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"Un Paese in deficit di democrazia", di Miguel Gotor

La relazione annuale della Corte dei Conti ricorda agli italiani che la corruzione e il malaffare continuano a dilagare nel Paese e le dimensioni del fenomeno sono molto più vaste e profonde di quanto non riesca a venire alla luce. Non è certo questo un buon modo per celebrare il ventennale di “Tangentopoli”, ma saremmo ipocriti se sostenessimo di essere sorpresi da tali risultati. Il ventennio berlusconiano ha accresciuto il fenomeno e non poteva essere altrimenti dal momento che sono stati duramente e continuativamente colpiti alcuni valori cardine di una democrazia liberale: l´uomo di governo ha l´obbligo non solo di essere, ma anche di apparire probo e rispettoso delle leggi e ha il dovere di impegnarsi a garantire il rispetto dell´equilibrio tra i poteri. In questi anni, invece, è avvenuto il contrario ed è stato proposto come modello pedagogico positivo il convincimento che le uniche regole da rispettare fossero quelle capaci di favorire gli interessi personali. Inoltre, ha prevalso una sorta di generale indifferentismo per cui ogni tentativo di definire un quadro rispettoso degli equilibri politici e civili comuni è stato tacciato di insopportabile moralismo.
Ma si tratta di una tabe che viene da lontano e riguarda il popolo italiano nel suo insieme. Come scriveva nel 1930 Carlo Rosselli in “Socialismo liberale”, il fascismo aveva costituito non una parentesi, ma «l´autobiografia della nazione» perché gli «italiani sono moralmente pigri. C´è in loro un fondo di scetticismo e di opportunismo che li porta facilmente a contaminare, disprezzandoli, tutti i valori».
In effetti, una serie di stereotipi accompagna la corruzione italiana, creando il terreno fertile per il suo indisturbato germogliare. Il primo è quello più pernicioso: chi più, chi meno, tutti rubano. Non è vero, ma piace pensare che sia così e di ciò è senso comune compiacersi. La corruzione sarebbe nazionale e democratica in grado di unire il nord al sud, il popolo alla sua classe dirigente. Ma se tutti sono ladri, il risultato inevitabile è che i responsabili del malaffare restano impuniti e i loro comportamenti sono continuamente relativizzati al ribasso. Il contraltare di questo atteggiamento generalista è l´esplosione giustizialista che colpisce all´improvviso e in modo indiscriminato. La reazione, però, è altrettanto proverbiale: «piegati giunco che la piena passa» e i momenti rigeneratori come “Mani pulite” si trasformano troppo rapidamente nel nostro Paese in restaurazioni senza lasciare alcuna traccia di responsabilità e crescita civile, come amaramente constatato dal magistrato Gherardo Colombo.
Il secondo stereotipo è ben rappresentato da Vittorio Gassman nel film del 1971 “In nome del popolo italiano”: «La corruzione è l´unico modo per sveltire gli iter e quindi incentivare le iniziative. La corruzione, possiamo dire paradossalmente, è essa stessa progresso». Corrotti sono sempre gli altri e la farraginosità della macchina statale o il cattivo funzionamento della cosa pubblica servono a giustificare il mancato pagamento delle tasse, o il favore elargito per ottenere un privilegio. Il malaffare, pertanto, sarebbe funzionale ad accompagnare uno sviluppo senza regole, il propellente necessario a far correre la macchina dello sviluppo imprenditoriale contro i «lacci e i lacciuoli» del sistema Italia. Fatica ad affermarsi un´altra visione economicista, quella che mette al centro i costi della corruzione. A questo proposito, i dati forniti dalla Corte dei Conti sono eccezionali: 60 miliardi di euro l´anno, che vengono caricati sulle spalle dei cittadini e dei contribuenti onesti.
Il terzo stereotipo induce a scaricare tutte le responsabilità sulla politica e il sistema dei partiti senza fare distinzioni: ampie sacche di corruzione albergano anche nella società civile (si pensi solo al ruolo esorbitante svolto in Italia dalla criminalità organizzata), eppure l´attacco alla democrazia rappresentativa e alle sue istituzioni è la via più breve e furbesca per occultare la propria disponibilità alla corruttela in ambiti pubblici e privati, professionali, finanziari e imprenditoriali.
In realtà, il livello di illegalità nel nostro Paese è un impressionante indicatore del deficit di democrazia che esiste al suo interno. Questo è il vero problema e, al di là delle belle parole e delle buone intenzioni, potrà essere affrontato soltanto ricostruendo un tessuto collaborativo tra l´azione civile e il recupero della credibilità della politica.

La Repubblica 17.02.12

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“Dove politico e privato si incontrano”, di PAOLO BARONI

La corruzione è il cancro italiano». Il titolo choc de la Stampa di due anni fa oggi si rispecchia nel nuovo allarme delle Corte dei conti: «In Italia corruzione e malaffare sono ancora molto forti». Non solo, come ha spiegato ieri il presidente Luigi Giampaolino si tratta di «fenomeni ancora notevolmente presenti e le cui dimensioni sono di gran lunga superiori a quelle che vengono alla luce».

Oramai siamo assuefatti agli allarmi ed alle denunce. Quelli della Corte dei conti sono ricorrenti, arrivano a cadenza regolare, raccolgono sempre un coro di consensi, ma purtroppo restano lettera morta. La riprova, l’ultima, ma andando a ritroso si potrebbero trovare decine e decine d’esempi, arriva dalla Camera: il ddl anticorruzione è bloccato da più di anno nei cassetti delle commissioni Giustizia e Affari costituzionali. E poi ci sono le cronache di questi giorni che ci raccontano la storia dei contributi ai partiti per i rimborsi elettorali o i fondi destinati ai loro giornali: i casi Lusi-Margherita, le vicende di An, la truffa l’Avanti-De Gregorio-Lavitola da 23 milioni di euro sono solo gli ultimi scandali venuti a galla. Senza contare poi le consulenze date per fini clientelari o ancora le tante società controllate dagli enti locali che si rivelano «gusci vuoti», come denuncia sempre la Corte dei Conti. E ancora, le assunzioni clientelari come quelle al Comune di Gubbio finite con 8 arresti e la piaga delle auto blu che si fatica a curare.

E’ più o meno la stessa storia che si ripete e che non trova soluzione. Oggi, come vent’anni fa quando scoppiava Mani pulite. Vent’anni non sono serviti assolutamente a nulla. Perché nulla, o troppo poco, è cambiato.

Non è cambiato il costume politico, ma non sono nemmeno cambiate le abitudini private. I comportamenti dei singoli. Perché come spiegare altrimenti il fatto che l’Italia sia uno dei paesi dove si evade di più. Roba da 100-120 miliardi di euro l’anno sottratti al Fisco, grandi truffe milionarie e piccole spilorcerie, come lo scontrino del caffè che il barista si ostina a non battere. E’ anche per questo che l’Italia, in Europa seconda solo dopo la Spagna, è il paese che evade più Iva, addirittura il 36% segnala Giampaolino.

Sorpresi? Assolutamente no, perché abbiamo appena letto i numeri dei controlli effettuati l’altro ieri dalla Finanza a Napoli, dove in un mercato di quartiere su 50 ambulanti in 40 non avevano nemmeno il registratore di cassa e dove l’82% degli negozi controllati non batteva scontrini, e ci ricordiamo i risultati degli analoghi blitz fatti a Sanremo, Milano, Portofino e Cortina.

Ma anche questo scandalo, con la pressione fiscale alle stelle, le pensioni sotto scacco e gli stipendi che non tengono ormai più il passo dell’inflazione, non può continuare. Il governo dei tecnici promette riforme in questo ed in quel campo: con la lotta all’evasione fiscale, che si intende intensificare, si vogliono tagliare le aliquote; mentre per stroncare la corruzione il ministro Severino annuncia «un grande progetto» e parla di «battaglia seria».

Speriamo bene, perché il livello di sofferenza (e di insofferenza) della gente ha toccato il limite ed il «governo del rigore», dopo aver drizzato i conti, in questa partita ha l’obbligo di essere ancor di più rigoroso. Deve dare un segnale e dimostrare in concreto che i suoi interventi non colpiscono sempre e solo i soliti noti.

La Stampa 17.02.12

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“La nostra mazzetta quotidiana”, di PIERO COLAPRICO

UNO pensa: si sa, i politici rubano. Ma basta un mese di “radiografia” del settore delle mazzette per riscoprire, se a qualcuno fosse sfuggito, che viviamo in un Paese dove dilaga il tangentaro della porta accanto. Infermieri che vendono la lista d´attesa e tecnici che “mangiano” sui controlli, amministratori delegati e consiglieri comunali, tanti s´arrangiano. Ed è bastato un solo mese, anzi proprio quest´ultimo mese di arresti e indagini sulla corruzione spicciola e alta, per avere, a vent´anni esatti da Tangentopoli, il senso dell´Italia per la mazzetta.
Si comincia, e non si può diversamente, da Milano. Per cento euro viene arrestato il 24 gennaio un tecnico comunale. Ha 54 anni e andava in giro per i negozi, tranquillo e autorevole, ad annunciare che le insegne non erano «in regola», che guaio, ma chi le ha fatte? Però con una cifretta ci si poteva accordare, così fan tutti, e lui lo sa bene, visto che solo un mese prima, un suo collega, Gianluca Carta, era incappato in un investigatore, dopo aver chiesto la tangente nel quadrilatero della Moda, in via Spiga, alla boutique Blu Marine. Ma a lui non capiterà, va in periferia: e come poteva immaginare che fossero carabinieri i due grassottelli della Prima Sezione che lo aspettano in una povera pasticceria? Dieci giorni dopo, a Palermo, è però un maresciallo dei carabinieri, stazione di Olivuzza, ad andarci di mezzo. I suoi colleghi lo beccano mentre intasca una mazzetta di mille euro, glieli dà un grafico pubblicitario, coinvolto in un incidente, che si è sentito rivolgere un´offerta di «aiuto» dal militare per taroccare gli atti.
IL SINDACO
Più si sfogliano le carte giudiziarie del mese, più i “prendenti” riescono a vivere con allegra noncuranza le giornate della bustarella. Si registrano gli arresti (28 gennaio) per il sindaco di Portoscuso, in Sardegna, che si occupava del mix tra un parco eolico e i fumi di un´acciaieria, e ci vuole una bella fantasia. Stessa sorte – il 30 gennaio – per sindaco e vicesindaco di Castelnuovo di Ceva, 130 abitanti e 132 anni in due, che incontrano la polizia giudiziaria dopo due mesi di intercettazioni e 20mila euro incamerati. Un´altra pantera grigia della mazzetta viene catturata ieri: è consigliere comunale Udc di Sabaudia, 76 anni, si chiama Nicola Bianchi, è stato sindaco di San Felice Circeo, e per cambiare la destinazione d´uso dello stabile chiedeva 5mila euro a un imprenditore. Quante ne avrà combinate, uno così? L´indagine vuole rispondere a questa domanda e – attenzione – sempre ieri, e sempre in Lazio, e sempre un consigliere comunale (questo del Pd, per par condicio) s´impegna a dar ragione all´allarme della Corte dei Conti: viene acciuffato a Pomezia, davanti al Municipio, dove aveva teso la pigra mano verso il finestrino di un´auto, ricevendo dal guidatore una busta bianca, con all´interno 2.500 euro.
appalti e ferrovie
Gli “affari grossi” non mancano mai, ma è meglio lasciarli sullo sfondo, perché incombono le indagini sulla Regione Lombardia e sull´ospedale San Raffaele, e perché la cosiddetta Sanitopoli abruzzese è ripartita, con Lamberto Quarta, braccio destro di Ottaviano De Turco, arrestato di nuovo, insieme ad altri sette od otto, il 16 gennaio scorso. Emergono a Venezia, a fine gennaio, «le tangenti pagate attingendo al nero dalle mie società» (parola di imprenditore). Portano agli arresti domiciliari Lino Brentan, l´amministratore delegato della società autostrade Venezia-Padova. Un cartello di corrotti e corruttori s´incontrava in Friuli e in Slovenia per concordare la percentuale sugli appalti, e il pubblico ministero Carlo Mastelloni torna in pista nell´inchiesta «faticosa e difficile». Attendiamola, negli esiti, mentre torna a gennaio un evergreen, le ferrovie: nove ex dipendenti di Rfi, società del gruppo Ferrovie, sono accusati di gonfiare i costi degli appalti dei lavori sulla rete ferroviaria in provincia di Roma, un surplus del 15, del 20 per cento.
Nei vari processi si vede che parecchi puntano alla prescrizione, seguendo l´augusto esempio di Silvio Berlusconi, mentre per uscire di scena il patteggiamento è più raro. Lo fanno a gennaio in due. Uno è l´ex sindaco di Varese, due anni, pena non sospesa, perché la presunta tangente incassata ammontava a una milionata. L´altro caso avviene nella mitica Bolzano, dove tutto è trasparente, si dice, più tedeschi che italiani, si dice: infatti Peter Kritzinger, dipendente di una società che si occupava di edilizia sociale, favoriva un “tinteggiatore” e patteggia la pena.
solo 20 euro
Avviene in Puglia l´episodio culturalmente più interessante del mese, riguarda un infermiere di Molfetta, Ignazio Brattoli, accusato di chiedere una miseria, 20 euro a botta. Perché? «Per anticipare gli appuntamenti delle visite mediche specialistiche, obbligatorie e gratuite, alle quali i marittimi devono sottoporsi annualmente se vogliono imbarcarsi». Preciso, il camice bianco segnava nomi e date su un´agenda di colore rosso, sequestrata. Pare andasse avanti da anni.
Come non capire che le vite esemplari del tanti tangentari facciano proseliti? A Catania è stato appena arrestato un interprete tunisino. Pretendeva 500 euro da un libico ospite nel centro di detenzione permanente, per truccarne le dichiarazioni e “trasformarlo” da clandestino in rifugiato politico. Che a dicembre fosse stato arrestato dalla squadra Mobile, per analoghe ragioni, un collega interprete, non l´aveva preoccupato affatto. Forse perché, per un arresto che scatta, chissà quanti altri sono a farla franca, tra queste infine “cricche della bistecca” in grado di moltiplicarsi e prosperare in un Paese che, vent´anni dopo l´arresto di Mario Chiesa, ha partorito – e va detto – soprattutto leggi ad personam, e lasciato perdere corruzioni, falsi in bilancio, truffe totali al fisco…

La Repubblica 17.02.12

“Un Paese in deficit di democrazia”, di Miguel Gotor

La relazione annuale della Corte dei Conti ricorda agli italiani che la corruzione e il malaffare continuano a dilagare nel Paese e le dimensioni del fenomeno sono molto più vaste e profonde di quanto non riesca a venire alla luce. Non è certo questo un buon modo per celebrare il ventennale di “Tangentopoli”, ma saremmo ipocriti se sostenessimo di essere sorpresi da tali risultati. Il ventennio berlusconiano ha accresciuto il fenomeno e non poteva essere altrimenti dal momento che sono stati duramente e continuativamente colpiti alcuni valori cardine di una democrazia liberale: l´uomo di governo ha l´obbligo non solo di essere, ma anche di apparire probo e rispettoso delle leggi e ha il dovere di impegnarsi a garantire il rispetto dell´equilibrio tra i poteri. In questi anni, invece, è avvenuto il contrario ed è stato proposto come modello pedagogico positivo il convincimento che le uniche regole da rispettare fossero quelle capaci di favorire gli interessi personali. Inoltre, ha prevalso una sorta di generale indifferentismo per cui ogni tentativo di definire un quadro rispettoso degli equilibri politici e civili comuni è stato tacciato di insopportabile moralismo.
Ma si tratta di una tabe che viene da lontano e riguarda il popolo italiano nel suo insieme. Come scriveva nel 1930 Carlo Rosselli in “Socialismo liberale”, il fascismo aveva costituito non una parentesi, ma «l´autobiografia della nazione» perché gli «italiani sono moralmente pigri. C´è in loro un fondo di scetticismo e di opportunismo che li porta facilmente a contaminare, disprezzandoli, tutti i valori».
In effetti, una serie di stereotipi accompagna la corruzione italiana, creando il terreno fertile per il suo indisturbato germogliare. Il primo è quello più pernicioso: chi più, chi meno, tutti rubano. Non è vero, ma piace pensare che sia così e di ciò è senso comune compiacersi. La corruzione sarebbe nazionale e democratica in grado di unire il nord al sud, il popolo alla sua classe dirigente. Ma se tutti sono ladri, il risultato inevitabile è che i responsabili del malaffare restano impuniti e i loro comportamenti sono continuamente relativizzati al ribasso. Il contraltare di questo atteggiamento generalista è l´esplosione giustizialista che colpisce all´improvviso e in modo indiscriminato. La reazione, però, è altrettanto proverbiale: «piegati giunco che la piena passa» e i momenti rigeneratori come “Mani pulite” si trasformano troppo rapidamente nel nostro Paese in restaurazioni senza lasciare alcuna traccia di responsabilità e crescita civile, come amaramente constatato dal magistrato Gherardo Colombo.
Il secondo stereotipo è ben rappresentato da Vittorio Gassman nel film del 1971 “In nome del popolo italiano”: «La corruzione è l´unico modo per sveltire gli iter e quindi incentivare le iniziative. La corruzione, possiamo dire paradossalmente, è essa stessa progresso». Corrotti sono sempre gli altri e la farraginosità della macchina statale o il cattivo funzionamento della cosa pubblica servono a giustificare il mancato pagamento delle tasse, o il favore elargito per ottenere un privilegio. Il malaffare, pertanto, sarebbe funzionale ad accompagnare uno sviluppo senza regole, il propellente necessario a far correre la macchina dello sviluppo imprenditoriale contro i «lacci e i lacciuoli» del sistema Italia. Fatica ad affermarsi un´altra visione economicista, quella che mette al centro i costi della corruzione. A questo proposito, i dati forniti dalla Corte dei Conti sono eccezionali: 60 miliardi di euro l´anno, che vengono caricati sulle spalle dei cittadini e dei contribuenti onesti.
Il terzo stereotipo induce a scaricare tutte le responsabilità sulla politica e il sistema dei partiti senza fare distinzioni: ampie sacche di corruzione albergano anche nella società civile (si pensi solo al ruolo esorbitante svolto in Italia dalla criminalità organizzata), eppure l´attacco alla democrazia rappresentativa e alle sue istituzioni è la via più breve e furbesca per occultare la propria disponibilità alla corruttela in ambiti pubblici e privati, professionali, finanziari e imprenditoriali.
In realtà, il livello di illegalità nel nostro Paese è un impressionante indicatore del deficit di democrazia che esiste al suo interno. Questo è il vero problema e, al di là delle belle parole e delle buone intenzioni, potrà essere affrontato soltanto ricostruendo un tessuto collaborativo tra l´azione civile e il recupero della credibilità della politica.

La Repubblica 17.02.12

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“Dove politico e privato si incontrano”, di PAOLO BARONI

La corruzione è il cancro italiano». Il titolo choc de la Stampa di due anni fa oggi si rispecchia nel nuovo allarme delle Corte dei conti: «In Italia corruzione e malaffare sono ancora molto forti». Non solo, come ha spiegato ieri il presidente Luigi Giampaolino si tratta di «fenomeni ancora notevolmente presenti e le cui dimensioni sono di gran lunga superiori a quelle che vengono alla luce».

Oramai siamo assuefatti agli allarmi ed alle denunce. Quelli della Corte dei conti sono ricorrenti, arrivano a cadenza regolare, raccolgono sempre un coro di consensi, ma purtroppo restano lettera morta. La riprova, l’ultima, ma andando a ritroso si potrebbero trovare decine e decine d’esempi, arriva dalla Camera: il ddl anticorruzione è bloccato da più di anno nei cassetti delle commissioni Giustizia e Affari costituzionali. E poi ci sono le cronache di questi giorni che ci raccontano la storia dei contributi ai partiti per i rimborsi elettorali o i fondi destinati ai loro giornali: i casi Lusi-Margherita, le vicende di An, la truffa l’Avanti-De Gregorio-Lavitola da 23 milioni di euro sono solo gli ultimi scandali venuti a galla. Senza contare poi le consulenze date per fini clientelari o ancora le tante società controllate dagli enti locali che si rivelano «gusci vuoti», come denuncia sempre la Corte dei Conti. E ancora, le assunzioni clientelari come quelle al Comune di Gubbio finite con 8 arresti e la piaga delle auto blu che si fatica a curare.

E’ più o meno la stessa storia che si ripete e che non trova soluzione. Oggi, come vent’anni fa quando scoppiava Mani pulite. Vent’anni non sono serviti assolutamente a nulla. Perché nulla, o troppo poco, è cambiato.

Non è cambiato il costume politico, ma non sono nemmeno cambiate le abitudini private. I comportamenti dei singoli. Perché come spiegare altrimenti il fatto che l’Italia sia uno dei paesi dove si evade di più. Roba da 100-120 miliardi di euro l’anno sottratti al Fisco, grandi truffe milionarie e piccole spilorcerie, come lo scontrino del caffè che il barista si ostina a non battere. E’ anche per questo che l’Italia, in Europa seconda solo dopo la Spagna, è il paese che evade più Iva, addirittura il 36% segnala Giampaolino.

Sorpresi? Assolutamente no, perché abbiamo appena letto i numeri dei controlli effettuati l’altro ieri dalla Finanza a Napoli, dove in un mercato di quartiere su 50 ambulanti in 40 non avevano nemmeno il registratore di cassa e dove l’82% degli negozi controllati non batteva scontrini, e ci ricordiamo i risultati degli analoghi blitz fatti a Sanremo, Milano, Portofino e Cortina.

Ma anche questo scandalo, con la pressione fiscale alle stelle, le pensioni sotto scacco e gli stipendi che non tengono ormai più il passo dell’inflazione, non può continuare. Il governo dei tecnici promette riforme in questo ed in quel campo: con la lotta all’evasione fiscale, che si intende intensificare, si vogliono tagliare le aliquote; mentre per stroncare la corruzione il ministro Severino annuncia «un grande progetto» e parla di «battaglia seria».

Speriamo bene, perché il livello di sofferenza (e di insofferenza) della gente ha toccato il limite ed il «governo del rigore», dopo aver drizzato i conti, in questa partita ha l’obbligo di essere ancor di più rigoroso. Deve dare un segnale e dimostrare in concreto che i suoi interventi non colpiscono sempre e solo i soliti noti.

La Stampa 17.02.12

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“La nostra mazzetta quotidiana”, di PIERO COLAPRICO

UNO pensa: si sa, i politici rubano. Ma basta un mese di “radiografia” del settore delle mazzette per riscoprire, se a qualcuno fosse sfuggito, che viviamo in un Paese dove dilaga il tangentaro della porta accanto. Infermieri che vendono la lista d´attesa e tecnici che “mangiano” sui controlli, amministratori delegati e consiglieri comunali, tanti s´arrangiano. Ed è bastato un solo mese, anzi proprio quest´ultimo mese di arresti e indagini sulla corruzione spicciola e alta, per avere, a vent´anni esatti da Tangentopoli, il senso dell´Italia per la mazzetta.
Si comincia, e non si può diversamente, da Milano. Per cento euro viene arrestato il 24 gennaio un tecnico comunale. Ha 54 anni e andava in giro per i negozi, tranquillo e autorevole, ad annunciare che le insegne non erano «in regola», che guaio, ma chi le ha fatte? Però con una cifretta ci si poteva accordare, così fan tutti, e lui lo sa bene, visto che solo un mese prima, un suo collega, Gianluca Carta, era incappato in un investigatore, dopo aver chiesto la tangente nel quadrilatero della Moda, in via Spiga, alla boutique Blu Marine. Ma a lui non capiterà, va in periferia: e come poteva immaginare che fossero carabinieri i due grassottelli della Prima Sezione che lo aspettano in una povera pasticceria? Dieci giorni dopo, a Palermo, è però un maresciallo dei carabinieri, stazione di Olivuzza, ad andarci di mezzo. I suoi colleghi lo beccano mentre intasca una mazzetta di mille euro, glieli dà un grafico pubblicitario, coinvolto in un incidente, che si è sentito rivolgere un´offerta di «aiuto» dal militare per taroccare gli atti.
IL SINDACO
Più si sfogliano le carte giudiziarie del mese, più i “prendenti” riescono a vivere con allegra noncuranza le giornate della bustarella. Si registrano gli arresti (28 gennaio) per il sindaco di Portoscuso, in Sardegna, che si occupava del mix tra un parco eolico e i fumi di un´acciaieria, e ci vuole una bella fantasia. Stessa sorte – il 30 gennaio – per sindaco e vicesindaco di Castelnuovo di Ceva, 130 abitanti e 132 anni in due, che incontrano la polizia giudiziaria dopo due mesi di intercettazioni e 20mila euro incamerati. Un´altra pantera grigia della mazzetta viene catturata ieri: è consigliere comunale Udc di Sabaudia, 76 anni, si chiama Nicola Bianchi, è stato sindaco di San Felice Circeo, e per cambiare la destinazione d´uso dello stabile chiedeva 5mila euro a un imprenditore. Quante ne avrà combinate, uno così? L´indagine vuole rispondere a questa domanda e – attenzione – sempre ieri, e sempre in Lazio, e sempre un consigliere comunale (questo del Pd, per par condicio) s´impegna a dar ragione all´allarme della Corte dei Conti: viene acciuffato a Pomezia, davanti al Municipio, dove aveva teso la pigra mano verso il finestrino di un´auto, ricevendo dal guidatore una busta bianca, con all´interno 2.500 euro.
appalti e ferrovie
Gli “affari grossi” non mancano mai, ma è meglio lasciarli sullo sfondo, perché incombono le indagini sulla Regione Lombardia e sull´ospedale San Raffaele, e perché la cosiddetta Sanitopoli abruzzese è ripartita, con Lamberto Quarta, braccio destro di Ottaviano De Turco, arrestato di nuovo, insieme ad altri sette od otto, il 16 gennaio scorso. Emergono a Venezia, a fine gennaio, «le tangenti pagate attingendo al nero dalle mie società» (parola di imprenditore). Portano agli arresti domiciliari Lino Brentan, l´amministratore delegato della società autostrade Venezia-Padova. Un cartello di corrotti e corruttori s´incontrava in Friuli e in Slovenia per concordare la percentuale sugli appalti, e il pubblico ministero Carlo Mastelloni torna in pista nell´inchiesta «faticosa e difficile». Attendiamola, negli esiti, mentre torna a gennaio un evergreen, le ferrovie: nove ex dipendenti di Rfi, società del gruppo Ferrovie, sono accusati di gonfiare i costi degli appalti dei lavori sulla rete ferroviaria in provincia di Roma, un surplus del 15, del 20 per cento.
Nei vari processi si vede che parecchi puntano alla prescrizione, seguendo l´augusto esempio di Silvio Berlusconi, mentre per uscire di scena il patteggiamento è più raro. Lo fanno a gennaio in due. Uno è l´ex sindaco di Varese, due anni, pena non sospesa, perché la presunta tangente incassata ammontava a una milionata. L´altro caso avviene nella mitica Bolzano, dove tutto è trasparente, si dice, più tedeschi che italiani, si dice: infatti Peter Kritzinger, dipendente di una società che si occupava di edilizia sociale, favoriva un “tinteggiatore” e patteggia la pena.
solo 20 euro
Avviene in Puglia l´episodio culturalmente più interessante del mese, riguarda un infermiere di Molfetta, Ignazio Brattoli, accusato di chiedere una miseria, 20 euro a botta. Perché? «Per anticipare gli appuntamenti delle visite mediche specialistiche, obbligatorie e gratuite, alle quali i marittimi devono sottoporsi annualmente se vogliono imbarcarsi». Preciso, il camice bianco segnava nomi e date su un´agenda di colore rosso, sequestrata. Pare andasse avanti da anni.
Come non capire che le vite esemplari del tanti tangentari facciano proseliti? A Catania è stato appena arrestato un interprete tunisino. Pretendeva 500 euro da un libico ospite nel centro di detenzione permanente, per truccarne le dichiarazioni e “trasformarlo” da clandestino in rifugiato politico. Che a dicembre fosse stato arrestato dalla squadra Mobile, per analoghe ragioni, un collega interprete, non l´aveva preoccupato affatto. Forse perché, per un arresto che scatta, chissà quanti altri sono a farla franca, tra queste infine “cricche della bistecca” in grado di moltiplicarsi e prosperare in un Paese che, vent´anni dopo l´arresto di Mario Chiesa, ha partorito – e va detto – soprattutto leggi ad personam, e lasciato perdere corruzioni, falsi in bilancio, truffe totali al fisco…

La Repubblica 17.02.12

"Un taglio alla curiosità", di Luciano Modica

Un taglio alla curiosità
Dio solo sa se in Italia i cittadini non hanno bisogno di semplificazioni. Siamo tutti oberati da infiniti e spesso inutili adempimenti. Il governo Monti, col decreto legge n. 5 del 9 febbraio che reca già nel suo titolo la parola “semplificazione”, ha aperto il nostro cuore alla speranza. Ai tanti sgradevoli tagli del passato speriamo adesso che segua un gradevole taglio delle complicazioni. Però, a colpi di scure, è talvolta facile mancare qualche bersaglio.
Mi si perdoni se la prendo un po’ alla lontana. Molti grandi avanzamenti culturali, scientifici o tecnologici sono stati originati dalla libera curiosità e dalla fantasia innovativa dei ricercatori. Invece che avanzare sulle strade già battute, alcuni tentano di aprire sentieri nuovi. Molte volte si fallisce, qualche volta si ha successo e il piccolo sentiero sconnesso diventa rapidamente un’ampia strada sicura che soppianta o si affianca alla precedente.
Quando le principali fonti di energia per il movimento erano i cavalli o i muli, abili allevatori cercavano di selezionare equini sempre più potenti e resistenti. Negli stessi anni fisici e chimici curiosi, studiando il calore, mettevano a punto le prime macchine termiche, dando origine ad una “rivoluzione energetica” che dura tuttora. I motori a scoppio che fanno muovere tutte le nostre automobili sono in fondo eredi diretti di quei bizzarri studi scientifici sul calore.
Gli esempi nella storia della scienza, anche recente, potrebbero moltiplicarsi all’infinito. Il cruciale ruolo strategico giocato dalla libera ricerca mossa dalla curiosità in ogni campo dello scibile (gli anglosassoni la chiamano curiosity-driven o blue skies research) è ampiamente dimostrato tanto che non mancano esempi di investimenti in questo campo non solo dei bilanci pubblici ma anche di grandi imprese private. Tre anni fa, alla notizia che il Consiglio delle ricerche inglese aveva imposto che ad ogni proposta di finanziamento pubblico venisse allegata una dichiarazione sull’impatto economico dei risultati della ricerca, venti scienziati inglesi, tra cui un premio Nobel per la chimica e otto accademici della Royal Society, scrissero una vibrante lettera di protesta al Times Higher Education proponendo swiftianamente una “modesta rivolta” per salvare la ricerca.
L’European Research Council, appena istituito dalla Commissione europea, ha lanciato il programma Ideas che finanzia ricerche curiosity-driven in ogni disciplina, dalla letteratura all’ingegneria, dalla matematica alla medicina. Nella legislazione italiana l’attenzione alla libera ricerca di curiosità trova un primo minuscolo spazio nella prima legge finanziaria del governo Prodi nel 2006. Si istituisce infatti nel bilancio dello stato un nuovo fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica (First) e si garantisce comunque a carico del First, pur senza indicarne la quota, «il finanziamento di un programma nazionale di investimento nelle ricerche liberamente proposte in tutte le discipline da università ed enti pubblici di ricerca, valutate mediante procedure diffuse e condivise nelle comunità disciplinari internazionali interessate». Proprio questo comma è stato cassato dal decreto legge sulla semplificazione.
In realtà è stato sostituito da un altro impegno a valere sul First per il sostegno alla ricerca italiana svolta nel quadro di programmi europei o internazionali. Una scelta quanto mai opportuna e condivisibile. Ma non si capisce proprio perché a danno della libera ricerca di curiosità. Uno dei tanti benvenuti colpi di scure ha sbagliato stavolta bersaglio. La ricerca italiana spera modestamente che il parlamento vi ponga rimedio.

da www.europaquotidiano.it

“Un taglio alla curiosità”, di Luciano Modica

Un taglio alla curiosità
Dio solo sa se in Italia i cittadini non hanno bisogno di semplificazioni. Siamo tutti oberati da infiniti e spesso inutili adempimenti. Il governo Monti, col decreto legge n. 5 del 9 febbraio che reca già nel suo titolo la parola “semplificazione”, ha aperto il nostro cuore alla speranza. Ai tanti sgradevoli tagli del passato speriamo adesso che segua un gradevole taglio delle complicazioni. Però, a colpi di scure, è talvolta facile mancare qualche bersaglio.
Mi si perdoni se la prendo un po’ alla lontana. Molti grandi avanzamenti culturali, scientifici o tecnologici sono stati originati dalla libera curiosità e dalla fantasia innovativa dei ricercatori. Invece che avanzare sulle strade già battute, alcuni tentano di aprire sentieri nuovi. Molte volte si fallisce, qualche volta si ha successo e il piccolo sentiero sconnesso diventa rapidamente un’ampia strada sicura che soppianta o si affianca alla precedente.
Quando le principali fonti di energia per il movimento erano i cavalli o i muli, abili allevatori cercavano di selezionare equini sempre più potenti e resistenti. Negli stessi anni fisici e chimici curiosi, studiando il calore, mettevano a punto le prime macchine termiche, dando origine ad una “rivoluzione energetica” che dura tuttora. I motori a scoppio che fanno muovere tutte le nostre automobili sono in fondo eredi diretti di quei bizzarri studi scientifici sul calore.
Gli esempi nella storia della scienza, anche recente, potrebbero moltiplicarsi all’infinito. Il cruciale ruolo strategico giocato dalla libera ricerca mossa dalla curiosità in ogni campo dello scibile (gli anglosassoni la chiamano curiosity-driven o blue skies research) è ampiamente dimostrato tanto che non mancano esempi di investimenti in questo campo non solo dei bilanci pubblici ma anche di grandi imprese private. Tre anni fa, alla notizia che il Consiglio delle ricerche inglese aveva imposto che ad ogni proposta di finanziamento pubblico venisse allegata una dichiarazione sull’impatto economico dei risultati della ricerca, venti scienziati inglesi, tra cui un premio Nobel per la chimica e otto accademici della Royal Society, scrissero una vibrante lettera di protesta al Times Higher Education proponendo swiftianamente una “modesta rivolta” per salvare la ricerca.
L’European Research Council, appena istituito dalla Commissione europea, ha lanciato il programma Ideas che finanzia ricerche curiosity-driven in ogni disciplina, dalla letteratura all’ingegneria, dalla matematica alla medicina. Nella legislazione italiana l’attenzione alla libera ricerca di curiosità trova un primo minuscolo spazio nella prima legge finanziaria del governo Prodi nel 2006. Si istituisce infatti nel bilancio dello stato un nuovo fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica (First) e si garantisce comunque a carico del First, pur senza indicarne la quota, «il finanziamento di un programma nazionale di investimento nelle ricerche liberamente proposte in tutte le discipline da università ed enti pubblici di ricerca, valutate mediante procedure diffuse e condivise nelle comunità disciplinari internazionali interessate». Proprio questo comma è stato cassato dal decreto legge sulla semplificazione.
In realtà è stato sostituito da un altro impegno a valere sul First per il sostegno alla ricerca italiana svolta nel quadro di programmi europei o internazionali. Una scelta quanto mai opportuna e condivisibile. Ma non si capisce proprio perché a danno della libera ricerca di curiosità. Uno dei tanti benvenuti colpi di scure ha sbagliato stavolta bersaglio. La ricerca italiana spera modestamente che il parlamento vi ponga rimedio.

da www.europaquotidiano.it

"Quando la corruzione frena il Pil", di Carlo Carboni

Non solo lo scenario passato, ma anche la prospettiva del Paese rischia di essere avvelenata da una voluminosa e diffusa corruzione, di cui la furbizia italica, tra ottusità e gusto dell’esagerazione, addirittura talvolta si compiace. In Italia, si sarebbe radicata una cultura della corruzione per cui, in particolare, la “piccola” non è stigmatizzata.

Raccomandazioni e favori rubati, quotidiani sgambetti al merito e al senso di responsabilità non sempre suscitano una riprovazione sociale. Questo basso costo morale della trasgressione sarebbe un segno di assuefazione sociale alla corruzione, un adagiarsi su una mogia legislazione di contrasto. E pensare che domani ricorreranno i vent’anni dall’avvio di Mani Pulite (il 17 febbraio 1992, a Milano, venne arrestato Mario Chiesa).

“Una mano lava l’altra”: una licenza edilizia, un appalto truccato, denaro riciclato, calcio scommesse, tangenti nella sanità, concussione e corruzione. Il serio contrasto a un fenomeno favorito da una “società complice” sarà un osso duro anche per un esecutivo tecnico che si suppone sganciato da corporativismi, campanilismi, dall’individualismo esasperato che genera mostri, come nel caso dell’ex- Margherita Lusi, in tema di finanziamento pubblico ai partiti. D’altra parte, l’intrapresa di un contrasto alla corruzione appare inevitabile per chi intenda seguire un percorso di rigore, crescita ed equità per dare speranza e futuro al Paese.

La diffusione
Secondo l’ultima Relazione in Parlamento del Servizio anticorruzione e trasparenza (Saet 2010), un po’ tutti – media in testa – avrebbero esagerato sulla diffusione della corruzione in Italia. In effetti, i dati che circolano sono tutt’altro che rappresentativi, sia quelli ufficiali riguardanti procedimenti avviati o conclusi che quelli di Trasparency International (Ti). La corruzione, dopo Tangentopoli, ha ripreso ritmi di crescita che ci allontanano (69°) dalle prime 25 posizioni in cui sono compresi tutti i Paesi dell’Europa che conta. Pensare che l’Italia sia il luogo in cui tutti i maggiori difetti europei si danno appuntamento è un eccesso critico. Parte dell’analisi di Ti non è scientificamente fondata, seppure sia indicativa di uno scenario della corruzione del Paese tutt’altro che rassicurante. Inoltre, in politica, ma anche in economia, oggi, è il sentiment che conta. La percezione degli italiani della corruzione è che sia indiscutibilmente elevata, considerando che il Belpaese è tra quelli a maggior industrializzazione (Eurobarometro, 2010 e 2012). Il giudizio della gente è netto: quasi il 90% ritiene i partiti politici siano i più corrotti, con i media e gli uffici delle imposte a seguire. È però altrettanto vero che si sa ancora poco, su basi scientifiche, di questo fenomeno shifting boundaries, che alberga e prospera nella segretezza: si occulta occultando l’oggetto dello scambio.

Il SOle 24 Ore 16.02.12

“Quando la corruzione frena il Pil”, di Carlo Carboni

Non solo lo scenario passato, ma anche la prospettiva del Paese rischia di essere avvelenata da una voluminosa e diffusa corruzione, di cui la furbizia italica, tra ottusità e gusto dell’esagerazione, addirittura talvolta si compiace. In Italia, si sarebbe radicata una cultura della corruzione per cui, in particolare, la “piccola” non è stigmatizzata.

Raccomandazioni e favori rubati, quotidiani sgambetti al merito e al senso di responsabilità non sempre suscitano una riprovazione sociale. Questo basso costo morale della trasgressione sarebbe un segno di assuefazione sociale alla corruzione, un adagiarsi su una mogia legislazione di contrasto. E pensare che domani ricorreranno i vent’anni dall’avvio di Mani Pulite (il 17 febbraio 1992, a Milano, venne arrestato Mario Chiesa).

“Una mano lava l’altra”: una licenza edilizia, un appalto truccato, denaro riciclato, calcio scommesse, tangenti nella sanità, concussione e corruzione. Il serio contrasto a un fenomeno favorito da una “società complice” sarà un osso duro anche per un esecutivo tecnico che si suppone sganciato da corporativismi, campanilismi, dall’individualismo esasperato che genera mostri, come nel caso dell’ex- Margherita Lusi, in tema di finanziamento pubblico ai partiti. D’altra parte, l’intrapresa di un contrasto alla corruzione appare inevitabile per chi intenda seguire un percorso di rigore, crescita ed equità per dare speranza e futuro al Paese.

La diffusione
Secondo l’ultima Relazione in Parlamento del Servizio anticorruzione e trasparenza (Saet 2010), un po’ tutti – media in testa – avrebbero esagerato sulla diffusione della corruzione in Italia. In effetti, i dati che circolano sono tutt’altro che rappresentativi, sia quelli ufficiali riguardanti procedimenti avviati o conclusi che quelli di Trasparency International (Ti). La corruzione, dopo Tangentopoli, ha ripreso ritmi di crescita che ci allontanano (69°) dalle prime 25 posizioni in cui sono compresi tutti i Paesi dell’Europa che conta. Pensare che l’Italia sia il luogo in cui tutti i maggiori difetti europei si danno appuntamento è un eccesso critico. Parte dell’analisi di Ti non è scientificamente fondata, seppure sia indicativa di uno scenario della corruzione del Paese tutt’altro che rassicurante. Inoltre, in politica, ma anche in economia, oggi, è il sentiment che conta. La percezione degli italiani della corruzione è che sia indiscutibilmente elevata, considerando che il Belpaese è tra quelli a maggior industrializzazione (Eurobarometro, 2010 e 2012). Il giudizio della gente è netto: quasi il 90% ritiene i partiti politici siano i più corrotti, con i media e gli uffici delle imposte a seguire. È però altrettanto vero che si sa ancora poco, su basi scientifiche, di questo fenomeno shifting boundaries, che alberga e prospera nella segretezza: si occulta occultando l’oggetto dello scambio.

Il SOle 24 Ore 16.02.12

"È colpa solo della Rai", di Nino Rizzo Nervo

Non dirò che Celentano non mi è piaciuto perché cadrei nel suo stesso errore, quello di dare enfasi ad una banalità. Su una cosa vorrei però che riflettesse: l’utilità di un giornale la possono decretare soltanto i lettori, perché se lo facessero altri ci dovremmo veramente preoccupare dello stato di degrado del paese che chiude per decreto i giornali dei quali non si condividono le idee.
Io leggevo, leggo e voglio, caro Adriano, continuare a leggere sia Avvenire che Famiglia Cristiana e non permetterò a nessuno di togliermi questa libertà. Né voglio addentrarmi in una critica a questa edizione di Sanremo. Ci penseranno altri che ne hanno più titolo. Traggo, invece, spunto da quanto è successo per sottolineare, qualora ve ne fosse ancora bisogno, la difficile stagione che sta vivendo una grande azienda come la Rai che appare ogni giorno di più fuori controllo. Di Sanremo la cosa più irritante non è stata la prima serata dell’Ariston (l’infortunio in televisione è sempre in agguato), ma quanto è avvenuto il giorno dopo a viale Mazzini. La decisione di “commissariare” una trasmissione è senza precedenti e sembra il patetico tentativo di una direzione generale che cerca di nascondere dietro una decisione apparentemente muscolare la propria incapacità di governo di una macchina complessa qual è sempre stata e continua ad essere la Rai.
Suggerisco al direttore generale di trovare il tempo, se non lo ha già fatto, di andare al cinema e gustarsi la straordinaria interpretazione di Meryl Streep. Non basta, infatti, autodefinirsi “the iron lady” in versione italiana, scoprirà che la Thatcher quell’aggettivo se lo guadagnava sul campo giorno dopo giorno perché aveva idee, competenze, visione, carattere, autorevolezza. E soprattutto coerenza nei comportamenti. Da tempo con altri consiglieri di amministrazione, senza sortire alcun effetto, avevamo messo in guardia il direttore generale del fatto che la Rai è l’unico editore espropriato del suo potere editoriale da soggetti esterni all’azienda.
Le ragioni sono tante ma la più inquietante è l’indebolimento professionale della filiera produttiva interna delle reti dovuta all’invadenza della politica nei processi di nomina. Anche sul Festival, dove la Rai ogni anno si gioca l’immagine di un’intera stagione televisiva, in più occasioni avevamo chiesto di conoscere il progetto ed i costi. A dicembre girava a viale Mazzini questa storiella: quando nella prima conferenza stampa svoltasi a Milano a fine anno Morandi e Mazzi, il direttore artistico, annunciarono la presenza di Celentano a Sanremo né Mazza, direttore di Raiuno, né la Lei, direttore generale ne sapevano nulla. Non avevo creduto a quella che ritenevo essere stata soltanto una malignità. Adesso, in verità, non ne sono più così certo. Se il consiglio non ha mai saputo nulla di Sanremo probabilmente è potuto avvenire perché anche il direttore generale poco ne sapeva.
Adriano Celentano del resto è sempre stato così. Io non sono rimasto sorpreso ma deluso perché un’ora all’interno di Sanremo è per un’artista un’occasione irripetibile e non la si può buttar via in quel modo. Non è lui, però, il problema, ma la scarsa autorevolezza dei suoi interlocutori.
Adesso la soluzione adottata (l’invio di un “commissario ad acta”) è peggiore del buco e rischia di assumere il sapore della censura preventiva. Un’azienda complicata come la Rai non si governa solo con il pugno di ferro. Fare l’editore è un mestiere difficile e complicato. Con gli autori, con gli artisti si dialoga e se c’è condivisione su un progetto comune le norme contrattuali diventano una formalità. Ma per poter dialogare bisogna essere autorevoli e non soltanto apparire tali.

da Europa Quotidiano 16.02.12

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“Una collettiva perdita di senso”, di CURZIO MALTESE
La bomba Celentano è esplosa anche a palazzo Chigi. Convincendo definitivamente Monti che «la Rai è ormai un´azienda nel caos», su cui intervenire con la massima urgenza.Anzi, di colossale idiozia. Accade che Adriano Celentano spari la consueta salva di baggianate e in un paese dove nulla è più indispensabile del futile si scateni un´ondata di reazioni. Gravi, indignate, plaudenti, pro o contro, ma sempre sciocche. Dai vertici Rai, dalla politica, dal giornalismo e finanche dalla Chiesa, che nella nostra ingenuità laica credevamo comunque un´organizzazione di gente seria.
Il record assoluto di apnea del pensiero è stato raggiunto dal direttore generale della Rai, incredibilmente la signora Lorenza Lei, la quale ha commissariato il festival attraverso la nomina a supervisore di Antonio Marano, braccio televisivo della Lega, uno che a non conoscerlo è inutile descrivere. Il personaggio del commissario al festival della canzonetta è una trovata che non sarebbe venuta in mente neppure agli sceneggiatori del cinema demenziale sotto effetto di funghi allucinogeni. Ora immaginate da stasera il povero Marano, si suppone dotato dello stesso impermeabile dell´ispettor Clouseau, che si aggira circospetto nei camerini, intento a censurare i copioni. Dopo averli decifrati, che già è difficile. Un´altra bordata di fesserie celentanesche e forse Morandi sarà costretto a salire sul palco scortato da due carabinieri come Pinocchio, mentre la Celere presidia le curve dell´Ariston e gli elicotteri dell´esercito sorvolano i cieli della Riviera.
Al secondo posto, per insensatezza, si piazza la reazione delle gerarchie ecclesiastiche. Il comunicato dei vescovi, il battaglione degli opinionisti cattolici e lo stesso stimabile direttore di Famiglia Cristiana, don Sciortino, che addirittura lanciano al Molleggiato una sfida sul piano della disputa teologica. Una cosa da far morire dal ridere i teologi veri, come Joseph Ratzinger. A ben pensarci, potrebbe essere anche questo l´attentato alla vita del papa di cui si favoleggia da qualche giorno.
Nella generale perdita di senso dell´umorismo e forse di senso e basta, conforta l´assenza (per ora) di repliche da parte della Consulta, altro bersaglio dell´invettiva ignorante. Almeno i giudici della Corte costituzionale avranno capito che Celentano non sapeva di cosa stava parlando. Era evidente che il trio composto dall´impagabile filosofo della via Gluck, il leggendario Pupo e Gianni Morandi, discettava della Consulta, come di tutto il resto, senza sapere bene se si trattasse di un organo istituzionale, un modello Fiat – la famosa Consulta turbo con quattro ruote motrici – o una olimpionica di sci nordico.
Ma nonostante tutto, grazie Celentano. Massì, perché sia pure attraverso uno dei più brutti pezzi di televisione della storia, il caso Celentano ha illuminato il caso Rai. La mediocrità, l´ipocrisia e l´inadeguatezza dell´attuale vertice della tv di Stato. Un governicchio da quattro soldi, ultima eredità miserabile del berlusconismo, buono a nulla e impaurito da tutto, che prima specula sulla popolarità di Celentano per risollevare un´azienda ridotta all´orlo del fallimento e poi non trova né il coraggio di difendere le proprie scelte né quello di cambiarle fino in fondo. Grazie Celentano anche per averci ricordato quanto sia stato straordinario il discorso di Roberto Benigni l´anno scorso. Perché non basta ottenere l´identico contratto per esprimere lo stesso livello artistico. L´intelligenza, la cultura, il gusto non sono la risultante di codicilli burocratici. E grazie Adriano perché, se predichi come un prete furbo, canti ancora da dio. Insomma un mestiere almeno lo sai fare alla grande. Ma il direttore generale Lei, il commissario Marano e il vice commissario Mazza, tutti questi raccomandati di partito, quando ne impareranno uno decente?

La Repubblica 16.02.12