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"Va di moda uccidere le donne", di Valeria Abate

Di solito a botte o a coltellate, quasi sempre per mano di mariti, fidanzati o ex. In Italia c’è una vittima ogni tre giorni, e va sempre peggio. Se Laura sappia o meno che l’omicidio è la causa principale di morte per le donne, non glielo leggi in faccia. Quello che vedi chiaramente invece, mentre racconta l’incubo di quasi dieci anni di violenze subite da parte del marito, è il sollievo per esserne uscita. Perché, alla fine, quel che resta non sono le botte, ma la consapevolezza di essersi ripresi la propria vita.

Certo, c’è pure la paura che l’epilogo della storia potesse essere diverso, come è stato per Stefania Noce, attivista 24enne di “Se Non Ora Quando” di Catania, accoltellata dal fidanzato che non si rassegnava ad essere ex. Anche per Maura Carta le cose sono andate diversamente, presa a pugni fino ad essere uccisa dal figlio schizofrenico, una delle 19 vittime dall’inizio dell’anno al 15 febbraio.

E se i numeri sono questi, non c’è da aspettarsi niente di buono per il 2012, “considerando anche il fatto – sottolinea Cristina Karadole dell’associazione Casa Delle Donne Per Non Subire Violenza – che è dal 2006 che l’elenco dei femicidi aumenta costantemente, superando la media di 120 l’anno”.

Omicidi che lasciano la scia di storie tutte diverse tra loro, eppure tutte uguali: violenze fisiche e psicologiche come copione fisso di una vita, che vorrebbero rimettere in riga la donna che ha osato troppo. “E’ così che succede – spiega Laura -, ti spengono poco a poco: prima ti fanno sentire una nullità, ti umiliano anche davanti agli altri, ti privano del tuo stipendio. Poi arrivano i cazzotti, e ti illudi che quella sia l’ultima volta”. E non sarà un caso – fanno notare le associazioni femminili – se la maggiore concentrazione di violenze hanno luogo nel più emancipato nord Italia.

A proposito di associazioni, è grazie a loro se si ha un’idea di quanti omicidi di donne avvengano, perché di dati ufficiali dalla Questura non ce ne sono, tanto per dare la misura di quanto sia considerato il problema. E’ grazie al loro lavoro, per esempio, che si sa che delle 127 donne che hanno perso la vita nel 2010, 114 sono state uccise da membri della famiglia, di cui 68 erano partner della vittima, mentre 29 ex partner. Il che ha delle conseguenze sorprendenti riguardo alcuni luoghi comuni sulle violenze: intanto che avvengono per lo più dentro casa, e non per strada.

E visto il ruolo prezioso che ricoprono associazioni come “La Casa Delle Donne Per Non Subire Violenza” di Bologna, o le romane “Be Free” e “Differenza Donna”, che sono i primi luoghi di assistenza a cui si rivolgono le vittime di maltrattamenti (attraverso i Centri Antiviolenza), si sarebbe portati a pensare che i finanziamenti pubblici trovino sempre la strada per arrivare nelle loro casse. Naturalmente non è così. “Negli ultimi tre anni e mezzo – chiarisce l’on. Rosa Calipari – sono stati tagliati i fondi ai Centri Antiviolenza, salvo poi essere rimessi al loro posto in extremis due giorni prima che cadesse il governo Berlusconi”, con 18 milioni di euro ricomparsi all’improvviso dal cilindro dell’ex ministro Mara Carfagna. E nel frattempo diversi centri hanno dovuto chiudere i battenti, mentre altri si sono dovuti affidare alla buona sorte sperando in donazioni private.

Circostanza quest’ultima che, chissà, potrebbe aver influenzato in qualche modo l’Europa nel giudicare negativamente la condizione femminile in Italia. Ma forse c’entra anche il fatto che, come racconta l’on. Calipari, “il nostro Paese è l’unico non solo a non firmare la convenzione europea che riguarda la battaglia contro la violenza sulle donne, ma anche l’unico a non partecipare in assoluto ai lavori di preparazione della convenzione”.

E quello che è evidente in grande, lo è ancora di più se si analizzano in dettaglio le parti: “Abbiamo il problema”, spiega la Calipari, “di dover formare chi interviene in queste storie di maltrattamenti, quindi gli assistenti sociali, le forze dell’ordine, i magistrati, per affrontare in maniera diversa la violenza di genere”. Perché succede che i casi di violenze non vengano neanche riconosciuti come tali quando si presentano, o che il poliziotto di turno faccia firmare un verbale con la versione edulcorata di ciò che è accaduto realmente dentro le mura domestiche. E conclude: “Quello di questo Paese è un problema culturale, prima di tutto”.

L’Espresso 19.02.12

“Va di moda uccidere le donne”, di Valeria Abate

Di solito a botte o a coltellate, quasi sempre per mano di mariti, fidanzati o ex. In Italia c’è una vittima ogni tre giorni, e va sempre peggio. Se Laura sappia o meno che l’omicidio è la causa principale di morte per le donne, non glielo leggi in faccia. Quello che vedi chiaramente invece, mentre racconta l’incubo di quasi dieci anni di violenze subite da parte del marito, è il sollievo per esserne uscita. Perché, alla fine, quel che resta non sono le botte, ma la consapevolezza di essersi ripresi la propria vita.

Certo, c’è pure la paura che l’epilogo della storia potesse essere diverso, come è stato per Stefania Noce, attivista 24enne di “Se Non Ora Quando” di Catania, accoltellata dal fidanzato che non si rassegnava ad essere ex. Anche per Maura Carta le cose sono andate diversamente, presa a pugni fino ad essere uccisa dal figlio schizofrenico, una delle 19 vittime dall’inizio dell’anno al 15 febbraio.

E se i numeri sono questi, non c’è da aspettarsi niente di buono per il 2012, “considerando anche il fatto – sottolinea Cristina Karadole dell’associazione Casa Delle Donne Per Non Subire Violenza – che è dal 2006 che l’elenco dei femicidi aumenta costantemente, superando la media di 120 l’anno”.

Omicidi che lasciano la scia di storie tutte diverse tra loro, eppure tutte uguali: violenze fisiche e psicologiche come copione fisso di una vita, che vorrebbero rimettere in riga la donna che ha osato troppo. “E’ così che succede – spiega Laura -, ti spengono poco a poco: prima ti fanno sentire una nullità, ti umiliano anche davanti agli altri, ti privano del tuo stipendio. Poi arrivano i cazzotti, e ti illudi che quella sia l’ultima volta”. E non sarà un caso – fanno notare le associazioni femminili – se la maggiore concentrazione di violenze hanno luogo nel più emancipato nord Italia.

A proposito di associazioni, è grazie a loro se si ha un’idea di quanti omicidi di donne avvengano, perché di dati ufficiali dalla Questura non ce ne sono, tanto per dare la misura di quanto sia considerato il problema. E’ grazie al loro lavoro, per esempio, che si sa che delle 127 donne che hanno perso la vita nel 2010, 114 sono state uccise da membri della famiglia, di cui 68 erano partner della vittima, mentre 29 ex partner. Il che ha delle conseguenze sorprendenti riguardo alcuni luoghi comuni sulle violenze: intanto che avvengono per lo più dentro casa, e non per strada.

E visto il ruolo prezioso che ricoprono associazioni come “La Casa Delle Donne Per Non Subire Violenza” di Bologna, o le romane “Be Free” e “Differenza Donna”, che sono i primi luoghi di assistenza a cui si rivolgono le vittime di maltrattamenti (attraverso i Centri Antiviolenza), si sarebbe portati a pensare che i finanziamenti pubblici trovino sempre la strada per arrivare nelle loro casse. Naturalmente non è così. “Negli ultimi tre anni e mezzo – chiarisce l’on. Rosa Calipari – sono stati tagliati i fondi ai Centri Antiviolenza, salvo poi essere rimessi al loro posto in extremis due giorni prima che cadesse il governo Berlusconi”, con 18 milioni di euro ricomparsi all’improvviso dal cilindro dell’ex ministro Mara Carfagna. E nel frattempo diversi centri hanno dovuto chiudere i battenti, mentre altri si sono dovuti affidare alla buona sorte sperando in donazioni private.

Circostanza quest’ultima che, chissà, potrebbe aver influenzato in qualche modo l’Europa nel giudicare negativamente la condizione femminile in Italia. Ma forse c’entra anche il fatto che, come racconta l’on. Calipari, “il nostro Paese è l’unico non solo a non firmare la convenzione europea che riguarda la battaglia contro la violenza sulle donne, ma anche l’unico a non partecipare in assoluto ai lavori di preparazione della convenzione”.

E quello che è evidente in grande, lo è ancora di più se si analizzano in dettaglio le parti: “Abbiamo il problema”, spiega la Calipari, “di dover formare chi interviene in queste storie di maltrattamenti, quindi gli assistenti sociali, le forze dell’ordine, i magistrati, per affrontare in maniera diversa la violenza di genere”. Perché succede che i casi di violenze non vengano neanche riconosciuti come tali quando si presentano, o che il poliziotto di turno faccia firmare un verbale con la versione edulcorata di ciò che è accaduto realmente dentro le mura domestiche. E conclude: “Quello di questo Paese è un problema culturale, prima di tutto”.

L’Espresso 19.02.12

"Dove sono finiti gli adulti", di Massimo Recalcati

I genitori sembrano essersi smarriti nello stesso mare dove ogni giorno si perdono i loro figli senza più nessuna distinzione generazionale. È sempre più difficile crescere in un mondo che sogna l´eterna giovinezza Dai videogame ai social network si è diffuso un modello di società a “responsabilità zero”. Il film americano intitolato Young Adult di Jason Reitman sembra darci – già solo nel titolo – la temperatura della strana febbre che sta colpendo il cosiddetto mondo degli adulti.
Il fenomeno è accecante nella sua evidenza: gli adulti si sono persi. In questo film la loro scomparsa viene celebrata come un miraggio di rigenerazione; l´adulterazione dell´adulto consisterebbe nella sua regressione ad una immaturità testarda, al recupero (impossibile) del tempo passato, ad un rifiuto della responsabilità. La trama è eloquente: una ex-scrittrice divorziata ritorna nel suo paesino del Minesota per riprendere il suo fidanzatino del liceo che nel frattempo si è sposato e ha un figlio senza tener conto in nessun modo della irreversibilità del tempo.
Cosa sta accadendo? Se un adulto è qualcuno che prova assumere le conseguenze dei suoi atti e delle sue parole – è una definizione che mi sento di proporre al di là della sua descrizione anagrafica – , non possiamo che constatare un forte declino della sua presenza nella nostra società. Pensiamo a tutti coloro che investiti di incarichi istituzionali perseguono accanitamente i loro interessi personali anziché servire quelli comuni. Alle figure di Puer che spesso ci hanno governato e che sono diventati dei modelli per l´immaginario. Oppure a quei genitori che anziché sostenersi tra loro nel compito educativo che li impegna lo disertano mostrandosi sempre pronti a difendere le ragioni inconsistenti dei loro figli di fronte agli insegnanti o di fronte alle prime difficoltà che la vita impone. Gli adulti sembrano essersi persi nello stesso mare dove si perdono i loro figli, senza più alcuna distinzione generazionale. La celebre distinzione tra le età della vita che in passato bollava come immaturi anche quei comportamenti che manifestavano semplicemente lo slancio vitale della giovinezza, oggi è saltata: possiamo vestirci a 60 anni come a 30, sognare le stesse cose, consumare gli stessi prodotti, parlare quasi la stessa lingua. A questo appiattimento delle differenze generazionali contribuisce anche un certo uso dei socialnetwork dove i legami che si creano sono spesso a responsabilità zero. L´amicizia è ottenuta attraverso un click; la sua moltiplicazione diviene segno di distinzione. La cultura del videogame ci introduce in un mondo parallelo, artefatto, ad una sorta di oppiaceo tecnologico che confonde l´esistenza con la simulazione. Non è difficile incontrare adulti che come certi adolescenti si mantengono in uno stato di perenne «connessione» con la rete. Senza questa «connessione» la loro vita perderebbe di senso. Per loro la disconnessione – anziché essere una pausa necessaria e salutare – rivela il vuoto di una vita sostenuta da legami artificiali.
Questo nuovo ritratto dell´adulto esalta il mito immortale di Peter Pan, il mito della giovinezza perenne, la retorica di un culto dell´immaturità che propone una felicità spensierata e priva di ogni responsabilità. È una cifra del nostro tempo: «Mio padre – mi confidava desolata una giovane ragazza figlia di genitori separati – non fa altro che correre dietro alle mie amiche e poi chiede di potersi confidare con me!». Insomma, non è che i veri bamboccioni siano gli adulti di oggi più che i loro figli? In questo senso il dialogo di Schettino con il Comandante de Falco ha il valore di un vero e proprio paradigma; non racconta solo uno scontro drammatico tra due uomini in una situazione di grande tensione e pericolo, ma ci segnala una divaricazione interna alla generazione degli adulti tra coloro che assumono il peso dei loro atti e coloro che invece vogliono continuare a giocare con la vita come se fosse una playstation.
Gli esempi potrebbero evidentemente moltiplicarsi ma essi convergono tutti a sottolineare un fatto: la solitudine delle nuove generazioni – che su questo giornale avevo una volta ho paragonato a quella di Telemaco in attesa del ritorno del padre – deriva innanzitutto dalla difficoltà che gli adulti hanno nel sostenere il loro ruolo educativo.
Una giovane paziente mi ha aiutato a intendere meglio quello che ci sta accadendo. Mi racconta della sua tendenza irresistibile a rubare nei supermercati. I suoi furti non ruotano attorno al valore di ciò che ruba di cui si disfa subito e con totale indifferenza. Questa giovane non sta semplicemente frodando la Legge o godendo del brivido per la sua trasgressione. In un modo paradossale sta facendo proprio il contrario; sta cercando di essere vista, di essere notata dalla Legge, cioè di fare esistere una Legge. Qualcuno mi vede? Qualcuno mi può aiutare a non perdermi, a non smarrirmi? Esiste da qualche parte una Legge, o, più semplicemente, un adulto che può rispondermi, che può accorgersi della mia esistenza? La domanda dei nostri giovani insiste e ci mette con le spalle al muro: esistete ancora? Esistono ancora degli adulti? Esiste ancora qualcuno che sappia assumersi responsabilmente il peso della propria parola e dei propri atti?
Nella cleptomania di questa ragazza possiamo cogliere tutta la cifra del disagio della giovinezza contemporaneo. Al centro non è più il conflitto tra le generazioni, il conflitto tra la Legge e la sua sovversione trasgressiva, ma la solitudine di una generazione che si sente lasciata cadere, abbandonata, che cerca il confronto con il mondo degli adulti ma non lo trova, nel senso che fa fatica a trovare degli adulti coi quali misurare il proprio progetto di mondo. La grande crisi attuale dell´economia capitalista e il rischio reale di un immiserimento materiale e mentale di noi tutti amplifica e rende questo dato ancora più decisivo. Quale mondo stiamo consegnando in eredità alle nuove generazioni? Cosa possiamo fare per ridare speranza a un Telemaco affranto? Come possiamo mostrare alla giovane cleptomane che esiste una Legge affidabile, uno sguardo capace di vedere e di riconoscere la sua esistenza? Qualcuno in grado di leggere nella sua trasgressione l´insistenza di una domanda di riconoscimento? Non è questo, in fondo, che ci chiedono i nostri figli? Se il luogo dell´adulto resta vuoto, sarà difficile per le nuove generazioni sentirsi riconosciute, sarà difficile potersi sentire davvero figli. Figli di chi? Di quale genitore, di quale adulto? Di quale testimonianza di vita?
L´adulto non è tenuto ad incarnare nessun modello di perfezione. Anzi tra i suoi esemplari peggiori dobbiamo proprio catalogare quelli che si offrono come modelli ideali agli occhi dei giovani. L´esperienza clinica ce lo insegna ogni giorno. Ad un adulto non si deve chiedere di rappresentare l´ideale di una vita compiuta, ma di dare peso alla propria parola, il che significa innanzitutto provare ad assumerne tutte le sue conseguenze. Non è questo che può salvare dalla solitudine e dall´abbandono? Non è questo che anima la speranza di Telemaco? Questo nel nostro tempo manca inesorabilmente e questo bisognerebbe poter ricostruire individualmente e collettivamente.

La Repubblica 19.02.12

“Dove sono finiti gli adulti”, di Massimo Recalcati

I genitori sembrano essersi smarriti nello stesso mare dove ogni giorno si perdono i loro figli senza più nessuna distinzione generazionale. È sempre più difficile crescere in un mondo che sogna l´eterna giovinezza Dai videogame ai social network si è diffuso un modello di società a “responsabilità zero”. Il film americano intitolato Young Adult di Jason Reitman sembra darci – già solo nel titolo – la temperatura della strana febbre che sta colpendo il cosiddetto mondo degli adulti.
Il fenomeno è accecante nella sua evidenza: gli adulti si sono persi. In questo film la loro scomparsa viene celebrata come un miraggio di rigenerazione; l´adulterazione dell´adulto consisterebbe nella sua regressione ad una immaturità testarda, al recupero (impossibile) del tempo passato, ad un rifiuto della responsabilità. La trama è eloquente: una ex-scrittrice divorziata ritorna nel suo paesino del Minesota per riprendere il suo fidanzatino del liceo che nel frattempo si è sposato e ha un figlio senza tener conto in nessun modo della irreversibilità del tempo.
Cosa sta accadendo? Se un adulto è qualcuno che prova assumere le conseguenze dei suoi atti e delle sue parole – è una definizione che mi sento di proporre al di là della sua descrizione anagrafica – , non possiamo che constatare un forte declino della sua presenza nella nostra società. Pensiamo a tutti coloro che investiti di incarichi istituzionali perseguono accanitamente i loro interessi personali anziché servire quelli comuni. Alle figure di Puer che spesso ci hanno governato e che sono diventati dei modelli per l´immaginario. Oppure a quei genitori che anziché sostenersi tra loro nel compito educativo che li impegna lo disertano mostrandosi sempre pronti a difendere le ragioni inconsistenti dei loro figli di fronte agli insegnanti o di fronte alle prime difficoltà che la vita impone. Gli adulti sembrano essersi persi nello stesso mare dove si perdono i loro figli, senza più alcuna distinzione generazionale. La celebre distinzione tra le età della vita che in passato bollava come immaturi anche quei comportamenti che manifestavano semplicemente lo slancio vitale della giovinezza, oggi è saltata: possiamo vestirci a 60 anni come a 30, sognare le stesse cose, consumare gli stessi prodotti, parlare quasi la stessa lingua. A questo appiattimento delle differenze generazionali contribuisce anche un certo uso dei socialnetwork dove i legami che si creano sono spesso a responsabilità zero. L´amicizia è ottenuta attraverso un click; la sua moltiplicazione diviene segno di distinzione. La cultura del videogame ci introduce in un mondo parallelo, artefatto, ad una sorta di oppiaceo tecnologico che confonde l´esistenza con la simulazione. Non è difficile incontrare adulti che come certi adolescenti si mantengono in uno stato di perenne «connessione» con la rete. Senza questa «connessione» la loro vita perderebbe di senso. Per loro la disconnessione – anziché essere una pausa necessaria e salutare – rivela il vuoto di una vita sostenuta da legami artificiali.
Questo nuovo ritratto dell´adulto esalta il mito immortale di Peter Pan, il mito della giovinezza perenne, la retorica di un culto dell´immaturità che propone una felicità spensierata e priva di ogni responsabilità. È una cifra del nostro tempo: «Mio padre – mi confidava desolata una giovane ragazza figlia di genitori separati – non fa altro che correre dietro alle mie amiche e poi chiede di potersi confidare con me!». Insomma, non è che i veri bamboccioni siano gli adulti di oggi più che i loro figli? In questo senso il dialogo di Schettino con il Comandante de Falco ha il valore di un vero e proprio paradigma; non racconta solo uno scontro drammatico tra due uomini in una situazione di grande tensione e pericolo, ma ci segnala una divaricazione interna alla generazione degli adulti tra coloro che assumono il peso dei loro atti e coloro che invece vogliono continuare a giocare con la vita come se fosse una playstation.
Gli esempi potrebbero evidentemente moltiplicarsi ma essi convergono tutti a sottolineare un fatto: la solitudine delle nuove generazioni – che su questo giornale avevo una volta ho paragonato a quella di Telemaco in attesa del ritorno del padre – deriva innanzitutto dalla difficoltà che gli adulti hanno nel sostenere il loro ruolo educativo.
Una giovane paziente mi ha aiutato a intendere meglio quello che ci sta accadendo. Mi racconta della sua tendenza irresistibile a rubare nei supermercati. I suoi furti non ruotano attorno al valore di ciò che ruba di cui si disfa subito e con totale indifferenza. Questa giovane non sta semplicemente frodando la Legge o godendo del brivido per la sua trasgressione. In un modo paradossale sta facendo proprio il contrario; sta cercando di essere vista, di essere notata dalla Legge, cioè di fare esistere una Legge. Qualcuno mi vede? Qualcuno mi può aiutare a non perdermi, a non smarrirmi? Esiste da qualche parte una Legge, o, più semplicemente, un adulto che può rispondermi, che può accorgersi della mia esistenza? La domanda dei nostri giovani insiste e ci mette con le spalle al muro: esistete ancora? Esistono ancora degli adulti? Esiste ancora qualcuno che sappia assumersi responsabilmente il peso della propria parola e dei propri atti?
Nella cleptomania di questa ragazza possiamo cogliere tutta la cifra del disagio della giovinezza contemporaneo. Al centro non è più il conflitto tra le generazioni, il conflitto tra la Legge e la sua sovversione trasgressiva, ma la solitudine di una generazione che si sente lasciata cadere, abbandonata, che cerca il confronto con il mondo degli adulti ma non lo trova, nel senso che fa fatica a trovare degli adulti coi quali misurare il proprio progetto di mondo. La grande crisi attuale dell´economia capitalista e il rischio reale di un immiserimento materiale e mentale di noi tutti amplifica e rende questo dato ancora più decisivo. Quale mondo stiamo consegnando in eredità alle nuove generazioni? Cosa possiamo fare per ridare speranza a un Telemaco affranto? Come possiamo mostrare alla giovane cleptomane che esiste una Legge affidabile, uno sguardo capace di vedere e di riconoscere la sua esistenza? Qualcuno in grado di leggere nella sua trasgressione l´insistenza di una domanda di riconoscimento? Non è questo, in fondo, che ci chiedono i nostri figli? Se il luogo dell´adulto resta vuoto, sarà difficile per le nuove generazioni sentirsi riconosciute, sarà difficile potersi sentire davvero figli. Figli di chi? Di quale genitore, di quale adulto? Di quale testimonianza di vita?
L´adulto non è tenuto ad incarnare nessun modello di perfezione. Anzi tra i suoi esemplari peggiori dobbiamo proprio catalogare quelli che si offrono come modelli ideali agli occhi dei giovani. L´esperienza clinica ce lo insegna ogni giorno. Ad un adulto non si deve chiedere di rappresentare l´ideale di una vita compiuta, ma di dare peso alla propria parola, il che significa innanzitutto provare ad assumerne tutte le sue conseguenze. Non è questo che può salvare dalla solitudine e dall´abbandono? Non è questo che anima la speranza di Telemaco? Questo nel nostro tempo manca inesorabilmente e questo bisognerebbe poter ricostruire individualmente e collettivamente.

La Repubblica 19.02.12

"Pensiero cattolico contro liberismo? Al Pd serve eccome", di Gianni Gennari

«Il pensiero cattolico può aiutare il Pd a vincere il liberismo». Manca un punto interrogativo, quindi è questa la convinzione di Stefano Fassina in vista dell’iniziativa del primo marzo per una crescita politico culturale dell’attuale Pd con la sua storia complessa, carica di un passato non tutto morto e ideologico, ma anche fatto di valori che hanno presente e futuro. Questo mi pare importante non solo per vincere il liberismo, cioè primato della forza, del denaro, dei pochi su tutto il resto, ma anche semplicemente per «vincere», in termini di consenso, e quindi realizzare un disegno politico, istituzionale e culturale più giusto per l’Italia: giustizia sociale, giovani, donne, lavoro, solidarietà, non discriminazione, accoglienza, rispetto delle regole, sobrietà.
Ho l’età per ricordare alcuni momenti anni 70 in cui ho toccato con mano la vicinanza dei valori della fede cattolica, alla luce del Concilio e di alcuni testi papali del tempo (Pacem in Terris di Giovanni XXIII, Ecclesiam suam e Populorum Progressio di Paolo VI, per esempio) anche alla vita di quella che allora era la base operaia italiana, con l’allora Pci che cercava di liberarsi dell’ideologia che veniva dall’esperienza sovietica… Poi ucciso Moro e morto Berlinguer tutto parve cambiare. Sul piano dei rapporti con «il pensiero cattolico» c’è stata una lunga nottata. È finita la Dc, è finito il Pci, è finito anche il sogno socialdemocratico, che da noi non ha mai convinto le masse, sono venute a galla tante cose pesanti e negative, che hanno imperversato per tanti anni, e ora siamo come all’inizio di una fase nuova.
Il mondo cattolico è molto vasto, in Italia, e se si guarda agli attuali partiti, è in evidente disagio con tutti. Per quanto riguarda l’attuale Pd, almeno in
quella sua parte che non si è fatta colonizzare in tutto dal pensiero radical/relativista molto diffuso purtroppo in genere libertario e liberista, ma spesso fornito della vecchia prepotenza totalitaria che vede sempre e solo Chiesa e cattolici come nemico implacabile e necessario per sentirsi vivi e in azione, esso può includere cattolici autentici, quindi coerenti con i principi di questa identità, e convinti dei valori che vengono anche da una piena professione di fede?
A me pare, e lo penso da decenni, che la risposta debba essere positiva. Ciò che serve a questo scopo è che nessuno l’ideale sarebbe che la cosa riguardasse tutta la società, ma quieorasiparladelPdediciò che è ancora autenticamente popolare e vivo socialmente anche alla sua sinistra pretenda di fare bandiera di programma obbligatorio, di partito o di coalizione, quanto è direttamente opposto ai valori e ai principi coessenziali con la professione di fede cristiana e cattolica. E quali sono, questi? Qui i punti che finora appaiono dolenti: vita e famiglia, certamente, ma anche accoglienza, scelta degli ultimi, giustizia sociale concreta e solidarietà. Meno ostacoli, in apparenza, per altri punti ugualmente essenziali: eguaglianza vera tra uomini e donne, sobrietà di stile, rifiuto di ciò che è solo brillante e appariscente, ma implica il disprezzo degli altri, consumismo e frou frou elevati a ideale, ideale di denaro e potere sugli altri…
Questo vuol dire che il Pd deve diventare un partito cattolico? No! Personalmente non ho mai approvato un partito cattolico come tale, neppure quando era reale e al potere, per tanti anni. L’identità cattolica, l’appartenenza alla Chiesa, la fedeltà al Vangelo sono realtà tali che è blasfema l’identificazione con una qualsiasi parte politica, che suppone sempre un pragmatismo pesante, il rischio di servirsi del Vangelo senza servirlo, l’eventualità di confondere le convinzioni vere con le convenienze di parte.
E allora? Allora, attualmente, molta attenzione a non ripresentare vecchi schemi democristiani, doroteisticamente vissuti, come ricetta del nuovo. Debbo dire che qualcuno in giro riesco a vederne anche attualmente… Chiarezza di distinzioni: nel partito dato che si parla di questo alla pari tutti, con le loro convinzioni ideali, e quando queste sono inevitabilmente diverse, per questioni di principio di ciascuno, tutti ugualmente liberi in coscienza di essere fedeli ad esse: in democrazia ci si confronta, si dialoga, e se non si riesce a mettersi d’accordo si rispetta la libertà di tutti. Senza drammi: se su un punto si è diversi in molti non si impegna su di esso il programma come tale, ma ciascuno nella società democratica avrà la possibilità di scegliere al voto secondo la propria convinzione. Un cattolico serio non è sempre e come tale costretto a dire no, quando sono in ballo certi valori, ma di fronte alla realtà concreta può non opporsi a ciò che gli appare moralmente un male, ma in concreto un male minore.
Pensiero un po’ malinconico: questo oggi è pacifico anche ufficialmente per la nostra Chiesa. Se fosse stato così anche nel 1974 e nel 1981 la storia del rapporto tra cattolici e società italiana sarebbe stata diversa. Su queste basi mi pare possibile, anzi necessario, il grande «aiuto» del «pensiero cattolico», singoli e anche Chiesa, per «superare il liberismo» e tutto ciò che in Italia impedisce il bene autentico, e non solo della sinistra.

L’Unità 19.02.12

“Pensiero cattolico contro liberismo? Al Pd serve eccome”, di Gianni Gennari

«Il pensiero cattolico può aiutare il Pd a vincere il liberismo». Manca un punto interrogativo, quindi è questa la convinzione di Stefano Fassina in vista dell’iniziativa del primo marzo per una crescita politico culturale dell’attuale Pd con la sua storia complessa, carica di un passato non tutto morto e ideologico, ma anche fatto di valori che hanno presente e futuro. Questo mi pare importante non solo per vincere il liberismo, cioè primato della forza, del denaro, dei pochi su tutto il resto, ma anche semplicemente per «vincere», in termini di consenso, e quindi realizzare un disegno politico, istituzionale e culturale più giusto per l’Italia: giustizia sociale, giovani, donne, lavoro, solidarietà, non discriminazione, accoglienza, rispetto delle regole, sobrietà.
Ho l’età per ricordare alcuni momenti anni 70 in cui ho toccato con mano la vicinanza dei valori della fede cattolica, alla luce del Concilio e di alcuni testi papali del tempo (Pacem in Terris di Giovanni XXIII, Ecclesiam suam e Populorum Progressio di Paolo VI, per esempio) anche alla vita di quella che allora era la base operaia italiana, con l’allora Pci che cercava di liberarsi dell’ideologia che veniva dall’esperienza sovietica… Poi ucciso Moro e morto Berlinguer tutto parve cambiare. Sul piano dei rapporti con «il pensiero cattolico» c’è stata una lunga nottata. È finita la Dc, è finito il Pci, è finito anche il sogno socialdemocratico, che da noi non ha mai convinto le masse, sono venute a galla tante cose pesanti e negative, che hanno imperversato per tanti anni, e ora siamo come all’inizio di una fase nuova.
Il mondo cattolico è molto vasto, in Italia, e se si guarda agli attuali partiti, è in evidente disagio con tutti. Per quanto riguarda l’attuale Pd, almeno in
quella sua parte che non si è fatta colonizzare in tutto dal pensiero radical/relativista molto diffuso purtroppo in genere libertario e liberista, ma spesso fornito della vecchia prepotenza totalitaria che vede sempre e solo Chiesa e cattolici come nemico implacabile e necessario per sentirsi vivi e in azione, esso può includere cattolici autentici, quindi coerenti con i principi di questa identità, e convinti dei valori che vengono anche da una piena professione di fede?
A me pare, e lo penso da decenni, che la risposta debba essere positiva. Ciò che serve a questo scopo è che nessuno l’ideale sarebbe che la cosa riguardasse tutta la società, ma quieorasiparladelPdediciò che è ancora autenticamente popolare e vivo socialmente anche alla sua sinistra pretenda di fare bandiera di programma obbligatorio, di partito o di coalizione, quanto è direttamente opposto ai valori e ai principi coessenziali con la professione di fede cristiana e cattolica. E quali sono, questi? Qui i punti che finora appaiono dolenti: vita e famiglia, certamente, ma anche accoglienza, scelta degli ultimi, giustizia sociale concreta e solidarietà. Meno ostacoli, in apparenza, per altri punti ugualmente essenziali: eguaglianza vera tra uomini e donne, sobrietà di stile, rifiuto di ciò che è solo brillante e appariscente, ma implica il disprezzo degli altri, consumismo e frou frou elevati a ideale, ideale di denaro e potere sugli altri…
Questo vuol dire che il Pd deve diventare un partito cattolico? No! Personalmente non ho mai approvato un partito cattolico come tale, neppure quando era reale e al potere, per tanti anni. L’identità cattolica, l’appartenenza alla Chiesa, la fedeltà al Vangelo sono realtà tali che è blasfema l’identificazione con una qualsiasi parte politica, che suppone sempre un pragmatismo pesante, il rischio di servirsi del Vangelo senza servirlo, l’eventualità di confondere le convinzioni vere con le convenienze di parte.
E allora? Allora, attualmente, molta attenzione a non ripresentare vecchi schemi democristiani, doroteisticamente vissuti, come ricetta del nuovo. Debbo dire che qualcuno in giro riesco a vederne anche attualmente… Chiarezza di distinzioni: nel partito dato che si parla di questo alla pari tutti, con le loro convinzioni ideali, e quando queste sono inevitabilmente diverse, per questioni di principio di ciascuno, tutti ugualmente liberi in coscienza di essere fedeli ad esse: in democrazia ci si confronta, si dialoga, e se non si riesce a mettersi d’accordo si rispetta la libertà di tutti. Senza drammi: se su un punto si è diversi in molti non si impegna su di esso il programma come tale, ma ciascuno nella società democratica avrà la possibilità di scegliere al voto secondo la propria convinzione. Un cattolico serio non è sempre e come tale costretto a dire no, quando sono in ballo certi valori, ma di fronte alla realtà concreta può non opporsi a ciò che gli appare moralmente un male, ma in concreto un male minore.
Pensiero un po’ malinconico: questo oggi è pacifico anche ufficialmente per la nostra Chiesa. Se fosse stato così anche nel 1974 e nel 1981 la storia del rapporto tra cattolici e società italiana sarebbe stata diversa. Su queste basi mi pare possibile, anzi necessario, il grande «aiuto» del «pensiero cattolico», singoli e anche Chiesa, per «superare il liberismo» e tutto ciò che in Italia impedisce il bene autentico, e non solo della sinistra.

L’Unità 19.02.12

"Occasione da non perdere", di Stefano Lepri

La recessione in cui l’economia italiana si trova non durerà a lungo: le parole del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco a Parma non annunciano nuove avversità, temperano invece il forte pessimismo con cui il 2012 era iniziato. Meno di un mese fa, il Fondo monetario internazionale aveva pronosticato al nostro Paese due anni di arretramento, e più grave nelle cifre.

Nel frattempo sui mercati i rendimenti dei titoli del Tesoro sono scesi. Al momento, ci spiega la Banca d’Italia, ci troviamo fuori pericolo: la nostra finanza pubblica «è comunque su un sentiero sostenibile». Ciò non toglie che si debba fare di tutto per attenuare le difficoltà a cui andremo incontro in questa prima metà dell’anno. In questo momento, è cruciale il ruolo delle banche; più di quanto non appaia.

Lo strumento principale con cui l’area dell’euro è stata tenuta insieme, e a parte la Grecia prende a rinsaldarsi, è l’operazione con cui la Banca centrale europea ha rifinanziato le banche per tre anni al tasso dell’1%, nelle cifre da loro desiderate.

Secondo estremisti e populisti di varie tendenze è stato un regalo immeritato a chi aveva già causato gravi danni; secondo i tedeschi più ostili verso l’Europa del Sud, invece, un trucco per aggirare il divieto di finanziare gli Stati.

Nella visione della Bce e della Banca d’Italia si è trattato di una misura necessaria per fronteggiare il cattivo funzionamento dei mercati. Tuttavia sui banchieri ricade una grande responsabilità: usare bene di questo vantaggio nell’interesse di tutti, e non soltanto nel loro. Ignazio Visco li ha difesi dalle accuse più spicce e demagogiche; però non è stato tenero. Quel denaro a buon mercato non dovrà essere usato per nascondere inefficienze, evitare innovazioni utili, foraggiare equilibri di potere superati; tanto meno, per speculare su mercati lontani.

In breve, la prima operazione di rifinanziamento a tre anni è servita in gran parte a fronteggiare la mancanza di liquidità causata dal panico dei mercati a fine 2011. Non è giusto, secondo il governatore, accusare i banchieri di aver occultato quei soldi chissà dove. Però la seconda operazione dello stesso tipo, in programma per la fine del mese, dovrà poter fornire credito al sistema produttivo.

È esagerato affermare, come qualcuno ha fatto, che gli italiani abbiano all’improvviso smesso di risparmiare. Risparmiano meno, ma non c’è stato nessun crollo. Le nostre banche sono state messe in difficoltà dai mercati internazionali, dove non riuscivano più a finanziarsi. Sono venute in evidenza loro debolezze di lunga data: altro che profittare della crisi, hanno guadagnato poco nel 2011, e poco guadagneranno, continuando così, anche quest’anno.
Resta la tentazione di restringere le banche pur di conservare il potere dei vecchi gruppi dirigenti, pur se la scelta del Monte dei Paschi di aprirsi è una novità importante.

L’esperienza della crisi mostra che non è tanto importante crescere di dimensione, quanto oltrepassare le frontiere, per alleggerire il circolo vizioso fra affidabilità di un Paese dell’area euro ed affidabilità delle sue aziende di credito.

In questi giorni i banchieri ribattono di essere prudenti nel concedere prestiti proprio perché c’è la recessione e cresce il rischio di non riavere i soldi indietro. Ignazio Visco li esorta a uno sforzo in più di iniziativa e di intelligenza: andare a cercare le imprese promettenti, capaci di crescere.

Resa inevitabile dalle incapacità dei governi, la scelta di sostenere l’euro attraverso le banche richiede che i banchieri se ne mostrino all’altezza. Altrimenti dovremo concludere che il moral hazard – il rischio di incentivare comportamenti sbagliati – tolto ai politici, è solo spostato altrove.

La Stampa 19.02.12

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“L´Italia è in recessione Pil giù dell´1,5% nel 2012 le banche evitino la stretta”, di Elena Polidori

Il governatore: bene la legge sullo stop agli incarichi incrociati nei cda degli istituti. “Con lo spread a 300 e un avanzo del 5% riduzione debito superiore alle regole Ue”. Una certezza e una speranza. «Il 2012 sarà un anno di recessione», con una flessione media del Pil dell´1,5%, annuncia Ignazio Visco. Ma «bisogna guardare avanti» per poter tornare ad una espansione del reddito nel 2013. E´ «possibile» stabilizzare l´attività produttiva già nella seconda metà di quest´anno.
IL PRIMO APPUNTAMENTO PUBBLICO
Al suo primo appuntamento pubblico, davanti ai cambisti del Forex, il nuovo governatore della Banca d´Italia individua le due condizioni-chiave per tornare a crescere. La prima riguarda la politica economica: «Vanno decise rapidamente e rese operative le riforme volte a rendere l´assetto normativo e amministrativo favorevole e non ostile allo sviluppo economico». La seconda riguarda le banche: «Dovranno dimostrare di saper svolgere bene la loro funzione di allocazione del credito». Significa che devono tornare a finanziare famiglie e imprese. I prestiti alle aziende sono scesi di 20 miliardi a dicembre – un record nel confronto storico – e sono calati pure a gennaio: «E´ cruciale» che l´economia non entri «in asfissia creditizia, deperendo e trascinando con sé anche le prospettive del sistema bancario».
In queste ultime settimane, Visco è stato in stretto contatto con il premier Mario Monti, alle prese con manovra, liberalizzazioni e riforma del lavoro: anche lui, per le faccende di sua competenza, ha «fatto sistema», come ripetono a via Nazionale. Così adesso, davanti ad una platea di banchieri, tecnici dei cambi e specialisti degli spread, dà atto alla politica economica del governo di aver compiuto «in questi mesi progressi prima ritenuti impensabili in direzione della sostenibilità finanziaria». Con uno spread a 300 e un avanzo primario (al netto degli interessi) del 5% come atteso nel 2013, ci sarà una riduzione del debito-Pil superiore alle regole Ue.
I FRONTI DECISIVI
Ma attenzione: «Progressi altrettanto coraggiosi» sono attesi su altri fronti «decisivi»: l´efficienza del sistema tributario e la lotta all´evasione; una «sistematica rivisitazione di tutte le voci della spesa pubblica»; la «razionalizzazione» di norme, istituzioni e prassi che «tengono imbrigliate le energie del paese, comprimono la competitività delle imprese, mortificano le attese dei giovani». Ancora più nel dettaglio: perché si crei quell´ambiente «favorevole e non ostile allo sviluppo» vanno liberalizzati i servizi e semplificati gli atti amministrativi. Deve funzionare meglio il mercato del lavoro con «attenzione al capitale umano e all´innovazione». Occorre rendere più rapide le risposte del sistema giudiziario. E bisogna far presto: rispetto ai livelli del 2007, prima della crisi, il Pil è ancora inferiore di 5 punti percentuali, il reddito disponibile reale procapite delle famiglie di 7 punti, la produzione industriale di un quinto. Perciò, il paese «deve essere rimesso in grado di crescere stabilmente a tassi sostenuti».
IL MONDO CREDITIZIO
Fondamentale è il ruolo delle banche. Evitato il rischio di un «credit crunch» grazie alla liquidità della Bce di Mario Draghi, il suo predecessore, Visco sprona gli istituti. Dice che i criteri dell´Authority Eba sul rafforzamento del patrimonio possono essere soddisfatti senza contrarre le risorse all´economia perché un irrobustimento del capitale «è alla loro portata». Riconosce che le banche «sono solide», ma le sollecita a fare «interventi incisivi sui costi», semplificando «gli assetti di governo societario». Annuncia così un «tavolo tecnico» con il Tesoro per vietare il cumulo degli incarichi nei consigli di amministrazione e l´arrivo di «indicazioni» su dividendi e remunerazioni dei manager.
Come sempre al Forex, che per la Banca d´Italia è l´occasione più importante dopo le Considerazioni Finali, il governatore ripercorre i fatti dell´economia. Ricorda che «le inquietudini degli investitori sui titoli di stato italiano sono oggi attenuate ma non dissipate». Avverte che le tensioni sui mercati «restano alte», anche per via del caso Grecia, da risolvere in fretta. In compenso, oltre alla Bce e al rigore nei bilanci, gioca in positivo l´intesa Ue sul cosiddetto «fiscal compact», cui va data «rapida attuazione . Visco critica le agenzie di rating che «non sempre» hanno svolto «adeguatamente» la valutazione dei rischi sovrani.

La Repubblica 19.02.12

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Ma le imprese attaccano i banchieri “Soldi con il contagocce e troppo cari”, di Valentina Conte

I tassi per i prestiti alle Pmi sono saliti al 4,98% contro il 4,29% della media Ue. Le aziende lamentano criteri sempre più stringenti sui fidi come ai tempi del crac Lehman
Asfissia o schiacciamento del credito, come lo definisce Bankitalia, è la traduzione italiana di credit crunch. Meno soldi all´economia. E dunque meno consumi, scarsi investimenti, più recessione. La spirale del 2008 torna ad agganciarsi alla nostra economia. Siamo sulla stessa barca, si difendono le banche. Pochi soldi e carissimi, attaccano le imprese, ormai a secco di liquidità e dentro un nuovo anno di recessione. La linfa ha smesso di circolare. Quasi come nel 2008. Allora fu la finanza scriteriata “made in Usa” a contagiare il mondo con la peste dei subprime e dei titoli salsiccia. Ora la crisi europea dei debiti sovrani e il default (minacciato) di paesi e moneta unica. Il risultato è simile. Credit crunch, rubinetti chiusi, meno soldi per tutti. Le banche sono sotto pressione. Si fidano poco le une delle altre, costrette a pensare ai propri bilanci, prima e più che ad irrorare l´economia. Le imprese, non ancora fallite, faticano ad ottenere fidi per investire. Le coppie, anche quelle con le garanzie giuste (il posto fisso, ad esempio), rinunciano all´avventura del mutuo, nonostante i tassi ufficiali molto bassi. Allo sportello, si sa, è tutta un´altra storia. Niente mattone, si erodono addirittura i risparmi, un record per un Paese “formica”(crollo dell´80% dei nuovi depositi nel 2011, da 130 a 24 miliardi). Così, l´economia in apnea si avvita. Meno soldi erogati, meno richiesti. Giù: consumi, investimenti, redditi. Su: recessione.

AZIENDE A SECCO
Il grido è sempre più alto. Le imprese italiane, già vessate da 70-80 miliardi di crediti verso la Pubblica amministrazione non ancora rientrati, denunciano la stretta: criteri sempre più stringenti dalle banche per prestiti e nuove linee di credito negli ultimi tre mesi del 2011, come nell´ultimo trimestre del 2008, all´indomani del crac Lehman. Bce e Bankitalia confermano. Avvertendo, come fa l´istituto europeo nell´ultima indagine presso le banche centrali dell´Eurozona (il Bank Lending Survey), che le condizioni per le grandi aziende sono peggiori di quelle applicate alle piccole. L´ultimo bollettino di via Nazionale segnalava già in dicembre la frenata nello stock di prestiti alle imprese non finanziarie: 894 miliardi di euro dai 915 del mese precedente. Due giorni fa la stessa Abi (l´associazione delle banche italiane) ha definito il quadro di gennaio dei prestiti a famiglie e imprese, cresciuti dell´1,6% sull´anno, a fronte del tendenziale di dicembre pari al 3,6%. Una scivolata non da poco. Se si considerano anche i prestiti ad assicurazioni, fondi pensione, finanziarie l´aumento è un pallido 0,6%. Nel quinquennio 2003-2008 si viaggiava a un ritmo dell´8,6% l´anno. Vero è che anche le richieste di prestiti per investimenti delle imprese sono crollate del 50% nell´ultimo trimestre del 2011. Resistono solo quelle per ristrutturazioni e consolidamento del debito. Un segnale allarmante.

LA DIFESA DELLE BANCHE
«Banche e imprese sono sulla stessa barca», spiega il presidente dell´Abi Mussari. La barca della recessione, della crisi europea, della Grecia sull´orlo del crac. Ma anche dell´Eba (l´autorità europea delle banche) che, dopo l´ennesima (e inefficace) tornata di stress test, pretende patrimoni più robusti e dunque nuove ricapitalizzazioni in capo alle banche, anche italiane. La posizione dell´Abi è chiara: non si tratta di credit crunch, ma di una domanda minore. Si chiedono (e dunque si ottengono) meno soldi. Le sofferenze, poi, esplodono (sopra i 100 miliardi) e la prudenza nell´erogare fidi, prestiti, mutui, crediti è d´obbligo. Quando poi i cordoni si allargano, il denaro costa di più, perché la sua raccolta è meno facile e dunque cara. I tassi applicati alle Pmi sui nuovi prestiti fino a un milione di euro salgono dal 4,62% di novembre al 4,98% di dicembre, sopra la media Ue (dal 4,34 al 4,29%). A cosa è servito – si chiedono però imprese e famiglie – il generoso maxi-prestito all´1% da 500 miliardi della Bce alle banche europee? Dove sono finiti quei soldi? Come sono stati utilizzati? Perché non arrivano all´economia reale? E cosa ne sarà dell´altra iniezione che a breve la Bce somministrerà ancora all´Europa malata? L´Abi non esclude, intanto, una nuova moratoria sui debiti delle imprese. «Quella del 2008 ci è costata 15 miliardi», ricorda.

La Repubblica 19.02.12