta sullo sfondo.) Ma sta delineando una nuova frattura, o meglio, “distinzione”. Pro-antimontiana. Che sta indebolendo i partiti maggiori a favore degli alleati di ieri – oggi all´opposizione. Peraltro, incapaci, da soli, di costruire una vera alternativa.
Da ciò la tentazione del Pd e del Pdl: difendersi dalla concorrenza degli alleati – oggi all´opposizione – con una legge elettorale che renda loro difficile correre da soli. Tuttavia, se i partiti – di maggioranza e opposizione – non dessero soluzione al loro deficit di rappresentanza sociale e di leadership, difficilmente potrebbero – potranno – riprendere la guida del Paese. Andare oltre l´emergenza.
Soprattutto se il governo Monti ottenesse i risultati sperati, dal punto di vista economico e istituzionale. Se svelenisse davvero il clima sociale e d´opinione. Allora fra un anno diverrebbe un “soggetto politico” forte. E potrebbe coltivare l´idea di proseguire l´esperienza “in proprio”. Oppure, qualcun altro potrebbe occuparne lo spazio, raccoglierne l´eredità. Tecnica ed extra-politica. Cercando autonomamente il consenso elettorale, con il sostegno di una parte, almeno, dell´attuale maggioranza. Dove non mancano coloro a cui non spiacerebbe continuare questo esperimento.
In un Paese che ha conosciuto 50 anni di democrazia bloccata, intorno alla Dc e ai suoi alleati. E che arranca da vent´anni, inseguendo un bipolarismo sin qui ir-realizzato. Si tratterebbe di una Terza Repubblica che, per alcuni aspetti, rammenta e ridisegna la Prima. Con una differenza importante. Non sarebbe fondata “da” e “su”, ma “contro” i partiti.

La Repubblica 20.02.12

"I difetti di un mercato che privilegia l’uomo", di Chiara Saraceno

Investire nelle donne converrebbe alla società, dal punto di vista dello sviluppo economico, del bilancio fiscale, dell´utilizzo pieno di tutte le risorse umane disponibili. Ma per investire nelle donne e favorirne una partecipazione al mercato del lavoro adeguata alle loro capacità e competenze, sono molte le cose che dovrebbero cambiare nell´organizzazione del mercato del lavoro, nell´offerta di servizi e nella divisione del lavoro tra uomini e donne in famiglia. Gran parte del benessere familiare è infatti a carico del lavoro gratuito delle donne. E l´assenza di servizi di cura, non solo per i bambini, ma per le persone non autosufficienti, è compensata solo dal lavoro gratuito di mogli, madri, figlie, nuore, nonne.
Già ora le donne stanno salvando, se non l´Italia, gli italiani, tramite il loro lavoro gratuito quotidiano – che non viene meno neppure quando hanno un lavoro per il mercato e che la crisi ha in molti casi intensificato. Senza questo lavoro gratuito, le famiglie sarebbero molto più povere e molti bisogni di cura rimarrebbero insoddisfatti. Esso andrebbe meglio e più equamente ridistribuito, tra uomini e donne, tra famiglia e società. E l´organizzazione del mercato del lavoro dovrebbe meglio riconoscerne la necessità, per le donne e per gli uomini.
Come è stato ricordato di recente agli Stati generali sul lavoro delle donne organizzati presso il Cnel, le lavoratrici italiane che hanno una famiglia lavorano complessivamente, tra lavoro pagato e non pagato, oltre un´ora in più al giorno dei loro compagni. Tuttavia guadagnano sostanziosamente meno dei loro colleghi; perciò accumulano anche una minore ricchezza pensionistica. La loro capacità di guadagno, infatti, è compressa due volte. La mancata condivisione del lavoro familiare da parte degli uomini, unita ad una bassa offerta di servizi di cura accessibili e di buona qualità, vincola il tempo che possono dedicare al lavoro remunerato.
A ciò si aggiungono le discriminazioni nel mercato del lavoro – nelle possibilità di carriera e nelle retribuzioni orarie, a parità di qualifiche – che, come segnalano anche i dati di Almalaurea per quanto riguarda le giovani laureate, iniziano prima ancora che le donne formino una famiglia. Se poi sono lavoratrici “flessibili”, si trovano spesso costrette a considerare una possibile gravidanza come un rischio professionale che non possono permettersi.
Molte donne ancora oggi abbandonano il lavoro per motivi familiari, perché non ce la fanno a tenere il ritmo del doppio lavoro, spesso accompagnato da pressioni e vessazioni più o meno sottili sia in casa (perché “trascurano la famiglia”) sia sul lavoro (perché “hanno la testa altrove”). Soprattutto se sono a bassa qualifica e vivono al Sud, la maggior parte delle donne, anche giovani, non entra neppure nel mercato del lavoro, o viene scoraggiata presto dal presentarsi. Costituiscono la stragrande maggioranza dei “Neet”: dei giovani che né studiano né lavorano per il mercato.
Costituiscono anche la grande maggioranza sia dei lavoratori scoraggiati sia dei disoccupati invisibili: di coloro che vorrebbero lavorare, ma non cercano più, e di coloro che, pur dichiarandosi non forze di lavoro, di fatto si arrabattano tra un lavoretto e l´altro. Un rapporto Svimez uscito in questi giorni stima che queste due figure coinvolgono oltre un milione di donne nel Mezzogiorno, portando il tasso di disoccupazione femminile effettivo al 30,6%, il doppio di quello ufficiale.
L´Italia è uno dei paesi sviluppati con un divario di genere tra i più alti a tutti i livelli: nei tassi di partecipazione al mercato del lavoro, nel divario salariale a parità di titolo di studio e di mansione, nelle possibilità di carriera, nella presenza nei luoghi di presa di decisione, quindi nel potere, nella divisione del lavoro familiare.
È un divario aggravato dalle disuguaglianze sia territoriali che di istruzione. Anche questo è uno spread di cui ci si dovrebbe preoccupare ai fini non solo dell´equità, ma dello sviluppo. Credo che i suoi effetti negativi siano almeno altrettanto gravi, se non peggiori e con effetti di più lungo periodo, di quelli dello spread con i bond tedeschi.

La Repubblica 20.02.12

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“Perché conviene investire sulle donne”, di CINZIA SASSO

L´uovo di Colombo sta lì, nascosto nei testi che riempiono gli scaffali delle librerie e che finalmente sono usciti dalle loro nicchie protette per finire nelle vetrine: fate lavorare le donne e metterete le ali al Paese. Sta nelle ricerche e nei numeri che prestigiose istituzioni – prima fra tutte la Banca d´Italia – ripetono: se quel famoso impegno preso a Lisbona, il 60 per cento delle donne occupate, diventasse realtà, in Italia il Pil salirebbe del 7 per cento. Sta nei titoli dei convegni ai quali partecipano con convinti cenni di assenso ministre e ministri.
l´ultimo, a Roma, quello dell´associazione Valore D che nella promozione delle donne ai più alti livelli di responsabilità ha coinvolto oltre cinquanta grandi aziende e che instancabilmente batte il chiodo sui benefici della diversity.
E se qualcuno prova a contrastare l´inesorabile avanzata delle donne al lavoro sventolando la triste bandiera della crisi economica, ecco pronta la risposta: abbiate coraggio e lanciate il pink new deal. Sono tre donne, Daniela Del Boca, Letizia Mencarini e Silvia Pasqua – autorevoli studiose di economia e demografia – a confezionare l´ultima provocazione sotto forma di un libro dal titolo inequivocabile: «Valorizzare le donne conviene», edizioni Il Mulino. Propongono una versione riveduta e corretta del roosveltiano New Deal, il piano che permise all´America sfiancata dalla grande depressione di tornare a essere la guida del mondo. Scrivono: un maggior numero di occupate aumenterebbe le entrate fiscali e previdenziali; la crescita dell´occupazione femminile stimolerebbe una maggiore domanda di servizi con un effetto sul prodotto interno lordo; più donne al lavoro ridurrebbe il rischio di povertà delle famiglie. Insomma, l´uovo di Colombo.
Solo parole? No. La questione è sotterrata di numeri. Per ogni cento posti di lavoro affidati a una donna, si metterebbe in azione un circuito virtuoso che crea 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi. Se la percentuale di donne impiegate raggiungesse quella degli uomini (dunque oltre il 60% dell´obiettivo di Lisbona), una ricerca della Goldman Sachs sostiene che gli aumenti del Pil arriverebbero fino al 13% nell´Eurozona, fino al 16% in Giappone e fino al 22% nella nostra piccola Italia. A parere della Business School dell´università di Leeds, invece, se c´è almeno una donna in un consiglio di amministrazione, le probabilità che l´impresa sia posta in liquidazione forzata diminuiscono del 20%. E nel suo Women Matter, la McKinsey calcola che nel 2040 mancheranno all´appello 24 milioni di posti di lavoro e che se le donne saranno assunte la cifra scenderà a 3.
Il fatto è che le donne trovano ancora sulla loro strada ostacoli insormontabili. Anzi: la marcia verso la parità nel mondo del lavoro sembra inceppata, se è vero che dal 2000 ad oggi, complice la congiuntura economica, la percentuale di donne occupate è diminuita di 2 punti, passando dal 48 al 46. Come se quella che è una questione fondamentale per il Paese fosse invece ritenuta una robetta da donne. Il fatto è che in Italia, la rivoluzione silenziosa delle donne è anche una rivoluzione tradita. Dice Letizia Mencarini: «Rispetto al resto d´Europa, l´Italia negli ultimi quindici anni si è come fermata. Spagna, Francia, Germania, hanno visto le donne guadagnare posizioni, noi invece abbiamo di fronte una doppia strettoia». Difficile, tanto più oggi, in tempi cupi, entrare nel mercato del lavoro; e difficile, oggi come ieri, conciliare i ruoli familiari e quelli lavorativi.
In Italia succede ancora che, se anche cresce il lavoro, non si salgono i gradini della carriera; che l´aumento del part time, invece che in una facilitazione, si trasformi in una trappola che ti inchioda a ruoli marginali; che il primo impegno resti comunque quello casalingo. Del Boca la chiama «segregazione verticale» e dice che tipici esempi sono i settori della sanità e dell´istruzione. Nel 2009, nel Servizio Sanitario Nazionale, il 63 % degli occupati erano donne, ma tra i medici erano il 37 e il 77 del personale infermieristico. Nella scuola le donne erano il 78 % (con punte che sfioravano il 90 nelle scuole d´infanzia) e però le dirigenti poco più del 37. Perché, se pure le donne ormai si laureano di più e prima degli uomini, quello che rimane fermo – salvo interessanti ma rari casi che fanno notizia – è l´equilibrio dei ruoli interno alla famiglia. E la mamma, nel vissuto italiano, è sempre la mamma. L´unica in grado di occuparsi dei figli, di riempire il frigo e di preparare il risotto. Quasi incredibile, eppure il 76 % degli uomini (e il 74 delle donne) ritiene che un bambino piccolo soffra se la mamma lavora. In Svezia sono il 25 %.
A proposito di rivoluzioni interrotte: se la prima, quella dell´istruzione, è quasi pienamente compiuta; la seconda, quella del lavoro, negli ultimi vent´anni si è inceppata; la terza, quella culturale, è tutta da compiere se è vero resistono pregiudizi del tipo che le donne che lavorano sono madri peggiori, che i loro figli vanno peggio a scuola, che le stesse, schiacciate dal doppio ruolo, sono infelici. Assunta Sarlo, fondatrice del movimento Usciamo dal silenzio, vede chiari e scuri: «Da una parte c´è un Paese, ancora fortemente influenzato dalla Chiesa cattolica, che resiste al cambiamento; dall´altra c´è uno straordinario impegno delle donne nel rompere gli schemi». E così, sabato, a Milano, centinaia di donne si sono ritrovate a parlare della rivoluzione possibile e il 3 e 4 marzo, a Bologna, il network di Se non ora quando, discuterà di «Vita, lavoro, non lavoro» delle donne. Tanto da far dire a Lea Melandri, 40 anni di femminismo alle spalle, che «c´è davvero qualcosa di nuovo».
Ci sarebbero anche, scrivono le autrici di «Valorizzare le donne conviene», delle cose concrete da fare. Perché fin qui, nemmeno il nuovo governo ha mosso passi decisi nella direzione del pink new deal. E, per cominciare, invece che aiutare, ha penalizzato le donne. Dunque, proprio all´Università di Torino, la stessa del ministro (o bisogna dire ministra?) Fornero, hanno elaborato una lista di interventi da fare. Dall´indirizzare le donne verso studi scientifici con borse di studio dedicate, come accade in America (e anche nella Regione Toscana) a favorire dal punto di vista fiscale chi assume le donne. Dall´incentivare l´offerta di lavoro femminile, così come raccomandato da Mario Draghi, quand´era governatore della Banca d´Italia a cancellare la norma sulle dimissioni bianco (che colpisce soprattutto le mamme) a trasformare il part time e la flessibilità in un´occasione per tutti, dipendenti e aziende. Dallo studiare politiche di conciliazione aziendale all´investire – e non tagliare – nei servizi di cura per i bambini.
E ancora: introdurre un credito di imposta per le retribuzioni più basse (che sono quasi sempre quelle delle donne); far comprendere alle imprese che la maternità è un costo irrisorio e che quindi non c´è da averne paura. Poi: prevedere sgravi fiscali per chi assume personale femminile, concedere incentivi all´imprenditoria in rosa, prevedere le quote di genere ai vertici delle aziende, far diventare obbligatorio il congedo di paternità. Agire, insomma, sulle leve fiscali, sulle quote riservate e sulla cultura. Un programma realistico, in un momento di tagli e di crisi? Di più: indispensabile per aiutare l´Italia a risalire la china. Mencarini e Del Boca non hanno dubbi: «Queste misure sono un investimento per il futuro, perché valorizzare le donne conviene a tutti».

La Repubblica 20.02.12

“I difetti di un mercato che privilegia l’uomo”, di Chiara Saraceno

Investire nelle donne converrebbe alla società, dal punto di vista dello sviluppo economico, del bilancio fiscale, dell´utilizzo pieno di tutte le risorse umane disponibili. Ma per investire nelle donne e favorirne una partecipazione al mercato del lavoro adeguata alle loro capacità e competenze, sono molte le cose che dovrebbero cambiare nell´organizzazione del mercato del lavoro, nell´offerta di servizi e nella divisione del lavoro tra uomini e donne in famiglia. Gran parte del benessere familiare è infatti a carico del lavoro gratuito delle donne. E l´assenza di servizi di cura, non solo per i bambini, ma per le persone non autosufficienti, è compensata solo dal lavoro gratuito di mogli, madri, figlie, nuore, nonne.
Già ora le donne stanno salvando, se non l´Italia, gli italiani, tramite il loro lavoro gratuito quotidiano – che non viene meno neppure quando hanno un lavoro per il mercato e che la crisi ha in molti casi intensificato. Senza questo lavoro gratuito, le famiglie sarebbero molto più povere e molti bisogni di cura rimarrebbero insoddisfatti. Esso andrebbe meglio e più equamente ridistribuito, tra uomini e donne, tra famiglia e società. E l´organizzazione del mercato del lavoro dovrebbe meglio riconoscerne la necessità, per le donne e per gli uomini.
Come è stato ricordato di recente agli Stati generali sul lavoro delle donne organizzati presso il Cnel, le lavoratrici italiane che hanno una famiglia lavorano complessivamente, tra lavoro pagato e non pagato, oltre un´ora in più al giorno dei loro compagni. Tuttavia guadagnano sostanziosamente meno dei loro colleghi; perciò accumulano anche una minore ricchezza pensionistica. La loro capacità di guadagno, infatti, è compressa due volte. La mancata condivisione del lavoro familiare da parte degli uomini, unita ad una bassa offerta di servizi di cura accessibili e di buona qualità, vincola il tempo che possono dedicare al lavoro remunerato.
A ciò si aggiungono le discriminazioni nel mercato del lavoro – nelle possibilità di carriera e nelle retribuzioni orarie, a parità di qualifiche – che, come segnalano anche i dati di Almalaurea per quanto riguarda le giovani laureate, iniziano prima ancora che le donne formino una famiglia. Se poi sono lavoratrici “flessibili”, si trovano spesso costrette a considerare una possibile gravidanza come un rischio professionale che non possono permettersi.
Molte donne ancora oggi abbandonano il lavoro per motivi familiari, perché non ce la fanno a tenere il ritmo del doppio lavoro, spesso accompagnato da pressioni e vessazioni più o meno sottili sia in casa (perché “trascurano la famiglia”) sia sul lavoro (perché “hanno la testa altrove”). Soprattutto se sono a bassa qualifica e vivono al Sud, la maggior parte delle donne, anche giovani, non entra neppure nel mercato del lavoro, o viene scoraggiata presto dal presentarsi. Costituiscono la stragrande maggioranza dei “Neet”: dei giovani che né studiano né lavorano per il mercato.
Costituiscono anche la grande maggioranza sia dei lavoratori scoraggiati sia dei disoccupati invisibili: di coloro che vorrebbero lavorare, ma non cercano più, e di coloro che, pur dichiarandosi non forze di lavoro, di fatto si arrabattano tra un lavoretto e l´altro. Un rapporto Svimez uscito in questi giorni stima che queste due figure coinvolgono oltre un milione di donne nel Mezzogiorno, portando il tasso di disoccupazione femminile effettivo al 30,6%, il doppio di quello ufficiale.
L´Italia è uno dei paesi sviluppati con un divario di genere tra i più alti a tutti i livelli: nei tassi di partecipazione al mercato del lavoro, nel divario salariale a parità di titolo di studio e di mansione, nelle possibilità di carriera, nella presenza nei luoghi di presa di decisione, quindi nel potere, nella divisione del lavoro familiare.
È un divario aggravato dalle disuguaglianze sia territoriali che di istruzione. Anche questo è uno spread di cui ci si dovrebbe preoccupare ai fini non solo dell´equità, ma dello sviluppo. Credo che i suoi effetti negativi siano almeno altrettanto gravi, se non peggiori e con effetti di più lungo periodo, di quelli dello spread con i bond tedeschi.

La Repubblica 20.02.12

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“Perché conviene investire sulle donne”, di CINZIA SASSO

L´uovo di Colombo sta lì, nascosto nei testi che riempiono gli scaffali delle librerie e che finalmente sono usciti dalle loro nicchie protette per finire nelle vetrine: fate lavorare le donne e metterete le ali al Paese. Sta nelle ricerche e nei numeri che prestigiose istituzioni – prima fra tutte la Banca d´Italia – ripetono: se quel famoso impegno preso a Lisbona, il 60 per cento delle donne occupate, diventasse realtà, in Italia il Pil salirebbe del 7 per cento. Sta nei titoli dei convegni ai quali partecipano con convinti cenni di assenso ministre e ministri.
l´ultimo, a Roma, quello dell´associazione Valore D che nella promozione delle donne ai più alti livelli di responsabilità ha coinvolto oltre cinquanta grandi aziende e che instancabilmente batte il chiodo sui benefici della diversity.
E se qualcuno prova a contrastare l´inesorabile avanzata delle donne al lavoro sventolando la triste bandiera della crisi economica, ecco pronta la risposta: abbiate coraggio e lanciate il pink new deal. Sono tre donne, Daniela Del Boca, Letizia Mencarini e Silvia Pasqua – autorevoli studiose di economia e demografia – a confezionare l´ultima provocazione sotto forma di un libro dal titolo inequivocabile: «Valorizzare le donne conviene», edizioni Il Mulino. Propongono una versione riveduta e corretta del roosveltiano New Deal, il piano che permise all´America sfiancata dalla grande depressione di tornare a essere la guida del mondo. Scrivono: un maggior numero di occupate aumenterebbe le entrate fiscali e previdenziali; la crescita dell´occupazione femminile stimolerebbe una maggiore domanda di servizi con un effetto sul prodotto interno lordo; più donne al lavoro ridurrebbe il rischio di povertà delle famiglie. Insomma, l´uovo di Colombo.
Solo parole? No. La questione è sotterrata di numeri. Per ogni cento posti di lavoro affidati a una donna, si metterebbe in azione un circuito virtuoso che crea 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi. Se la percentuale di donne impiegate raggiungesse quella degli uomini (dunque oltre il 60% dell´obiettivo di Lisbona), una ricerca della Goldman Sachs sostiene che gli aumenti del Pil arriverebbero fino al 13% nell´Eurozona, fino al 16% in Giappone e fino al 22% nella nostra piccola Italia. A parere della Business School dell´università di Leeds, invece, se c´è almeno una donna in un consiglio di amministrazione, le probabilità che l´impresa sia posta in liquidazione forzata diminuiscono del 20%. E nel suo Women Matter, la McKinsey calcola che nel 2040 mancheranno all´appello 24 milioni di posti di lavoro e che se le donne saranno assunte la cifra scenderà a 3.
Il fatto è che le donne trovano ancora sulla loro strada ostacoli insormontabili. Anzi: la marcia verso la parità nel mondo del lavoro sembra inceppata, se è vero che dal 2000 ad oggi, complice la congiuntura economica, la percentuale di donne occupate è diminuita di 2 punti, passando dal 48 al 46. Come se quella che è una questione fondamentale per il Paese fosse invece ritenuta una robetta da donne. Il fatto è che in Italia, la rivoluzione silenziosa delle donne è anche una rivoluzione tradita. Dice Letizia Mencarini: «Rispetto al resto d´Europa, l´Italia negli ultimi quindici anni si è come fermata. Spagna, Francia, Germania, hanno visto le donne guadagnare posizioni, noi invece abbiamo di fronte una doppia strettoia». Difficile, tanto più oggi, in tempi cupi, entrare nel mercato del lavoro; e difficile, oggi come ieri, conciliare i ruoli familiari e quelli lavorativi.
In Italia succede ancora che, se anche cresce il lavoro, non si salgono i gradini della carriera; che l´aumento del part time, invece che in una facilitazione, si trasformi in una trappola che ti inchioda a ruoli marginali; che il primo impegno resti comunque quello casalingo. Del Boca la chiama «segregazione verticale» e dice che tipici esempi sono i settori della sanità e dell´istruzione. Nel 2009, nel Servizio Sanitario Nazionale, il 63 % degli occupati erano donne, ma tra i medici erano il 37 e il 77 del personale infermieristico. Nella scuola le donne erano il 78 % (con punte che sfioravano il 90 nelle scuole d´infanzia) e però le dirigenti poco più del 37. Perché, se pure le donne ormai si laureano di più e prima degli uomini, quello che rimane fermo – salvo interessanti ma rari casi che fanno notizia – è l´equilibrio dei ruoli interno alla famiglia. E la mamma, nel vissuto italiano, è sempre la mamma. L´unica in grado di occuparsi dei figli, di riempire il frigo e di preparare il risotto. Quasi incredibile, eppure il 76 % degli uomini (e il 74 delle donne) ritiene che un bambino piccolo soffra se la mamma lavora. In Svezia sono il 25 %.
A proposito di rivoluzioni interrotte: se la prima, quella dell´istruzione, è quasi pienamente compiuta; la seconda, quella del lavoro, negli ultimi vent´anni si è inceppata; la terza, quella culturale, è tutta da compiere se è vero resistono pregiudizi del tipo che le donne che lavorano sono madri peggiori, che i loro figli vanno peggio a scuola, che le stesse, schiacciate dal doppio ruolo, sono infelici. Assunta Sarlo, fondatrice del movimento Usciamo dal silenzio, vede chiari e scuri: «Da una parte c´è un Paese, ancora fortemente influenzato dalla Chiesa cattolica, che resiste al cambiamento; dall´altra c´è uno straordinario impegno delle donne nel rompere gli schemi». E così, sabato, a Milano, centinaia di donne si sono ritrovate a parlare della rivoluzione possibile e il 3 e 4 marzo, a Bologna, il network di Se non ora quando, discuterà di «Vita, lavoro, non lavoro» delle donne. Tanto da far dire a Lea Melandri, 40 anni di femminismo alle spalle, che «c´è davvero qualcosa di nuovo».
Ci sarebbero anche, scrivono le autrici di «Valorizzare le donne conviene», delle cose concrete da fare. Perché fin qui, nemmeno il nuovo governo ha mosso passi decisi nella direzione del pink new deal. E, per cominciare, invece che aiutare, ha penalizzato le donne. Dunque, proprio all´Università di Torino, la stessa del ministro (o bisogna dire ministra?) Fornero, hanno elaborato una lista di interventi da fare. Dall´indirizzare le donne verso studi scientifici con borse di studio dedicate, come accade in America (e anche nella Regione Toscana) a favorire dal punto di vista fiscale chi assume le donne. Dall´incentivare l´offerta di lavoro femminile, così come raccomandato da Mario Draghi, quand´era governatore della Banca d´Italia a cancellare la norma sulle dimissioni bianco (che colpisce soprattutto le mamme) a trasformare il part time e la flessibilità in un´occasione per tutti, dipendenti e aziende. Dallo studiare politiche di conciliazione aziendale all´investire – e non tagliare – nei servizi di cura per i bambini.
E ancora: introdurre un credito di imposta per le retribuzioni più basse (che sono quasi sempre quelle delle donne); far comprendere alle imprese che la maternità è un costo irrisorio e che quindi non c´è da averne paura. Poi: prevedere sgravi fiscali per chi assume personale femminile, concedere incentivi all´imprenditoria in rosa, prevedere le quote di genere ai vertici delle aziende, far diventare obbligatorio il congedo di paternità. Agire, insomma, sulle leve fiscali, sulle quote riservate e sulla cultura. Un programma realistico, in un momento di tagli e di crisi? Di più: indispensabile per aiutare l´Italia a risalire la china. Mencarini e Del Boca non hanno dubbi: «Queste misure sono un investimento per il futuro, perché valorizzare le donne conviene a tutti».

La Repubblica 20.02.12

"La cura Monti e il malessere dei partiti", di Marcello Sorgi

Proverbiale e convenzionale quanto si vuole, la scadenza dei primi cento giorni di governo nella prossima settimana non sarà affatto un’occasione rituale. Non perché già sia tempo di bilanci, tutt’altro. Ma perché, è quasi inutile ripeterlo, quello di Monti è un esecutivo diverso da tutti i precedenti del vasto catalogo di formule ed espedienti sperimentati in oltre sessant’anni. E dopo il Berlusconi I del 1994, per non andare troppo indietro nel tempo, è senz’altro quello che ha portato il maggior tasso di discontinuità con il passato, quasi che con Monti sia morta la Seconda Repubblica e sia cominciata, o stia per partire, la Terza.

Sull’importanza delle novità introdotte fin qui, non c’è dubbio. Basti solo pensare al punto in cui eravamo poco più di tre mesi fa: dopo la rottura della maggioranza di centrodestra, a soli due anni e mezzo dalle elezioni, la legislatura si era avvitata su se stessa e il governo del Cavaliere boccheggiava, appeso a un’esigua manciata di voti negoziati uno per uno con i transfughi di diversi partiti, dall’Udc di Casini all’Idv di Di Pietro, senza riuscire a realizzare né il proprio programma, né le necessarie scelte di rigore imposte dalla crisi dell’euro. In una guerriglia quotidiana di tutti contro tutti Berlusconi versus Tremonti, o Bossi, o addirittura Scilipoti e Romano, quando non vittima delle faide intestine del suo stesso partito – il governo era paralizzato dai suoi problemi più che dalla durezza dell’opposizione.

L’agonia di un intero anno e la crescente incapacità di far fronte all’emergenza economica avevano posto l’Italia in una posizione simile, se non più grave, di quella dei Paesi europei «sorvegliati speciali» e «a rischio default»: la minaccia di vedere il nostro Paese «finire come la Grecia» era ormai all’ordine del giorno dei frequenti vertici dell’Unione a Bruxelles. Inoltre, in una cornice come questa, un’incredibile prorompente follia faceva sì che, sullo sfondo di una generale impotenza, politici di ogni partito e ogni grado si scontrassero tutte le sere in tv, dando la sensazione dell’irrimediabile divisione della classe dirigente e del suo senso di irresponsabilità.

Cento giorni dopo il quadro è talmente cambiato che il ricordo della gran confusione italiana sembra ormai perduto in un tempo lontano, molto più lungo di quello trascorso realmente. La «cura Monti» si è caratterizzata dal primo giorno per il completo capovolgimento di cattive e consolidate abitudini e il ricorso all’innovazione: zero propaganda, competenza, obiettivi e strumenti chiari, un pacchetto di riforme indispensabili per essere riabilitati in Europa. E poco importa nel senso che Monti non ha mai dato segno di curarsene – che queste stesse riforme siano state descritte «di destra» o «di sinistra» dagli stessi partiti che sostengono il governo. Il presidente del Consiglio s’è mosso allo stesso modo, sia quando si trovava ad affrontare le resistenze di Bersani e del Pd sulle pensioni, sia quando emergevano quelle berlusconiane e del Pdl sugli inasprimenti fiscali e sul ritorno dell’Ici sulla prima casa. Monti ha saputo alternare l’urgenza dei decreti «salva-Italia» e «cresci-Italia», con la pazienza adoperata con i sindacati sull’articolo 18 e la riforma del mercato del lavoro, e la prudenza usata, al termine di una lunga istruttoria, per dire «no» alla candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2020. La credibilità riconquistata dall’Italia in Europa e nel mondo è frutto di questo metodo e di queste decisioni.

Sarebbe però un grave errore considerare tutto ciò effetto della «tecnicità» di un esecutivo che, diversamente da quelli politici, non deve rispondere agli elettori. Anche se questo è un vantaggio innegabile, specie quando si tratta di imporre sacrifici ai cittadini, la più grande sorpresa di Monti consiste nell’inattesa trasformazione politica sua e del suo governo. Un governo che fa le riforme che i suoi predecessori avevano solo enunciato e su cui avevano visto frantumarsi le loro opposte maggioranze. Un governo che è in grado di ridefinire sul piano della chiarezza e del rispetto reciproco le sue relazioni internazionali, si tratti dell’Europa, degli Usa o del delicato contenzioso sull’Ici con il Vaticano. Un governo che discute con sindacati e Confindustria, tratta quando può e quando è necessario, ma alla fine, con o senza accordo al tavolo delle parti sociali, decide entro le scadenze.

A malincuore, è di questo che hanno preso atto i leader dei partiti, di maggioranza e di opposizione. I primi, imbarazzati dal trovarsi a collaborare dopo un ventennio di dure contrapposizioni, all’ inizio lo facevano in modo carbonaro, incontrandosi di nascosto e passando da entrate secondarie. Ma hanno finito col rendersi conto che hanno solo da guadagnare a offrire un sostegno aperto e leale a chi è in grado di realizzare le riforme che loro non erano stati in grado di fare. E i secondi, subito lanciati all’assalto e convinti che il «no» ai sacrifici li avrebbe resi più popolari tra le fasce deboli dell’elettorato, hanno dovuto pian piano modulare la loro azione di contrasto, rassegnandosi a interloquire, e in qualche caso condividere, le iniziative del governo.

In prospettiva quel che resta da capire, se come sembra l’orizzonte temporale di Monti è destinato ad allungarsi, non solo alle elezioni del 2013, ma anche oltre, è quali potrebbero essere le conseguenze della nuova fase per i partiti terremotati dall’avvento dei tecnici. Se si considera che il rapporto con l’opinione pubblica era già fortemente compromesso prima ancora dell’arrivo di Monti, non si può escludere che di qui a un anno l’attuale classe politica sia da rottamare in blocco. D’altra parte, se Berlusconi non perde occasione per ripetere che ha deciso di passare la mano, vuol dire che in questo senso affiorano dubbi, non solo nella mente del Cavaliere, fondatore e uomo simbolo della Seconda Repubblica, ma in tutta la prima fila dei leader di questa lunga stagione al tramonto. Sta a loro rassegnarsi a farsi da parte, o provare a riaccreditarsi. Tentativo difficile, ma non necessariamente impossibile, anche se ad alto costo. Si tratta di capire, infatti, che, lungi dal rappresentare un problema, Monti, per la politica italiana grande ammalata, può rivelarsi una vera opportunità.

La Stampa 20.02.12

“La cura Monti e il malessere dei partiti”, di Marcello Sorgi

Proverbiale e convenzionale quanto si vuole, la scadenza dei primi cento giorni di governo nella prossima settimana non sarà affatto un’occasione rituale. Non perché già sia tempo di bilanci, tutt’altro. Ma perché, è quasi inutile ripeterlo, quello di Monti è un esecutivo diverso da tutti i precedenti del vasto catalogo di formule ed espedienti sperimentati in oltre sessant’anni. E dopo il Berlusconi I del 1994, per non andare troppo indietro nel tempo, è senz’altro quello che ha portato il maggior tasso di discontinuità con il passato, quasi che con Monti sia morta la Seconda Repubblica e sia cominciata, o stia per partire, la Terza.

Sull’importanza delle novità introdotte fin qui, non c’è dubbio. Basti solo pensare al punto in cui eravamo poco più di tre mesi fa: dopo la rottura della maggioranza di centrodestra, a soli due anni e mezzo dalle elezioni, la legislatura si era avvitata su se stessa e il governo del Cavaliere boccheggiava, appeso a un’esigua manciata di voti negoziati uno per uno con i transfughi di diversi partiti, dall’Udc di Casini all’Idv di Di Pietro, senza riuscire a realizzare né il proprio programma, né le necessarie scelte di rigore imposte dalla crisi dell’euro. In una guerriglia quotidiana di tutti contro tutti Berlusconi versus Tremonti, o Bossi, o addirittura Scilipoti e Romano, quando non vittima delle faide intestine del suo stesso partito – il governo era paralizzato dai suoi problemi più che dalla durezza dell’opposizione.

L’agonia di un intero anno e la crescente incapacità di far fronte all’emergenza economica avevano posto l’Italia in una posizione simile, se non più grave, di quella dei Paesi europei «sorvegliati speciali» e «a rischio default»: la minaccia di vedere il nostro Paese «finire come la Grecia» era ormai all’ordine del giorno dei frequenti vertici dell’Unione a Bruxelles. Inoltre, in una cornice come questa, un’incredibile prorompente follia faceva sì che, sullo sfondo di una generale impotenza, politici di ogni partito e ogni grado si scontrassero tutte le sere in tv, dando la sensazione dell’irrimediabile divisione della classe dirigente e del suo senso di irresponsabilità.

Cento giorni dopo il quadro è talmente cambiato che il ricordo della gran confusione italiana sembra ormai perduto in un tempo lontano, molto più lungo di quello trascorso realmente. La «cura Monti» si è caratterizzata dal primo giorno per il completo capovolgimento di cattive e consolidate abitudini e il ricorso all’innovazione: zero propaganda, competenza, obiettivi e strumenti chiari, un pacchetto di riforme indispensabili per essere riabilitati in Europa. E poco importa nel senso che Monti non ha mai dato segno di curarsene – che queste stesse riforme siano state descritte «di destra» o «di sinistra» dagli stessi partiti che sostengono il governo. Il presidente del Consiglio s’è mosso allo stesso modo, sia quando si trovava ad affrontare le resistenze di Bersani e del Pd sulle pensioni, sia quando emergevano quelle berlusconiane e del Pdl sugli inasprimenti fiscali e sul ritorno dell’Ici sulla prima casa. Monti ha saputo alternare l’urgenza dei decreti «salva-Italia» e «cresci-Italia», con la pazienza adoperata con i sindacati sull’articolo 18 e la riforma del mercato del lavoro, e la prudenza usata, al termine di una lunga istruttoria, per dire «no» alla candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2020. La credibilità riconquistata dall’Italia in Europa e nel mondo è frutto di questo metodo e di queste decisioni.

Sarebbe però un grave errore considerare tutto ciò effetto della «tecnicità» di un esecutivo che, diversamente da quelli politici, non deve rispondere agli elettori. Anche se questo è un vantaggio innegabile, specie quando si tratta di imporre sacrifici ai cittadini, la più grande sorpresa di Monti consiste nell’inattesa trasformazione politica sua e del suo governo. Un governo che fa le riforme che i suoi predecessori avevano solo enunciato e su cui avevano visto frantumarsi le loro opposte maggioranze. Un governo che è in grado di ridefinire sul piano della chiarezza e del rispetto reciproco le sue relazioni internazionali, si tratti dell’Europa, degli Usa o del delicato contenzioso sull’Ici con il Vaticano. Un governo che discute con sindacati e Confindustria, tratta quando può e quando è necessario, ma alla fine, con o senza accordo al tavolo delle parti sociali, decide entro le scadenze.

A malincuore, è di questo che hanno preso atto i leader dei partiti, di maggioranza e di opposizione. I primi, imbarazzati dal trovarsi a collaborare dopo un ventennio di dure contrapposizioni, all’ inizio lo facevano in modo carbonaro, incontrandosi di nascosto e passando da entrate secondarie. Ma hanno finito col rendersi conto che hanno solo da guadagnare a offrire un sostegno aperto e leale a chi è in grado di realizzare le riforme che loro non erano stati in grado di fare. E i secondi, subito lanciati all’assalto e convinti che il «no» ai sacrifici li avrebbe resi più popolari tra le fasce deboli dell’elettorato, hanno dovuto pian piano modulare la loro azione di contrasto, rassegnandosi a interloquire, e in qualche caso condividere, le iniziative del governo.

In prospettiva quel che resta da capire, se come sembra l’orizzonte temporale di Monti è destinato ad allungarsi, non solo alle elezioni del 2013, ma anche oltre, è quali potrebbero essere le conseguenze della nuova fase per i partiti terremotati dall’avvento dei tecnici. Se si considera che il rapporto con l’opinione pubblica era già fortemente compromesso prima ancora dell’arrivo di Monti, non si può escludere che di qui a un anno l’attuale classe politica sia da rottamare in blocco. D’altra parte, se Berlusconi non perde occasione per ripetere che ha deciso di passare la mano, vuol dire che in questo senso affiorano dubbi, non solo nella mente del Cavaliere, fondatore e uomo simbolo della Seconda Repubblica, ma in tutta la prima fila dei leader di questa lunga stagione al tramonto. Sta a loro rassegnarsi a farsi da parte, o provare a riaccreditarsi. Tentativo difficile, ma non necessariamente impossibile, anche se ad alto costo. Si tratta di capire, infatti, che, lungi dal rappresentare un problema, Monti, per la politica italiana grande ammalata, può rivelarsi una vera opportunità.

La Stampa 20.02.12

"Di sovrano in Europa c´è solo il debito", di Jean-Paul Fitoussi

Al principio fu la crisi finanziaria (2007-2008), le cui reali conseguenze si fecero sentire, come sempre in casi del genere, sull´attività e sull´occupazione, attraverso il crollo della domanda globale. La comunità internazionale, mobilitata dalle riunioni del G20, reagì giustamente, utilizzando tutti i mezzi per sostenere la domanda: politica monetaria espansiva e non convenzionale, rilancio budgetario.
Fu grazie a questa reazione che il mondo evitò di sprofondare nella depressione. A posteriori, l´equazione si comprende facilmente. Per vari anni i mercati finanziari avevano sopravvalutato gli attivi, e incitato le famiglie e le imprese a indebitarsi. Quando i prezzi sono tornati a toccare terra, il settore privato si è reso improvvisamente conto di essersi indebitato oltre misura, dato che il valore del suo debito era rimasto immutato, mentre quello delle rispettive contropartite (azioni, immobiliare ecc.) stava crollando. Non c´era altra scelta che rientrare dal debito: per le famiglie riducendo i consumi, e per le imprese attraverso tagli di investimenti e manodopera. Ora, gli aggiustamenti di ognuna di queste due categorie si ripercuotono sull´altra, costringendola a ridurre ulteriormente la spesa. Le imprese sono costrette, dopo un adeguamento iniziale (dovuto ai consuntivi in calo) a procedere a nuovi adeguamenti, a fronte del restringimento dei loro sbocchi; e al tempo stesso l´aumento della disoccupazione induce le famiglie a una sempre maggior parsimonia, sia per necessità, sia a titolo preventivo. Occorreva dunque rompere questa spirale depressiva, come si è fatto, con massicci interventi pubblici, i soli in grado di porre termine alla serie degli aggiustamenti al ribasso. Così l´aumento della spesa pubblica (deficit budgetario) ha compensato ovunque il maggior risparmio privato.
Ma il processo di rientro dal debito del settore privato è lungo e doloroso, costellato di fallimenti, delocalizzazioni, strette del credito e perdita di proventi fiscali. I governi devono mantenere i nervi saldi davanti all´aumento del debito pubblico (di 30 punti del Pil negli Stati Uniti, e “soltanto” di 16 punti del Pil in Europa), per non cedere a loro volta alla tentazione di un rientro troppo precipitoso dal debito. Ma dovrebbe essere liberi di farlo. E non è così in Europa, dove se i debiti sono sovrani, la moneta non ha sovrano. La frammentazione del debito europeo in altrettanti debiti nazionali non protetti da una banca centrale spalanca le porte all´arbitrio dei mercati, pronti a discriminarli a seconda della valutazione dei rispettivi rischi. Da qui l´importanza che hanno assunto da noi gli istituti di valutazione, cioè le agenzie di rating, pure pressoché inudibili in altri contesti (Stati Uniti, Giappone, Regno Unito). Alla crisi europea viene così ad aggiungersi una crisi dei debiti sovrani, che induce gli stati membri a un´austerità ancora maggiore.
In mancanza di un accordo per “riparare” la Costituzione europea – facendo della Bce una banca centrale a pieno titolo e mutualizzando il debito, per rendere impossibile l´arbitraggio dei mercati (così come a suo tempo la moneta unica – la mutualizzazione delle monete – aveva posto fine alla speculazione sui tassi di cambio intra-europei) – nel quadro dei Trattati attuali gli Stati europei sono inoltre costretti al rientro dal debito. E qui hanno origine i timori di una recessione europea.
Ma nessun governo può imbarcarsi in una strategia senza speranza. Bisogna allora volgere un male in bene, e sforzarsi di trovare nelle costrizioni che ci troviamo a subire i mezzi per fare qualcosa di utile: riforme a costo zero, in grado di rafforzare le economie nazionali per renderle più competitive; puntare sulla produzione francese, greca, italiana, portoghese, spagnola ecc., nella speranza di vendere in altri Paesi, non potendo contare su una domanda interna doppiamente imbrigliata, da un lato dalla prosecuzione del rientro dal debito privato, e dall´altro dal maggior prelievo fiscale e dai tagli alla spesa pubblica e sociale per ridurre il debito pubblico. Il concetto di competitività rimane però relativo, e le politiche volte ad accrescerla non possono riuscire tutte simultaneamente: per alcuni la guerra commerciale porterà inevitabilmente a una sconfitta. La frammentazione dei debiti conduce così a un´altra frammentazione, quella delle politiche, a tutto danno dell´interesse generale europeo. La generalizzazione del rigore riduce gli sbocchi in Europa: un presupposto quanto mai negativo per l´incremento delle esportazioni di ciascun Paese. Certo, una maggior competitività potrebbe consentire all´Europa di conquistare spazi in altre regioni del mondo, le quali però dispongono di un´arma per contrastarla: quella del deprezzamento del tasso di cambio.
In altri termini, l´aumento della produzione (cioè dell´offerta) ha bisogno di sbocchi per divenire effettiva. Ora, eravamo partiti dalla constatazione del deficit della domanda. Questo testa – coda delle strategie europee – lottare contro un´insufficienza della domanda attraverso una politica di austerità, con il fine di aumentare l´offerta – è, quanto meno, enigmatico. Il Pil dell´Eurozona resta tuttora inferiore di un punto a quello del 2008. E cosa ci riserva il futuro? Si potrebbe arguire che a lungo termine una politica dell´offerta potrà dimostrarsi benefica. Ciò è indiscutibile – ma a condizione che consenta di aumentare il capitale delle nazioni e di accrescerne la produttività. Ora, l´austerità in periodo di crisi porta alla distruzione di capitale umano (disoccupazione, precarietà, esclusione). E sebbene non siamo in grado di misurare questo capitale, esso rappresenta una determinante essenziale ai fini dell´offerta produttiva presente e futura. Ecco perché le politiche dell´offerta e della domanda sono così intricate e difficili. Se oggi è necessario ridurre l´indebitamento degli Stati, il rientro non può avvenire a discapito della crescita potenziale di domani. Solo grazie a politiche di investimento, volte ad alimentare la domanda di oggi e a promuovere l´offerta di domani, si potrà far uscire l´Europa dal circolo recessivo in cui si trova. Ma come si fa ad aumentare la produzione e migliorarne la qualità senza investire?
Nel 1929, all´indomani della crisi, il governo britannico pubblicò un libro bianco noto sotto il nome di The Treasury View, nel quale si affermava in sostanza che una politica di investimenti pubblici non avrebbe avuto altro effetto che quello di degradare le finanze dello Stato, mentre una buona gestione poteva fondarsi solo sull´equilibrio budgetario. Si sa com´è andata a finire. A otto decenni di distanza, l´Europa si riallinea a quella stessa opinione. La quale però, fortunatamente, stavolta non è condivisa dal resto del mondo!
Traduzione di Elisabetta Horvat

La Repubblica 20.02.12

“Di sovrano in Europa c´è solo il debito”, di Jean-Paul Fitoussi

Al principio fu la crisi finanziaria (2007-2008), le cui reali conseguenze si fecero sentire, come sempre in casi del genere, sull´attività e sull´occupazione, attraverso il crollo della domanda globale. La comunità internazionale, mobilitata dalle riunioni del G20, reagì giustamente, utilizzando tutti i mezzi per sostenere la domanda: politica monetaria espansiva e non convenzionale, rilancio budgetario.
Fu grazie a questa reazione che il mondo evitò di sprofondare nella depressione. A posteriori, l´equazione si comprende facilmente. Per vari anni i mercati finanziari avevano sopravvalutato gli attivi, e incitato le famiglie e le imprese a indebitarsi. Quando i prezzi sono tornati a toccare terra, il settore privato si è reso improvvisamente conto di essersi indebitato oltre misura, dato che il valore del suo debito era rimasto immutato, mentre quello delle rispettive contropartite (azioni, immobiliare ecc.) stava crollando. Non c´era altra scelta che rientrare dal debito: per le famiglie riducendo i consumi, e per le imprese attraverso tagli di investimenti e manodopera. Ora, gli aggiustamenti di ognuna di queste due categorie si ripercuotono sull´altra, costringendola a ridurre ulteriormente la spesa. Le imprese sono costrette, dopo un adeguamento iniziale (dovuto ai consuntivi in calo) a procedere a nuovi adeguamenti, a fronte del restringimento dei loro sbocchi; e al tempo stesso l´aumento della disoccupazione induce le famiglie a una sempre maggior parsimonia, sia per necessità, sia a titolo preventivo. Occorreva dunque rompere questa spirale depressiva, come si è fatto, con massicci interventi pubblici, i soli in grado di porre termine alla serie degli aggiustamenti al ribasso. Così l´aumento della spesa pubblica (deficit budgetario) ha compensato ovunque il maggior risparmio privato.
Ma il processo di rientro dal debito del settore privato è lungo e doloroso, costellato di fallimenti, delocalizzazioni, strette del credito e perdita di proventi fiscali. I governi devono mantenere i nervi saldi davanti all´aumento del debito pubblico (di 30 punti del Pil negli Stati Uniti, e “soltanto” di 16 punti del Pil in Europa), per non cedere a loro volta alla tentazione di un rientro troppo precipitoso dal debito. Ma dovrebbe essere liberi di farlo. E non è così in Europa, dove se i debiti sono sovrani, la moneta non ha sovrano. La frammentazione del debito europeo in altrettanti debiti nazionali non protetti da una banca centrale spalanca le porte all´arbitrio dei mercati, pronti a discriminarli a seconda della valutazione dei rispettivi rischi. Da qui l´importanza che hanno assunto da noi gli istituti di valutazione, cioè le agenzie di rating, pure pressoché inudibili in altri contesti (Stati Uniti, Giappone, Regno Unito). Alla crisi europea viene così ad aggiungersi una crisi dei debiti sovrani, che induce gli stati membri a un´austerità ancora maggiore.
In mancanza di un accordo per “riparare” la Costituzione europea – facendo della Bce una banca centrale a pieno titolo e mutualizzando il debito, per rendere impossibile l´arbitraggio dei mercati (così come a suo tempo la moneta unica – la mutualizzazione delle monete – aveva posto fine alla speculazione sui tassi di cambio intra-europei) – nel quadro dei Trattati attuali gli Stati europei sono inoltre costretti al rientro dal debito. E qui hanno origine i timori di una recessione europea.
Ma nessun governo può imbarcarsi in una strategia senza speranza. Bisogna allora volgere un male in bene, e sforzarsi di trovare nelle costrizioni che ci troviamo a subire i mezzi per fare qualcosa di utile: riforme a costo zero, in grado di rafforzare le economie nazionali per renderle più competitive; puntare sulla produzione francese, greca, italiana, portoghese, spagnola ecc., nella speranza di vendere in altri Paesi, non potendo contare su una domanda interna doppiamente imbrigliata, da un lato dalla prosecuzione del rientro dal debito privato, e dall´altro dal maggior prelievo fiscale e dai tagli alla spesa pubblica e sociale per ridurre il debito pubblico. Il concetto di competitività rimane però relativo, e le politiche volte ad accrescerla non possono riuscire tutte simultaneamente: per alcuni la guerra commerciale porterà inevitabilmente a una sconfitta. La frammentazione dei debiti conduce così a un´altra frammentazione, quella delle politiche, a tutto danno dell´interesse generale europeo. La generalizzazione del rigore riduce gli sbocchi in Europa: un presupposto quanto mai negativo per l´incremento delle esportazioni di ciascun Paese. Certo, una maggior competitività potrebbe consentire all´Europa di conquistare spazi in altre regioni del mondo, le quali però dispongono di un´arma per contrastarla: quella del deprezzamento del tasso di cambio.
In altri termini, l´aumento della produzione (cioè dell´offerta) ha bisogno di sbocchi per divenire effettiva. Ora, eravamo partiti dalla constatazione del deficit della domanda. Questo testa – coda delle strategie europee – lottare contro un´insufficienza della domanda attraverso una politica di austerità, con il fine di aumentare l´offerta – è, quanto meno, enigmatico. Il Pil dell´Eurozona resta tuttora inferiore di un punto a quello del 2008. E cosa ci riserva il futuro? Si potrebbe arguire che a lungo termine una politica dell´offerta potrà dimostrarsi benefica. Ciò è indiscutibile – ma a condizione che consenta di aumentare il capitale delle nazioni e di accrescerne la produttività. Ora, l´austerità in periodo di crisi porta alla distruzione di capitale umano (disoccupazione, precarietà, esclusione). E sebbene non siamo in grado di misurare questo capitale, esso rappresenta una determinante essenziale ai fini dell´offerta produttiva presente e futura. Ecco perché le politiche dell´offerta e della domanda sono così intricate e difficili. Se oggi è necessario ridurre l´indebitamento degli Stati, il rientro non può avvenire a discapito della crescita potenziale di domani. Solo grazie a politiche di investimento, volte ad alimentare la domanda di oggi e a promuovere l´offerta di domani, si potrà far uscire l´Europa dal circolo recessivo in cui si trova. Ma come si fa ad aumentare la produzione e migliorarne la qualità senza investire?
Nel 1929, all´indomani della crisi, il governo britannico pubblicò un libro bianco noto sotto il nome di The Treasury View, nel quale si affermava in sostanza che una politica di investimenti pubblici non avrebbe avuto altro effetto che quello di degradare le finanze dello Stato, mentre una buona gestione poteva fondarsi solo sull´equilibrio budgetario. Si sa com´è andata a finire. A otto decenni di distanza, l´Europa si riallinea a quella stessa opinione. La quale però, fortunatamente, stavolta non è condivisa dal resto del mondo!
Traduzione di Elisabetta Horvat

La Repubblica 20.02.12